La green economy di Renzi? Più trivellazioni, meno rinnovabili
«L’Italia farà la sua
parte» perché «siamo tra i protagonisti della green economy». Parola di
Matteo Renzi all'ultimo Cop21. Ma i dati di Legambiente raccontano
un’altra storia
3
Dicembre
2015
«L’Italia farà la sua parte» perché «siamo tra i protagonisti della
green economy». Parola di Matteo Renzi. Con queste dichiarazioni, lunedì
il nostro Presidente del Consiglio si è lanciato, insieme agli altri
grandi della Terra, nelle importanti promesse che hanno dato il via ai
lavori del Cop21, la riunione delle Nazioni Unite sui cambiamenti
climatici e sulle politiche energetiche da adottare nel rispetto
dell’uomo e dell’ambiente.
Peccato però che i dati raccolti da Legambiente offrano un altro quadro
rispetto a quello prospettato dal premier. «Il Governo Renzi fino ad
oggi – ci dice Edoardo Zanchini, vicepresidente Nazionale di Legambiente
e responsabile dei settori energia e trasporti – ha impresso al Paese
una direzione di marcia in campo energetico che fa l'interesse solo dei
grandi gruppi energetici, legati alle fonti fossili. Sono i
provvedimenti in materia di trivellazioni di petrolio e gas, con
permessi e autorizzazioni semplificate, a raccontarlo. E, in parallelo, i
provvedimenti che hanno fermato le rinnovabili con tasse e barriere».
Basti questo: nel 2014 e 2015 sono diminuite in modo drastico le
installazioni da fonti rinnovabili in Italia. In soldoni? Se si guardano
le installazioni di solare fotovoltaico ed eolico, siamo passati da
10.663 Megawatt nel 2011 a 733 nel 2014. Un calo drastico, per usare un
eufemismo. Ma il problema, commentano dall’associazione ambientalista, è
che «nel 2015 questa situazione si ripete e con questi numeri si può
solo dire stop alla crescita del contributo delle rinnovabili – arrivato
al 40% circa dei consumi elettrici - che aveva garantito in questi anni
la riduzione delle importazioni di fonti fossili, del prezzo
dell’energia elettrica, delle emissioni di gas serra». Insomma, checché
ne dica il premier Renzi, viste le premesse, non c’è molto da esultare
in quanto a green economy.
Addio incentivi
Per carità: non che gli esecutivi precedenti – da Monti a Letta –
siano stati da meno. Ma, per così dire, in campo energetico Renzi è
riuscito a dare il peggio di sé. Legambiente elenca, in maniera
dettagliata, tutti gli ambiti di (cattivo) intervento dell’attuale
governo. A cominciare dalla decisione di cancellare definitivamente gli
incentivi per il solare fotovoltaico. Una strada, questa, che aveva
permesso di installare fino al 2013 qualcosa come 17.647 Mw. Il problema
è che invece di monitorare il sistema e intervenire per ridurre gli
incentivi, nel momento in cui era evidente che il prezzo dei pannelli si
era ridotto e la situazione stava sfuggendo di mano (per l'intervento
soprattutto di fondi speculatori), si è deciso di cancellarli per
sempre, al contrario – per dirne una – di come avviene in Germania, dove
invece il conto energia continua ad essere in vigore, con un sistema di
incentivi che si riducono progressivamente con l'aumentare delle
installazioni.
