L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

mercoledì 29 luglio 2015

i Fratelli Musulmani hanno ucciso con autobomba i poliziotti egiziani nel 2013?

Prigioniero tra Egitto, Qatar e la mia battaglia per la libertà di stampa

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La sentenza è vicina. Il 30 luglio conosceremo l’esito del processo che vede coinvolti noi giornalisti di Al Jazeera, dopo 19 mesi di sofferenze che hanno profondamente cambiato la mia vita e quella dei miei cari, per sempre.
È comprensibile che il mondo si preoccupi degli accordi sul nucleare, dei terroristi che uccidono la loro stessa gente giustificando gli attacchi in nome della jihad e della bandiera dell’Islam, della stessa guerra al terrorismo che ha abbandonato molti giornalisti (me compreso) alle minacce di governi che ci vedono solo come un “danno collaterale”.
Tra i 200 casi di giornalisti attualmente detenuti solo per aver fatto il loro lavoro, forse il nostro è uno degli esempi più lampanti di come giornalismo e politica spesso si sovrappongano, nel panorama mediatico. Non è più un segreto che il governo del Qatar, proprietario di Al Jazeera Media Network, sia un convinto sostenitore del fondamentalismo dei Fratelli Musulmani.
Sono stato troppo ambizioso (da giornalista sempre in cerca di nuove sfide) ad accettare il lavoro come responsabile dei canali inglesi di Al Jazeera, mesi dopo l’espulsione dei Fratelli Musulmani, nel 2013? Dopotutto, il governo egiziano ha bandito la divisione araba del canale, considerandola eccessivamente faziosa nel suo sostegno alla causa dell’organizzazione islamica.
Proprio per questa ragione, sono diventato ancora più critico verso il mio lavoro, come mai prima. Nella mia mente, ho esaminato ogni minima notizia raccolta, ogni statistica, ogni notiziario live, ogni storia che usciva del nostro ufficio al Cairo. Con grande umiltà e dopo lunga riflessione, credo che i nostri servizi (che il governo egiziano considera faziosi e realizzati apposta per sostenere i Fratelli Musulmani) siano senza macchia.
Dopo molti mesi, questa valutazione è stata convalidata dalla commissione tecnica di esperti, nominata dal giudice nel nuovo processo, che l’ha confermata dopo aver esaminato la cosiddetta “prova video”.
Non posso dimenticare la sentenza del primo processo. Scoppiai a piangere in prigione, sapendo che avrei potuto passare sette anni in una giungla di cemento tra combattenti dell’ISIS e jihadisti. Ricordo ancora l’espressione sul volto di mia madre, che vedevo attraverso la cella dell’aula di giustizia, mentre il giudice annunciava la sua decisione.
La mattina del 25 dicembre 2013, il governo egiziano dichiarò che i Fratelli Musulmani costituivano organizzazione terroristica. Quel momento è inciso nella mia mente come se fosse accaduto ieri. Parlai di questa dichiarazione nelle notizie dell’ultima ora. Il mio servizio non tralasciava i dettagli raccapriccianti di un’autobomba che aveva causato la morte di diversi poliziotti, ultima goccia che portò alla messa al bando dei Fratelli Musulmani. Ricordo che consegnai il mio reportage al collega Peter Greste mentre continuavamo a seguire la notizia dal Marriott Hotel del Cairo, lo stesso luogo dove saremmo stati arrestati quattro giorni dopo, durante un’ incursione che venne filmata e trasmessa.
Io, il mio collega egiziano Baher Mohamed e Peter Greste, avevamo parlato proprio di quella che qualche giorno dopo sarebbe diventata la legge che avrebbe giustificato l’accusa nei nostri confronti e una reclusione di oltre 400 giorni.
L’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti erano intenzionati a debellare l’organizzazione e le ideologie dei Fratelli Musulmani in ogni modo possibile. D’altra parte, la Turchia e il Qatar formarono un’alleanza, offrendo un porto sicuro ai Fratelli fuggitivi, garantendo loro un “ombrello” politico sotto cui ripararsi e finanziando diverse piattaforme mediatiche dalle quali diffondere la loro causa anti-governativa. Noi, tre giornalisti, ci siamo ritrovati proprio al centro di questa guerra indiretta che attraversava la regione.
