Prima che se ne occupasse Prodi, rovinandola, Telecom Italia era quinta nel mondo. Dopo 18 anni, tenta la risalita con Bolloré
Vincent Bolloré e Telecom Italia: ora che ne ha preso il controllo, qual è il progetto del finanziere bretone? Agirà da raider, rivendendo il pacchetto di controllo (14,9%) al migliore offerente, con la solita ricca plusvalenza? Oppure ne farà il quartier generale per un'offensiva di politica industriale, puntando sul connubio crescente tra reti e contenuti mediatici? Tra le due domande, l'economista Luigi Zingales, fresco dimissionario dal consiglio d'amministrazione dell'Eni per dissensi con il vertice, sostiene che è buona la prima. «Bolloré è un investitore noto per il suo approccio opportunistico», ha detto pochi giorni in un'intervista. E una sua vendita non stupirebbe: «Telecom è una società che ha delle potenzialità da sfruttare», ha aggiunto, «ma ha risentito del fatto di non avere avuto, negli anni, soci stabili con una visione strategica».
Analisi corretta per il passato, ma forse azzardata per il presente. Certo, Telecom Italia è reduce da 18 anni di fallimenti clamorosi. Nel 1997, quando era tra le migliori compagnie telefoniche del mondo, l'allora premier Romano Prodi la privatizzò per fare cassa e entrare nell'euro. Sbagliando di grosso, la consegnò a un presunto «nocciolo duro» di azionisti, che, alla prova dei fatti, si rivelò un «nocciolino» molle e squattrinato. Basti ricordare che il referente di quel nocciolo era l'Ifi di Giovanni Agnelli, che non andò oltre lo 0,7% del capitale Telecom. Un caso di miopia industriale a dir poco clamoroso. Poi vennero i capitani coraggiosi (ma squattrinati pure loro) di Roberto Colaninno, incoraggiati da Massimo D'Alema, e dopo di loro la meteora Marco Tronchetti Provera, che nel 2007, per evitare il peggio, dovette passare la mano agli spagnoli di Telco e a due banche (Intesa e Mediobanca). Queste ultime (insieme a Generali) precettate ancora una volta da Prodi e dall'allora ministro del Tesoro, Tommaso Padoa-Schioppa, per una «operazione di sistema», a difesa dell'italianità dell'ex monopolista telefonico. Altro errore, pagato caro.
Giusto un anno fa (luglio 2014), l'ultimo passaggio di mano: con la sua Vivendi, Bolloré ha ceduto alla spagnola Telefonica l'operatore telefonico brasiliano GVT, e in cambio ha ottenuto una cospicua somma in contanti (oltre 4 miliardi), più l'8,3% di Telecom Italia. Con acquisti successivi, Bolloré è salito al 14,9% e (siamo ai giorni nostri) ne è diventato l'azionista di riferimento. Inutile dire che da questi continui cambi di mano, iniziati da Prodi, Telecom Italia è uscita massacrata e spolpata: era la quinta società telefonica al mondo e aveva 120 mila dipendenti, mentre ora ne ha 50 mila; il suo debito era pari al 30% del fatturato, ora è sopra il 100%; era presente in tutto il mondo, ora le rimane solo Tim Brasil. Tuttavia, grazie alla rete dei suoi cavi in Italia e sotto il Mediterraneo, conserva un valore strategico, che aspetta solo di essere sfruttato.
È Bolloré l'uomo giusto per farlo? Finora ha detto poco sulle sue intenzioni. Ma ha già smentito la previsione di Zingales, assicurando che sarà «un buon azionista» di Telecom Italia, non solo un socio finanziario. Concetto ribadito dal ceo di Vivendi, Arnaud de Puyfontaione, in un'intervista alCorriere della sera (25 giugno 2015): « Faremo tutto il possibile per diventare un player importante sul mercato italiano. In cassa abbiamo 10 miliardi di liquidità, che ci dà capacità di investire, agilità e velocità di esecuzione. Siamo pragmatici, e con un grande appetito per un mercato che offre grandi opportunità». Un avviso ai naviganti, politici e no, da non sottovalutare. Tanto più se si considera che Vivendi, come rivela l'ebook di Fiorina Capozzi su Bolloré, è «un gigante dell'entertainment, secondo solo a Walt Disney, nonché primo fornitore di contenuti in Europa, attraverso le produzioni televisive di Canal+».
Per capire quanto Bolloré tenga al business media-telefonico, basta rivedere il film di come si è impadronito di Vivendi. Tutto inizia dieci anni fa (2005), quando Bolloré lancia in Francia la sua prima tv digitale, Direct 8. Nel 2009 fa solo il 2,5% di audience, ma il finanziere bretone non si scoraggia, e compra una seconda emittente: Direct Star. Due anni dopo (2011), a sorpresa, cede entrambe le tv gratuite a Canal+, che è la pay tv del gruppo Vivendi, ottenendone in cambio l'1% del capitale. I giornali francesi scrivono che è la fine delle ambizioni televisive di Bolloré. Un errore clamoroso. Due anni dopo (2013) si scopre infatti che, partendo da quell'1%, il finanziere bretone ha scalato in Borsa il gruppo Vivendi, prendendone il comando.
In un anno, lo rivolta come un calzino, cedendo i videogiochi (Activision Blizzard) e la telefonia in Marocco (Maroc Telecom), in Brasile (GVT) e in Francia (SFR). Risultato: da società con 13 miliardi di debiti su un fatturato di 29 miliardi, la Vivendi di Bolloré fattura 11 miliardi e dispone di un tesoretto di 10 miliardi da investire. In pratica, facendo perno su Canal+ e sulle produzioni televisive, il gruppo è diventato un produttore di contenuti europeo, pronto a fare concorrenza alla Sky di Rupert Murdoch e al gigante Usa della web-tv, Netflix, che si prepara a invadere l'Europa.
L'acquisto di Telecom Italia non sembra dunque casuale, né una mossa da raider. Grazie alle sue reti, l'ex monopolista telefonico è una piattaforma ideale per trasmettere contenuti tv (mediatici e pubblicitari), ma anche per sviluppare la banda larga, dove l'Italia è in forte ritardo. Una partita duplice, che si giocherà su più tavoli, a cominciare da quello del governo di Matteo Renzi e della Cassa depositi e prestiti, che - guarda caso - ha cambiato i vertici subito dopo l'arrivo di Bolloré in Telecom. Grecia permettendo, sarà questa la partita chiave dell'autunno.
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