L'intervista. Tarchi: “Il populismo avrà un futuro roseo grazie a politici incapaci e corrotti”
Pubblicato il 13 maggio 2015 da Manlio Triggiani
Il
populismo è al centro del dibattito culturale e politico da alcuni anni
e, con il passar del tempo, nascono e si sviluppano in tutta Europa
movimenti populisti. La scena politica italiana è particolarmente
attraversata da queste realtà, dalla Lega a Grillo, da Di Pietro ad
altre espressioni. Uno di massimi studiosi del populismo è Marco Tarchi,
professore ordinario di Scienza della politica all’Università di
Firenze. Dirige due riviste, Trasgressioni e Diorama Letterario e,
dagli anni Settanta agli anni Novanta, ha animato il movimento
culturale battezzato dalla stampa “Nuova Destra”, che si richiamava, pur
con sfumature differenti e caratteristiche proprie, alla Nouvelle Droite
francese, diretta da Alain de Benoist. Da oltre vent’anni Tarchi segue
scientificamente la dinamica politica del populismo e, nel 2003, dedicò
al fenomeno un libro edito dal Mulino. Nelle settimane scorse, sempre
per il Mulino, è stata edita una nuova versione del volume, Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo (pagg. 379, euro 20,00), più che raddoppiata e riscritta da Tarchi.
Da Peron a Le Pen, da Castro
alla Thatcher, da Giannini a Bossi a Grillo, personaggi politici molto
diversi fra loro hanno in comune la matrice populista. Professor Tarchi,
può spiegarci cosa è il populismo? È più un atteggiamento politico, che
può trovarsi a destra come a sinistra, o un sostrato ideologico?
Chi parla di atteggiamento, di solito
pensa che il populismo si riduca a uno stile argomentativo, a un modo di
porsi e di proporsi. A mio parere, si tratta di qualcosa di più; non
però, come qualcuno ritiene, di un’ideologia, perché manca di
sistematicità, non ha formulazioni racchiuse in testi sacri né
interpreti ufficiali incaricati di divulgare il Verbo. Nel mio libro lo
definisco come una mentalità, un modo di pensare più emotivo che
razionale, una predisposizione psichica che induce a reazioni non
codificate, un’entità fluttuante, che tuttavia poggia su un fondo
comune. Questo fondo è la convinzione che il popolo – il proprio
popolo, beninteso – sia, in origine, una totalità organica che è stata
artificiosamente divisa da forze ostile. A questo popolo i populisti
attribuiscono naturali qualità etiche, come il realismo, la laboriosità,
l’integrità, che contrappongono all’ipocrisia, all’inefficienza e alla
corruzione che a loro avviso caratterizzano le oligarchie politiche,
economiche, sociali e culturali, e ne rivendicano il primato, quale
fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di
rappresentanza e di mediazione. Il che li fa spesso accusare di essere
portatori di una visione antipolitica.
Come nasce il populismo in Italia e perché continua ad avere successo?
C’è chi ne riscontra le radici in alcuni
filoni di pensiero risorgimentali, facendo riferimento al Mazzini del
binomio “Dio e popolo” o a Pisacane. Di sicuro, il fascismo ha coltivato
anche un filone populista, sia nella retorica che nella prassi, pur
innestandolo in un quadro statalista e aggressivamente nazionalista che
al populismo è estraneo. Ma il motivo per cui, dal 1945 ad oggi, questa
mentalità ha avuto buona salute è la cattiva prova che la classe
dirigente ha dato di sé: nel fossato che si è creato fra “quelli che
stanno in alto” e paiono interessarsi solo dei propri interessi e
“quelli che stanno in basso”, gli uomini qualunque, il populismo non
poteva che prosperare.
Nella politica italiana il
richiamo espresso alla “società civile” o “ai tecnici” solitamente
rappresenta, implicitamente, una garanzia di serietà, genuinità, di vera
rappresentanza dal basso. Rientra fra i richiami populisti?
La mitizzazione delle presunte virtù
della società civile ha certamente favorito la crescita del populismo,
soprattutto durante e dopo Tangentopoli, quando aver avuto una carriera
di politico professionale era ritenuto da molti un peccato mortale. Dei
tecnici, invece, in genere i populisti diffidano: li considerano
spocchiosi, fumosi, freddi.
Quali sono le differenze fra il populismo espresso da Berlusconi, da Di Pietro e da Renzi?
Per rispondere esaurientemente, dovrei
riassumere due capitoli del mio libro. Mi limito a distinguere chi il
populismo lo impiega solo sul piano lessicale, per fare concorrenza ai
populisti veri (Renzi), chi ne fa un uso strategico e in parte vi è
coinvolto anche sul piano della personalità (Berlusconi) e chi ce lo ha
nel sangue, in forme ruspanti (Di Pietro).
Il populismo viene
considerato come un richiamo alla democrazia partecipativa. Poi, però,
come nel caso del Movimento 5 Stelle, lasca margini ristretti di libertà
e di democrazia interne, con epurazioni e espulsioni. E’ una
contraddizione esplicita o una logica tutta interna di Grillo?
È una contraddizione costitutiva di
questa mentalità. I populisti vorrebbero veder restituire al popolo lo
spettro del comando che gli è stato sottratto, ma per avere voce
collettiva prediligono eleggere a ventriloquo del popolo un capo che non
si dia arie di superiorità ma dimostri di avere le giuste doti
ordinarie in misura straordinaria, e gli si affidano ciecamente. Che
questo provochi nei “quadri intermedi” di un movimento scissioni e
incomprensioni è la regola, non l’eccezione: è accaduto al peronismo, al
Front national, al Partito del progresso danese, alla Fpö di Haider, a
Chavez, alla Lega…
Fino a che punto la piazza,
soprattutto alla luce della diffusione dei movimenti populisti e
identitari in tutta Europa, può sostituirsi ai partiti tradizionali e
proporre qualcosa di innovativo?
La piazza, di per sé, non può
sostituirsi ai partiti. Può promuovere, però, movimenti che raccolgono
la protesta verso la politica ufficiale e la rendano evidente, le diano
voce. Va detto però che i movimenti genuinamente populisti non hanno una
grande capacità di mobilitazione (fatto salvo il momento elettorale),
perché il loro seguace-tipo vuole soprattutto essere lasciato in pace a
vivere la propria vita. Siamo più vicini alla maggioranza silenziosa che
alle minoranze rumorose, che invece non perdono occasione di scendere
in piazza.
Lei studia da più di vent’anni il fenomeno del populismo e ha dedicato ben quattro numeri della rivista che dirige, Trasgressioni,
a questo fenomeno, un libro nel 2003 e la sua versione completamente
rivista e ampliata appena uscita dal Mulino. Quale sarà il futuro del
populismo?
Se i comportamenti dei politici di
professione continueranno ad essere quelli che conosciamo – cioè, se
continueranno a dare dimostrazione di corruzione, di inefficienza e di
incapacità di mantenere le promesse che, seguendo la logica del
marketing, continuamente fanno –, il futuro del populismo sarà roseo. E,
soprattutto, il fenomeno allargherà sempre di più l’arco delle sue
manifestazioni, trovando referenti non più e non solo in un’area
adiacente alla destra, come è stato in passato, ma anche a sinistra. I
casi del Front de gauche in Francia, e in certa misura di Podemos in
Spagna e di Syriza in Grecia, ne sono evidenti indicatori. Il populismo,
è stato scritto, è camaleontico: non si fa problemi in merito al colore
dei contesti che ne consentono lo sviluppo. (Da il Borghese, maggio
2015)
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