L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 12 dicembre 2015

Corruzione, nel dimenticatoio lo scandalo sui milioni di euro di petrolio che i militari avevano fatto

Terremoto nell'Aeronautica militare: 8 arresti per corruzione nelle gare d'appalto


un jet dell aeronautica militare
Un jet dell'Aeronautica militare
Terremoto nell'Aeronautica militare: 8 persone sono state arrestate dai carabinieri di Roma con l'accusa di corruzione nelle gare d'appalto.
In manette sono finiti gli imprenditori Massimiliano Ciceroni, Antonio Chiaro, Giovanni Sabetti e Roberto Bacaloni; Fabrizio Ciferri, dipendente civile del Ministero della Difesa in servizio presso la base dell'Aeronautica militare di Pratica di Mare e la sua compagna Angelica Mariana Ruscior; il tenente colonnello Gianpiero Malzone; e Stefano Pasqualini, altro dipendente civile della Difesa.
Secondo l'accusa, sostenuta dai pm di Velletri, gli arrestati, attraverso un "consolidato sistema corruttivo", avrebbero sistematicamente alterato le gare d'appalto, per un valore di quasi nove milioni di euro, bandite dall'Aeronautica e inerenti la manutenzione ordinaria e straordinaria di edifici presso diverse sedi militari.

Livorno, la Consorteria clientelare del Pd e suoi ultimi colpi di coda, 42 milioni di buco

Aamps, cosa rimane a Livorno dietro l’ombra del concordato

[10 dicembre 2015]
aamps
Sta per terminare anche il nuovo sciopero (di 48 ore, indetto da Fp Cgil e Fiadel) dei lavoratori Aamps, l’azienda municipalizzata che ha in carico l’igiene urbana labronica. I servizi minimi essenziali sono stati garantiti, e i disagi alla città – dalla mancata raccolta dei rifiuti alla congestione del traffico causa manifestazioni – limitati. La tensione però rimane alle stelle. Domattina, in Consiglio comunale il sindaco pentastellato Filippo Nogarin prenderà la parola in vista dell’assemblea straordinaria Aamps in programma per sabato. Tra due giorni, e dopo infiniti rimpalli, le sorti dell’azienda saranno più chiare.
Questo, per quanto riguarda l’immediato. Sia che l’assemblea dei soci (ovvero, il Comune di Livorno) scelga la strada del concordato preventivo in continuità – che la Giunta da giorni persegue compatta – sia quella della ricapitalizzazione perorata dalla maggioranza dei lavoratori (diretti e non), dei sindacati e delle imprese. All’interno di una vicenda che ormai ha assunto suo malgrado caratteri nazionali, tirata per la giacchetta da squallidi interessi politici, tendono a sfumare tutte quelle domande che vanno oltre le mere esigenze della prossima tornata elettorale.
Eppure si tratta di interrogativi che puntellano l’immediato futuro dell’Aamps, insieme agli interessi di tutti i cittadini cui l’azienda rivolge i suoi servizi. Ne riproponiamo qui alcuni. Intanto qualche numero: Livorno, tra le città toscane con più di 100mila abitanti residenti (ne ha poco meno di 160mila), risulta quella con la percentuale di raccolta differenziata più bassa (39,5%). Tale risultato va inserito in un contesto preciso: la raccolta differenziata riguarda solo una frazione dei rifiuti urbani (ovvero, umido a parte, gli imballaggi), che a loro volta costituiscono solo una parte di tutti i rifiuti. Approssimativamente, ricordiamo come anche se si raggiungesse il 100% di raccolta differenziata, questa abbraccerebbe dunque solo il 7% di tutti i rifiuti di interesse regionale. Nonostante ciò, il magro 39,5% di raccolta differenziata conseguito a Livorno è rilevante in quanto si inserisce all’interno degli obiettivi dell’Ato Costa, a loro volta parte organica di quelli disegnati dal Piano regionale. Tali obiettivi – come ha ricordato da tempo su queste pagine il direttore dell’Ato Costa, Franco Borchi – puntano tra l’altro a raggiungere entro il 2020 un tasso di raccolta differenziata pari al 70%, idoneo a conseguire almeno un tasso di riciclo del 60%.
Livorno come pensa di contribuire, nel suo stesso interesse, a tagliare tale traguardo? Un vero piano industriale non è mai stato presentato. Non uno che abbia ottenuto l’appoggio del Comune, e soprattutto abbia ottenuto valutazione positiva da parte degli enti di finanziamento; ai progetti, per quanto belli e sostenibili, servono investimenti per divenire realtà.
D’altra parte, quanto trapelato in questi mesi non è certo rassicurante. Per Aamps non può infatti esistere, al di là delle opinioni politiche, un Piano industriale che si chiami fuori dalle logiche di quello di  RetiAmbiente, il futuro gestore unico dell’Ato Costa. Quando da Livorno si ipotizza la realizzazione di un impianto di compostaggio, o impianti per il riciclo della carta come dell’acciaio o del vetro, con quali flussi di materiali (e con quali ricavi economici) si pensa di assicurargli un futuro? Già oggi si prevede la realizzazione in seno all’Ato costa di 2 impianti di compostaggio (a Rosignano e Pontedera): Livorno quale percentuale d’umido tratterebbe? Idem per quanto riguarda le altre frazioni merceologiche. Costruire un impianto per il riciclo della carta, dell’acciaio o del vetro, significherebbe rispettivamente costruire una cartiera, un’acciaieria, una vetreria. Con quale breakeven?
Concretamente, Livorno ha bisogno e possibilità economiche per dotarsi di simili impianti industriali (perché di questo si tratta)? Ci sono buoni motivi se non sono già presenti in ogni comune, e risiedono nelle economie di scala. In economia (ancor prima che nella gestione dei rifiuti) l’autarchia non funziona, e prima Livorno se ne accorge – valorizzando piuttosto la dotazione impiantistica che già possiede – meglio è.

La Fratellanza Musulmana è ancora più pericolosa dell'Isis/al Qaeda

“Associazione Italiana Imam vicina a istituzioni afferenti ai Fratelli Musulmani”

L’eurodeputato della Lega Nord: “L’islamista Valentina Colombo spiega la vicinanza culturale dell’Associazione Italiana degli Imam con le istituzioni islamiche afferenti ai Fratelli Musulmani”.
Yusuf-al-QaradawiYusuf Qaradawi
Bruxelles 11 dicembre 2015 – L’Associazione Italiana degli Imam che nel 2016 inaugurerà la scuola per Imam a San Giovanni Lupatoto, nel veronese, “pare abbia un rapporto controverso con l’Islam conservatore e politico”, dice l’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana.
Dice Fontana: “La professoressa Valentina Colombo, esperta islamista, in un articolo su ‘La Nuova Bussola Quotidiana’ scrive che l’Associazione, nell’inaugurare la scuola per imam, ammette di seguire l’esempio di istituzioni islamiche europee afferenti all’ideologia dei Fratelli Musulmani come l’IESH e l’European Assembly of Imams. La Colombo poi spiega che il riferimento teologico e giuridico dell’Associazione degli Imam è il Consiglio europeo per la Fatwa e la Ricerca presieduto da Yusuf Qaradawi, punto di riferimento internazionale della Fratellanza”.
“Vorrei capire – conclude Fontana – se è il caso di accettare acriticamente una scuola per Imam senza sapere bene cosa s’insegnerà e quali saranno i docenti. Non sono contrario di per sé alla formazione per gli Imam, ma sarebbe bene ispirarsi a esempi come il Marocco, che ha avviato un difficile e arduo processo di riforma dell’Islam”.

