Accordo Grecia-Eurogruppo: l’ennesima beffa
La troika
chiede alla Grecia altre misure lacrime e sangue in cambio della
promessa di una rinegoziazione del debito dopo il 2018. Nel frattempo il
tracollo sociale ed economico della Grecia continua.
di Thomas Fazi
Nella notte tra il 25 e il 26 maggio, i ministri delle finanze della zona euro hanno raggiunto un accordo col governo greco
che prevede il via libera ad un ulteriore esborso di 10,3 miliardi ma
soprattutto – come era prevedibile – un impegno di massima (non
vincolante) da parte della troika ad “alleggerire” progressivamente il
debito greco. Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, l’ha
definito un accordo «ambizioso» e «un importante passo in avanti».
Secondo il ministro delle finanze greco Euclid Tsakalotos, la Grecia
«inizia ad uscire dal circolo vizioso della recessione». Un’analisi a
freddo dell’accordo in questione, però, non sembra giustificare tanto
ottimismo. È vero, per la prima volta si è discusso in modo concreto
dell’annoso problema del debito greco, e questa è senz’altro una
vittoria – innanzitutto simbolica – per Tsipras, che ha investito gran
parte del proprio capitale politico nella rinegoziazione del debito. Ma
le misure prese a riguardo lasciano molto a desiderare.
L’FMI, come è noto, chiedeva una ristrutturazione immediata del debito
– tramite un taglio nominale del debito (la scelta favorita dal Fondo
ma esclusa categoricamente dagli europei) o una rimodulazione delle
scadenze – e degli obiettivi di bilancio sostenibili: ossia un avanzo primario non superiore all’1,5 per cento del PIL (considerato comunque un’impresa).
L’accordo, invece, prevede una rimodulazione delle passività elleniche «dal 2018 in poi» – sarebbe a dire, dopo le elezioni tedesche del 2017 – e un avanzo primario del 3,5 per cento per il 2018, senza precisare se debba essere mantenuto successivamente. È un duro colpo per il Fondo. Nella sua ultima analisi sulla sostenibilità del debito greco,
rilasciata non a caso pochi giorni prima del meeting dell’Eurogruppo,
il Fondo monetario definisce l’avanzo primario che il governo greco si è
appena impegnato a rispettare come «del tutto irrealistico». «Anche se
la Grecia, attraverso uno sforzo eroico, riuscisse temporaneamente a
raggiungere un surplus vicino al 3.5 per cento del PIL – si legge nel
rapporto – pochi paesi in passato sono risusciti a mantenere avanzi
primari di questi livelli». Questo è confermato anche da uno studio di Barry Eichengreen e Ugo Panizza,
in cui i due economisti hanno analizzato centinaia di casi di paesi,
sia emergenti che avanzati, che tra il 1974 e il 2013 hanno cercato di
perseguire ampi e consistenti avanzi primari. Per concludere che avanzi
primari di questa entità sostenuti per più di pochi anni sono
estremamente rari, per motivi sia economici che politici.
Senza una significativa ristrutturazione del debito, l’FMI prevede
che il rapporto debito/PIL greco – attualmente pari al 180 per cento – è
destinato a crescere inesorabilmente, arrivando a poco meno del 300 per cento
entro il 2060 (riquadro sinistro nella figura seguente). Mentre i costi
di servizio del debito lieviterebbero ad un impossibile 60 per cento del bilancio governativo (riquadro destro), rispetto al 18,5 per cento di oggi. Va da sé che la Grecia andrebbe in bancarotta molto prima.
