L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 13 febbraio 2016

2016 crisi economica, toh il protezionismo è uno strumento che si usa nell'economia, pss pss globale


Ue all’attacco nella guerra dell’acciaio con Cina e Russia: “Pronti a usare tutti i mezzi”

12 febbraio 2016

La Commissione apre tre nuove inchieste anti-dumping contro Pechino e impone dazi a importazioni dal colosso asiatico e da Mosca. Malmstrom: “Devono rispettare le regole”

Bruxelles – Continua la guerra dell’acciaio tra Bruxelles, Pechino e Mosca. La Commissione ha aperto nuove inchieste antidumping per determinare se le importazioni di tre prodotti dalla Cina hanno violato le regole del mercato internazionale. Si tratta di tubi senza saldatura, lamiere da treno e placche di acciaio laminate a caldo.

Oltre a queste tre nuove indagini, l’esecutivo ha deciso di imporre a partire da oggi dazi antidumping provvisori sulle placche di acciaio laminate a freddo da Cina e Russia. Nell’imporre dei dazi a partire da ora la Commissione ha deciso di intervenire sulla base di un “rischio di danni”, senza aspettare che il danno si materializzi. Si tratta di una azione preventiva precoce, che è un passo eccezionale nei procedimenti di difesa commerciale. La Commissione europea ha deciso di attivare questo strumento dal momento che ha ritenuto che la denuncia presentata dall’industria contenesse elementi di prova sufficienti.

I dazi provvisori sull’acciaio laminato a freddo vanno dal 13,8% al 16% per le società cinesi e dal 19,8% al 26,2% per quelli russi. Grazie ad una precedente registrazione delle importazioni, la Commissione ha anche la possibilità di decidere in un secondo momento di riscuotere i dazi retroattivamente a partire dal dicembre 2015. Al momento i dazi anti-dumping riguardano l’1,38% delle importazioni cinesi, una percentuale comunque bassissima.

Il dumping si ha quando un Paese vende all’estero prodotti a un prezzo più basso di quelli che pratica nel proprio mercato interno, cosa che, se provata, consente di imporre dei dazi alle importazioni. Nel caso della Cina però, che non è considerata un mercato libero, il prezzo viene calcolato in base a quello di Paesi terzi per evitare distorsioni. “Non possiamo permettere che ci sia una concorrenza sleale delle importazioni fatta con prezzi artificialmente bassi per minacciare la nostra industria. Sono determinata a usare tutti i mezzi possibili per assicurare che i nostri partner commerciali rispettino le regole del gioco”, ha assicurato la commissaria al Commercio Cecilia Malmström.

Con le decisioni di oggi, l’Ue ha al momento in atto 37 misure di difesa commerciale sulle importazioni di prodotti siderurgici, e nove indagini sono ancora in corso.

Questo uomo è proprio un'imbecille

Matteo Renzi: "L'Europa ha pensato un po' troppo alle banche e poco alle famiglie"
Redazione, L'Huffington Post
Pubblicato: 12/02/2016 


"L'Europa in tutto questo tempo ha pensato un po' troppo alle banche e poco alle famiglie, io vorrei un'Europa un po' più sociale". A dirlo è Matteo Renzi durante un'intervista al programma Radio Anch'io. "Noi soffriamo - aggiunge -, ma non siamo più l'epicentro della crisi come negli anni precedenti". Il premier risponde anche al presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, che aveva detto all'Italia di non poter più fare richieste sulla flessibilità: "Non ci facciamo dettare la linea da Bruxelles".

"Ue ha sbagliato politica". L'Europa, secondo il presidente del Consiglio, in questi anni ha sbagliato politica economica. "Guardiamo cosa hanno fatto gli Stati Uniti - dice il premier -. Il mio obiettivo non è avere più flessibilità per l'Italia: oggi serve qualcosa di più delle regole di Bruxelles e tutti dobbiamo farcene carico". Pe Renzi "una parte dei commentatori italiani pensa che dobbiamo andare in Europa a prendere la linea, questo atteggiamento è sbagliato, è subalterno. In questi anni l'Italia è stata remissiva, noi non lo siamo".

"Juncker non è d'accordo con la flessibilità? Decide la Commissione".Riguardo alla questione della flessibilità, il premier spiega: "Juncker non è d'accordo?Le politiche di flessibilità sono un dato di fatto oggettivo della Commissione europea, è stata questa commissione a rilanciare sulla flessibilità". Il presidente aggiunge: "L'austerità non è solo risparmio ma è pensare che si possa fare a meno della crescita e degli investimenti e che l'unico modello è rigore e budget. Bisogna far ripartire la crescita".

