Jobs act, gli imbrogli non finiscono mai |
Nei decreti attuativi una “manina” ha inserito norme che esulano dalla delega votata dal Parlamento e persino dalla Costituzione. L’emendamento sul reintegro per licenziamenti disciplinari ingiustificati viene di fatto eluso e al giudice è vietato valutare se la decisione sia proporzionata. Ma c’è anche molto altro |
Umberto Romagnoli
La
delega legislativa in materia di lavoro, che esperti della
comunicazione hanno denominato Jobs Act aspettandosi (chissà perché) che
l’anglicismo ne avrebbe aumentato la popolarità, si compone di circa
duecento righe. Soltanto un paio di esse, però, ha polarizzato il
dibattito pubblico che ha preceduto l’approvazione parlamentare. Eccole:
“previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo
indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”
(catuc, secondo un acronimo che
avrà fortuna perché fa risparmiare tempo e spazio). Poiché non
permettevano di scrutare le reali intenzioni né del legislatore
delegante né del legislatore delegato, è plausibile che le abbia vergate
la mano truffaldina di un uomo (o una donna, non si sa) con gli occhi
di Bambi convinto che l’art. 76 della Costituzione (quello che regola le
leggi delega) sia scritto sull’acqua: qual era l’oggetto della delega
legislativa? Che uso avrebbe fatto il legislatore delegato (ossia, il
governo) della sua discrezionalità decisionale? Quali sarebbero state le
tutele del lavoratore destinate a crescere col trascorrere degli anni?
E’ evidente che la reticenza era
intenzionale: l’ignoto autore voleva creare un clima la cui ambiguità
consentisse di presagire l’accoglimento dell’idea, in circolazione da
tempo e di per sé non priva di buon senso, che le tutele sono
suscettibili di dilatarsi gradualmente con l’accumularsi dell’anzianità
aziendale fino a raggiungere una protezione piena. Lo stesso
europarlamento l’aveva valutata positivamente. Gli apprezzamenti però
erano espressi nel presupposto che l’eguaglianza di trattamento tra
neo-assunti e più anziani si sarebbe realizzata portando i primi al
superiore livello protettivo raggiunto dai secondi. Viceversa, il
decreto natalizio dà per scontato che la protezione – che, per
convenzione, viene considerata “piena” – degli occupati attuali non sarà
un punto d’arrivo perché ha i giorni contati. Infatti, si estinguerà un
poco alla volta, via via che i milioni di lavoratori assunti prima del
2015, nei cui confronti seguiterà ad applicarsi ciò che resta dell’art.
18 dello Statuto dei lavoratori, cesseranno per qualsiasi motivo la
propria attività. Come dire che
questa norma scomparirà dall’ordinamento senza necessità di abrogarla.
Il che è meno stupefacente di quanto possa apparire: il fatto è che, per
sopprimere una norma il cui pathos sa ancora parlare al cuore delle
folle anche nella versione rimaneggiata nel 1990 e maltrattata nel 2012,
ci voleva proprio la furbizia di farlo di nascosto e senza dirlo
apertamente.
Insomma,
il governo ritiene che il catuc sia il contratto standard
dell’avvenire. Pertanto, in caso di licenziamento illegittimo, i
lavoratori assunti con catuc – che il governo presume (chissà perché)
sarà il contratto di lavoro dominante, malgrado la concorrenza dei
(troppi) contratti ereditati da una delle prime leggi berlusconiane
rimasta legata al nome di Marco Biagi – fruiranno di una tutela
d’intensità sensibilmente inferiore a quella prevista dall’art. 18
tuttora esistente ed operante nei confronti di una moltitudine di
soggetti in via di sfoltimento. La sola tutela crescente consiste
nell’automatismo per cui l’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo ha un “importo pari a 2 mensilità (…) per ogni anno di servizio (…), in misura comunque (…) non superiore a 24 mensilità” e
“non inferiore a 4”. Questo è il regime di carattere generale.
Qualitativamente identico a quello previsto dalla legge del 1966 che
revocò la licenza di licenziare rilasciata dal Signore cent’anni prima,
esso sarà integrato dal conferimento al lavoratore ingiustamente
licenziato di un nuovo diritto esercitabile con soldi pubblici. Il
diritto a sottoscrivere un contrattocosiddetto “di ricollocazione” con
una struttura specializzata che si obbliga a prestargli “un’assistenza
appropriata” nella ricerca di una nuova occupazione. Incidentalmente,
vale la pena di osservare che, poiché lo Stato sovvenziona misure di
contenimento di (alcuni dei) danni derivanti da comportamenti di cui lo
stesso Stato, attraverso i suoi giudici, ha accertato l’illiceità, ciò
significa che quello di licenziare non è più un potere da limitare; è
diventato un diritto da proteggere agevolandone l’esercizio, ancorché
illegale.
Proprio
questa è l’innovazione che giustifica l’eccezionalità dell’ordine
giudiziale di reintegrare, ormai confinato in uno spazio residuale.
Potrà essere emesso in casi-limite: licenziamento discriminatorio, nullo
e intimato in forma orale. Nonché in “specifiche fattispecie” di
licenziamento disciplinare. A questo proposito, però, per chiarezza
espositiva bisogna fare un passo indietro.
