Derivati sul debito, il Tar sanziona i giornalisti che vogliono informare
Ieri la Terza sezione del
Tar del Lazio non solo ha rigettato il mio ricorso per accedere ai
contratti sui derivati che contribuiscono a gonfiare il debito pubblico
italiano, ma mi ha anche condannato a pagare 1000 euro di spese legali
al Ministero dell’economia. Il Foia annunciato per Natale scioglierà
questo bavaglio all’informazione?

(La sede del Tar del Lazio – Foto: Ap/LaPresse)
Proibito sapere. Soprattutto se sei giornalista e cerchi di fare il tuo mestiere: informare.
Sì, perché per essere quei cani da guardia del potere che vogliono i
manuali di giornalismo, prima dovremmo conoscere ciò di cui parliamo. Ma
chiedere informazioni allo Stato italiano è proibito, e pure sanzionato
a suon di multe. È questo il senso della sentenza della Terza sezione del Tar del Lazio
che ieri mi ha condannato a pagare 1000 euro per spese legali al
Ministero dell’Economia e delle Finanze al quale, lo scorso marzo, avevo
chiesto copia di contratti e relativi “termsheet”, le condizioni che
regolano i contratti che ha stipulato sul pachidermico debito italiano.
Come avevo cominciato a raccontare mesi fa, l’Italia è la più esposta in Europa su
questo fronte con 159 miliardi di euro di contratti sottoscritti per
stabilizzare il suo debito. Per capire quanto sia importante basti
sapere che lo Stato Italiano ha subito un aumento del debito pubblico di 16,95 miliardi di euro, perdite reali effettivamente sborsati dai contribuenti italiani, e perdite potenziali per 42 miliardi (6 miliardi in più della finanziaria 2015).
Visti i numeri, l’interesse pubblico e giornalistico a conoscere i “termsheet”,
le condizioni che regolano questi contratti, ha bisogno di poche
spiegazioni e per questo ho continuato a raccontarne l’opacità qui, qui, qui e qui.
Ma prima ancora delle ragioni del rigetto, l’aspetto più paradossale della sentenza è che la condanna a sostenere le spese è arrivata nonostante la mia richiesta via Pec sia rimasta senza risposta. La perseveranza è la prima cosa che ti insegnano in redazione, ma al Tar, che pur conosceva la mancata risposta del Mef in spregio ai principi di buona amministrazione, la mia insistenza sul diritto di cronaca è sembrata talmente fuori luogo da meritare una sanzione (non alla testata ma ad personam perché il ricorso al Tar è fatto a titolo individuale).
Qualche mese fa, Guido Scorza e Alessandro Giglioli, nel loro “Meglio se taci” (Baldini&Castoldi), sottolineavano le contraddizione delle norme italiane sulla libertà di parola, ma il messaggio questa volta è chiaro e netto: chiedere è proibito.
Ma veniamo alle ragioni vere e proprie
del rigetto, che hanno fatto sobbalzare più di un giurista che ha a
cuore la libertà di informazione.
1. Il Tar squalifica i giornalisti.
Non solo il sottoscritto, ma tutta la categoria è messa fuori gioco
perché il Tar, pur richiamando le sentenze del Consiglio di Stato che
sanciscono un interesse qualificato del giornalista e riconoscendo che
la mia inchiesta è “ispirata all’apprezzabile fine di svolgere attività di informazione a vantaggio della pubblica opinione” sul “delicato tema dei contratti derivati in ambito pubblico”,
sancisce che non ho un interesse qualificato a conoscere. È un segnale
obliquo e preoccupante per la libertà di informazione, perché dice, di
fatto, che anche gli altri giornalisti che potrebbe voler far domanda
dopo di me, potrebbero andare incontro alla stessa condanna.
2. La pubblica amministrazione non si controlla.
Da un punto di vista giuridico la sentenza è scorretta perché mi
contesta una richiesta volta al controllo generalizzato dell’operato
della pubblica amministrazione (ebbene sì, a dispetto delle belle parole
dei politici sull’importanza del controllo diffuso da parte dei
cittadini, questo non è ancora possibile in Italia). Anche questo non è
vero perché ho chiesto una serie ben definita di documenti, i contratti
appunto.
3. Sentenze o politica? Il passaggio più spiazzante sono però le ultime dieci righe
nelle quali i giudici si lasciano andare a considerazioni di
opportunità che hanno certamente più a che fare con la politica di
palazzo che con l’indipendenza del potere giudiziario da quello
esecutivo. Il Collegio della Terza sezione del Tar del Lazio infatti
spiega che: “Appare inoltre condivisibile la considerazione esposta
dalla difesa erariale (vedi pag. 5 della memoria di costituzione)
secondo cui la divulgazione di tali contratti (a prescindere dalla
riconducibilità di essi ad una specifica fattispecie coperta da
riservatezza) avrebbe riflessi pregiudizievoli sulle attività in derivati poiché
determinerebbe un svantaggio competitivo dello Stato nei riguardi del
mercato e porrebbe in svantaggio competitivo gli stessi istituti di
credito, controparti del Tesoro nei contratti in oggetto, così
pregiudicando la disponibilità di essi ad applicare condizioni
favorevoli con ripercussioni negative sull’intera gestione del debito
pubblico. Sicché il diniego non appare né pretestuoso né immotivato
bensì fondato su elementi di primario rilievo per l’interesse pubblico
finanziario.”
Un’aggiunta che sorprende perché in realtà la legge
italiana non prevede alcuna possibilità di valutazione discrezionale
sull’accesso agli atti.
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