Pomezia, il Tar e la regione Lazio vogliono più cementificazione

In ballo i nomi di due consiglieri M5S

Torvaianica Alta, TAR ferma la delibera comunale e cita un conflitto d'interessi

Nella foto: viale Torvaianica Alta
Nella foto: viale Torvaianica Alta

Il Tar finalmente si è pronunciato sulla questione del piano particolareggiato di Torvaianica Alta, e nell'ordinanza emessa ieri dal tribunale amministrativo (a cui ha fatto ricorso il responsabile di una delle società edili coinvolte) è stata imposta al Comune di Pomezia una sospensiva della delibera di annullamento in autotutela della variante al Piano particolareggiato della zona. Un atto su cui si era già espressa - negativamente - la Regione Lazio, che alcuni mesi fa ha inviato a Pomezia un commissario "ad acta" per valutare la situazione. Ma il tribunale amministrativo si spinge oltre, ritenendo "fondata" la circostanza di un presunto conflitto d'interessi di due consiglieri comunali pentastellati proprio su quella zona.
Il Tar non si esprime ancora sulla "effettiva sussistenza dei presupposti tecnici di annullamento della variante", cioè sulle ragioni che ha apportato il Comune di Pomezia per giustificare la propria azione amministrativa. Sul merito del presunto "grave sottodimensionamento degli standards urbanistici" (questa la contestazione fatta da piazza Indipendenza alla variante annullata) si dovrebbe discutere il prossimo 24 maggio, in un'udienza pubblica. Fino ad allora gli effetti della delibera della Giunta Fucci sono stati sospesi, limitatamente alle aree su cui ha interessi il costruttore che ha fatto ricorso. 
Alla base della sospensiva questioni di "procedura" ma anche, come dicevamo sopra, un presunto conflitto di interessi di due consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle: il capogruppo Giuseppe Raspa e Gianfranco Petriachi, anch'essi costituitisi in giudizio. I due sarebbero stati tirati in ballo proprio dal costruttore che ha fatto ricorso in quanto (questa la contestazione) hanno votato la delibera di annullamento in autotutela nonostante sembra siano proprietari di immobili proprio a Torvaianica Alta. Secondo il Tar "appare fondata, sempre nei limiti della presente fase cautelare, anche la censura inerente il conflitto di interessi attesa la deduzione svolta in merito dalla parte ricorrente e la circostanza che la rimozione della variante, nella parte in cui comporta la riduzione dei volumi edificabili, genera un vantaggio immediato e diretto (in termini di minore aggravamento del carico urbanistico del comprensorio) a favore dei suddetti consiglieri in quanto proprietari di immobili nella medesima zona".
Inoltre, per il tribunale amministrativo del Lazio, il Comune avrebbe dovuto coinvolgere la Regione (che esercita un potere di controllo) nella decisione di annullare in autotutela la variante al piano particolareggiato, seguendo quindi lo stesso procedimento previsto in fase di approvazione degli "strumenti" urbanistici. In caso contrario, spiega il Tar, "si perverrebbe alla conseguenza che, in sede di autotutela, il Comune eserciterebbe un potere di maggiore ampiezza rispetto a quello di cui è titolare in fase di formazione dello strumento urbanistico". 
Sulla vicenda, lo ricordiamo, pendono ancora i ricorsi al Tar presentati dal Comune di Pomezia nei confronti della Regione Lazio contro la decisione di non procedere all'annullamento della variante al PPE di Torvaianica Alta, come invece avrebbe voluto la Giunta Fucci. L'Ente di Piazza Indipendenza ha fatto ricorso al tribunale amministrativo anche contro la decisione della Pisana di nominare un commissario ad acta.

Governo incompetente&pasticcione, dopo un anno la riforma della giustizia presentata il 31 dicembre 2014 è chiusa nei cassetti

Gratteri imbarazza il governo: troppi sprechi a Viminale e Dia


I giudizi taglienti del procuratore sulla gestione del ministero e sui costi della direzione antimafia






Le scorte? Quasi tutte inutili. La Dia? Un ferro vecchio. Il Viminale? Il regno degli sperperi.


L'affondo più feroce al governo Renzi arriva paradossalmente dal magistrato più vicino al premier, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. E sono bordate che imbarazzano l'esecutivo soprattutto perché, nel momento in cui l'emergenza terrorismo monopolizza l'agenda politica nazionale e internazionale, colpiscono il fianco scoperto della sicurezza e della tanto sbandierata spending review. «Dovremmo incominciare a tagliare ciò che non serve ha detto il pm che ha trascorso quasi tutta la sua vita professionale dando la caccia alle 'ndrine mafiose. Anche al ministero degli Interni ci sono degli sprechi. Ad esempio se io avessi potere, ridurrei le tutele del 98% in Italia. Ma anche nelle scorte si può risparmiare, ragionando seriamente. Dopo l'omicidio Biagi, per paura che possa accadere un'altra situazione analoga, si è iniziato ad esagerare».
Uomini e mezzi sottratti al territorio che potrebbero essere utilizzati altrimenti soprattutto ora che ce n'è bisogno. Dopo aver sfiorato la nomina di Guardasigilli, bocciata si disse dal presidente dell'epoca Giorgio Napolitano, Gratteri ha dovuto accontentarsi di guidare la Commissione per l'elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità. Un campo in cui l'ortodossia è dominante e le rendite di posizione protettissime. «Inoltre dico che dobbiamo sciogliere la Dia che è una struttura che oggi fa solo misure di prevenzione. Le stesse misure di prevenzione le fanno le questure, la guardia di finanza, i carabinieri, per cui sono doppioni, tripli». E fa nulla che si tratti di una creatura ideata da Giovanni Falcone sul modello dell'Fbi americana. Perché anche su questo Gratteri è tutt'altro che diplomatico. «Ha detto Falcone che ci vuole la Dia, ma perché si bestemmia, perché si usa sempre il nome di Falcone quando si vuole difendere qualcosa che oggi è fuori dalla realtà, è fuori dai bisogni? E quando Falcone era vivo attacca la toga reggina perché nessuno l'ha votato per il Csm, perché tutti lo combattevano? E dopo morto, chi lo ha combattuto in vita, i gattopardi, sono saliti tutti sui palchi per commemorare». La Direzione investigativa antimafia costa molto, troppo. È un peso superfluo per le casse dello Stato e il suo smantellamento non influirebbe sul contrasto alla Piovra, secondo il procuratore aggiunto. «Gli uomini della Dia ritornano ai corpi di appartenenza, non è che vanno a fare le contravvenzioni sulla strada, vanno nelle strutture investigative». In questo modo «risparmiamo un dirigente, un ufficio, automezzi, un palazzo». La Dia, la sede centrale, è in una traversa di via Veneto, a Roma. «Quanto costa di affitto? Quei soldi si potrebbero risparmiare e assumere più persone, più poliziotti, più carabinieri». E questo senza considerare le indennità aggiuntive che gli investigatori della Dia incassano rispetto agli altri colleghi meno blasonati per fare più o meno le stesse cose.

