la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
sabato 30 maggio 2015
Isis, di questo dotto scritto mettiamo in rilievo che sono stimati 20.000 i combattenti, legasi ventimila
Lo Stato Islamico e il Califfato: elementi e linee evolutive
Accorri
al supporto del Califfato Islamico! […] Il Califfato Islamico ha
allargato i propri territori, un Califfato che miscrede nei confini. I
Mujahidin che si sono alleati allo Stato Islamico si allargano
dall’Oriente all’Occidente. Per grazia di Allah i soldati sotto diretto
controllo dello Stato Islamico sono in Algeria, Nigeria, Ciad, Libya,
Egitto, Arabia Saudita, Yemen e altri Paesi ancora. Accorrete oh
Musulmani, questo con il permesso di Allah è il Califfato Islamico che
conquisterà Costantinopoli e Roma come Muhammad صلى الله عليه وسلم
profetizzò. Lo Stato Islamico sta combattendo una coalizione da [sic]
quasi 80 nazioni, e in shaa Allah come è stato citato nel Hadith,
proprio 80 nazioni combatteranno i Musulmani e verranno sconfitti a
Dabiq. Che Allah faccia realizzare tutto ciò [1].
Con
queste parole, a mezza strada tra l’invocazione profetica e l’appello
accorato, terminava il primo scritto in lingua italiana diffuso dallo
Stato Islamico (IS); un testo dal chiaro intento propagandistico ma che
probabilmente non è stato adeguatamente analizzato. Infatti da un lato,
complici le concomitanti notizie provenienti dalla Libia [2], ci si è
soffermati essenzialmente sul passaggio relativo ai propositi di
conquista («Roma e Costantinopoli»), dall’altro si è posto
l’accento sul fatto che i destinatari del messaggio fossero chiaramente i
musulmani di seconda generazione nati e cresciuti in Italia, vista
dunque come terra in cui fare proselitismo.
In
effetti dei 14 capitoli per 64 pagine che compongono lo scritto, solo
due (11 e 13) parlano, peraltro in termini estremamente generici, di
“politica estera”; il resto è tutto un alternarsi di citazioni dal
Corano, di interviste ad esponenti dello Stato Islamico, di foto e di
descrizioni della vita quotidiana nelle terre del califfo, volte a
dimostrare al lettore la coerenza tra i precetti religiosi ai quali l’IS
si ispira e la loro applicazione concreta alla vita quotidiana e,
soprattutto, a rivendicare come l’autoproclamato Califfato sia uno Stato
non solo dal punto di vista formale ma anche sostanziale. Apprendiamo
pertanto come l’IS sia organizzato in direzioni (corrispondenti
grossomodo ai nostri Ministeri) attive negli ambiti tipici di uno Stato
moderno: istruzione, sanità, giustizia, sicurezza/difesa, riscossione
della “tasse” e conio. In particolare la natura “integralista” dello
Stato Islamico traspare dalla presenza di istituti quali la riscossione
della zaqat (sorta di decima la cui esazione si rende doverosa,
si precisa nel testo, non per far cassa ma per “purificare” i beni e le
ricchezze [materiali] possedute), dell’hisba, polizia religiosa che ha il compito di «ordinare il bene e proibire il male» (così come li si ricavano dal Corano e dalla Sunna), per finire con la reintroduzione del dinar,
moneta in uso ai tempi del califfato “storico” e che, rifiutando secoli
di teorie economiche, basa il proprio valore sull’intrinseco di
materiale prezioso. Non meno cura viene prestata per descrivere la
correttezza formale dei passaggi seguiti per proclamare la rinascita del
Califfato, vale a dire la bay’a (“dichiarazione di sottomissione
ed alleanza”) nei confronti di Abu Bakr al-Baghdadi da parte degli
altri emiri e comandanti militari [3].
Stuttura dell’IS – Fonte: CNN/Terrorism Research and Analysis Consortium
Alla
luce di quanto esposto le finalità propagandistiche/di
controinformazione da una parte e di proselitismo dall’altra risultano
evidenti ed innegabili; ciò nondimeno l’immagine, peraltro già diffusa,
che traspare da questo testo di un Califfato nel quale forma-Stato,
riferimenti storici e religiosi procedono di pari passo, induce a
ritenere che tali elementi possano essere utilizzati per tentare di
tratteggiare le linee evolutive e di espansione future.
