L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

martedì 26 luglio 2016

Strategia della Paura - L'angoscia che i mass media stanno inoculando in maniera massiccia nel corpaccione degli euroimbecilli serve per annichilire il pensiero e dirigerlo solo per mantenere l’istinto di sopravvivenza

Il ritorno selvaggio di Dio e della Guerra nella storia dell’uomo (di Franco Cardini)

Riprendiamo questa interessante riflessione del professor Franco Cardini apparsa sul sito www.barbadillo.it
I nostri media ci bombardano di notizie allarmanti, l’una dietro l’altra e l’una sovrapposta all’altra, a proposito di ogni tipo di crimine o di orrore. La cosa in sé non dovrebb’essere poi allarmante: si dirà che è un loro diritto-dovere riferire quel che accade nel mondo e che non è certo colpa loro se negli ultimi tempi i delitti, e in special modo quelli connessi con il terrorismo, stanno aumentando in modo preoccupante. Anzi, indurre preoccupazione e quindi invitare alla prudenza è, oltretutto, una funzione socialmente meritoria.
Al tempo stesso, però, nasce il dubbio che questo tipo di gestione delle notizie non abbia in sé i caratteri, magari involontari, di quell’atteggiamento che di solito viene definito allarmismo e che consiste nell’iterare e nell’esasperare i caratteri dei fatti che possono preoccupare. Se l’occultamento o la minimalizzazione di essi potrebbero esser colpevoli e comportare conseguenze anche gravi, l’insistenza e la sottolineatura eccessiva possono a loro volta falsare gravemente la realtà, possono suggerire comportamenti ispirati a disorientamento e a disperazione se non addirittura adozione di contromisure inadeguate in quanto eccessive. Insomma, qual è il giusto mezzo? Quale il modo corretto per informare a proposito di pericoli o di crimini suggerendo una sorveglianza corretta e adeguata ma senza cadere nel catastrofismo?
isis
Qualche giornale di questi giorni ha ricordato al riguardo un articolo di Albert Camus, uscito l’8 settembre 1944 sul quotidiano francese “Combat” e intitolato Giornalismo critico. Diceva appunto  Camus, in tempi nei quali la tecnologia dell’informazione si andava velocizzando ma non aveva certo raggiunto i nostri livelli: “Si cerca d’informare presto invece d’informare bene. Ma la verità non ci guadagna”.
Ma il punto non è solo la fretta; e, purtroppo, non è solo la verità. Non è detto per nulla – anzi, magari le cose stanno esattamente all’opposto – che i nostri media (e magari le forze economiche e politiche che li controllano) siano interessati primariamente alla verità. Se un pazzo piomba sul Boulevard des Anglais di Nizza facendo una strage, il collegamento con il fondamentalismo islamista precede addirittura la raccolta delle prove e lo svolgimento delle indagini; se uno squilibrato spara in un pubblico locale di Monaco di Baviera gridando “Allahu akbar!” – e non è nemmeno sicuro che l’abbia gridato; e comunque sono quasi certamente le sole due parole d’arabo ch’egli sa – il richiamo all’evento nizzardo è immediato, naturale e considerato indubitabile. In questo modo si finisce con il sentirci assediati, braccati, fasciati da un pericolo tanto incombente quanto irragionevole e pertanto incontrastabile: un pericolo che domina le nostre vite perché può colpirci dove e quando vuole, mentre noi siamo impotenti a tutto. Non solo a evitarlo, ma anche a difenderci. La paura dell’attacco terroristico, del quale non si fa altro che parlare da molti mesi,  si trasforma in pànico dinanzi all’inevitabile. Assume il ruolo solenne, quasi sacrale, del Fato.
primaguerra
Ho detto paura: e ho sbagliato sostantivo. Avrei dovuto chiamarla angoscia. La paura è come il dolore fisico acuto:  preciso,  circoscritto, che ci colpisce obbligandoci a reagire in qualche modo. Gridando, piangendo, imprecando, assumendo posture corporali del tipo che gli specialisti chiamano “antalgiche”, rovistando nella piccola farmacia domestica, telefonando al medico di fiducia, correndo al pronto soccorso. L’angoscia è il dolore cupo, sordo, inspiegabile, insidioso, che in fondo a livello fisico si potrebbe anche sopportare ma che ci sovrasta con la sua presenza, ci sfibra, ci obbliga a diagnosi disorientate e arbitrarie, si fa perdere il controllo della nostra fantasia, ci fa disperare. Dinanzi al dolore del primo tipo, la reazione è positiva, decisa e in genere risolutiva. Dinanzi a quello del secondo tipo è spesso inadeguata e in genere negativa: finché esso non si  palesa esplicitamente o non cessa.
Purtroppo, l’angoscia davanti al pericolo terroristico – che rischia d’indurre a ipotesi semplicistiche e aprioristiche sulla sua stessa natura – è di fatto favorita dai nostri media: o per desiderio di scoop o per calcolo politico. Pessimi consiglieri entrambi, sul piano civico.
Paure, o addirittura Grandi Paure, le generazioni passate ne hanno conosciute parecchie. Le guerre, le invasioni, le carestie, le epidemie. Noialtri europei, all’indomani della seconda guerra mondiale, ci siamo troppo a lungo sentiti ormai immuni da rischi che stimavamo appartenenti al passato. Le guerre, ad esempio, erano ormai progressivamente isolate nelle periferie del mondo. Allo stesso modo, secondo la corrente sensibilità moderna, Dio era ormai isolato nelle periferie della coscienza di qualche attardato. Non era evidentemente così. Il jihadismo ci ha posto drammaticamente di fronte a un “ritorno selvaggio di Dio” al proscenio del teatro della storia. Parallelamente, assistiamo a un “ritorno selvaggio della guerra”. Qualcuno commenterà che la storia si è rimessa in moto. In realtà, non si è mai fermata.
Franco Cardini

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