http://www.ilgiornale.it/news/politica/gratteri-imbarazza-governo-troppi-sprechi-viminale-e-dia-1203313.html 

la Lega quando si presenterà con Berlusconi perderà il fascino del nuovo che Salvini gli ha trasmesso

Dove va la Lega

MARCO TARCHI, scienziato della politica nella facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri di Firenze, di populismi ne sa. È suo, tra l’altro, il saggio, pubblicato lo scorso anno per i tipi del Mulino, intitolato appunto Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo. Dopo la tempesta francese e i successi (quantomeno mediatici) del leader della Lega Matteo Salvini, ascoltiamo la sua analisi in chiave europea. Professore, boom di Marine Le Pen. Rischio contagio in Italia?
«Lo escluderei, almeno per il momento. Le cose potrebbero cambiare solo se, una volta conquistata qualche regione, il Front National riuscisse a smentire il pregiudizio diffuso sull’incapacità dei populisti a governare in modo efficiente. Allora, sì, potrebbe diventare un modello».
Il populismo da che cosa trae la sua linfa o, meglio, la sua forza?
«Dagli errori e dalle insufficienze dei suoi avversari nell’affrontare problemi cruciali come l’immigrazione di massa, le ricadute negative della globalizzazione in alcuni ambiti sociali, l’insicurezza di fronte a precarietà lavorativa e criminalità, nonché lo strapotere dei centri di potere finanziario, che appaiono ormai a molti in grado di condizionare e indirizzare le azioni della classe politica».
Perché un modello di semplificazione del linguaggio della politica – una volta tempio della complessità – può arrivare a una banalizzazione dei problemi e conquistare tanti consensi?
«Per la ripulsa che molti elettori provano nei confronti delle ipocrisie e della vuotezza retorica che sempre più ha contraddistinto il linguaggio dei politici di professione».
Il modello populista, da lei studiato in più occasioni, è un paradigma sufficiente per capire quel che di più profondo si muove nella società europea?
«Sufficiente no, ma contribuisce a mettere in evidenza lo scollamento esistente tra ampi settori della società e coloro che dovrebbero rappresentarne e tutelarne le istanze. I populisti propongono il ritorno a forme di democrazia diretta e controllo dei governanti che incontrano un largo favore nell’opinione pubblica».
Come classificherebbe i populismi oggi in Europa? Solo di sinistra o di destra o sfuggono alle categorie tradizionali?
«Nel fondo, esprimono tutti un sostanziale superamento di queste categorie, a cui contrappongono il conflitto tra ‘chi sta in alto’, preoccupato innanzitutto di tutelare i privilegi legati alla posizione che occupa, e ‘chi sta in basso’, costretto a subire il disinteresse o le prepotenze dei potenti. La mentalità che li anima può però avere sfumature più conservatrici o progressiste».
Chi vota i populismi? È un fenomeno legato soprattutto alla crisi di fiducia nelle élite di tutti i generi?
«In prevalenza sì, anche se influiscono, nel clima di smarrimento legato alla crescita delle società multietniche, preoccupazioni legate alla paura di perdere tradizioni, modelli culturali, stili di vita consolidati da tempo, cioè i tratti caratteristici di un’identità».
Può Salvini aspirare al governo del Paese o da solo non basta?
«Non solo non basta, ma il suo problema è che una parte degli elettori che attrae è tutt’altro che entusiasta di un’alleanza con Berlusconi. Il motivo? Rappresenta una politica giudicata vecchia e fallimentare. Forse gli converrebbe insistere su una linea di estraneità alla logica di confronto sinistra/destra. Alla lunga, potrebbe pagare».


http://blog.quotidiano.net/ghidetti/2015/12/10/dove-va-la-lega/ 

Gli Euroimbecilli piangono, anche se i tempi duri devono ancora venire

Economia e Finanza

SPY FINANZA/ Gli "scricchiolii" di Grecia, Spagna e Portogallo

Mauro Bottarelli

venerdì 11 dicembre 2015

Prima di entrare nel cuore dell'articolo, mi preme parlare brevemente di un fatto che non ho visto riportato da nessun mezzo di comunicazione, pur arrivando da fonte più che ufficiale. Si tratta, infatti, del sondaggio condotto tra aprile e settembre di quest'anno dalla Bce riguardo le condizioni di finanziamento per le piccole e medie imprese nell'area euro, i cui risultati sono stati resi noti la scorsa settimana. Il dossier è ovviamente molto dettagliato, ma è una la criticità che emerge immediatamente e che nessuno si aspetterebbe: come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, il defibrillatore del Qe per cercare di rianimare l'economia è scarico, visto che per le piccole e medie imprese della zona euro il problema principale NON è l'accesso al credito ma trovare clienti. Di più, se questa criticità è la prima per il 25% degli interpellati (era il 26% nel corso del sondaggio precedente), l'accesso al finanziamento è addirittura l'ultima, con l'11%. 
Essendo le Pmi la spina dorsale dell'economia europea, questo rappresenta un problema e serio. E la stessa Bce con il secondo grafico a fondo pagina ci mostra come il gap di finanziamento esterno, ovvero la differenza percepita dalle aziende tra la necessità di finanziamenti esterni e la disponibilità di quei fondi, sia tornato negativo per la prima volta dal 2009 nell'eurozona. E qui, sorgono due domande: quando la Bce capirà che se i soldi non arrivano nelle tasche dei cittadini, questi non spendono e quindi l'economia non riparte? Secondo, se c'è tutta quest'abbondanza di finanziamento, perché invece in Italia sempre più piccoli e medi imprenditori si lamentano per l'accessibilità del credito o i costi troppo elevati, nonostante i tassi a zero garantiti proprio dalla Bce? Non è che le nostre banche hanno molto il braccino corto verso le Pmi e invece sono di manica larga con i grandi gruppi di potere o quando si tratta di comprare Btp per far contento il governo? 
Domanda legittima e che meriterebbe una risposta, soprattutto in tempi di caritatevole "aiuto umanitario" per gli obbligazionisti truffati dagli istituti di credito che lo stesso governo ha di fatto salvato, offrendo la garanzia statale sui fondi. Veniamo ora al cuore del problema e dell'articolo di oggi, strettamente connesso a quanto detto finora. Io ho un timore, ovvero che tra tutti i "tail risk" che il 2016 può presentare a livello economico e finanziario, quello che ha maggiore probabilità di avverarsi è proprio il ritorno dell'instabilità nei Paesi periferici europei. 
Mettiamo un po' le cose in prospettiva, partendo dal Portogallo di cui vi ho parlato più volte. Lo scorso 26 novembre, dopo una sorta di golpe del presidente Anibal Cavaco Silva a seguito delle elezioni del 4 ottobre, il leader socialista lusitano Antonio Costa è stato nominato primo ministro, ottenendo l'appoggio esterno dei due partiti di estrema sinistra per il suo governo di minoranza. Ora però iniziano le criticità, a partire dalla finanziaria per il 2016 - la quale, come per tutti i Paesi, deve passare al vaglio della Commissione europea -, all'interno della quale i partiti che sostengono il governo vorrebbero che fossero contenute misure di rilassamento rispetto alle politiche di austerity e un'inversione a U su riforme chiave avviate dal governo precedente, come quelle sul mercato del lavoro e sulle pensioni. Insomma, la sfida inizia ora. 
Vediamo adesso la Spagna, la quale andrà al voto per le elezioni generali domenica 20 dicembre in uno scenario di elettorato sempre più frammentato. Gli ultimi sondaggi vedono un testa a testa tra Partito popolare, Partito socialista e i riformisti di Ciudadanos, con Podemos più distaccata dal trio. Come nel caso lusitano e con la complicazione ulteriore implicita nella legge elettorale iberica, è difficile che un partito possa ottenere la maggioranza assoluta e anche una coalizione bipartitica potrebbe non avere i numeri sufficienti, ammesso che si trovi il compromesso politico. Di conseguenza, attendiamoci tempi lunghi e incerti per la formazione e l'insediamento di un esecutivo, il tutto con la bomba costituzionale catalana innescata, visto che nonostante la Corte suprema spagnola abbia bocciato l'indipendenza decretata da Barcellona, il blocco autonomista uscito vincente dalle elezioni catalane dello scorso 27 settembre non pare affatto intenzionato a desistere e potrebbe far pesare i suoi numeri a livello nazionale, vista l'enorme incertezza del quadro. 


