Libri. “I demoni del bene” di de Benoist, critica al pensiero unico e al gender
Pubblicato il 26 marzo 2015 da Red
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Cultura Libri
L’ideologia
gender crea degli zombie sradicati, privi di legami sociali e collegati
fra loro solo da legami contrattuali. Un uomo che non è più uomo ma una
scimmia sapiente sradicata dal passato e senza alcuna speranza di
futuro. Questo è uno dei tanti pensieri espressi da Alain De Benoist in
“I demoni del bene – dal nuovo ordine morale all’ideologia del genere”,
un saggio che spiega quali siano le conseguenze dell’idea di uomo che
secondo l’autore si sta facendo strada. Oggi e nei prossimi giorni
pubblicheremo qualche estratto.
Il tempo lineare, caratteristico della modernità, ha
esso stesso ceduto posto a un tempo dislocato che, rendendo impossibile
la messa in opera delle «virtù del lungo termine», minaccia la capacità
delle persone di dar forma al loro carattere e senso alla loro
esistenza. L’accelerazione sociale e l’ascesa dell’insignificanza sono uno dei tratti principali del turbo-capitalismo, allo stesso titolo della fabbricazione dell’obsolescenza e della generalizzazione del credito.
L’attualità si concentra sui grandi avvenimenti
emozionali (la morte di Lady Diana, la liberazione di Íngrid
Betancourt), trattando in stile lacrimale tutti i drammi del pianeta. Il
minimo incidente della vita quotidiana (una tempesta, un treno
bloccato, un incidente d’autobus, una violenza scolastica, ecc.) è
pretesto per il dilagare di «cellule di sostegno psicologico» che
permettano agli «attori interessati» di non cedere alla «depressione»,
di «elaborare il loro lutto» e di «ricostruirsi» nel più breve tempo
possibile «compiendo gesti forti» – in un’ottica di «dialogo» e
«condivisione civica», beninteso .
La parola d’ordine generale è quella della
compassione. È il punto di partenza della riflessione di Myriam Revault
d’Allonnes, già citata: «La nostra società è tutta presa dalla
compassione. Uno “zelo compassionevole” nei confronti dei poveri, dei
diseredati, degli esclusi si manifesta continuamente nelle espressioni
rivolte al popolo sofferente. Al punto che nessun responsabile politico, qualunque sia la sua sponda, sembra esimersene, almeno nella sua retorica».
E la televisione, sempre tra due programmi di
pubblicità menzognere (lo sono tutte), prosegue la sua impresa di
istupidimento e infantilizzazione programmata, sotto la direzione di
presentatori tanto spregevoli quanto chiassosi e pretenziosi, volgari e
pieni di sé.
Da Telethon alle «marce per la malattia di Alzheimer» o la mucoviscidosi («per essere solidali»), le manifestazioni di «solidarietà» non si contano più,
concludendosi regolarmente in kermesse festive, il che permette di
acquistare una buona coscienza a buon mercato. Ci si diverte da matti a
un concerto, ma è a beneficio dei malati di aids. Ci si abbuffa a una festa, ma è per lottare meglio contro la fame nel mondo.
Jeff Koons, interrogato sulle ragioni per le quali espone le sue
«installazioni» al castello di Versailles, risponde che la sua opera «è
fondata in primo luogo sulla tolleranza». Tutto si spiega! Cause in sé
eminentemente buone, come il rispetto della natura o degli animali, si
ritrovano anch’esse annegate nella scempiaggine. Si acquistano auto
«ecologiche» senza interrogarsi sull’utilità stessa dell’auto (o sul
fatto che un milione di auto poco inquinanti inquineranno sempre più di
cento auto tradizionali). I polli di batteria e gli animali di
allevamento sono trattati come cose da un’industria agro-alimentare dove
la produttività è la regola, ma gli animali di compagnia, gatti e cani
in testa, sono oggetto di attenzioni e di coccole (gioielli, profumi, se
non addirittura cure di psicoterapia) che la dicono lunga più sulla
psicologia dei loro proprietari che sui loro bisogni reali. Non
si può più nemmeno acquistare un pullover senza trovarvi un’etichetta
indicante che i diritti dell’uomo (e del bambino) sono stati rispettati
nella sua fabbricazione.