È opportuno al riguardo ricordare come rifarsi all’esperienza del califfato, in opposizione a quella del sultanato, assume ipso facto
una valenza che non è puramente simbolica ma anche “programmatica”:
occorre infatti evidenziare che il termine califfo (in arabo khalīfa)
viene impiegato per indicare il “vicario” o “successore” di Maometto
alla guida non solo politica ma anche spirituale della comunità islamica
(Umma), differendo in questo dal sultano (sultān, dal vocabolo sulta,
“forza”, “autorità”) che è il titolo sovrano proprio di chi esercita un
potere di natura essenzialmente politica [4]. Ciò, storicamente,
significa guardare a ben definite esperienze e realtà istituzionali;
infatti il modello califfale ha contraddistinto solo i primi secoli di
vita dell’Islam, che hanno visto susseguirsi, nell’ordine, il califfato
dei Rashidun (ovvero “degli Ortodossi”, dal 632 al 661; i quattro
califfi che assursero alla carica in questa fase potevano vantare il
fatto di essere legati a Maometto o da vincoli di sangue o di antica
amicizia e conversione), quello degli Omayyadi (661-750) e degli
Abbasidi (750-1258); successivamente il modello predominante è stato
quello sultanale, tipico dell’Impero Ottomano (1299-1922) [5].
Alla
luce di quanto sin qui detto, il fatto che l’attuale guida dello Stato
Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, nato Ibrāhīm ʿAwwād Ibrāhīm al-Badrī,
abbia optato per la dignità califfale (e non per quella sultanale) e che
come nome si sia posto lo stesso del primo dei califfi Rashidun, ovvero
Abu Bakr al-Ṣiddīq (“il grandemente veritiero”, coetaneo e miglior
amico del Profeta), induce a ritenere che tali scelte, lungi dall’essere
casuali, discendano da precise valutazioni di ordine religioso e
politico e facciano riferimento ad un preciso modello: infatti l’Islam
al quale l’IS si ispira è quello delle origini, quello che dalla
penisola arabica trabocca verso il bacino mediterraneo da una parte e si
espande verso gli altipiani iranici dall’altra (vedi mappa a destra),
quello nel quale l’elemento arabo è predominante (mentre la dinastia
ottomana, si ricorda, era di etnia turca) e che, come naturale
conseguenza, aveva il suo baricentro nel Medio Oriente e non nella
penisola anatolica [6].
Ma
gli spunti di riflessione non si esauriscono qui: il succitato richiamo
al Califfato, con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo
organizzativo e degli obiettivi strategici, aiuta a comprendere anche
buona parte delle motivazioni che hanno condotto alla “rottura” con
al-Qaeda. Giova infatti ricordare che proprio da AQI, la costola
irachena di al-Qaeda “fondata” nel 2004 da Abu Mus’ab al-Zarqawi,
originò nell’ottobre del 2006 l’ISI (lo Stato Islamico dell’Iraq),
all’epoca guidato da Abu Umar al-Baghdadi, che nel frattempo era
succeduto ad al-Zarqawi ucciso da uno strike aereo statunitense.
Morto anche Abu Umar nell’aprile 2010, il comando passò ad Abu Bakr
al-Baghdadi, il quale, cogliendo le opportunità derivanti dalla crisi
nella vicina Siria, in atto dal marzo 2011, ampliò l’area delle
operazioni anche a quest’ultimo Stato e cambiò, nell’aprile 2013, la
denominazione dell’organizzazione da ISI ad ISIS (o ISIL), a sancire il
fatto che Iraq e Siria costituivano un tutt’uno. Il resto è storia degli
ultimi mesi, con la proclamazione del Califfato dello Stato Islamico
(29 giugno 2014), le straordinarie conquiste territoriali dei mesi
successivi ed il conseguente intervento di una coalizione
arabo-occidentale che solo in parte è riuscita ad arrestarne la spinta
espansiva. Naturalmente i successi ottenuti sul campo hanno accresciuto
il prestigio dell’IS e, per contro, oscurato la stella di al-Qaeda,
innescando una competizione tra le due sigle del terrore [7] che, pur
perseguendo le medesime finalità (vale a dire la lotta agli infedeli
attraverso il jihad e l’imposizione della sharia), rischia di compromettere definitivamente i rapporti. Ma quali sono, nello specifico, queste differenze?