Veniamo poi alla Grecia, dove i progressi nell'implementazione del terzo programma di salvataggio da 86 miliardi siglato in agosto vanno decisamente a rilento e ulteriori ritardi sono attesi per quanto riguarda la prima review del programma, che comincerà nelle prossime settimane, visto che al centro della disputa ci saranno nodi politici sensibili come la riforma delle pensioni e le privatizzazioni. Inoltre, non solo le discussioni sulla moratoria di parte del debito ellenico, precondizione per l'ingresso del Fmi nel salvataggio, non potranno cominciare prima che la review sia completata, ma l'esito positivo del "check-up" del programma è vincolante anche perché la Bce torni ad accettare bond greci come collaterale nelle operazioni di finanziamento e cominci ad acquistarli all'interno del programma di Qe. 
Certo, finora proprio il programma di stimolo dell'Eurotower è servito a contenere - e, a volte, prevenire - le reazioni dei mercati a questo quadro di instabilità nei tre Paesi più esposti della periferia europea, ma potenzialmente le cose potrebbero avere un epilogo diverso e allora nemmeno l'ampliamento del Qe potrebbe prevenire impennate degli spread, rinnovate tensioni sui debiti sovrani europei e rinascita di discussioni sulla possibile uscita di qualche nazione dall'eurozona, tanto più che la speculazione andrebbe a nozze con uno scenario simile e non tarderebbe ad amplificare le criticità. 
Cosa potrebbe innescare uno scenario simile? Vediamo tre ipotesi, ognuna delle quali relativa a uno dei Paesi trattati. Partiamo dal Portogallo, il cui governo potrebbe dar vita a una legge di stabilità molto espansiva e basata su spesa in deficit, tale da essere rigettata in toto o in parte dalla Commissione europea. Una simile ipotesi potrebbe far scattare il downgrade del debito lusitano da parte dell'agenzia canadese Dbrs, la quale è l'unica a garantire ancora l'investment grade ai bond di Lisbona: in tal caso, il debito portoghese non sarebbe più eligibile per gli acquisti del Qe, né più accettabile come collaterale nelle operazioni di finanziamento della Bce come le aste Ltro. 
Immediatamente, lo shock si riverbererebbe sugli spread e metterebbe nel mirino il sistema bancario, la cui solidità e sostenibilità è già oggi seriamente in questione, dopo il fallimento di Banco Espirito Santo. A quel punto, i partiti della sinistra radicale potrebbero togliere l'appoggio esterno al governo, facendolo cadere e il presidente della Repubblica dovrebbe indire nuove elezioni nella tarda primavera - costituzionalmente oggi in Portogallo non si potrebbe rivotare prima della fine di aprile - e il prolungato periodo di incertezza politica potrebbe infliggere il colpo di grazia alla già anemica ripresa economica del Paese. 
Vediamo ora la Spagna, dove le elezioni senza un chiaro vincitore - scenario più che probabile - potrebbero portare all'impossibilità di formare un governo e quindi a un periodo prolungato di incertezza, anche per i mercati. Inoltre, la Commissione europea potrebbe bocciare anche le versione rivisitata della Legge di stabilità spagnola, già rispedita al mittente perché non in linea con gli obiettivi fiscali europei e potrebbe quindi aprire una procedura di infrazione che sanzioni il governo iberico. Contemporaneamente, il fronte catalano potrebbe voler sfruttare questa impasse per far salire la tensione nel rapporto con Madrid, generando un ambiente di incertezza che potrebbe cominciare a colpire la fiducia di consumatori e investitori (ricordando sempre che la Catalogna vale il 20% del Pil spagnolo) e portare a un rallentamento dell'economia. A quel punto, il combinato con squilibrio fiscale e debito in crescita potrebbero portare a un downgrade del rating sovrano, primo detonatore per il rialzo dello spread e quindi dei costi di servizio del debito pubblico, con pesanti conseguenze sulla tenuta del sistema bancario, già salvato dall'Ue ma ancora stracarico di titoli di Stato e sofferenze. 
Per finire, veniamo alla Grecia. I negoziati tra Atene e i suoi creditori, inclusi quelli sulla moratoria di parte del debito, potrebbero risultare difficoltosi a causa dei continui ritardi e della distanza tra le posizioni in campo, portando a una messa in discussione del grado di fiducia reciproca. In questo quadro, alcuni deputati di Syriza potrebbero dividersi su temi come le pensioni o le privatizzazioni e il governo - che si basa su una maggioranza di soli tre deputati - potrebbe perdere la maggioranza. Se l'opposizione non dovesse accettare l'ipotesi di un governo di unità nazionale per far passare le riforme chiave con il voto bipartisan, i programmi di negoziato andrebbero in stallo totale e nuove elezioni sarebbero l'unico epilogo possibile. 
Con ovvie reazioni immediate dei mercati, i quali potrebbero ricominciare a prezzare l'ipotesi del Grexit, portando gli spread sovrani ellenici a livelli d'allarme e inviando scossoni potenzialmente letali al sistema bancario, stracarico di obbligazioni sovrane e sofferenze, nonostante la ricapitalizzazione da 15 miliardi. E attenzione, perché il fronte greco rischia davvero di tornare incandescente fin dalle prime settimane del prossimo anno, visto che mercoledì scorso la Borsa di Atene si è letteralmente schiantata, arrivando ai minimi del giugno 2009, come ci mostra il grafico a fondo pagina. 
Il motivo? Le autorità elleniche hanno deciso di togliere gli ultimi controlli sul capitale ancora in atto nel sistema bancario del Paese, sintomo che i cittadini greci possono tornare a comprare titoli e obbligazioni con il loro "vecchio" denaro, ovvero quello che era bloccato nei conti correnti. Possono comprare, ma, come ci mostra l'andamento dell'indice Ase di mercoledì, anche e soprattutto vendere. E attenzione, perché da mercoledì è terminato formalmente anche il divieto di short selling su titoli e bond del settore bancario, anche se l'autorità di vigilanza ellenica ha già chiesto che il bando sia mantenuto fino al 20 dicembre. Se così sarà, il trading del 21 potrebbe dirci molto sul futuro che attende la Grecia. E con essa, tutta la periferia dell'eurozona. 
Italia compresa, visto che se dovessero saltare fuori sorprese sgradite dalle urne municipali di Milano, Roma, Napoli, Torino o Bologna la prossima primavera, allora nemmeno l'ottimismo farsesco del governo o lo scudo della Bce potrebbe mantenere il nostro spread ai livelli attuali. E vista l'esposizione delle nostre banche ai titoli di Stato, senza parlare delle sofferenze monstre (prima della crisi, i crediti deteriorati delle banche italiane erano leggermente superiori alla media Ue, ma oggi sono arrivati al 19,3% contro una media del 7,3%), ci sarebbe davvero poco da ridere. 




