Il commento. Guerra e diffidenza rischiano di radicalizzare “l’infelicità araba”
Pubblicato il 21 novembre 2015 da Andrea Di Consoli
Categorie :
Esteri Politica

Periferia di Damasco
Quando
s’invoca il cosiddetto islam moderato – e quasi sempre si usa la parola
“moderato” in un’accezione puramente eurocentrica – spesso ci si
immagina interlocutori astratti modellati a nostra immagine e
somiglianza. Tale immaturità culturale determina un pericoloso
assottigliamento del campo degli interlocutori, poiché in Occidente si
pretende che gli islamici moderati siano, appunto, moderati alla maniera
occidentale, e dunque laici, pluralisti, democratici e liberali.
Anziché
cercare nel mondo musulmano interlocutori con i quali instaurare un
dialogo a partire da alcuni fondamentali comuni denominatori – che poi
non sarebbe altro che l’ennesima declinazione del dovere etico-politico
del “male minore” – non si fa altro che demolire tutti i nemici
musulmani del terrorismo islamista cercando nelle loro parole, con zelo
irresponsabile, aspetti poco democratici, o poco laici, o poco
occidentalisti.
Questo
pericoloso purismo democratico-culturale determina due effetti nefasti:
da un lato un impoverimento del concetto di alterità e di “diversità”;
dall’altro, una pericolosa solitudine degli islamici moderati, e dunque
un rafforzamento degli estremismi.
Prendiamo
il caso di Ahmed al-Tayeb, Grand Imam di al-Azhar del Cairo, la più
importante università e moschea del mondo sunnita. Nei mesi scorsi è
stato duramente criticato, in specie dalle destre più marcatamente
“fallaciane”, per aver detto che i terroristi dell’Isis dovrebbero
“essere uccisi e crocefissi”. Le critiche ad al-Tayeb erano ben motivate
da un’intervista concessa alla rivista “Formiche” dal giornalista
esperto di Medio Oriente Carlo Panella. Alla precisa domanda di Michele
Pierri (“La condanna dell’università cairota al-Azhar alle violenze
dell’Isis rappresenta uno spartiacque nel mondo islamico?”) Panella
rispondeva: “No, al contrario. Non era nemmeno la prima volta che il
jihadismo veniva condannato, ma il tema è un altro. Il Grand Imam del
centro teologico ha detto che i jihadisti del Califfato andrebbero
crocefissi e bisognerebbe tagliare loro le mani e i piedi. Parole che
dimostrano come non esista affatto un islam moderato e che la sua
risposta all’estremismo non è poi così diversa dai metodi da chi si
dichiara di voler combattere”.
Eppure
al-Tayeb è lo stesso che, all’indomani degli attentati parigini dello
scorso 13 novembre, ha espresso “profonda condanna degli assurdi
attacchi terroristici a Parigi a nome dell’Islam che è innocente sul
terrorismo”. Una dichiarazione non di poco conto, visto che il Grand
Imam del Cairo può essere considerata la massima autorità dell’Islam
sunnita. Evidentemente una parte cospicua dell’intellighenzia
occidentale è disposta a rinunciare ad alleati e interlocutori nel mondo
islamico per la sola ragione che non sono perfettamente allineati ai
nostri “valori”. Capitò ieri per Hosni Mubarak – rimpianto da tutte le
diplomazie responsabili – e capita oggi per Bashar al-Assad. Pur di non
“chiudere un occhio” – la politica è anche l’arte di saper chiudere un
occhio – si preferisce rifiutare in blocco la mano tesa dei nemici “in
loco” dei terroristi. E’ come se Churchill, anti-bolscevio di ferro,
avesse rifiutato l’anti-nazismo di Stalin in ragione dei suoi “valori”,
permettendo così al nazismo di rafforzarsi e di mangiarsi l’intera
Europa.
Ai
cosiddetti islamici moderati non possiamo chiedere di essere allineati
con il nostro impianto culturale laico e liberale, né di risolvere ad
horas il tema della simmetria imperfetta tra Corano e Stato o, detto in
altri termini, tra Islam e democrazia. Ogni dialogo deve partire
dall’accettazione tollerante e paziente delle alterità storiche e
culturali e dalla condivisione di almeno un obiettivo chiaro e
irrinunciabile: indebolire e isolare il terrorismo e l’estremismo
ideologico islamista.
Ma se si affronta il terrorismo
con la guerra militare e l’islam moderato con diffidenza e con
alterigia, il rischio è di radicalizzare quella che Samir Kassin
definiva “l’infelicità araba”, e dunque la solitudine di un
mondo in maggioranza pacifico ma combattuto psicologicamente tra le
inopportune richieste di abiurare e la tentazione di un ethos del sangue
e di una oscura tradizione visionaria e palingenetica.
L’Occidente
dimostri di essere responsabile fino in fondo e provi a ritrovarsi
almeno su questo minimo comune denominatore strategico: riconoscere nel
Grand Imam Ahmed al-Tayeb la voce più importante e autorevole del mondo
musulmano.
Di Andrea Di Consoli
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