Il primo grande motivo di differenziazione è di tipo organizzativo: al-Qaeda è un network
moderno, snello e scarsamente centralizzato al quale aderiscono, o
perlomeno hanno aderito, cellule e gruppi attivi dai monti dell’Atlante
alle foreste delle Filippine e che, di conseguenza, dal punto di vista
operativo godono di elevata libertà; se questo li rende difficili da
individuare e da bloccare (tanto più che le loro azioni sono ispirate
dai principi della guerra asimmetrica), d’altro canto impedisce loro di
coordinare adeguatamente gli sforzi ed, in ultima analisi, limita la
loro capacità di incidere realmente sullo scenario internazionale.
L’IS,
consapevole di queste “controindicazioni”, ha perciò puntato sul ben
più tradizionale modello statuale, con tutti i vantaggi e gli svantaggi
che ne conseguono; in particolare, dal punto di vista militare, lo Stato
Islamico ha optato per la creazione di un esercito territoriale che,
seppur composto in larga parte dai cosiddetti foreign fighters,
opera su un determinato territorio [8] mescolando tattiche classiche
(assedi, bombardamenti di artiglieria, etc.) ad altre tipiche del
terrorismo (autobombe, attacchi suicidi, etc.). In relazione poi al
fatto che pure l’IS non abbia disdegnato di internazionalizzare il
proprio brand, affiliando gruppi sparsi per il mondo (sovente
strappandoli ad al-Qaeda), va precisato che questi ultimi, nel momento
di aderire, hanno fatto propri gli obiettivi dello stesso IS,
proclamando la nascita di altrettanti emirati e califfati destinati a
confluire in un unico, grande califfato globale esteso su tutti i
territori in cui l’Islam è storicamente stato presente. Quello del
territorio è dunque il secondo grande punto di differenziazione: mentre
al-Qaeda non ha mai avuto come obiettivo la realizzazione di uno Stato,
l’ISI-ISIS-IS l’ha perseguito con determinazione sin dal 2006 e,
soprattutto, l’ha fatto partendo dal cuore arabo dell’Islam e non dalle
sperdute periferie centrasiatiche o africane [9].
La
ritrovata centralità dell’elemento arabo è, a sua volta, il terzo
elemento di novità e basta a dimostrarlo il numero di combattenti arabi
presenti nelle schiere del Califfo: si stima siano circa 17mila (3mila
dei quali dalla sola Tunisia) su un totale calcolato in 20mila unità,
con i rimanenti 3mila appartenenti ad altri gruppi etnici (ceceni,
bosniaci, albanesi, etc.) [10].
Il
quarto ed ultimo aspetto di novità è quello relativo alle fonti di
finanziamento: mentre al-Qaeda dipendeva fortemente dai soldi elargiti
dai tanto ricchi quanto oscuri donatori dei Paesi del Golfo (tra i quali
può a buon a buon diritto essere annoverato lo stesso fondatore, Osama
bin Laden) e da quelli raccolti attraverso charity islamiche
sparse nel mondo, lo Stato Islamico può contare su fonti decisamente più
diversificate e strutturate. A riguardo il FATF (Financial Action Task
Force), in un interessante Report di recente pubblicazione, segnala come
ISIL
earns revenue primarily from five sources, listed in order of
magnitude: (1) illicit proceeds from occupation of territory, such as
bank looting, extortion, control of oil fields and refineries, and
robbery of economic assets and illicit taxation of goods and cash that
transit territory where ISIL operates; (2) kidnapping for ransom; (3)
donations including by or through non-profit organizations; (4) material
support such as support associated with FTFs and (5) fundraising
through modern communication networks [11].
Come si può notare, le fonti esterne (rispettivamente le donazioni attraverso charity e/o ONG ed attività di fundraising via social network
ed in generale mediante Internet) occupano la terza e la quinta
posizione, mentre nelle prime due posizioni si trovano fonti di entrata
direttamente correlate al controllo di un territorio. Riguardo a
quest’ultimo punto va osservato come l’approccio dello Stato Islamico
sia essenzialmente predatorio: l’IS in sostanza, si tratti di svuotare i
depositi bancari, di prosciugare i pozzi petroliferi [12], di imporre
gravami vari sulle merci in circolazione, di vendere sul mercato nero
reperti archeologici trafugati, etc., non fa altro che drenare risorse
dal territorio controllato, spendendole da un lato per mantenere
l’apparato statale messo in piedi (con quel minimo di welfare ad esso collegato indispensabile per ottenere il consenso della popolazione e di accreditarlo presso la umma,
come visto all’inizio di questa analisi, come Stato con tutti i
crismi), dall’altro per sostenere l’intenso sforzo bellico. Si tratta di
modalità di spesa sostanzialmente improduttive che, viene rilevato nel
Report, sono difficilmente sostenibili nel tempo a meno che manu militari
non si riesca ad allargare ulteriormente il territorio sotto il proprio
controllo, sottoponendolo al medesimo trattamento e reperendo in tal
modo risorse con le quali alimentare la macchina bellica, effettuare
ulteriori conquiste e così via.