 

Siria&Parigi, tutti i tagliagola vogliono mandare via il governo legittimo di Assad e poi ci sono i governi collusi ...

Nessun negoziato con i “gruppi armati”. Assad dice no a opposizione e ribelli

12/12/2015

Nessun negoziato di pace con i “gruppi armati”. Stati Uniti e Arabia Saudita vogliono farmi trattare con dei terroristi. Bachar Al-Assad respinge al mittente la proposta emersa al termine della due giorni che ha riunito diversi gruppi ribelli ed esponenti dell’opposizione siriana a Riad, in Arabia Saudita. “Lascino prima le armi – ha aggiunto Assad -. Poi potranno unirsi al governo”.
Opposizione e ribelli chiedono invece che sia lui a lasciare, prima di un periodo di transizione. Ed è forse questo che da Parigi fa dire a Kerry che in merito all’accordo siglato a Riad “restano ancora degli interrogativi e dei nodi da sciogliere”. Anche se poi aggiunge: “Sono fiducioso che potremo venirne a capo.
Determinante potrebbe essere il viaggio, annunciato prima dell’intervento di Assad, che martedì dovrebbe portarlo a Mosca per incontrare Putin e Lavrov. L’insistenza occidentale per indurre Assad a lasciare è un “enorme errore” – ha ribadito da Roma il Ministro degli esteri russo, così prendendo anche le distanze dalle richieste di opposizione e ribelli siriani. “Ritengo però positiva la decisione di intervenire in maniera concreta – ha aggiunto a questo proposito – identificando i gruppi terroristi e aiutando le Nazioni Unite a riunire una delegazione per i negoziati con il governo. Se ciò sarà fatto, potremmo già incontrarci la prossima settimana”.
Fervido il lavorio diplomatico anche tra i Paesi contrari ad Assad: mercoledì è previsto un tavolo a Parigi, volto proprio a coadiuvare il processo di selezione della delegazione che ancora si spera potrà incontrare Assad.

http://it.euronews.com/2015/12/12/nessun-negoziato-con-i-gruppi-armati-assad-dice-no-a-opposizione-e-ribelli/ 

Siria&Parigi, Arabia Saudita crea morti e distruzioni, la Fratellanza Musulmana di Erdogan imbecille, andranno a sbattere contro il muro eretto dall'Iran e la Russia mentre gli Stati Uniti restano in finestra in preda al loro mal di testa

Economia e Finanza

SPY FINANZA/ Le manovre dell'Arabia Saudita per "comprarsi" gli Usa

Mauro Bottarelli

sabato 12 dicembre 2015

Dopo la decisione dell'Opec di non tagliare la produzione petrolifera, di fatto un viatico all'aumento della saturazione di offerta globale di petrolio, l'Arabia Saudita ha qualche nemico dichiarato in più: la Russia, in primis. Ma non in Occidente, stranamente. Come mai? Formalmente, fatti salvi i residui degli ambienti neo-con nostrani e gli addentellati pseudo-intellettuali del fallacismo, tutti in questi ultimi giorni sarebbero dovuti scendere a patti con due realtà. Primo, la Turchia è quantomeno ambigua nella sua presunta lotta al terrorismo e, secondo, l'Arabia Saudita ne è la quinta colonna in abito presentabile all'interno del G-20, oltretutto con la leva del ricatto petrolifero pronta a essere utilizzata per finalità non economiche ma geostrategiche. Entrambe, comunque, sono fedeli alleati Usa e Nato. 
Se nel primo caso sono l'inettitudine e l'autolesionismo europeo a fare da contraltare alle evidenze sempre più schiaccianti, per quanto riguarda Ryad l'assicurazione sulla vita e sulla presentabilità è garantita dal supporto appunto degli Stati Uniti. I quali, ovviamente, operano per due ragioni: primo, l'Arabia è un proxy in un'area calda che bisogna mantenere amico per tutelare gli interessi e, secondo, Ryad ha saputo vendere bene il proprio prodotto proprio negli Usa, con una rete di spin politico da fare impressione anche ai più grandi comunicatori del mondo occidentale. 
Prima di farvi entrare nel meraviglioso mondo della manipolazione mediatica e comunicativa di Ryad, però, qualche numero per mettere le cose meglio in prospettiva. A Ryad conta una persona sola, il principe Mohammed bin Salman, trentenne molto determinato e soprattutto accentratore di ogni potere, essendo ministro della Difesa, capo dell'azienda petrolifera Aramco e presidente del Consiglio economico nazionale. Nonostante l'austerity stia segnando l'economia del Paese, con un deficit di budget già al 20% del Pil (140 miliardi di dollari l'anno) a causa delle mancate entrate petrolifere, come ci mostrano i primi due grafici a fondo pagina, il principe è convinto che il Paese possa resistere alle pressioni per un altro anno, nella speranza di fiaccare prima i suoi concorrenti. 
È stato su sua iniziativa che Re Salman ha firmato un ordine, classificato come "altamente urgente", con il quale venivano congelate nuove assunzioni di dipendenti pubblici e bloccati tutti i progetti già messi in cantiere, il tutto per non devastare ulteriormente le riserve valutarie estere già fiaccate dai gap di bilancio da tamponare. La gran parte dei progetti petroliferi di esplorazione, soprattutto in Canada e nell'Artico, sono stati sospesi e si tratta di investimenti da circa 200 miliardi di dollari e stando alle ultime valutazioni, tra il 2015 e il 2019 gli investimenti totali sauditi caleranno di 1,5 triliardi di dollari rispetto a quanto stimato inizialmente. Di più la benzina non costerà più 10 centesimi al litro, sta per essere introdotta l'Iva e una tassa sui terreni: il tutto per non cedere alla guerra petrolifera e per finanziare contemporaneamente la guerra in Yemen, il cui costo è di 1,5 miliardi di dollari al mese e molti osservatori hanno già ribattezzato "il Vietnam saudita". L'ultimo grafico mostra come il credit default swap saudita a 10 anni veda il rischio di bancarotta al 23%, mentre il tasso Sibor a 3 mesi - indicatore dello stress sul credito - è salito ai livelli massimi dalla crisi Lehman. 

