Parla l’ex consigliere di Varoufakis: «Ecco perché ho cambiato idea sul Grexit»
[di Thomas Fazi] «Bisogna
prendere atto che il sistema non funziona e che non esiste la volontà
Daniel Munevar è un giovane economista post-keynesiano di Bogotá.
Ha lavorato con Yanis Varoufakis come consigliere per politiche di
bilancio durante il periodo in cui Varoufakis è stato ministro delle
Finanze in Grecia. Precedentemente è stato consigliere fiscale al
ministero delle Finanze colombiano, e consigliere speciale per gli
investimenti esteri diretti al ministero degli Esteri dell’Ecuador. È
considerato uno dei più autorevoli esperti nello studio del debito
pubblico latinoamericano. Questo rende particolarmente interessante la
sua valutazione delle trattative e dell’accordo fra Grecia e creditori.
In questa intervista esclusiva spiega perché gli eventi delle ultime
settimane gli hanno fatto cambiare opinione sul Grexit.
Cosa ne pensi dell’ultimo accordo raggiunto fra la Grecia ed i suoi creditori?
Prima di tutto non è ancora chiaro se l’accordo sarà effettivo – ci
sono parecchi parlamenti che devono approvare la partecipazione dei
rispettivi paesi al “piano di salvataggio” del Meccanismo europeo di
stabilità (European Stability Mechanism, ESM). Ma anche
ammettendo che tutti i paesi approvino il piano, non c’è nessun modo che
funzioni. Le misure economiche del programma sono semplicemente folli.
Gli obiettivi di bilancio non sono ancora stati annunciati, ma dando
un’occhiata alle analisi di sostenibilità del debito (Debt Sustainability Analysis,
DSA) pubblicate sia dall’FMI e che dalla Commissione, vediamo che
entrambe indicano l’obiettivo di un avanzo primario nel medio termine
del 3,5%.
Negli ultimi cinque anni la Grecia ha “migliorato” il suo bilancio
strutturale – riducendo la spesa ed aumentando le tasse – di ben 19
punti di PIL. Nello stesso periodo il PIL del paese è crollato
all’incirca del 20%: praticamente un rapporto 1:1. Partendo da un
disavanzo primario dell’1% – che la previsione generalmente condivisa
per quest’anno –, si rende necessario un aggiustamento superiore al 4%
del PIL. Vale a dire che il PIL crollerà di altri 4 punti percentuale da
qui al 2018.
Questo ci porta ad un altro punto essenziale, ossia che l’accordo
attuale è solo un assaggio di quello che verrà. Il memorandum finale è
destinato a contenere misure di austerità ancora più severe, a
compensazione del calo del PIL che si è verificato in questi ultimi mesi
per via dello stallo con i creditori. Il problema è che questi
memoranda stanno trasformando la Grecia in una colonia debitrice:
sostanzialmente si stanno creando un insieme di regole che in caso di
mancato raggiungimento degli obiettivi di bilancio – cosa che accadrà
fatalmente – forzeranno il governo a ulteriori tagli, che a loro volta
provocheranno un’ulteriore diminuzione del PIL, il che implicherà
un’austerità ancora maggiore, e così via. È un infinito circolo vizioso.
Ciò mette in luce uno dei principali problemi di tutta questa
situazione: il fatto che le istituzioni hanno sempre separato gli
obiettivi fiscali dall’analisi della sostenibilità del debito. La logica
di avere una riduzione del debito è che sostanzialmente questo ti
permette di conseguire obiettivi fiscali più contenuti e di distribuire
nel tempo l’impatto del consolidamento di bilancio. Ma nel caso greco,
anche se ci fosse un alleggerimento del debito nella misura auspicata da
Atene – il che è improbabile – il paese dovrebbe comunque fare
austerità, in aggiunta a ciò che è già stato fatto.
Almeno la riduzione del debito è diventata materia di aperta discussione…
Sì. questo è positivo. Ma i creditori hanno sempre saputo ciò che
l’FMI ha ammesso solo recentemente: la Grecia era e rimane insolvente e
il suo debito era e rimane insostenibile. L’ultimo rapporto dell’FMI è
estremamente chiaro su questo punto. Ma anche i precedenti rapporti –
che non sono mai stati resi pubblici – dicevano tutti la stessa cosa: il
debito greco è insostenibile. Tuttavia gli europei non lo hanno mai
ammesso, benché fosse chiaro a tutti che senza una ristrutturazione – e
senza legare questa a obiettivi di bilancio più contenuti – non ci
poteva essere alcun accordo realizzabile. Solo adesso il problema
comincia a essere dibattuto, e ciò sia perché la situazione è peggiorata
a tal punto che non lo si può più ignorare, sia perché quando il
rischio Grexit è diventato evidente gli Stati Uniti hanno
cominciato a fare pressione sull’FMI perché facesse pressione a sua
volta sull’Europa.