Le
conseguenze sono di assoluto rilievo, dal momento che impattano
profondamente sulla strategia del Califfato, la quale, viste le
premesse, non può che essere costantemente offensiva. Difatti per lo
Stato Islamico è di vitale importanza mostrarsi sempre all’attacco: solo
in questo modo esso può preservare la propria immagine vittoriosa,
sfruttando la quale può attrarre nuovi “volontari del jihad” e/o attuare efficaci attività di fundraising,
strumenti necessari per perpetuare lo sforzo militare ed estendere i
propri domini. Naturalmente, per rendere ancor più efficace il tutto,
gli obiettivi territoriali devono essere “paganti” in termini di valore
simbolico (da manuale “Roma e Costantinopoli”) e/o di ricchezze da poter
sfruttare (ad es. campi petroliferi); ecco dunque che trova una
spiegazione la fitta trama di citazioni religiose, riferimenti storici e
profezie disseminate per tutto lo scritto come si diceva inizialmente.
Che c’è di più seducente per un aspirante mujāhidīn che la
prospettiva di rinverdire i fasti dei primi Califfati e magari di
conquistare, finalmente, la capitale degli infedeli assicurandosi nel
contempo un posto in Paradiso (Jannah)? Si tratta, con tutta
evidenza, di un gioco assai rischioso, nel quale è essenziale trovare un
punto di equilibrio tra obiettivi storico-religiosi spendibili sul
piano mediatico, inderogabili necessità finanziarie e reali capacità
operative: al contrario il meccanismo rischia di incepparsi e la
possibilità di un tracollo dello Stato Islamico e delle sue istituzioni
sarebbe un’evenienza più che verosimile.
Chiarito
che le basi “religioso-ideologiche” e materiali dello Stato Islamico
sono al contempo solide e fragili, va però riconosciuto che l’attuale
contesto internazionale gioca a favore di Abu Bakr al-Baghdadi: le
divisioni intra-sunnite, il settarismo di stampo etnico-religioso, la
frammentazione del quadro di sicurezza regionale ed infine la
polarizzazione politica e geopolitica degli attori nazionali,
transnazionali, regionali e globali coinvolti rendono di fatto più
efficace e solida la capacità d’azione dell’IS nell’area. A questo si
aggiungono inoltre alcune conquiste territoriali strategiche (Palmira in
Siria e Ramadi in Iraq), nonché la presunta complicità di buona parte
degli Stati arabi ed in particolare delle petro-monarchie del Golfo, le
quali piuttosto guardano con sempre maggior preoccupazione alla
crescente influenza sulla regione da parte dell’Iran [13]. In questa
prospettiva lo Stato Islamico, sfruttando la sua posizione geografica
che lo interpone tra la Siria di Assad ed il sud dell’Iraq (sciita),
risulta fondamentale per bloccare le velleità “mediterranee” di Teheran,
il che spiegherebbe la scarsa convinzione con la quale gli altri Stati
arabi della regione l’hanno finora combattuto.
Un
atteggiamento ambiguo e per certi versi pure comprensibile ma che, per
converso, li espone al rischio che il mostro che essi stessi hanno
contribuito a creare, e che si è visto agisce sullo scacchiere
internazionale secondo logiche che poco hanno da spartire con i
tradizionali ragionamenti geopolitici e geo-economici, si rivolti loro
contro.
Estensione del controllo territoriale dell’IS (al 20.05.2015) – Fonte: Institute for the Study of War (ISW) * Simone Vettoreè OPI Adjunct Fellow
[1] Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare,
testo di propaganda diffuso su Internet da parte di un militante che si
firmava come “fratello Mehedi” e che è stato individuato dalla
magistratura italiana in al-Mahadi Hailili, ventenne abitante nel
torinese tratto in arresto con l’accusa di «apologia dello Stato
Islamico [ed] associazione con finalità di terrorismo internazionale»; a
riguardo vedi G. Bianconi, Le conversazioni via Facebook: «Reclutati 40 italiani».