Insomma, una situazione molto delicata che si sta riverberando anche sul livello di repressione che il regime teocratico sta mettendo in atto per scongiurare possibili proteste o rivolte popolari, tanto che a oggi sono in 53 i cittadini imprigionati e in attesa di essere decapitati, tra cui lo sceicco Nimr al-Nimr, il religioso sciita condannato a morte per avere guidato proprio le proteste popolari del 2012. Come può, quindi, un Paese che ha gli stessi metodi di gestione della giustizia dell'Isis, come ci mostra la tabella a fondo pagina, presiedere la Commissione per i diritti umani dell'Onu, fare affari con i Paesi occidentali e, soprattutto, restare un solido all'alleato degli Stati Uniti, quando anche i bambini oramai conoscono i palesi link sauditi agli attacchi dell'11 settembre? 
Semplice, attraverso un network di propaganda capillare e sofisticatissimo. E Ryad ha operato alla grande e senza badare a spese in tal senso, come ha scoperto il giornalista Lee Fang di "Intercept" che da tempo segue e svela le operazioni di propaganda mediatiche saudite presso il mondo politico e il comparto industriale statunitense. Lo scorso marzo, subito dopo aver lanciato i primi attacchi aerei e dato via alla missione di terra in Yemen, ad esempio, l'Arabia Saudita ha cominciato a impegnare significative risorse per un vero e proprio blitz di pubbliche relazioni a Washington: un campagna di PR in piena regola, necessaria per nascondere il più possibile al mondo il feroce attacco contro uno dei Paesi più poveri del Medio Oriente, una campagna che fino a oggi ha reclamato quasi 6mila vittime e migliaia e migliaia di rifugiati nella vicina Somalia. 
Al centro dell'operazione di immagine e dell'offensiva di simpatia verso gli Usa c'è stato il lancio di un portale media operato da consulenti di alto livello per la campagna elettorale del Partito Repubblicano Usa, l'apertura di un sito Internet in lingua inglese dedicato a "imbellettare" gli sviluppi della guerra in Yemen a favore dei sauditi e alcune cene molto eleganti e glamour con politici di alto livello e rappresentanti dell'elite economica, durante le quali ovviamente si operava al fine di accaparrarsi i favori di regolatori e giornalisti. 
Ma non solo. Alla faccia dell'austerity in patria, l'ambasciata saudita a Washington ha ingaggiato il fratello del capo della propaganda elettorale di Hillary Clinton, il leader di uno dei più grandi gruppi di pressione del Partito Repubblicano e anche uno studio legale con stretti legami con l'Amministrazione Obama. Inoltre, per non farci mancare nulla, Ignacio Sanchez, uno dei principali raccoglitori di fondi per Jeb Bush, è un lobbista per la causa saudita. Insomma, per usare un gergo di strada, sono belli coperti. 
Nel mese di settembre, il Regno saudita ha aiutato a sponsorizzare eleganti galà per l'elite del business di Washington presso il Ritz Carlton Hotel e l'Andrew Mellon Auditorium: alla presenza di Re Salman, in sala si trovavano i principali dirigenti della General Electrics e della Lockheed Martin, il presidente della catena Marriott International e tutto il fior fiore dei funzionari dei principali think tank. Ma non basta, perché come nella migliore tradizione dello spin, sono anche i numerosi progetti no-profit finanziati dal governo a operare attraverso i media in favore del profilo democratico di Ryad. 

Lo scorso 21 settembre, ad esempio, Hussein Ibish, un insegnante senior dell'Arab Gulf States Institute di Washington, un nuovo think tank interamente finanziato dal governo saudita, scrisse un editoriale nientemeno che sul New York Times, minimizzando gli ultimi due anni di presunte e supposte divergenze tra i governi Usa e saudita e, in nome di un "Saudi-American Reset" come recitava il titolo dell'articolo, insisteva sul fatto che «i nuovi contorni di una rivitalizzata e in evoluzione partenership tra Usa e Arabia Saudita stanno cominciando a prendere forma». Peccato che nell'occhiello di presentazione dell'autore, il New York Times omise di dire ai suoi lettori che il think tank di cui fa parte è interamente finanziato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, di fatto regalando propaganda a costo zero e stampata su quotidiani Usa letti in tutto il mondo. Alla base dell'intero sforzo di spin e manipolazione mediatica e politica di Ryad c'è Qorvis, un'azienda di consulenza che ha lavorato per il governo saudita fin dai mesi successivi all'attacco contro le Torri Gemelle del 2001: recenti rivelazioni legate al Foreign Agents Registration Act statunitense hanno dimostrate che Qorvis ha creato un intero sito web dedicato alla guerra in Yemen -www.operationrenewalofhope.com -, il quale inoltre cerca potenziali supporters in Stati selezionati e si premura di offrire notizie relativa al conflitto yemenita a giornalisti interessati. L'infografica a fondo pagina esemplifica e mette in prospettiva il modus operandi saudita attraverso Qorvis. 
La sfacciataggine di Ryad, poi, non pare avere limiti, quanto la poca lungimiranza (o la molta malafede) dei media statunitensi, visto che oltre a questo sito, nel luglio di quest'anno l'ambasciata saudita a Washington ha lanciato Arabia Now, un hub online per notizie legate al Regno, stando a quanto scritto nell'elegante presentazione alla stampa. Fin dall'inizio delle pubblicazioni, il sito ha ospitato post in cui l'Arabia veniva descritta come «la più generosa nazione del mondo», arrivando al parossismo quando scrisse che «l'Arabia Saudita è stato l'unico Paese a rispondere all'appello di assistenza umanitaria lanciato dall'Onu per lo Yemen, aumentando le sue donazioni di 274 milioni di dollari». Peccato che, contemporaneamente, lo stia bombardando e le navi da guerra saudite al largo della costa bloccassero proprio l'arrivo dell'assistenza umanitaria nel Paese. 
Ma visto che l'operazione è capillare e in grande stile, Qorvis ha anche ingaggiato altre aziende per porre in essere il suo lavaggio del cervello presso l'opinione pubblica americana, tra cui Tuluna Usa, un'azienda che si occupa di sondaggi online e l'American Directions Group, una compagnia di sondaggi telefonici fondata da un sondaggista che in passato ha lavorato per Bill Clinton. Casualmente, funzionari sauditi sono ospiti regolari nei programmi di informazione dei canali via cavo negli States e tutti gli eventi che i think tank legati a Ryad organizzano a Washington DC sono finalizzati a «rassicurare i cittadini Usa sul fatto che la guerra in Yemen è anche nell'interesse statunitense». Io ho finito lo sdegno, non so voi. 




 

Sistema Bancario, la Bce da i numeri e chi controlla l'attività ponderata di rischio non falsificando i dati?

Banche sicure: consigli utili per capire se una banca è solida

Banche sicure: consigli utili per capire se una banca è solida

Con il Bail-in alle porte e con il caso del salva-banche diventa cruciale la scelta della banca su cui fare affidamento. Ecco alcuni consigli utili per la scelta della propria banca.
Con il fallimento delle 4 banche interessate dal decreto salva-banche, sono aumentate le preoccupazioni dei risparmiatori sulla scelta della banca a cui affidare i propri soldi. Nell’articolo si cercherà di illustrare alcuni punti chiave utili alla scelta della banca su cui fare affidamento.


Banche sicure: alcuni consigli utili

Le feroci polemiche innescate dal decreto salva-banche che ha portato al salvataggio degli istituti coinvolti a discapito di 150.000 risparmiatori, l’interrogativo principale adesso sembra essere su quale banca poter fare affidamento.
Con il Bail-in alle porte, la domanda è sempre più di attualità visto che, con l’introduzione di tale metodo di salvataggio, i correntisti e gli obbligazionisti risponderanno in solido sulla situazione finanziaria della banca.
Un metodo infallibile per poter scegliere l’istituto di credito nel quale riporre i fondi personali purtroppo non esiste. Tuttavia, ci sono delle accortezze su cui un risparmiatore può fare affidamento.