Ma non basta. Perché in Italia, ad esempio, anche meccanismi
alternativi agli incentivi come l'autoproduzione o lo scambio di energia
con la rete sono fortemente penalizzati o addirittura vietati
all’interno di condomini, distretti produttivi, aree urbane. Spazio poi a
eolico, idroelettrico, biomasse e geotermia. O, meglio, pochissimo
spazio. Il governo, infatti, secondo quanto denuncia ancora Legambiente,
ha presentato un decreto per le "rinnovabili non fotovoltaiche" con
incentivi bassi (i tagli sono nell’ordine del 40% per gli incentivi
destinati ai piccoli impianti eolici e del 24% per il mini
idroelettrico) e, soprattutto, con una scadenza troppo vicina (fine
2016). Due pecche che, di fatto, rendono impossibile la programmazione
di eventuali investimenti. Tutt’altra cosa, invece, per le biomasse
bruciate nei grandi vecchi zuccherifici: sono previsti generosi
incentivi con tariffe garantite per ben 20 anni e una spesa complessiva
di 1,2 miliardi di euro da pagare in bolletta «per impianti che nulla
hanno di sostenibile».
Basta così? Certo che no. C’è ancora un’ultima beffa. Fino ad oggi,
infatti, l'accesso ai cosiddetti «certificati bianchi» (i TEE, titoli di
efficienza energetica) che permettono alcuni importanti incentivi
energetici, era possibile anche per le fonti rinnovabili. Ad esempio per
alcune categorie di intervento legate al solare fotovoltaico, alle
caldaie a biomasse per usi agroindustriali e civili, agli impianti con
pompa di calore geotermica. Ora, con l’ultima proposta del Governo – e
in particolare del ministero dello Sviluppo Economico - non si potrà più
accedere a questi incentivi. La ragione? L’esistenza di altri strumenti
di incentivazione delle energie rinnovabili. Peccato però, dicono da
Legambiente, che sia «falso» che questi interventi godano di altre forme
di incentivazione.
Eolico, questo sconosciuto
E, se da una parte si provvede a tagliare di fatto tutto ciò che è
rinnovabile, dall’altra la politica portata avanti per petrolio e gas
suona completamente diversa. Una svista evidente soprattutto in
relazione agli interventi possibili in mare. Nonostante mille
possibilità e nonostante le forti potenzialità di valorizzazione
dell’energia del vento, stimate dall'Anev (Associazione Nazionale
Energia del Vento) in circa 2.500 Mw capaci di soddisfare i fabbisogni
elettrici di 1,9 milioni di famiglie, in Italia pare proprio che non ci
sia spazio per l’eolico off-shore. Negli ultimi anni sono stati
presentati 15 progetti di impianti eolici al largo delle coste italiane.
Sono tutti incredibilmente fermi. Eppure, il Piano di azione nazionale
sulla promozione delle fonti rinnovabili prevedeva per gli impianti
eolici off-shore un obiettivo crescente dai 100 Mw che si sarebbero
dovuti installare nel 2013 fino ad arrivare a 680 Mw nel 2020. Obiettivo
di fatto impossibile da raggiungere, considerando che siamo ancora a
zero installazioni.
Emblematico, a riguardo, il caso del Molise. Viene presentato un
progetto nel 2006 per un impianto che sarebbe dovuto nascere ad alcuni
chilometri di distanza dalle coste di Termoli, in provincia di
Campobasso. Ebbene, dopo nove anni di procedure e una Valutazione di
impatto ambientale positiva, la Regione Molise ha fatto ricorso
bloccando tutto. Il Consiglio di Stato, allora, ha assegnato la scelta
finale al Consiglio dei ministri, che si è pronunciato definitivamente
il 19 maggio 2015. Nella lettera si specifica che Palazzo Chigi
preferisce non occuparsi della questione. Ergo: il progetto deve
ripartire da zero. Per nove anni abbiamo solo scherzato.
Petrolio e gas: trivellazioni a gogo
Tutt’altra musica, come detto, per quanto riguarda le trivellazioni
al largo delle coste per l’estrazione di petrolio e gas. «La ragione –
spiega Edoardo Zanchini - sta nell'idea novecentesca che il Governo ha
dell'energia. Un idea testimoniata, da ultimo, nell'intervento del
Presidente del Consiglio a Parigi nella Conferenza sul clima quando ha
citato come "campioni nazionali" nella lotta ai cambiamenti climatici
l'Eni e l'Enel». Non stupisce allora che, se in Germania Angela Merkel
si vanta dei successi nelle rinnovabili realizzate attraverso un modello
distribuito, fatto da centinaia di migliaia di impianti, «purtroppo in
Italia, fino ad oggi, questo cambiamento epocale – continua Zanchini - è
visto come pericoloso per il sistema e gli interessi che fino ad oggi
lo hanno dominato».
