Mario Giro
Sottosegretario del Ministero degli Affari Esteri
"Hai il numero dell'Onu?", la guerra in Siria raccontata da una reporter di guerra
"Aisha, nove anni, mi allunga un biglietto... "Scrivi di
venirci a prendere, non scrivere cose inutili". Poi vede il mio telefono
e dice "hai il numero dell'Onu?". Ecco la domanda davanti alla
catastrofe siriana, e in specie quella di Aleppo che
Francesca Borri ci descrive nel suo
La guerra dentro, pagine terribili e sofferte ma anche un tentativo di spiegare il caos.
Dov'è
il numero dell'Onu perché finalmente venga e si porti via i bambini
impauriti, le loro madri e i loro padri sbigottiti da questa guerra
senza fine? Dov'è il nostro numero, quello della comunità
internazionale? Ce lo chiede una bambina che ha visto il suo mondo
crollarle attorno.
Oggi Aleppo è una polveriera
dove le distanze non contano, i soggetti cambiano, non c'è demarcazione
tra buoni e cattivi, tutto è mobile salvo il destino dei civili,
nascosti nelle cantine buie, sotto i bombardamenti, con rischio di
essere uccisi dagli snipers non appena vanno in cerca di qualcosa da
mangiare.
Ad Aleppo la guerra è arrivata dall'esterno, dice
Francesca Borri: "l'esercito libero qui non è come più a sud, ad Homs:
il ragazzo, il padre che difende il proprio quartiere...". I ribelli
vengono da fuori: si capisce che ad Aleppo la guerra è subita. Il libro
scruta gli animi di questo popolo dolente e riesce a descriverci uno
scenario complesso, contraddittorio, sui ribelli, il regime, i civili,
il mondo attorno.
"La Siria non sarà come la Somalia - dicono in
molti - avremo una Somalia in ogni provincia". E così si entra nello
scomposto mondo dei ribelli, delle loro brigate, dal bandito riciclato
al fanatico di al Qaeda, con tutte le incoerenze all'apparenza
inconciliabili. Questa guerra sta distruggendo un popolo e semina odio
permanente. L'analisi della gente di Aleppo è impietosa: i ribelli non
erano pronti ad una guerra, era chiaro che Assad avrebbe fatto terra
bruciata, così ora sono nati dei mostri come al Qaeda e l'Isis, tra
l'altro nemici fra loro. Il popolo, in maggioranza, non voleva reagire
con la violenza. E mentre i rappresentanti della rivoluzione si
azzuffano fra loro a Istanbul, racconta Francesca, la gente si chiede
perché nessuno faccia nulla.
Un'immagine - che assume ancora più senso
dopo i fatti di Parigi
- ci folgora: "la lingua più parlata non è l'arabo, sui fronti in cui
combatte al Qaeda: è l'inglese". Un islam jihadista da importazione,
nuovo prodotto della globalizzazione costruito a tavolino, in cui la
lingua sacra è abbandonata per il world english: questa è la proposta
per giovani di ascendenza musulmana di ogni provenienza, e anche per
qualcun altro. Il libro racconta una mole immensa di sofferenze che gira
su se stessa, senza vie d'uscita.
E Aleppo è sempre più isolata
dal mondo. Tra le macerie la guerra assume aspetti tragicamente
paradossali, con faide tra ribelli per il controllo di un pezzo di muro e
giovani giunti da Sudan, Somalia, Stati Uniti, Belgio, Bosnia, Svezia,
Yemen, Indonesia, Irlanda, Romania.... Da città antica, mercantile e
cosmopolita, in cui le minoranze vivevano mescolate da secoli, Aleppo è
divenuta università per jihadisti, una specie di California
dell'estremismo postmoderno, in cui si combatte all'antica, come nella
prima guerra mondiale, con trincee e all'arma bianca.
Un distorto
spirito di avventura misto a fanatismo appiccicato, ha portato qui
tanti giovani dalle periferie globali. A Francesca Borri ricordano la
canzone di De André: "partiti per un ideale, per una truffa, per un
amore finito male". Vengono da vite difficili e pare - dice l'autrice -
che la guerra vera è quella che si sono lasciati alle spalle. Ma ad
Aleppo si immergono nell'inferno, vedono cose indicibili, assistono a
spettacoli d'orrore e vi partecipano. La guerra li uccide o li trasforma
per sempre. Conosciamo il potere oscuro della guerra, il suo satanico
fascino che ti fa perdere il senso della realtà e ti trascina sempre più
giù, nel vortice dell'abisso, come i bambini soldati di Berlino '45 e
tanti altri loro fratelli di sventura nelle guerre d'Africa, dei
Balcani, del Medio Oriente...
C'è anche lo sguardo spento dei
civili, quello di chi cerca di sopravvivere, anche di chi ha manifestato
contro Assad all'inizio e ora dice sgomento: "ormai non siamo che
ostaggi di una guerra altrui. Non abbiamo perso solo la rivoluzione.
Abbiamo perso la Siria". E scorrendo il libro pare proprio così: dove
sono i siriani, gli aleppini? Tutto o quasi è in mano ad altri, le
decisioni sono prese altrove. L'esercito libero, la Free syrian army,
non esiste. Esiste solo una guerra per la sopravvivenza in cui solo i
più estremisti si trovano a loro agio, perché hanno una strategia a
lungo termine. Per gli altri la guerra ha perso senso e ti puoi anche
islamizzare a iosa perché "è il modo più semplice di rastrellare dollari
dalle ricche charity dei paesi del Golfo... 175 dollari per 50
proiettili per un cecchino; 400 e gli compri otto colpi di mortaio".
E
così, stravolti i civili assistono alle dispute tra ribelli e agli
scontri con gli jihadisti più estremi. Ma soprattutto non si capisce più
nulla: "ogni volta torni qui e scopri che i vecchi bad guys sono adesso
good guys, perché è arrivato qualcuno di ancor più estremista. E se
l'Ahrar al Sham, che ci terrorizzava un anno fa, ha poi cominciato a
proteggerci da al Nusra, il gruppo che ha introdotto gli attentati
suicidi, oggi è al Nusra a proteggerci dall'Isis....".
In questo
mondo oscuro si muove la free lance senza più certezze né sicurezza, con
gli editor che al satellitare pretendono pezzi intrisi di sangue o
sull'ultimo
foreign fighter
di cui si parla in Occidente, mentre rifiuta i pezzi di analisi. E
questo per miseri 70 dollari a pezzo, per cui ci si sbrana anche tra
colleghi. E nelle retrovie pigre Ong ferme in Turchia, senza iniziativa,
mentre emissari di ricchi arabi del Golfo vanno in cerca di ragazze e
bambine siriane tra i profughi che vivono nel fango, per venderle come
mogli...
In questa no man's land da cui è fuggita ogni pietà,
nessuno può perdere e nessuno può vincere. E forse questo è l'unico
elemento di speranza, dice Francesca Borri: "forse questo è lo spazio
per la pace".
http://www.huffingtonpost.it/mario-giro/numero-onu-guerra-siria-raccontata-reporter-guerra_b_6482570.html