A proposito di Grexit, non è contraddittorio il fatto che
la Germania si opponga alla riduzione del debito ma ammetta una
soluzione che quasi certamente causerebbe il default del debito estero
greco, causando quindi alla Germania la perdita di tutti i crediti che
vanta nei confronti del paese ellenico?
Lo è se si ragiona in i termini puramente economici. Sotto questo
aspetto la posizione tedesca non ha senso. Ma tutta questa storia non ha
mai avuto a che vedere con l’economia, o con il fatto che la Germania
non vuole perdere i propri soldi. Stiamo parlando di un’esposizione
tedesca di 80 miliardi di euro, dopotutto – un importo nell’insieme
trascurabile. Ha invece a che vedere con l’esigenza di fare di Syriza un
esempio per il resto dell’Europa. Tutto quello che è accaduto negli
ultimi mesi era semplicemente un modo per dire ai popoli europei:
«Badate di non votare per partiti che hanno questo tipo di programma
perché vi schiacceremo. Questo è ciò che succede quando qualcuno non
segue le regole o si rifiuta di pagare il conto. O austerità o siete
fuori». Tsipras lo ha detto chiaramente: ha firmato l’accordo con il
coltello alla gola. Questo era l’argomento di Schäuble sul Grexit:
se i greci non vogliono pagare, cacciamoli via, guardiamoli soffrire e
facciamone un esempio per infondere il timore di Dio nelle altre nazioni
debitrici.
Il governo greco era consapevole che i creditori, fin
dall’inizio, non avevano alcun intenzione di esaminare la questione
della riduzione del debito?
Sì, ma la posizione di Varoufakis era che la Grecia, nondimeno,
doveva battersi per ottenere un accordo economicamente sensato, cioè che
includesse la riduzione del debito e obiettivi fiscali sostenibili.
Come ha spiegato nella sua intervista al
New Statesman,
lui ha lavorato tutto il tempo in un sistema a decisione collegiale
dove si è sempre trovato in minoranza, per cui le sue possibilità erano
del tutto limitate.
La maggioranza nella squadra di Tsipras ha sempre creduto che se la
Grecia avesse fatto concessioni sarebbe stata in grado di ottenere un
buon accordo. È la ragione per cui dopo l’Eurogruppo di Riga Tsipras ha
praticamente esautorato Varoufakis e ha iniziato a fare concessioni,
sperando che la strategia funzionasse. È stata questa la strategia del
governo negli ultimi mesi. Se paragoniamo le proposte ora sul tavolo con
quelle di marzo, vediamo che c’è stato un completo rovesciamento in
senso peggiorativo.
Questo perché quella gente credeva che attraverso le concessioni
sarebbero riusciti a negoziare un buon accordo. E questo spiega anche
perché, fino al referendum, la riduzione del debito non era nemmeno in
agenda. Naturalmente questa strategia non ha funzionato, perché i
creditori non avevano intenzione di accordare alla Grecia alcunché che
potesse essere interpretato come una vittoria politica per la Grecia.
Pensi che sarebbe stato meglio, per il governo greco, attenersi alla strategia di Varoufakis, riduzione del debito o niente?
In tutta onestà, è difficile immaginare che le cose sarebbero potuto
andare diversamente. I greci non avevano né soldi né potere. Le sole
armi che avevano a disposizione per il negoziato erano la ragione, la
logica e la solidarietà europea. Ma apparentemente viviamo in un’Europa
in cui nessuna di queste cose ha valore.
Quindi entrambe le strategie – quella di Varoufakis e quella di Tsipras – erano condannate al fallimento fin dall’inizio?
Sì, era una trappola. In passato, ogni volta che le istituzioni
europee sono state sfidate da un governo nazionale hanno fatto ricorso
alle intimidazioni: innalzamento dei tassi di interesse sui titoli di
Stato, minaccia di chiusura del sistema bancario, ecc. In passato questa
linea ha sempre funzionato: i governi hanno sempre ceduto. Quindi
partivano dal presupposto che Syriza si sarebbe comportata nello stesso
modo. Ma la Grecia non ha ceduto, ed è questa la ragione per cui hanno
reagito in modo così brutale.