Per non essere da meno nell’ipocrisia dominante,
tutte le grandi società si dotano di «codici di condotta etica» la cui
comicità involontaria rivaleggia con la stupidità. Ne abbiamo avuto
diversi sotto gli occhi. Gli impiegati si vedono invitati ad adottare un
«comportamento etico» in tutte le circostanze che comprendono
ovviamente il rispetto dei diritti dell’uomo, l’osservanza scrupolosa
delle regole di riservatezza, l’impegno a stare lontani dai «conflitti
di interesse», il rifiuto delle bustarelle e dei regali, ma anche
l’adesione a una «politica di segnalazioni» (detto chiaramente: la
delazione presso la gerarchia dei capetti di ogni comportamento che non
va nella giusta direzione).
Niente riassume meglio questa evoluzione quanto quella dello statuto attribuito all’omosessualità.
Se cinquanta anni fa l’«apologia dell’omosessualità» era punibile a
termini di legge, oggi è l’«omofobia» che può essere oggetto di una
sanzione penale, a tal punto che ormai nelle scuole si organizzano
campagne tendenti a «sensibilizzare i bambini all’omofobia» (sul tema:
«Abbiamo tutti il diritto di amare»). Qualunque sia l’opinione che si
può avere sull’omosessualità, l’accostamento di questi due fatti ha
qualcosa di sbalorditivo. Mezzo secolo fa, l’omosessualità era
abbastanza ridicolmente presentata come «vergognosa» o «anormale», oggi è
divenuta così ammirevole che è vietato dire che non la si apprezza. In
entrambi i casi, è la libertà a non trarne profitto.
L’evoluzione del linguaggio è a questo
riguardo significativa. Ormai si preferisce parlare di «fratture
sociali», tutto sommato fortuite tanto quanto le fratture della tibia,
piuttosto che di conflitti sociali o di lotta di classe. Non ci
sono più sfruttati, la cui alienazione rinvia direttamente al sistema
capitalista, ma «diseredati», «esclusi», «sfavoriti», «poveri», tutti
ugualmente vittime di «handicap» o «discriminazioni», tutti ugualmente
esortati a fronteggiare le loro difficoltà adottando le ricette
dispensate dallo Stato terapeutico. È allo stesso modo significativo che
la nozione di «lotta contro l’esclusione» abbia sostituito quella di
«lotta contro le disuguaglianze», in vigore negli anni Settanta, che
evocava ancora la lotta di classe. Beninteso, la povertà e la miseria prosperano su questo humus di angelismo umanitario.
Si vuole essere «solidali» senza più sapere cosa realmente significhi
la solidarietà, ossia in primo luogo l’interiorizzazione del legame
sociale. Più in generale, per una sinistra ormai separata dal popolo, il
societario è un modo per dimenticare (e far dimenticare) il sociale.
Il problema è che oggi, nel clima compassionevole
alimentato nell’impero del Bene, tutti vogliono essere vittime, termine
che partecipa anch’esso della stessa confusione mistificatrice, dello
stesso garbuglio interclassista (è più alla moda essere una «vittima» che essere un proletario o un lavoratore sfruttato dal proprio datore di lavoro).
Già Machiavelli rimproverava alla religione cristiana di essere più
portata a chiedere ai suoi fedeli di essere idonei alla sofferenza che a
«forti azioni». Poiché l’individuo sofferente ha preso il posto
dell’individuo che agisce, la vittima diventa il vero eroe del nostro
tempo.
Ci fu un’epoca in cui il papà e la mamma
cercavano bene o male di vivere insieme senza interrogarsi oltremisura
sui «problemi di coppia», in cui i bambini giocavano
completamente nudi nel giardino senza che ci si chiedesse se ciò non
avrebbe eccitato gli orchi cattivi, mentre il nonno fumava la pipa senza
che si brandissero davanti a lui statistiche accusatrici sul fumo
passivo. Quest’epoca è passata. Oggi siamo arrivati a cancellare le
sigarette che si vedono nelle fotografie di Serge Gainsbourg, di André
Malroux e del generale de Gaulle. Churchill, come si sa, era un
non fumatore e Shakespeare non ha mai scritto Il mercante di Venezia.
Come durante il periodo sovietico, si ritoccano le foto e si riscrive la
storia.
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