Il nostro processo potrebbe diventare un caso degno di studio per giuristi, difensori della libertà d’espressione, sostenitori dei diritti umani e tutti quei politici che discutono per stabilire chi siano i veri terroristi e da che parte stare.
Mentre ci avviciniamo alla nuova sentenza, non posso fare a meno di ricordare il nostro primo verdetto, quel terribile 23 giugno 2014. Scoppiai a piangere, sapendo che avrei potuto trascorrere 7 anni della mia vita in una giungla di cemento tra combattenti dell’ISIS e Jihadisti. Non potrò mai dimenticare l’espressione sul volto di mia madre, la guardavo dalle sbarre della cella mentre il giudice annunciava la sua decisione. Mi vedo ancora mentre, aggrappandomi alle sbarre, cerco di resistere ai poliziotti che mi trascinano via dal banco degli imputati.
Siamo stati i primi giornalisti a essere condannati a 7 anni, in un caso di terrorismo in Egitto. Fortunatamente, il primo gennaio del 2015 la corte di Cassazione ha annullato la nostra sentenza sommaria per “mancanza di prove”. Eppure, io e Baher siamo stati riportati in cella per un estenuante secondo processo di sei mesi.
Il nostro processo potrebbe diventare un caso di studio per giuristi, difensori della libertà di espressione, sostenitori dei diritti umani e per tutti quei politici che discutono per stabilire chi siano i veri terroristi e da che parte stare.
È interessante notare che, subito dopo l’annullamento della condanna, il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi abbia reso effettivo un nuovo decreto che gli conferisce il potere di estradare gli stranieri nei loro paesi per essere sottoposti a processo o continuare la detenzione. I funzionari della sicurezza nazionale che venivano a farmi visita durante la prigionia, portavano un messaggio chiaro “Rinuncia alla cittadinanza, tu e Greste sarete mandati a casa e vi risparmieranno il secondo processo”.
In effetti, era la prima volta, nella storia d’Egitto, che uno straniero (Greste) otteneva l’estradizione durante un processo e il primo caso in cui un cittadino egiziano-canadese (io) avrebbe rinunciato alla sua cittadinanza per uscire di prigione. Gli eventi successivi furono degni di un romanzo di Kafka. Nessuno riusciva a capire chi tenesse le fila della “giustizia” egiziana, il mio collega Greste venne estradato in Australia, ma il mio ritorno in Canada fu bloccato. Io rimasi lì a combattere la mia battaglia con il nostro collega Baher Mohamed, il solo ad avere un passaporto egiziano.
Sono grato al governo canadese per gli sforzi compiuti per tirarmi fuori da questa crisi, a prescindere dai risultati ottenuti.
Tuttavia, dopo il mio rilascio su cauzione nel febbraio di quest’anno, il governo canadese mi ha lasciato senza passaporto per due mesi. Le autorità egiziane lo avevano perso, dopo averlo confiscato la prima volta che venni arrestato. Il team di legali canadesi in Egitto mi informò che era la prima volta che Ottawa rifiutava di concedere ad un suo cittadino all’estero un passaporto sostitutivo, nonostante il fatto che il mio nome fosse su una lista “no-fly” dall’Egitto. Questa cautela diplomatica arrivava proprio nel momento in cui avevo più bisogno del mio passaporto per sposarmi, finalizzare transazioni bancarie e provare la mia identità ai paranoici controlli egiziani.
Fortunatamente, in una rara dimostrazione di coesione, i media canadesi e i partiti di opposizione sostennero insieme il mio diritto a ottenere un passaporto. Alla fine, il ping-pong politico trasmesso in TV e le continue richieste al Primo Ministro Stephen Harper in parlamento si conclusero con una vittoria: mi diedero un nuovo passaporto due mesi dopo.
Sono ancora colpito dalla solidarietà che ci è stata dimostrata a livello globale, durante la detenzione. La notizia che tantissimi difensori della libertà di espressione stavano lottando per noi è stata una vera e propria ancora di salvezza, lanciata dalle crepe di quelle orribili mura. Il sostegno alla nostra causa mi ha convinto a fondare un’organizzazione non-profit, la Fahmy Foundation, con sede a Vancouver, per lottare a favore dei giornalisti che si trovano dietro le sbarre.