[3]
Il metodo democratico non è ovviamente contemplato. Sono peraltro stati
sollevati dubbi circa l’effettiva rappresentanza dell’intera comunità
musulmana di coloro che hanno espresso la bay’a la quale, per di
più, da sola non sarebbe sufficiente a sancire la validità della
proclamazione, mancando l’indispensabile parere favorevole degli ulema (la comunità dei dotti, n.d.r.).
[4]
Questo, si badi, non esclude che il Sultano potesse interessarsi delle
questioni religiose, cosa che era praticamente la norma.
[5]
In verità i sultani ottomani si attribuirono il titolo di Califfo sin
dal 1517, ma non essendo essi né legati da vincoli di sangue con il
Profeta né tantomeno appartenenti alla tribù araba dei coreisciti, non
avevano i requisiti generalmente richiesti per potersi fregiare di tale
titolo; ma poiché de facto la maggior parte dell’umma ricadeva sotto il loro governo, essi rivendicarono de iure tale carica che però inizia a comparire nei documenti ufficiali solo dopo il 1774, con Abdul Hamid I.
[6]
Le capitali dei tre Califfati “storici” sono state, rispettivamente,
Medina, Baghdad e Damasco. Le differenze tra Islamic State ed Impero
Ottomano sono peraltro ben più profonde: tanto quest’ultimo era
multietnico, plurilingue e pluriconfessionale (al netto delle periodiche
persecuzioni delle minoranze religiose), tanto l’IS attua in modo
sistematico l’eliminazione delle minoranze etniche, linguistiche e
naturalmente religiose che rientrano nel suo territorio. Visto sotto
questa luce l’accostamento fatto dal “fratello Mehedi” tra Roma e
Costantinopoli, l’odierna Istanbul (che viene significativamente citata
con il suo nome latino), come futuro obiettivo da conquistare è
significativo di come, agli occhi degli jihadisti, la metropoli sul
Bosforo sia da redimere al pari della città che ospita il soglio di
Pietro.
[7] Competizione che ha
raggiunto l’apice, anche mediatico, nel corso degli attentati
terroristici di Parigi del gennaio 2015: mentre i fratelli Kouachi,
autori dell’assalto alla sede del Charlie Hebdo, sarebbero stati
addestrati in Yemen nei campi dell’AQAP (al-Qaeda in the Arabian
Peninsula), Amedy Coulibaly, responsabile del pressoché contemporaneo
assassinio della poliziotta di quartiere Clarissa Jean-Philippe e della
strage al supermercato kosher, ha dichiarato legami con l’IS, come
sarebbe comprovato dalla fuga in Siria della moglie (e complice?) Hayat
Boumeddiene.
[8] La scelta da parte
dello Stato Islamico di “agire locale” non significa che esso non “pensi
globale”: così come al.Qaeda, gli uomini di al-Baghdadi guardano
all’intera umma ed alla necessità della sua unità.
[9]
Sudan prima ed Afghanistan poi sono stati visti da Osama bin Laden come
semplici basi logistiche. Caso emblematico l’Afghanistan, dove si
lasciò ai talebani il compito di organizzare i territori controllati,
accontentandosi di ricevere protezione e di poter allestire i propri
campi di addestramento. I talebani, dal canto loro, con l’avvio
dell’operazione Enduring Freedom e lo schieramento del dispositivo ISAF,
lasciarono rapidamente le città rifugiandosi nelle zone montuose di
confine dove potevano attuare le tattiche di guerriglia più loro
consone. Insomma, nemmeno i talebani dimostrarono grossa affezione per
il modello statuale!
[12]
A riguardo viene sottolineato come l’IS non disponga di tecnici con
adeguate competenze sicché non è in grado di rimettere in funzione
quegli impianti che vengono danneggiati dagli attacchi aerei né
tantomeno di avviare ulteriori trivellazioni.
[13]
L’operazione “Decisive Storm”, sostituita poi da “Renewal of Hope”,
guidata dall’Arabia Saudita con il concorso di una dozzina abbondante di
stati arabi contro i ribelli Houti nello Yemen è indicativo di questo sentiment e non è che l’ultimo capitolo di quella lotta per procura che oramai da anni si svolge tra sunniti e sciiti.
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