In
dicembre, come informarono i giornali, un gruppetto di parlamentari Pd,
impressionati dalla prospettiva sempre più realistica che non fosse più
sanzionabile con la reintegra neanche l’illegittimità del licenziamento
disciplinare (vuoi perché il fatto non sussiste vuoi perché
l’infrazione non è tanto grave da giustificare l’espulsione
dall’azienda), riuscì a far emendare il testo del disegno di legge
delega. Alla fine, si giunse infatti al compromesso consistente
nell’ammettere “la possibilità della reintegra limitatamente a
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”.
Niente di meno, ma neanche niente di più.
Invece,
il peso del compromesso si è rivelato intollerabile per il governo.
Difatti, in suo soccorso è intervenuta l’invisibile mano truffaldina del
collaboratore (o della collaboratrice) con gli occhi di Bambi. Costui
(o costei) aveva già dimostrato di non prendere sul serio l’art. 76
della Costituzione; quindi, non stupisce che abbia evitato accuratamente
di individuare le “specifiche fattispecie” di licenziamento
disciplinare in presenza delle quali è possibile infliggere la sanzione
ripristinatoria del rapporto di lavoro. Stavolta scrive addirittura che
l’esecrata condanna potrà essere inflitta soltanto se non è “dimostrata
in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, rispetto
alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del
licenziamento”. Come dire che il
legislatore delegato ha deragliato paurosamente, travolgendo principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico. Non solo si è discostato
dall’indirizzo deliberato dal Parlamento che imponeva la selezione delle
fattispecie sanzionabili con la reintegra, ma ha anche cancellato –
insieme all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori che assoggetta il potere
disciplinare a regole particolarmente restrittive – smisurate pile di
contratti collettivi che si occupano diffusamente, sulla scia aperta
dall’art. 2106 del codice civile del 1942, del nesso di proporzionalità
che deve esistere tra gravità della trasgressione e pena. Infine, ha
congetturato che l’eversivo
risultato sia ottenibile amputando il ruolo del giudice: gli vieta,
infatti, di valutare l’adeguatezza della massima sanzione disciplinare
al fatto contestato, come se il potere legislativo potesse interferire
sull’esercizio del potere giurisdizionale, comprimerlo e dimezzarlo.
Secondo la decretazione delegata, la sussistenza del fatto materiale
addebitato al lavoratore ne giustifica il licenziamento,
indipendentemente dalla sua gravità. Insomma, accecato dalla voglia
matta di spazzare via ciò che si è demonizzato per 45 anni, ha finito
per consentire all’imprenditore di tornare ad essere quel che era una
volta: un padrone. Un padrone slegato da lacci e laccioli – esonerato
persino dalla più barbara delle leggi: quella del taglione – quando
agisce da parte lesa, accusatore e giudice; e ciò sebbene questi sia un
privilegio che ha origine remote e non ha riscontro nel modo delle
relazioni contrattuali.
Non
c’è dubbio: la soccorrevole manina che agisce a Palazzo Chigi e
dintorni ha partecipato con alacrità al processo di formazione della
decretazione delegata di Natale. La sua cifra stilistica è la
semplificazione; che, non a caso, è la parola-chiave dell’intera agenda
di un governo che annuncia raffiche di riforme da cantierare e
completare con un ritmo di una al mese. Se il disposto normativo
poc’anzi richiamato fornisce il paradigma di come si possa semplificare
azzerando la complessità, in un altro luogo è rinvenibile un modo di
semplificare che complica le cose. Succede là dove il decreto natalizio
modifica l’apparato sanzionatorio del licenziamento collettivo
risultante dalla legge 223 del 1991 che regola la materia.
Vero
è che la stretta connessione concettualmente esistente tra il
licenziamento individuale per motivi oggettivi e il licenziamento per
riduzione del personale implica che non si possa ridisciplinare
il primo senza ricadute sul secondo. Resta tuttavia un dato di realtà:
il governo non è legittimato a legiferare perché la legge delega del 10
dicembre 2014 non menziona nemmeno la fattispecie collettiva. Può darsi
che questa sia una inescusabile negligenza. Ma il governo non può
rimuoverla sua sponte. E’ necessaria una nuova legge delega. D’altra
parte, neanche la nuova disposizione è esente da difetti. In primo
luogo, c’è superficialità, perché non si è riflettuto abbastanza sul
fatto che, d’ora in avanti, la cessazione del rapporto di lavoro è una
vicenda assoggettata ad un doppio regime e perciò bisognerà distinguere
tra già occupati ed assunti con catuc coinvolti in un licenziamento
collettivo.
Così,
quello che in caso di licenziamento individuale può essere un fastidio
s’ingigantirà, inasprendo ulteriormente la problematica gestione di
aziende in affanno che invece il legislatore si proponeva di
semplificare. Al tempo stesso, c’è anche tanta animosità verso i
sindacati. Infatti, l’alleggerimento della sanzione economica delle
violazioni della procedura sindacale e dei criteri di scelta dei
licenziabili incoraggia la de-sindacalizzazione dei processi di
riduzione del personale; il che significa che viene monetizzata anche la
lesione del diritto dei lavoratori ad essere rappresentati dal
sindacato nel momento in cui è in gioco la sorte dei loro posti di lavoro.
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la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune. Produrre, organizzare, trovare soluzioni, impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST? Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
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