SPY FINANZA/ Il crollo delle Borse cinesi? Colpa
della Fed
Mauro Bottarelli
giovedì 3 settembre 2015

I keynesiani sono in fermento a gridano a gran voce a favore di un QE in piena regola da parte della Banca
centrale cinese (PBOC). E attenzione, si stanno muovendo ai massimi livelli, non mi riferisco al Sole24Ore. A
confermare come la macchina dei soldi facili stia facendo rombare i motori ci ha pensato l'influente capo
economista di Citigroup, Willem Buiter, parlando la scorsa settimana al potente e prestigioso Council of Foreign
Relations a New York. E cosa ha detto? Che l'economia cinese sta scivolando in una recessione imminente, che
quindi occorre un'esplosione enorme di spesa fiscale da parte della PBOC per evitare un peggioramento della
crisi e che il dollaro, altrimenti, rischia di sfondare il tetto, alimentando ulteriormente la crisi dei mercati
emergenti. Insomma, l'Armageddon o poco meno. E la ricetta è sempre la stessa: curare eccesso di debito con
altro debito. Per Buiter, se non si riattiverà la stamperia, l'economia cinese crescerà di meno del 4%, rispetto alle
previsioni fantascientifiche del governo di un +7%, di fatto facendo crollare il tasso di crescita globale sotto il 2%,
in quella che per molti economisti è un recessione globale tecnica.
Eppure, qualcosa non torna. Se lo stesso dipartimento equity di Citigroup ha detto che i crolli azionari cinesi di
agosto sono più una tipica correzione di fine ciclo che un trend ribassista di grande entità, perché Buiter va a
chiedere una ricetta stile Takahashi Korekivo nel Giappone anni Trenta di fronte a una delle consorterie
lobbystiche più potenti del mondo? Non è che la Cina rappresenti una scusa, un alibi molto comodo per evitare
che la Fed smetta di fornire metadone al mercato e che i trades di Citigroup, vedi l'esposizione ai derivati sui
metalli preziosi, vadano a quel paese con allegate perdite per decine di miliardi? Mi viene un dubbio ed è venuto
anche a un americano vero come Ron Paul, il quale l'altro giorno ha detto chiaramente di dare la colpa alla Fed e
non alla Cina per i recenti tonfi sui mercati. Pechino, infatti, sta già dando vita a politiche di stimolo che esulano
dal mero sostegno diretto agli indici equities, visto che nei soli mesi di giugno e luglio i governi locali hanno
emesso bond per 200 miliardi di dollari nell'ambito del piano governativo centrale di swap sul debito, di fatto
l'equivalente di nuovi prestiti da parte delle banche per aziende con l'acqua alla gola. Peccato che il debito locale
cinese sia pari a oltre il 30% del Pil, quindi è facilmente a rischio bolla. E default sulle obbligazioni.
Di più, il ministro delle Finanze, Lou Jiwei, venerdì scorso ha dichiarato che il cap su quei bond potrebbe essere
alzato da 310 miliardi di dollari a 500 miliardi, di fatto altra forma di stimolo. Inoltre, il governo ha pianificato di
anticipare a quest'anno progetti infrastrutturali pubblici previsti per il 2016, insomma un salto nella spesa fiscale
di più del 13% rispetto a quanto programmato e messo a budget nella seconda metà dell'anno: si tratta di lavori
legati a infrastrutture per la distribuzione di acqua, case a basso costo per lavoratori migranti e ferrovie. In parole
povere, la politica fiscale è già la leva primaria della Cina, anche se come vi ho spiegato ieri la svalutazione dello
yuan comporta fughe di capitali e il supporto alla valuta sta drenando fondi dalle riserve che non andranno più
all'acquisto di debito estero e altri assets. Ed è proprio la rottura di questa dinamica di riciclaggio globale del
biglietto verde, a partire dai petrodollari, che arma le tesi dei vari Buiter del mondo, altro che ricette per uscire
dai rischi recessivi.
Della Cina non fa paura il debito o la Borsa ma lo yuan. Operando come ha fatto, la PBOC ha limitato e di molto il
ruolo del mercato nel breve termine per quanto riguarda la definizione del tasso di cambio giornaliero e questo
cosa significa: semplice, un ruolo maggiore della Banca centrale nel supporto della moneta attraverso la
liquidazioni di riserve valutarie, ovvero la vendita su scala imponente di debito Usa. Vi ricordo che solo nelle due
settimane seguite alla prima svalutazione dell'11 agosto, Pechino ha venduto Treasuries per un controvalore di
oltre 100 miliardi di dollari e se raggiunge quota 1 triliardo, il 60% dell'effetto di stimolo del QE3 della Fed sarà
andato a farsi benedire. Quindi, il problema non nasce ora con la Cina ma dieci mesi fa con il crollo del prezzo del
petrolio e il declino netto del concetto stesso di petrodollari, ovvero il surplus dei Paesi esportatori di greggio che
rientra in circolo nel sistema finanziario attraverso l'acquisti di assets denominati i biglietti verdi: per la prima
volta dopo venti anni, il 2015 ha visto quei Paesi drenare risorse dal sistema, non immetterle, Arabia Saudita in
testa. La quale, come vi ho detto mille volte, ha scelto l'opzione petrolifera per mettere al tappeto i produttori
shale Usa e proteggere la propria quota di mercato, essendo il 90% delle entrate fiscali di Ryad legato al petrolio
esportato. Ma con il crollo del prezzo, come ho detto nei miei articoli di sabato e lunedì, la stessa Arabia non
immette più dollari nel sistema ma, esattamente come la Cina, sta mettendo mano alle proprie riserve per tamponare il deficit di bilancio, 20% del Pil.
Nessun commento:
Posta un commento