Pensi che l’introduzione di cosiddetti “pagherò” (quelli
che in Italia vengono chiamati “certificati di credito fiscale” e che in
inglese vengono chiamati IOU, che sta per I Owe You, ‘io ti devo’) – come suggerito sia da Varoufakis che da Schäuble – fosse un’alternativa praticabile?
Il problema è che una volta che incominci a introdurre gli IOU per
pagare salari e pensioni finisci su una china scivolosa, perché la gente
suppone che è il primo passo verso l’abbandono dell’euro e si comporta
di conseguenza, tesaurizzando gli euro disponibili. Come conseguenza,
l’attività economica declina ulteriormente e una considerevole quota di
introiti fiscali deve essere ridenominata in IOU. Ciò a sua volta
obbliga il governo all’emissione di ulteriori IOU per finanziare la
spesa, e alla fine ci si ritrova in un circolo vizioso che porta di
fatto all’uscita dal sistema.
È per questo che il governo greco ha rifiutato questo metodo di
finanziamento, perché il rischio era quello di iniziare un processo da
cui non si poteva più tornare indietro. Basta osservare quello che sta
accadendo oggi con i depositi bancari greci: in un certo senso la Grecia
ha già un piede fuori dall’euro perché è in una situazione in cui i
depositi bancari non sono scambiati alla pari con la moneta: un euro nel
sistema bancario ha effettivamente meno valore di un euro contante.
Questo perché il solo parlare di Grexit ha creato un rischio
differenziale tra contante e depositi, giacché sarebbero i depositi a
essere convertiti in dracme in caso di uscita. Ciò spiega anche la
ragione per cui molte attività ad Atene non accettano le carte di
credito. Con gli IOU accadrebbe verosimilmente lo stesso: si metterebbe
in moto un meccanismo auto-alimentato che porterebbe facilmente
all’uscita, a prescindere dagli obiettivi del governo.
Che è probabilmente quello che Schäuble sperava…
Esattamente. E che alla fine probabilmente otterrà. Perché questo
accordo non risolve nulla, né per la Grecia, né per l’eurozona. In
realtà peggiora i problemi. Come ho detto prima, anche se si ottiene
tutta la riduzione del debito in discussione, se questa non è
accompagnata da obiettivi fiscali più sostenibili si resta comunque
sulla strada del declino economico. Il che significa che è solo una
questione di tempo: prima o poi l’economia greca imploderà e il problema
dell’uscita si ripresenterà.
Pensi che la Grecia dovrebbe optare per l’uscita dall’euro?
Sono sempre stato contrario al Grexit, come Varoufakis. Ma
ora, dopo la firma dell’ultimo accordo, la Grecia si trova in una
situazione in cui i costi della permanenza nell’euro sono aumentati a
tal punto che è possibile pensare che sia più vantaggioso andarsene –
affrontando tutti i costi a breve termine dell’addio all’euro –
piuttosto che rimanere in circostanze che implicano la rinuncia alla
propria sovranità senza alcuna contropartita economica. Penso che
Tsipras abbia soppesato le opzioni e deciso che sia meglio per la Grecia
rimanere nell’euro, a prescindere dai costi. È una decisione che
rispetto. Ma quando si comincia a considerare la logica economica
dell’accordo e tutto quello che è successo, non si può far altro che
concludere che la Grecia nell’euro non ha futuro.
Questo accordo semplicemente posticipa l’inevitabile. Perché a questo
punto è chiaro che nell’eurozona non esiste la volontà politica di
risolvere i problemi strutturali dell’euro. Che guarda caso è proprio
ciò che l’ultimo rapporto dell’FMI essenzialmente implica: o si fa una
ristrutturazione del debito o si stabilisce un sistema di trasferimenti
fiscali per la Grecia – in altre parole, si crea un’Europa federale.
Sappiamo tutti qual è il peccato originale dell’euro: avere stabilito
una moneta comune senza prevedere un sistema di trasferimenti. Ma la
volontà politica di risolvere questo punto non esiste. Per cui tanto
vale prendere atto che il sistema non funziona. Questo, dopo quanto
successo in Grecia, non dovrebbe essere più un tabù.