Il ruolo di Israele nell’attuale crisi siriana è sostanzialmente
defilato. Per estensione, tutta la politica estera di Tel Aviv rivolta
ai vicini (e ai meno vicini) Paesi arabi sembra essere sottovoce da
almeno 4 anni. Fosse solo per questioni di sopravvivenza, l’importanza
dei rapporti coi dirimpettai lascia presupporre che dietro le quinte,
oltre l’apparente inerzia, si muovano invece leve importanti.
Le accuse ad Israele del governo siriano di giocare un ruolo nascosto
a favore dei ribelli iniziarono ad essere esplicite nel 2013, quando
l’offensiva da sud divenne tanto seria da costringere le Forze Armate
siriane ad un ripiegamento generale.
Le voci non erano solo propaganda. Un rapporto del 2014 della UNDOF (la missione dell’ONU preposta al disimpegno militare israeliano e siriano nel Golan) individuava contatti fra Tsahal e gruppi armati ribelli proprio nel territorio collinare occupato nel 1967 da Israele con la Guerra dei sei giorni.
Per contatti il rapporto intendeva l’appoggio logistico fornito ai
ribelli feriti al fronte, curati in campi preposti ad hoc nel territorio
del Golan occupato.
Le segnalazioni sono aumentate col peggioramento della crisi, quando
nel corso del 2014 il fronte sud siriano è esploso e l’avanzata ribelle
verso Damasco è diventata un dato conclamato di rilievo internazionale.
Precisiamo che l’UNDOF è formata da militari provenienti da
Canada, Giappone, Polonia, Slovacchia, Austria, India e Nepal, Paesi non
islamici e politicamente al di sopra di ogni sospetto di partigianeria
(3 di loro sono anche membri NATO, quindi teoricamente più vicini a
Israele che alla Siria).
Alle segnalazioni dell’ONU si sono sommate le dichiarazioni
(rilasciate a fonti locali sotto copertura) di alcuni ribelli, uno dei
quali alto ufficiale del cosiddetto Free Syrian Army. Secondo i
miliziani i contatti fra israeliani e ribelli siriani sarebbero stati e
sarebbero continui e riguarderebbero in modo particolare alti esponenti
di Al-Nusra (la Al Qaeda siriana) e Ahara ash-Sham,
entrambi gruppi fondamentalisti parte della galassia del terrorismo
islamista internazionale. Le dichiarazioni dei ribelli (fatte sotto
falso nome) lascerebbero trapelare anche il forte imbarazzo di molti
miliziani integralisti nell’accettare l’appoggio di Israele, considerato
per tutti un vero e proprio tradimento della causa islamista.
Israele dunque appoggia Al-Nusra?
Se ne parla da anni. Fatte salve le teorie complottiste e la
“geopolitica del sentito dire”, dal 2011 si conferma attraverso fonti
attendibili l’effettiva partecipazione di Tel Aviv nel conflitto
siriano, ma è bene fare chiarezza partendo da dati oggettivi, comprovati
da relazioni delle Nazioni Unite.
L’offensiva ribelle dell’autunno del 2014 nel Governatorato di Quneitra sarebbe stata condotta con l’aiuto militare diretto di Tsahal impegnato
a colpire postazioni dell’esercito siriano e a fornire appoggio tattico
e logistico. La città di Quneitra posta nell’estremo sud della Siria
era già una città fantasma dal 1967, abbandonata dagli abitanti alla
fine della Guerra dei sei giorni. Durante le operazioni 45 militari dell’UNDOF
furono catturati proprio dai miliziani islamisti appoggiati da Israele
per poi essere liberati, previo accordi di alto livello. 
Qual era e qual è dunque l’obiettivo di Israele?
Come già discusso su queste pagine, è presumibile che se Tel Aviv
avesse voluto calcare la mano per defenestrare Assad, lo avrebbe già
fatto: tra il 2013 e il 2014 la sorte del governo di Damasco sembrava
appesa ad un filo. La Siria, nemico giurato dello Stato Ebraico già ai
tempi di Assad padre, gioca però un ruolo essenziale per Israele
soprattutto se l’alternativa è il caos. La regola del “meglio un nemico certo possibilmente sotto forma di Stato che milizie armate senza controllo” ha un peso decisivo nelle decisioni strategiche di Israele e ha influenzato le scelte apparentemente low profile degli ultimi anni. Tutto ha senso alla luce di tre punti centrali:
- il nemico certo deve essere forte da tenersi in piedi, ma non abbastanza da essere offensivo;
- nemici come Hezbollah, capaci di colpire il territorio di Israele, devono essere neutralizzati o comunque depotenziati;
- il vero e forse unico nemico regionale di Israele, l’Iran, deve mantenere un ruolo marginale.
I tre obiettivi sono stati al centro dai colloqui fra Netanyahu e Putin del settembre 2015. Visti i pessimi rapporti fra il Likud
e l’amministrazione Obama, il summit si è svolto senza il nulla osta
USA (nonostante le dichiarazioni contrarie della Casa Bianca). Tel Aviv,
in cambio dell’avallo all’azione militare russa contro lo Stato
Islamico, ha ottenuto una duplice garanzia: Hezbollah,
impegnato in modo dichiarato sul fronte siriano, non avrebbe ricevuto
armi pesanti da poter riutilizzare poi contro Israele stesso; l’Iran
sarebbe entrato sul territorio siriano solo indirettamente (consiglieri e
volontari sì, truppe regolari no).
In altri termini, a Tel Aviv va bene che sopravviva Assad,
possibilmente senza tornare alla forza militare precedente il 2011. Va
bene a patto che si chiuda un occhio se gli F-16 prendono di mira di
tanto in tanto convogli sospetti dei miliziani sciiti, soprattutto sulla
linea di confine fra Siria e Libano, non lontani dal territorio
israeliano.
Nel 2014 l’ingresso in campo della Russia, in grado di controllare Damasco e di influenzare pesantemente Teheran, madrina di Hezbollah,
non era affatto certo. Le operazioni israeliane d’autunno in territorio
siriano erano dirette all’occupazione dell’intero Golan e alla
neutralizzazione del centro di osservazione di Tal Hara, usato per
monitorare i movimenti delle forze aeree israeliane (secondo fonti
ribelli diffuse poi in Occidente, usato anche dal GRU russo).
L’operazione non era rivolta come sembrava in apparenza ad incentivare
la vittoria degli islamisti, ma ad aumentare il cuscino di sicurezza
oltre confine proprio in caso di crollo del governo di Damasco. In
sintesi: una vittoria del fondamentalismo islamico non è negli interessi
di Israele; un suo annientamento nemmeno…
L’attuale frazionamento del fronte siriano con lo scontro frontale fra Califfato e islamisti di altra provenienza (Al-Nusra su tutti), fa ulteriormente il gioco di Israele, perché impedisce di fatto che emerga un vincitore assoluto.
I contatti con Al Qaeda continuano?
Per Israele la sicurezza è un principio assoluto, in testa alla lista
delle priorità. Tagliare un nodo gordiano scendendo a patti col
diavolo, per Tel Aviv non è un problema.
(foto: IDF)
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