Insomma, meglio trivellare che rinnovare. Qualche numero per capire
di cosa stiamo parlando. Solo nella zona dell’alto Adriatico, la
produzione nel 2014 è stata di 3.336 milioni di Sm3 («standard metro
cubo», l’unità per misurare la quantità di gas a condizioni standard di
temperatura e pressione. Per definizione è la quantità di gas necessaria
ad occupare un metro cubo di volume), circa il 69% del totale estratto
in mare, che a livello nazionale nel 2014 è stato di 4.863 milioni di
Sm3. Le concessioni attive in questa zona ad oggi sono 39. Senza
dimenticare i nove permessi di ricerca attivi nell’area per un totale di
2.312,92 kmq. Né va meglio nella zona del Medio e Basso Adriatico. Come
denunciato dalle associazioni ambientaliste, infatti, in soli dieci
giorni, dal 3 al 12 giugno, i Ministri dell’Ambiente e dei Beni
Culturali hanno firmato dieci decreti che formalizzano la chiusura con
esito positivo di altrettante procedure di Valutazione di impatto
ambientale riguardo richieste di permessi di prospezione o ricerca nel
mar Adriatico. Risultato? Attività di ricerca per idrocarburi in un’area
complessiva di 4.782 kmq.
Senza, ovviamente, dimenticare le 21 concessioni di estrazione di
idrocarburi (gas e petrolio) attive oggi. Ma non basta. Perché, secondo
gli ultimi dati, ci sono 20 istanze di permesso di ricerca, a diversi
stadi dell’iter amministrativo e che potrebbero essere presto sbloccate,
per un totale di altri 6.161 kmq. Il governo fa spallucce. Insomma, è
necessario un evidente cambio di rotta. E, in questo, la Cop21 di Parigi
potrebbe già essere un importante traguardo, visti gli impegni nella
riduzione delle emissioni di CO2.
«L'Italia – continua Zanchini - in quanto parte dell'Unione Europea,
non potrà che rivedere le scelte approvate in questi 20 mesi dal Governo
Renzi». E un primo passo potrebbe essere rappresentato dalla proposta
presentata dalla stessa associazione insieme ai Radicali Italiani:
#menoinquinomenopago. In pratica, si tratta di rivedere la fiscalità
energetica sulla base di obiettivi ambientali. «Se si studia a fondo il
bilancio dello Stato – ci spiega Zanchini - ci si rende conto di come vi
siano sussidi diretti e indiretti che premiano inquinamento e rendite.
Esemplari sono i sussidi nella fiscalità energetica, con esenzioni per
tutta una serie di categorie, come gli autotrasportatori e i grandi
consumatori senza alcuna trasparenza. Oppure la tassazione sulle cave
bassissima in Italia o allo stesso modo quella sul prelievo di acque
minerali. La nostra proposta è di rendere finalmente trasparente questa
tassazione, fissando obiettivi e regole in modo da premiare
l'innovazione ambientale, l'efficienza energetica, chi investe nella
green economy». In questo modo, dicono da Legambiente, si potrebbero
spostare importanti risorse e mettere in moto investimenti per oltre 5
miliardi di euro.
Peccato, però, che il governo Renzi abbia fatto scadere i termini per
esercitare la delega fiscale su questi temi nel 2015. E nella Manovra?
«Il tema non esiste nemmeno». Ennesima occasione sprecata. L’unica
speranza, ora, è che la proposta venga recepita nel «Green Act»
annunciato dallo stesso Renzi. Ma, viste le premesse, c’è poco da
esserne sicuri.
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