"Io - continua Renzi - sto chiedendo un servizio civile europeo, una politica dell'immigrazione dove non si faccia come lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia... Cos'è lo zero virgola di fronte a una cultura europea? Lo 0,2 è un prefisso per chiamare Milano". E aggiunge: "Certo che la flessibilità è un valore, ma lo è perché riesco a rilanciare la crescita"

"Italia non è nell'occhio del ciclone". Renzi, a proposito dei problemi dell'economia e della crisi delle banche, afferma: "Noi dobbiamo stare molto attenti a come spendiamo i soldi perché non sono i soldi di un politico ma degli italiani". Per il premier l'Italia nel 2015 ha messo a posto la casa "e non piove più dal tetto". "Il 2015 - spiega Renzi - è stato l'anno record del recupero dell'evasione fiscale". Il premier continua: "Noi in Italia non siamo gli sfasciacarrozze, l'Italia non è più il malato d'europa. Non c'è più il problema dell'Italia in Ue, ma c'è una tensione generale per cui tutti dobbiamo lavorare a ridurre il debito".

"Sono contrario all'utero in affitto". "Io credo sia sacrosanto fare una legge sulle unioni civili e ci stiamo arrivando - dice Renzi -. Mentre sull'utero in affitto sono contrario". Sulla richiesta del presidente della Cei, il cardinal Angelo Bagnasco, di procedere al voto segreto in Senato, il premier commenta: "Decide il Parlamento".

2016 crisi economica, euroimbecilli con una Unione Bancaria cretina e una confusione tra i Salvataggi Interni ed Esterni

Banche, Padoan si sbaglia: fuga capitali è colpa del bail-in

12 febbraio 2016, di Daniele Chicca

ROMA (WSI) – Un mercato importante come quello italiano è in uno stato molto precario dal 2016, anno che ha visto guarda caso l’introduzione delle normative Ue, recepite dal nostro Stato, in materia di bail-in degli istituti di credito in crisi. Il nuovo impianto legislativo prevede che al salvataggio di una banca partecipino azionisti, creditori e in ultima istanza anche correntisti con più di 100 mila euro depositati in banca.

Ieri il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha detto che questo quadro normativo, che dal primo gennaio è andato a sostituire i piani di bail-out, non è all’origine dei cali di Borsa delle banche italiane e che il principale fattore dietro alle vendite a pioggia è la paura di un rallentamento dell’economia globale. Ebbene, l’ex funzionario dell’Ocse si sbaglia.

Molte entità come le piccole e medie imprese del Made in Italy non possono permettersi di avere mille conti correnti separati da meno di 100.000 euro in banca. Motivo per il quale è possibile che abbiano trasferito i loro soldi all’estero in lidi bancari che siano peraltro a meno rischio insolvenza, e in banche che non abbiano la pancia piena di crediti inesigibili.

Ovviamente il crollo dei titoli in Borsa non si spiega con un solo fattore. Il selloff di inizio anno in Europa si può spiegare anche con l’esposizione degli istituti verso il settore energetico, messo in ginocchio dal continuo crollo dei prezzi del petrolio. Tale esposizione potrebbe tradursi in ulteriori perdite, per le banche, del valore di $100 miliardi. Un altro elemento danneggiante sono i tassi bassi o negativi, che erode la redditività delle banche e nello specifico i margini netti di interessi (NIM).

Principio di corsa agli sportelli

La bancari va ancora a rilento in Italia, ma i pagamenti della Bce di Target2 stanno aumentando e l’andamento deve preoccupare. I Target 2 sono prestiti a breve che la banca centrale offre agli istituti di credito in salute dell’area euro per soddisfare il loro bisogno di liquidità.

Viene ritenuta una “misura eccellente per monitorare la fuga di capitali da un paese dell’Eurozona a un altro della stessa area”. Come spiega anche PIMCO, TARGET 2 sta per Trans-European Automated Real-time Gross Settlement Systems e indica il sistema di pagamenti interbancario che elabora i bonifici inviati da un paese all’altro dell’area euro in tempo reale.

Come già visto con la Grecia, sono stati spetto usati dalla Bce per aiutare le banche in crisi che riscontrano una carenza di capitali e tutto il sistema bancario in generale. Allo stesso tempo, per concedere crediti di questo tipoMario Draghi chiede in cambio un collaterale decente.