Il Fondo, insomma, ha ceduto su tutta
la linea: non solo la ristrutturazione del debito greco, che l’FMI
riteneva indispensabile da subito, è stata rinviata al 2018 (ad
eccezione di alcuni accorgimenti tecnici per evitare rischi di
volatilità dei tassi d’interesse pagati al MES) – permettendo così alla
Merkel di scavalcare le prossime elezioni – ma «l’impegno non è assoluto,
ed è invece legato a eventuale necessità e con il riconoscimento di
quanto Schäuble ripeteva da settimane, e cioè che è inutile e
impossibile fare previsioni adesso su quel che accadrà nel 2018, alla
fine del terzo programma di salvataggio». Tutto rimandato a domani. E
questo nonostante la ristrutturazione del debito fosse stata promessa
per la prima volta già nel lontano 2012.
Ancora una volta la brutale realtà dei rapporti di forza – per cui
ciò che è buono per la Germania è buono per l’Europa intera – ha avuto
la meglio sulla logica economica e sullo spirito di solidarietà. Come ha
commentato un caustico Marco Zatterin sulla Stampa:
Le riunioni dell’Eurogruppo sono quello sport cui si
gioca a ventidue – diciannove Stati e tre istituzioni – e alla fine
vince la Germania. Nella notte è andata così col dossier greco, di
nuovo. Il Fondo monetario ha chiesto sino all’ultimo che fosse falciata
via subito una parte rilevante del debito ellenico, ritenendo che Atene
avesse già fatto molti sforzi e che l’onere del suo immenso debito coi
creditori europei rischiasse di rendere la cura più pericolosa della
malattia. Il tedesco Wolfgang Schäuble si è impuntato, per obblighi
politici e fedele al principio secondo cui non un centesimo preso dalle
tasche dei suoi elettori deve essere condonato a un debitore.
E questo – non ci stancheremo mai di ribadirlo – nonostante la
Germania abbia beneficiato, alla conferenza di Londra del 1953, di uno
dei più grandi tagli del debito mai visti nella storia, senza di cui «il
miracolo economico tedesco non sarebbe stato praticamente possibile»,
assicura Ursula Rombeck-Jaschinski dell’università di Düsseldorf,
autrice del libro sul trattato del debito di Londra Das Londoner Schuldenabkommen.
E che dire dei 10,3 miliardi che la troika verserà a breve nelle
casse dello Stato greco? Una cosa è certa: non ci rimarranno a lungo.
Nonostante i media si ostinino a parlare di “aiuti”, come se quei
miliardi dovessero veramente finire nelle tasche dei cittadini greci,
essi serviranno perlopiù per permettere allo Stato greco di far fonte
alle prossime scadenze obbligazionarie: perlopiù titoli in mano all’FMI e
alla BCE, la stessa BCE che sta “stampando” 80 miliardi di euro al mese
attraverso il suo programma di quantitative easing. Un’enorme partita
di giro, insomma, in cui la troika verserà dei soldi “alla Grecia” per
permettere alla Grecia di ripagare la troika.
È una copione già visto. Secondo un recente studio della European School of Management and Technology di Berlino – che di fatto non ha fatto altro che confermare quanto già scritto da noi
e da altri più di un anno fa – i programmi di “aiuto” a sostegno della
Grecia, nel 2010 e nel 2012, in realtà, hanno salvato principalmente le
banche e gli investitori privati. Dallo studio risulta che nel bilancio
dello Stato greco sono finiti solo 9,7 miliardi, cioè meno del 5 per
cento del totale della somma stanziata dai creditori di Atene. I
restanti 86,9 miliardi, sono stati assorbiti da vecchi debiti: 52,3
miliardi per gli interessi, e 37,3 miliardi per la ricapitalizzazione
delle banche elleniche. Questi dati mostrano quanto sia fallace l’idea
secondo cui “i soldi dei contribuenti europei”, come siamo soliti
leggere, siano serviti a salvare la Grecia e gli altri paesi della
periferia; la verità è che, con la scusa di salvare le cicale greche, i
soldi dei contribuenti europei – di tutti noi – sono stati utilizzati
per salvare ancora una volta le grandi banche del continente. Molte
delle quali tedesche.
