15 ottobre 2015


Inflazione: una questione solo monetaria?
Roma, 15 ott – In modo del tutto prevedibile, Draghi ha annunciato che per tornare ad un tasso d’inflazione annuale del 2% occorrerà un non ben specificato “più del previsto”.
Può essere una buona occasione per fare qualche ragionamento intorno a questo misterioso argomento che tanto turba il sonno dei liberisti, in modo da far capire per quale motivo, in effetti, Draghi ha semplicemente detto che l’acqua bagna o il fuoco brucia.
Oramai il lavaggio del cervello delle masse è arrivato al punto tale che si accetta acriticamente la teoria quantitativa della moneta (in cui, peraltro, era caduto anche Pound), ovvero l’idea dell’inflazione come fenomeno monetario. Gli economisti neoliberisti ci dicono che la colpa dell’inflazione è dello Stato parassita che “stampa moneta” per coprire i suoi disastrosi deficit di bilancio, e quindi dato che c’è più moneta a caccia degli stessi beni e servizi, è naturale che i prezzi si alzino.
Il ragionamento, a livello teorico, fila, lo capirebbe anche un bambino. Ma si è mai visto un bambino capire qualcosa di qualsivoglia argomento al di fuori dei film di Hollywood? No, ed in effetti la teoria quantitativa della moneta è una fantozziana “cagata pazzesca”. A parte che non è lo stampare moneta ma lo spenderla che ha effetto sull’economia reale, aumentare la spesa (in gergo la “domanda aggregata”) potrebbe certo produrre un aumento dei prezzi, ma se la logica non è un’opinione, solo ed esclusivamente nel caso in cui le imprese non riescano ad adeguare l’offerta di beni e servizi in tempi ragionevolmente rapidi. Esiste però, in situazioni normali, un solo caso in cui esso possa accadere: la piena occupazione.
Quindi, da cosa dipendono i prezzi? La risposta potrà apparire banale, ma una impresa fissa i prezzi sulla base, essenzialmente, dei costi che deve sostenere: salari, energia, tasse, interessi, fornitori, ecc…
Concentriamoci sulla prima di queste voci, che è poi il maggiore dei costi incomprimibili e chiediamoci esattamente quando è che i salari aumentano. Per la legge della domanda e dell’offerta, i salari aumenteranno quando il lavoro sarà più scarso, ovvero la disoccupazione più bassa, ovvero i sindacati più forti e quindi capaci di strappare salari più alti alla parte datoriale.
Tramite la sua spesa pubblica in deficit lo Stato è in grado di riassorbire la disoccupazione, e questo ha appunto effetti inflattivi. Certo, dato che anche la produttività cresce – perché si investe in infrastrutture e capitale fisico – e l’aumento del potere d’acquisto dei lavoratori in situazioni normali sarà maggiore dell’aumento dei prezzi se le politiche di spesa sono oculate, e se magari alle imprese vengono offerte condizioni fiscali più umane, ergo si potrebbe dire che gli unici che ci rimettono veramente da una politica fiscale espansiva siano banche e redditieri, che vedono i loro asset finanziari svalutarsi gradualmente.
Questo è vero solo in parte, come già notava Michał Kalecki, economista polacco contemporaneo di Keynes, che aveva compreso le implicazioni meramente politiche del pieno impiego, contrariamente al Lord inglese che considerava la questione solo dal punto di vista macroeconomico. Gli imprenditori, che pure dalla piena occupazione avrebbero da guadagnarci, sono stati “catturati” all’interno della narrazione imposta da banche e redditieri per un motivo squisitamente politico. Nella piena occupazione, infatti, salta la disciplina del lavoro e la pace sociale, non essendo più il licenziamento uno strumento cogente di politica aziendale. Per cui, nota Kalecki, è preferibile un minor profitto compensato però da un maggior potere e quindi ruolo sociale e politico.
Ovviamente è un discorso suicida, in particolare per le pmi che contrariamente alle multinazionali non possono abbattere i propri costi delocalizzando, perché ha portato i governi a rinunciare al controllo sulla propria banca centrale, finendo strangolati dagli interessi usurai imposti dai “mercati” e quindi rinunciando (o comunque ridimensionando notevolmente) ogni politica di sostegno alla domanda aggregata.
In questa situazione, solo i detentori di asset finanziari, i cosiddetti creditori prosperano a causa della bassa inflazione, mentre anche le imprese languono per la progressiva erosione del mercato. Certo, è colpa anche loro, perché già Ford aveva capito che non si può avere la botte piena (alti profitti) e la moglie ubriaca (bassi salari), ma in effetti lui era un illuminato.
Ci vorrebbe un sistema più efficiente di mediazione politica del conflitto distributivo, perché oramai si è visto che la mera “concertazione” ha avvantaggiato solo la parte datoriale la quale si è così suicidata ed è oramai in balia del capitale straniero. Che sia giunto il momento per un nuovo corporativismo?
Forse, l’importante è comunque aver capito cos’è veramente l’inflazione e quale è la portata politica del suo controllo. E quindi capiamo anche perché Draghi sta semplicemente mentendo:il suo futile Quantitative Easing non inietta liquidità nell’economia reale, non pompa la domanda aggregata, ma semplicemente assorbe nel bilancio della Bce asset marci di varia natura (in particolare titoli di Stato) abbattendone i rendimenti.
Non avremo la piena occupazione in questo modo. Solo l’ennesima bolla speculativa finanziaria.
Matteo Rovatti
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