IL CASO BANCHE
Caso Banca Etruria
Il crac di Arezzo: potere e segreti
Le metamorfosi della città dell’oro dove il Pd ha il vestito
della Dc e la banca riflette la crisi d’identità
La
pioggerellina sottile e dorata dello sponsor Banca Etruria bagnava
tutto. Il Volley Arezzo. Il baseball. Il Lions hockey club. Il Vasari
rugby. L’unione ciclistica aretina. Il circuito tennistico Vallate
aretine. Il Golf Casentino. Poi i corsi di atletica leggera, la Società
ginnastica Petrarca, il Giro ciclistico della Toscana. Perfino la
squadra di calcio femminile. E come a Siena il Monte dei paschi ha
sempre foraggiato il Palio, poteva astenersi Banca Etruria dal sostenere
la Giostra del Saracino?
Dice Rossano Soldini che il
paragone fra le due città toscane è improprio. Siena dipendeva
totalmente dal Monte dei paschi. Così invece non è qui. Ma la botta è
stata tremenda. «La banca era un organo vitale di Arezzo. E ora non si è
diffusa la paura. Lo sa le telefonate di amici, anche influenti in
città, che mi chiedono se fanno bene a tenere lì i soldi? Questo
atterrisce…».
Le parole di Soldini fanno
correre un brivido lungo la schiena. Lui è fra gli aretini più in vista.
Ha un’azienda di scarpe con 200 dipendenti e ha visto la bestia
dall’interno. È stato nel consiglio di amministrazione ai tempi del
blitz da cui, dice, è partita la valanga. Cambiò tutto un giorno di
maggio del 2009. Il consiglio si riunì e sfiduciò il presidente Elio
Faralli, 87 anni, confermato solo un mese prima: otto a sette, con il
voto decisivo di un consigliere che aveva affidamenti monstre dalla
stessa banca e poi fece crac. E arrivò Giuseppe Fornasari, una vecchia
volpe democristiana sottosegretario con Andreotti. «Si raccontò»,
ricorda Soldini, «che la banca passava dalla massoneria all’Opus Dei.
Erano fesserie. La verità è che aveva già perso identità locale. Troppi
consiglieri non erano di Arezzo e i finanziamenti andavano ad aziende di
fuori».
Fesserie? Può darsi. Ma il
travaso bianco ai vertici è un fatto, e non si è fermato lì. Bianco,
Fornasari. Bianco, il vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del
ministro delle riforme Maria Elena Boschi ed espressione della bianca
Coldiretti. E bianco pure il cattolico Lorenzo Rosi, presidente dopo
Fornasari. Quanto ai finanziamenti dati fuori, era storia già vecchia.
Fino agli anni Ottanta l’identificazione
fra banca e città era totale. Da ogni punto di vista. Alla filiale di
Castiglion Fibocchi c’era il conto «Primavera» sul quale affluivano i
soldi della loggia P2 di Licio Gelli. «Un aretino illustre», l’ha
definito senza infingimenti il sindaco Alessandro Ghinelli quando
qualche giorno fa è morto. Un decesso che ha chiuso un’epoca
inquietante, con qualche sollievo ipocrita. Quelli che contano hanno
riempito di telegrammi la famiglia ma hanno disertato la camera ardente.
Con le sole eccezioni dell’ex patron dell’Arezzo Calcio Piero Mancini e
di Antonio Moretti, imparentato con i Lebole dell’azienda tessile che
il Venerabile fece comprare all’Eni.
Soprattutto, la popolare era la
banca dell’oro, nota per il «prestito d’uso». Anziché i soldi, prestava
alle imprese l’oro mettendole al riparo dai saliscendi delle quotazioni.
C’erano un tempo più di duemila aziende, con trentacinquemila addetti.
Un numero impressionante, pari al 10 per cento di tutti gli abitanti
della provincia. «La crisi ci ha massacrato. Siamo rimasti in 1.200, con
13 mila addetti. E anche il rapporto con l’Etruria è cambiato: tante
altre banche oggi fanno il prestito d’uso...», confessa la presidente
degli orafi toscani di Confindustria Giordana Giordini. Ma la crisi ha
massacrato anche il tessile e il mobile, con altri riflessi pesanti, al
di là delle malversazioni, su una banca sempre meno aretina.
Anche perché, dopo il 1988, in
seguito alla fusione con la popolare dell’Alto Lazio, il baricentro si
era spostato inevitabilmente più a Sud. Soldini colloca il momento della
svolta «intorno al 2005 o al 2006». Anni cruciali. Gli anni della fine
della giunta di centrodestra di Luigi Lucherini e dell’arrivo di
Giuseppe Fanfani: nipote di Amintore Fanfani, «cavallo di razza» della
Dc, pittore per diletto come lo zio. E democristiano a quattro ruote
motrici. Consigliere comunale, quindi alla Provincia, segretario
provinciale del partito e parlamentare margheritino. Perfino presidente
di una Usl, lui che di mestiere fa l’avvocato. Poi sindaco. Nel 2006
vuole tornare alla Camera ma viene trombato. Siccome però si è candidato
anche al Comune dove il sindaco di centrodestra Luigi Lucherini è stato
spazzato via da un’accusa di abuso d’ufficio, eccolo primo cittadino.
Quattro anni dopo il suo partito, nel frattempo diventato Pd, gli
propone un posto al Csm. Ma lui rifiuta, sostenendo che è «un dovere
istituzionale» restare lì. Nel 2014 però cambia idea: quando passa di
nuovo il treno del Csm molla Arezzo e ci salta sopra. Professando: «È
l’incarico più importante della mia vita». La ciliegina su una torta
condita da una dichiarazione di fedeltà a Renzi.
Amintore Fanfani ad Arezzo fece
passare l’Autostrada del Sole, nientemeno. Del nipote, invece, gli
aretini più maligni rammentano un tuffo nella fontana della stazione
quando l’Italia vinse i Mondiali di calcio del 2006. Nonché una piazza
intitolata allo zio. Oltre ai manager di Banca Etruria patrocinati dallo
studio legale Fanfani.
Tutto qui? La prova che il suo
decennio non è stato indimenticabile si è avuta sei mesi fa, quando
Ghinelli, figlio di un ex segretario missino, ha stracciato alle
comunali il renzianissimo e cattolico Matteo Bracciali. Una sconfitta
bruciante per un Pd che qui ha vestito integralmente i panni della
vecchia Dc. Insieme forse agli antichi vizi. Così non poteva mancare,
come il capogruppo di Fratelli d’Italia in Comune Francesco Macrì, chi
attribuisce la responsabilità del crac a quei «sistemi di potere
contigui alla politica». Ha ragione? Chissà. Certo questo è un film già
visto tante volte, con attori forse soltanto un po’ più giovani…
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