L’aspetto più interessante dell’accordo, però, è quello di cui si è parlato di meno. Ossia il fatto che, stando a quanto scrive il Sole 24 Ore,
esso potrebbe portare alla decisione da parte della BCE di accettare
nuovamente i titoli di debito greco come collaterale per le normali
operazioni di finanziamento delle banche. La BCE, che normalmente
accetta solo titoli investment grade, aveva, fino al febbraio
2015, concesso un’esenzione alla Grecia, poi revocata dopo la rottura
delle trattative con i creditori sul programma. Al tempo la misura fu
interpretata da molti come un chiaro messaggio rivolto al governo appena
insediatosi ad Atene: «Capitolate o sarete costretti a pagarne le
conseguenze». La decisione della BCE, infatti, ebbe l’effetto di
accelerare la fuga di capitali dal paese, costringendo la banca centrale
ad incrementare enormemente il volume dei prestiti di emergenza offerti
al sistema bancario greco e mettendo sotto forte pressione il governo.
Allo stesso modo, la decisione di riammettere i titoli di Stato greci
come collaterale – se confermata – può interpretarsi come il segnale che
la BCE ritiene definitivamente sedata la “ribellione” greca. Questo ci
fa capire quanto le decisioni che vengono assunte dalla BCE e dagli
altri organi dell’UE, a dispetto della narrazione ufficiale, non abbiano
proprio nulla di tecnico – il rating dei titoli di Stato greci,
infatti, è rimasto invariato (anzi, i tassi sui titoli a dieci anni sono
addirittura aumentati dopo la sigla dell’accordo!) – ma abbiano invece
una connotazione prettamente politica. Nel caso della BCE: usare
l’enorme potere che deriva dalla sua capacità di emettere moneta per
costringere i governi a implementare riforme in ambito economico,
fiscale e strutturale.
Il recente accordo con l’Eurogruppo, infatti, è giunto pochi giorni
dopo che il governo Tsipras è riuscito a far passare in parlamento
l’ultimo tassello in vista dei nuovi prestiti, che prevede misure per
certi versi ancora più draconiane di quelle adottate finora. Tra queste:
un meccanismo che prevede una correzione automatica dei conti pubblici
nel caso di deriva del deficit pubblico, una accelerazione delle
operazioni di privatizzazione e un aumento delle tasse indirette.
Nel frattempo – e non poteva essere altrimenti, a fronte delle più
severe misure di austerità mai implementate in un paese occidentale – il
tracollo sociale ed economico della Grecia continua. Come si può vedere
dal seguente grafico, da quando SYRIZA si è piegata alla troika –
nell’estate del 2015 – la Grecia è caduta nuovamente in recessione.
Il tasso di disoccupazione continua a viaggiare al di sopra del 20
per cento, mentre la disoccupazione giovanile supera addirittura il 50
per cento. Ancora più preoccupanti, però, sono le previsioni che fa il
Fondo monetario internazionale, nel succitato rapporto, sulla
disoccupazione greca da qui al 2060. Le proiezioni demografiche del
Fondo suggeriscono che la popolazione in età da lavoro diminuirà del 10
per cento circa entro il 2060. Di conseguenza, il Fondo stima che –
anche se l’economia greca dovesse tornare a crescere e i suoi creditori
dovessero concedere un taglio del debito – il tasso disoccupazione
raggiungerà il 18 per cento nel 2022, il 12 per cento nel 2040 e il 6
per cento solo nel 2060. In altre parole, ci vorranno quarant’anni per ridurre la disoccupazione greca a un dato vagamente normale. Per i giovani greci, attualmente fuori dal mercato del lavoro, questo significa un’intera vita lavorativa.
Di fronte a questi dati drammatici mi chiedo: l’anno scorso molti di
noi hanno giudicato la permanenza nell’eurozona il male minore per la
Grecia, alla luce degli attuali equilibri internazionali. Possiamo
ancora sostenere che sia così?
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