1) Banche sicure: preferire quelle di grandi dimensioni

Il primo consiglio è sicuramente di basare la scelta su una grande banca piuttosto che su una di piccole dimensioni. Questo non esime il risparmiatore dal rischio di fallimento (vedi Lehman Brothers) ma ha sicuramente dei vantaggi.
Le banche di grossa dimensione sono sotto la lente della BCE con il meccanismo unico di vigilanza attraverso il quale la Banca Centrale Europea monitora l’andamento di circa 200 grandi istituti bancari europei. Grazie a questo meccanismo, il risparmiatore può contare sulla duplice vigilanza della BCE e di Bankitalia.

2) Reperibilità di informazioni: un altro criterio per scegliere una banca sicura

Le banche di grandi dimensioni sono soggette a notizie che hanno una maggiore rilevanza a livello nazionale e quindi possono essere più facilmente reperite rispetto a news riguardanti banche di piccole-medie dimensioni che spesso non balzano agli onori della cronaca (a meno di casi eclatanti).
Con un facile accesso alle notizie riguardanti la propria banca, il risparmiatore potrà tenere d’occhio tutto ciò che riguarda il proprio istituto di credito.
Le grandi banche, inoltre, contano tra gli azionisti di maggioranza grandi fondi di investimento, fondi pensione e altri intermediari finanziari che vigilano sul patrimonio dell’istituto poiché non sono intenzionati a subire perdite sui propri investimenti.

3) Banche sicure: quotazione in Borsa può essere d’aiuto

Un punto a favore delle grandi banche è che spesso sono quotate in Borsa. Poter monitorare personalmente l’andamento del titolo azionario è un bel vantaggio per il risparmiatore.
L’andamento del titolo azionario, se confontato con l’andamento di settore, può fornire indicazioni utili sulla situazione economica della banca poiché il mercato azionario tende a prezzare o deprezzare un titolo in base alla situazione finanziaria dell’emittente.
Di questi tempi, con il quantitative easing in atto, i titoli azionari delle banche potrebbero non riflettere fedelmente la situazione patrimoniale della banca poiché la manovra della BCE fa in modo di acquistare i titoli di Stato detenuti dalle banche gonfiandone in parte i profitti.
Tuttavia, la quotazione in Borsa fa in modo che vi sia un altro controllo sulla propria banca, ossia quello della Consob.

4) Analisi di bilancio e Cet 1 ratio

Per chi fosse un pò più pratico di finanza aziendale, la scelta migliore sarebbe quella di valutare personalmente la salute economica della propria banca, attraverso l’analisi di bilancio o dei report finanziari trimestrali e semestrali in uscita periodica durante l’anno.
Per chi non fosse pratico dell’analisi di bilancio, un parametro utile per la valutazione della salute finanziaria della propria banca è quello rappresentato dal Common Equity Tier 1.
Questo parametro esprime la solidità di una banca che viene calcolato attraverso il rapporto tra il Cet 1 (composto dal capitale ordinario) e le attività ponderate per il rischio.
La BCE ha previsto che il Cet 1 ratio sia almeno superiore all’8% per ogni banca e periodicamente indica il Cet 1 ottimale da raggiungere per ognuno degli istituti di credito sottoposti ai test della BCE. Valori alti di Cet 1 in genere indicano una buona salute della banca.
Tuttavia, è bene fare una somma di questo parametro con tutte le informazioni disponibili sulla propria banca, utilizzando le linee guida esposte in precedenza.

https://www.forexinfo.it/Banche-sicure-consigli-utili-per 

Renzi bugiardo&corrotto, spese folli alla provincia e al comune di Firenze e la magistratura collusa non ha indagato


11-12-2015 | 20:59:45
CASO MAIORANO

Matteo Renzi in tribunale come testimone a gennaio, parte lesa diffamazione

Citata come testimone anche la nostra giornalista Barbara Laurenzi






E' stata fissata per il 25 gennaio la testimonianza del premier Matteo Renzi al processo in corso a Firenze a un dipendente del Comune, Alessandro Maiorano. L'uomo e' accusato di aver diffamato l'attuale presidente del Consiglio, anche con interviste e dichiarazioni sul web, attribuendogli sprechi quando era presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze. Il processo nasce dagli sviluppi di una denuncia di Renzi.
Il legale del premier, l'avvocato Federico Bagattini, ha ribadito che "salvo impegni di carattere istituzionale", il 25 gennaio il premier sara' presente in aula per testimoniare e che non si avvarra' della facolta' di essere ascoltato a Palazzo Chigi.
Il legale dell'imputato, l'avvocato Carlo Taormina, aveva chiesto le testimonianze di circa 150 persone e l'acquisizione di una serie di fascicoli, anche quelli delle indagini nate dalle segnalazioni di Maiorano e poi archiviate. Il giudice ha accolto solo le testimonianze di Renzi e di una giornalista, la nostra Barbara Laurenzi. Infatti, secondo quanto appreso da ItaliaChiamaItalia, oggi il giudice ha deciso che il giorno 25 gennaio 2016 oltre che sentire Renzi sarà sentita anche Barbara Laurenzi, autrice dell’intervista a Maiorano che ha scatenato polemiche a non finire.

 http://www.italiachiamaitalia.it/articoli/detalles/30227/MatteoORenziOinOtribunaleOcomeOtestimoneOaOgennaio%20OparteOlesaOdiffamazione.html

Renzi bugiardo&corrotto, la Leopolda è una riunione di rimpatriati di reduci

Matteo Renzi apre la Leopolda senza affrontare le questioni calde. E Saviano è il convitato di pietra
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RENZI
 
 
“Certo però ha fatto un attacco proprio alla Sallusti o alla Belpietro… E poi su una cosa non vera: il governo non ha favorito il padre della Boschi…”. Oggi Roberto Saviano è questo per Matteo Renzi e i suoi. Se ne parla così nella ‘war room’ col premier nel backstage della Leopolda. Al suo arrivo intorno alle 20, Renzi se ne sta lì con i suoi fino alle 21.30, quando sale sul palco per dare inizio alla tre giorni. Nel backstage ci sono i più fidati: Bonifazi, Fiano, Guerini e altri. Si scambiano battute, ma si parla soprattutto del tema del giorno: l’attacco di Saviano sul conflitto di interessi di Maria Elena Boschi intorno al decreto salva banche. Saviano è l’ombra che si staglia sulla Leopolda 2015, sui gadgets e l’albero di Natale all’entrata, sui video dell’Italia che cresce con il soundtrack di Jovanotti, fino al backstage. Non esce da lì: convitato di pietra.
Dopo aver sguinzagliato i suoi ad attaccare l’autore di Gomorra nel pomeriggio, sul palco Renzi decide di non dar fiato alla polemica sul ‘salva banche’. Nemmeno una parola su Saviano e la richiesta di dimissioni del ministro Boschi. E, di contro, nemmeno una parola in difesa della Boschi. Niente che sia stato detto negli scambi privati di questa convulsa giornata arriva sul palco leopoldino. Renzi decide di non consegnare la sua Leopolda a Roberto Saviano e le sue polemiche. La festa non si sporca: non sul palco in solito stile vintage, già sperimentato nelle passate edizioni della kermesse renziana.

