Matteo Renzi ha annunciato cambiamenti all'interno del
partito e in vista dell'impegnativa campagna referendaria appare
improcrastinabile intervenire in maniera decisa e non solo a livello
superficiale. Si è parlato del lanciafiamme,
ma più che il fuoco purificatore al Pd servirebbe una ridefinizione
della propria azione politica. Chi siamo e non più chi eravamo, dove ci
troviamo e dove vogliamo arrivare: questi sono gli interrogativi che
tutti i dirigenti dovrebbero porsi.
Tuttavia per fare ciò ci
vogliono meno dirigenti acriticamente omologati ai capi-corrente e più
classe dirigente capace di interpretare il cambiamento che i cittadini
si aspettano. Serve una comunità pensante e non una sommatoria di
"micronotabilati".
Due sono le criticità che fino ad oggi
l'esecutivo nazionale del Pd non ha affrontato: l'identità politica del
partito e la classe dirigente sui territori. L'effetto Renzi ha fatto da
traino ai consensi del Pd, ma è un effetto che non può durare in
eterno. Bisogna prendere atto che non basta più l'eccezionale capacità
comunicativa del segretario, ora è necessario consolidare la struttura
su cui si regge la narrazione "renziana".
Quanto alla prima
criticità è innegabile che un partito politico non possa fare a meno di
una propria identità politica, non completamente identificabile nella
figura del proprio leader ma soprattutto autonoma rispetto all'azione di
governo. Far coincidere le proposte del Pd con l'azione politica del
governo è un'operazione che può andare bene quando governa solo il Pd,
ma non è questa la situazione attuale del paese. Per questa ragione,
onde evitare di continuare a essere il bersaglio quotidiano di chi
alimenta la protesta antigovernativa, è indispensabile per il Pd
recuperare uno spazio di manovra autonomo rispetto al governo.
Non servono né lo sterile controcanto della minoranza interna né le
difese d'ufficio di "brunettiana memoria". C'è bisogno di un ritorno
alla funzione propria degli organismi di partito. Militanti e non
tessere, dirigenti e non "yes man", pensiero lungo e non solo tweet.
Renzi più di tutti ha bisogno di un partito forte, ma ne ha bisogno
anche l'Italia.
Funzione partitica e funzione di governo sono
questioni distinte e non sono pienamente sovrapponibili, anche perché
dal governo l'opinione pubblica si aspetta soluzioni pratiche e
facilmente comunicabili. Il partito, invece, dovrebbe concentrarsi
sull'analisi dei problemi e del contesto, in modo tale da produrre
un'elaborazione politica sistematica in grado di affrontare le questioni
senza il timore di dover preservare equilibri di maggioranza. Il Pd, in
poche parole, deve dire al paese quello che vuol fare, non può
limitarsi a dire quello che può fare nell'attuale condizione di
maggioranza parlamentare.
Sull'economia, sul fisco, sul lavoro,
sul rilancio del sud Italia, sulle questioni europee, il Pd deve avere
una propria posizione, non può schiacciarsi su quella del governo, anche
se ciò appare complicato essendo Matteo Renzi sia segretario del Pd che
Presidente del Consiglio. Tuttavia è l'unica strada percorribile per
arginare le forze antigovernative e per restituire la propria funzione
al partito. Quanto alla seconda criticità da affrontare essa riguarda la
classe dirigente. Renzi dice che al sud deve entrare nel Pd con il
lanciafiamme e che è criticato perché ha cambiato poco il partito. In
effetti, tolti i pochi esponenti che godevano e godono di un proprio
consenso, Renzi "entrando nel partito", soprattutto nel sud Italia,
troverebbe le stesse persone di sempre. In maniera gattopardesca gli
esponenti locali del Pd hanno cambiato solo l'insegna della propria
corrente, ma sostanzialmente non è cambiato nulla.
È proprio in
questo trasformismo che si annida uno dei pericoli maggiori per il
segretario del Pd. La discrasia tra il cambiamento a livello centrale e
l'immobilismo a livello periferico frena qualsiasi sforzo innovatore e
allontana le energie nuove di cui ha bisogno il Pd. Il vero, esiziale
errore di Renzi è aver abbandonato la funzione di segretario, o meglio,
ha lasciato il lavoro a metà, permettendo ai vecchi quadri dirigenziali
di rientrare dalla finestra rendendo poco credibile la "rottamazione".
Regalare
e relegare i giovani alla protesta, vuol dire ignorare il malessere
generazionale che c'è in Italia e mostrarsi agli occhi degli elettori
come una forza conservatrice che vuol preservare lo status quo. La
cinghia di trasmissione del cambiamento "renziano" non funziona e
soltanto l'assenza di altre forze politiche - esclusa la naturale forza
attrattiva della protesta che oggi il M5s esercita - può far stare
relativamente tranquillo Matteo Renzi.
Se il segretario si
accontenta di accaparrarsi il consenso di chi sui territori, pur
ricoprendo ruoli nel Pd, è in antitesi con la narrazione riformista, il
Pd rischia di essere forza di governo per assenza di competitors e non
perché capace di convincere ed entusiasmare l'elettorato. Ma fino a
quando il Pd non avrà avversari?
Nessun commento:
Posta un commento