L’orologio corre, il momento è vicino. Il giorno della sentenza, rischio di diventare un semplice numero dietro le sbarre, qualcuno a cui la gente dedica hashtag su Twitter. So bene che l’esito del processo potrebbe non avere nulla a che fare con le prove ma essere basato solo sul regolamento di conti politico tra Qatar ed Egitto.
Sono realista, so che il significato profondo della libertà di espressione non si è mai esplicitato, ma credo anche che dobbiamo combattere per cambiare le cose. Rabbrividisco alla notizia che l’Australia sta varando delle leggi per accedere a tabulati telefonici e internet senza una chiara protezione per i giornalisti. Mi agito quando leggo che, in Canada, la nuova “Bill C-51” limiterà la libertà di espressione e costituirà una minaccia per le libertà civili fondamentali sancite dalla costituzione canadese. Certo, questa ondata di terrorismo senza precedenti richiede delle misure eccezionali per proteggere la sicurezza nazionale, ma non al prezzo dell’ossigeno necessario che ci viene garantito dalle libertà civili. I terroristi, con i quali ho condiviso un anno della mia vita in prigione, esultavano alla notizia di queste nuove, opprimenti leggi… non possiamo lasciare che cantino vittoria!
A questo si aggiunge l’incubo di un’ulteriore legge, la Bill C-24, che colpisce al cuore del paese perché permette ad un qualsiasi ministro del governo federale del Canada, di privare un cittadino con la doppia cittadinanza del suo passaporto canadese se, come me, questi risulti “colpevole” di accuse di terrorismo. Si tratta di una legge molto pericolosa perché nega ai cittadini i diritti fondamentali del giusto processo.
La repressione della libertà di parola si sta diffondendo come un’epidemia. L’Egitto e il Qatar sono tra quelli che negano maggiormente alcuni diritti fondamentali. La mia fondazione in Canada difende la causa del poeta qatariota Mohammed Al Ajami che sta scontando una condanna di 15 anni a causa di un verso di una sua poesia che criticava proprio l’Emiro del Qatar, che fa della libertà di parola merce di scambio con le Nazioni Unite. Almeno una decina di giornalisti e scrittori del Qatar sono stati privati della cittadinanza per aver criticato la condotta della famiglia Al-Thani e a dozzine sono perseguitati dal sistema di sicurezza nazionale del paese.
Non troverete molte informazioni (tra i vari organi di stampa di Al Jazeera) sul poeta romantico del Qatar che una volta studiava in Egitto. In risposta alla sua carcerazione, Al Ajami ha commentato: “In questo paese non potete avere Al Jazeera e sbattermi in prigione solo perché sono un poeta”.
Un’altra vittima di questo inasprimento è il giornalista americano Jason Rezaian, bloccato in una prigione iraniana per più di un anno con accuse fasulle di spionaggio. La mia fondazione sta lottando anche per lui, siamo in contatto con la sua famiglia. Sappiamo che lui è solo un’altra vittima di scelte politiche corrotte.
L’orologio corre, il momento è vicino. Il giorno della sentenza rischio di diventare un semplice numero dietro le sbarre, qualcuno a cui la gente dedica hashtag su Twitter. So bene che l’esito del processo potrebbe non avere nulla a che fare con le prove, ma potrebbe essere basato solo sul regolamento di conti politico tra Qatar ed Egitto. So per certo che le nostre famiglie continueranno a lottare finché io e Baher Mohamed non saremo liberati.
Per fortuna, Ottawa ha accelerato il passo dall’inizio di quest’anno. Il governo di Harper continua a collaborare con il mio avvocato Amal Clooney per prepararsi, ancora una volta, alla prospettiva peggiore: quella che ci vedrà combattere per la mia estradizione in Canada, se il giudice dovesse decidere di punire il mio sospetto datore di lavoro, Al Jazeera, mettendo a tacere me.
Questa volta, potrebbe essere molto più dura finire in prigione per un crimine che non ho commesso, soprattutto dopo aver assaporato di nuovo la libertà.
(Questo post è stato pubblicato originalmente su World Post ed è stato tradotto in italiano da Milena Sanfilippo)

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