Il premier però si presenta teso. Abito blu istituzionale, spariscono i jeans dell’anno scorso. Si scioglie via via, malcelando l’appresione sotto il vestito della festa. Man mano è sempre più a suo agio: via la giacca, la cravatta, opta per la solita, confortevole camicia bianca. “C’è una generazione nuova di persone che ci mettono la faccia e non solo la faccia”, dice Renzi presentando lo showman e la showgirl di questa Leopolda: Ciro Buonajuto, sindaco di Ercolano, Ottavia Soncini, vicepresidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna. In sala stampa cala il silenzio quando premette: “Può sembrare strano che iniziamo come se niente fosse…”.

Ma non è a Saviano che Renzi si riferisce. No, parla degli attentati di Parigi e delle minacce terroristiche, giustamente, tema grosso che scuote anche la Leopolda, costretta tra porte chiuse e controlli serratissimi. Fino al punto che pure il manager Expo Giuseppe Sala, promessa renziana per le amministrative di Milano, viene bloccato all’entrata. “Documenti prego…”. E non serve che i suoi facciano notare: “Ma lui è Sala, deve intervenire…”. “Niente da fare, faccia il giro…”, dall’ingresso autorità, dove Sala raggiunge Renzi, nel backstage.

“La Leopolda per me è tornare a casa”, argomenta Renzi decidendo di non abbandonare sul palco Ciro e Ottavia, ma di condurre lui: come sempre. Boschi, da sempre la madrina della festa leopoldina, non c’è. Questa sesta edizione è partita in salita, sul palco ci resta Renzi a gestire in prima persona. “Ma la Leopolda non è un ricordino, non siamo una rimpatriata di reduci e la domanda che dobbiamo farci è: come è possibile parlare di cambiamento con il terrorismo e le minacce? Dobbiamo partire da un dato di fatto e cioè che oggi c'è qualcuno che vuole distruggere quel che siamo". Il campo è perfetto: è quello sul quale il governo ha incassato meno critiche, la linea di prudenza dopo gli attentati di Parigi sul quale il premier rastrella consensi.

Un quadretto positivo sporcato dall’attacco funesto di Saviano. Proprio nel giorno del via alla Leopolda. Renzi ce l’ha quasi sulla punta della lingua, ma si tiene. Per tutta la giornata ha avuto un umore nero di quelli con lo strascico. Ma quel nome, Roberto Saviano, non lo pronuncia. “Vedo alcuni che sperano nel fallimento”, è il massimo concesso. “Ci sono alcuni dei nostri nemici che fanno la ola quando arrivano i dati Istat negativi”. Il compito di rispondere al question time sull’economia - e naturalmente anche sul salva banche se domani arriveranno domande dalla platea della Leopolda – è affidato a Pier Carlo Padoan.

“Raccontare le cose che vanno bene non è storytelling ma rispetto della realtà”, combatte Renzi dal palco, prima di passare a leggere passi del libro “Terra degli uomini” di Antoine de Saint-Exupery, che dà il titolo alla Leopolda come la canzone di Jovanotti, ‘Terra degli uomini, appunto. “Quando noi diciamo che le cose vanno bene in Italia non lo facciamo per spingere sull’ottimismo ma per ridare fiducia al paese e rimetterlo in moto”, conclude. Sembra quasi una supplica.

Sistema Bancario, le banche italiane hanno in pancia, 200 miliardi di buchi MA pare che solo la Deutsche Bank ne abbia 54.700 miliardi



BLOOMBERG LANCIA L'ALLARME ''BANCHE ITALIANE'': ''HANNO IN PANCIA 200 MILIARDI DI CREDITI MARCI. E' TERRORIZZANTE'' (ADDIO)

venerdì 11 dicembre 2015
NEW YORK - Il monte dei crediti deteriorati detenuti dalle banche italiane e' calato a ottobre di un miliardo di euro, dopo essere cresciuto ininterrottamente per tre anni nel corso della crisi economica che ha attanagliato il paese, ma questa non è affatto una buona notizia.
Si tratta solo di un maquillage contabile che non deve trarre in inganno.
Il calo, infatti, è dovuto alla cessione di portafogli di crediti "marci" da parte dei creditori, e cioè del sistema bancario nazionale, piu' che a una vera e propria svolta del settore. Che non c'è e non è prevista.
Ad oggi le sofferenze ammontano a circa 200 miliardi di euro (199 miliardi stando agli ultimi dati di Bankitalia), e rappresentano circa il 18 per cento del credito corporate complessivo emesso dalle banche italiane. Una cifra in assoluto gigantesca e agghiacciante dal punto di vista del rapporto percentuale col credito concesso al mercato dalle banche italiane.
Mark Gilbert, giornalista economico di lungo corso, affronta il tema delle sofferenze bancarie italiane con un editoriale di rilievo su "Bloomberg", editoriale che rappresenta il parere della testata, come tale giudizio condiviso dall'editore.
"L'Italia - scrive Gilbert - si e' trascinata faticosamente fuori dalla recessione e nel terzo trimestre di quest'anno ha conseguito una crescita del pil dello 0,8 per cento, ma si tratta comunque di un tasso di crescita dimezzato rispetto a quello dell'eurozona nel suo complesso".
"Se il governo italiano non trovera' una cura efficace per le sofferenze bancarie - prosegue Gilbert - che agiscono da palla al piede alla cinghia di trasmissione del credito l'economia del Belpaese continuera' a far peggio di quelle dei suoi vicini".
"Il monte dei crediti bancari italiani in sofferenza - si legge - e' ancor piu' terrorizzante quando lo si guarda in prospettiva all'output economico trimestrale: le sofferenze ammontano a 200 miliardi, grosso modo meta' di quanto l'economia italiana produce nell'arco di tre mesi". Parole che assomigliano a sassate tirate addosso al sistema bancario italiano.
"Il problema - sottolinea poi l'editorialista di Bloomberg -  vero è che non è solo italiano: se le banche dei paesi dell'eurozona sono appesantite dalle sofferenze, i tentativi della Banca centrale europea di stimolare la crescita e i prezzi al consumo tramite il quantitative easing sono inevitabilmente destinati al fallimento". Fallimento che per altro è già realtà, basti pensare che nè la deflazione è stata battuta, nè il valore di cambio dell'euro è disceso a livelli accettabili.
L'articolo di Bloomberg sottolinea, quindi, che la crisi bancaria riguarda tutta l'area dell'euro, ma in Italia il buco nei conti delle banche ha dimensioni spaventose. E non esistono soluzioni praticabili diverse dal bail in. Se le banche italiane non riceveranno capitali freschi per 200 miliardi di euro, questi crediti "marci" che più prima che poi dovranno essere contabilizzati come perdite, e certamente non potrà non accadere nel prossimo anno, causeranno un bail in a catena della maggior parte degli istituti di credito del Paese.
Avendo recepito - ovvero accettato e sottoscritto - le norme sul bail in, le banche italiane di fronte all'obbligo di coprire perdite col proprio capitale, si troveranno nella condizione di non poterci riuscire per mancanza di fondi. Non è vero, infatti, che le banche italiane abbiano accantonato 200 miliardi di euro per far fronte a questa tremenda emergenza. Al massimo, gli accantonamenti possono coprire il 20%. La differenza dovrà essere messa dal "mercato" oppure andando a prenderla - appunto - col bail in nelle tasche dei correntisti.
Redazione Milano

BLOOMBERG LANCIA L'ALLARME ''BANCHE ITALIANE'': ''HANNO IN PANCIA 200 MILIARDI DI CREDITI MARCI. E' TERRORIZZANTE'' (ADDIO)