La Cina costa alle Borse 2.200 miliardi
Vito Lops 22 agosto 2015
Un venerdì nero per chiudere una settimana nera, quasi nefasta, per i
mercati finanziari globali. La sindrome cinese si è fatta sentire
ancora una volta. La Borsa di Shanghai ha chiuso l’ultima seduta con un
calo del 4% - dopo la pubblicazione del dato Pmi manifatturiero ai
minimi da 77 mesi - portando il ribasso settimanale al 13% e al 50% il
calo dai massimi di fine giugno nonostante le iniezioni di liquidità
della banca centrale e i provvedimenti che dovrebbero arginare l'ondata
ribassista ma non stanno sortendo gli effetti sperati. Come ha rilevato
un broker «la Borsa cinese è come una sala da gioco e il governo è
intervenuto chiudendo la metà dei tavoli». Il timore è che nonostante
dai picchi di giugno le Borse di Shanghai e Schenzen abbiano dimezzato
la capitalizzazione da 9.600 a 4.800 miliardi di dollari, l’ondata
ribassista non sia finita .
Le vendite hanno colpito ancheTokyo (-2,98% ieri e -5,5% da lunedì)
e a valanga i listini occidentali. Solo nella seduta di ieri il valore
delle 600 società a maggiore capitalizzazione in Europa (misurate
dall’indice Stoxx 600) è sceso di 330 miliardi di euro. In termini di
capitalizzazione le principali 28 Borse europee hanno perso 459 miliardi
di dollari nell’ultima settimana. Pesanti svalutazioni anche sui
listini asiatici (che ora valgono 755 miliardi in meno rispetto a una
settimana fa) e americani (-894 miliardi includendo le Borse latine).
Anche Wall Street, la Borsa meno volatile del pianeta, ha bruciato oltre
6 punti percentuali nelle ultime cinque sedute. Con il ribasso di ieri
l’indice S&P 500 si è portato sui livelli di otto mesi fa, scendendo
sotto la soglia dei 2mila punti.
Le vendite hanno colpito in modo pressoché indistinto l’azionario
globale, con perdite di valore giornaliere per 938 miliardi e
settimanali per 2.200 miliardi di dollari.
Solo nell’ultima seduta Piazza Affari ha perso il 2,8% portando il
bilancio settimanale a -6,5%. Peggio ha fatto Francoforte che ha perso
il 3% nell’ultima seduta e l’8% da lunedì. Il bilancio settimanale è
pessimo anche per le altre piazze del Vecchio continente: Parigi -6,5%,
Madrid -6% e Londra -7,5%.
A preoccupare è il fatto che alle vendite azionarie fanno da
contraltare gli acquisti di asset rifugio, come oro, franco svizzero e
Bund tedesco, con uno spostamento di capitali verso lidì più sicuri,
come nelle fasi di avversione al rischio. Il tasso del Bund a 10 anni è
sceso allo 0,58% spingendo in alto di 5 punti base lo spread con il BTp
(a 128), il cui rendimento è salito all’1,86%. Proseguono gli acquisti
sull’oro. Ieri è salito di oltre 5 dollari portandosi a ridosso di
1.160 dollari l’oncia rispetto ai 1.085 dollari della scorsa settimana.
Mentre l’euro è volato oltre quota 1,13 dollari sulle ormai tramontate
aspettative degli investitori che la Federal Reserve possa rialzare i
tassi di interesse a settembre. Ancora più remote dopo il dato
sull’attività manifatturiera statunitense: ad agosto l’indice Pmi di
Markit è sceso a 52,9 dal 53,8 di luglio toccando i minimi dall’ottobre
del 2013. Proprio il probabile rinvio della tanto attesa fase di
normalizzazione della politica monetaria negli Stati Uniti, complice le
incertezze che arrivano dalla Cina, è un ulteriore elemento che sta
mandando in tilt gli operatori. Decisiva la partita a scacchi tra
dollaro e yuan: Jack Lew, segretario americano al Tesoro, ieri ha detto
che gli Usa monitoreranno attentamente la politica valutaria di Pechino
dopo la recente svalutazione dello yuan giunta a sorpresa.
L’amministrazione Obama preme affinché la Cina continui a lavorare per
rendere la sua economia più legata alla domanda interna e meno alle
esportazioni. Non solo Cina e yuan. A questo punto è imprevedibile
ipotizzare anche l’andamento del petrolio e se riuscirà a risollevarsi,
evitando ulteriori problemi sulle valute dei Paesi emergenti esportatori
di materie prime, che viaggiano sui minimi sul dollaro. Anche ieri
l’oro nero ha dato segnali di tensione, franando ancora: il Wti è
calato sotto i 40 dollari al barile per la prima volta dal 2009
accentuando i rischi di deflazione globale.
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