L’analista indipendente Pater Tenebrarum, economista molto seguito con il suo blog Acting-Man, ha spiegato come è stato strutturato questo collaterale per le banche italiane.

“Governo e banche italiani si stanno aiutando l’un l’altro facendo finta di esserepiù solventi e solidi di quello che non siano in realtà: le banche comprano beni dal governo (uffici, palazzi, basi militari, etc.) e pagano il Tesoro con bond governativi”.

A quel punto l’esecutivo affitta dalle banche gli edifici e le altre proprietà vendute, poi le banche usano quei contratti creditizi trasformandoli (cartolarizzandoli) in titoli derivati ABS (Asset Backed Securities). Il governo fa da garante per quei titoli: ciò rende i contratti idonei per le operazioni di prestito pronti contro termine presso la Bce.

Le banche piazzano ABS presso la Bce e comprano altri bond italiani, ritornando quindi alla fase numero uno di questo circolo vizioso all’apparenza infallibile e impenetrabile. Come già scritto anche da Wall Street Italia, si tratta di uno schema Ponzi di proporzioni inaudite.



Imprenditori, “trasferite denaro all’estero”

Prima la Bce, i governi e le banche potevano fare andare avanti all’infinito questo ‘giochino’, ma ultimamente le regole sono cambiate. L’Eurozona ha creato un mondo in cui la regolamentazione unificata delle banche è stata messa in piedi senza prima pensare a un modo efficace per salvare le banche. Come cuscinetto esiste solo l’assicurazione sui depositi a livello nazionale (in Italia è presente il Fondo interbancario di tutela dei depositi), che in molti paesi è inadeguata per i depositi sopra i 100 mila euro.

Senza assicurazione, i correntisti sono sottoposti al prelievo dei loro risparmi, nel rispetto della normativa sui piani di bail-in. Basta detenere meno di €100.000 euro in una banca italiana, anche se questa fosse in crisi di capitali, per potersi sentire al sicuro. Il problema è che non tutti possono permetterselo, come l’esempio fatto in precedenza delle Pmi italiane che rappresentano anche il cuore dell’industria e dell’economia italiana. Un qualsiasi imprenditore sano di mente avrebbe già provveduto a trasferire i propri soldi all’estero in una banca dal bilancio solido e il più solvente possibile.
La ricetta per un nuovo disastro

Per alcuni analisti o osservatori come Thomas Fazi l’unione bancaria così come è stata ideata non può che portare esiti disastrosi. A parte il fatto che ci sono banche troppo grandi per essere salvate (‘too big to bail’) anche con l’intervento del bail-in e a uno stadio successivo del bail-out tramite le risorse del fondo salva stati ESM. Il vero problema è un altro.

Consiste nel fatto che gli Stati membri sono costretti a ricorrere al bail-in come primo metodo di salvataggio di una banca, a prescindere dalle conseguenze di una simile operazione, dalla natura dei problemi dell’istituto, dal contesto macroeconomico, e così via. Insomma, “la ricetta prescritta dall’unione bancaria europea rischia di scatenare un nuovo disastro”.

Salvataggio Interno, una delle boiate del Capitalismo, incapace di dividere le banche commerciali da quelle d'investimento e creare posti di lavori dignitosi

Sospendere il bail-in perché alimenta il rischio sistemico

di Carlo Bastasin con un articolo di Alessandro Merli12 febbraio 2016


Bassa crescita globale, calo dei prezzi e mancanza di coordinamento tra le autorità rendono la crisi in corso forse meno grave di quella del 2008, ma ancora più intricata. Come allora l’epicentro è il sistema finanziario. Quello che fa una banca è finanziarsi a breve termine per poi impiegare quel denaro in prestiti a più lunga scadenza.

Quanto maggiore è la differenza tra i tassi a lunga e quelli a breve e tanto più una banca guadagna. Con un’economia sull’orlo della deflazione, la redditività delle banche sparisce perché anche i tassi a lunga sono vicini a zero. La crisi bancaria a sua volta aggrava la depressione economica.


Quando a fine 2015 la Federal Reserve ha cercato di alzare i tassi, sperava di normalizzare i rendimenti a lunga. Ma la decisione della Banca del Giappone di rispondere con tassi negativi all’apprezzamento dello yen ha fatto capire al mercato che le banche centrali non stavano affatto cooperando e che sarebbe scattata una concorrenza al ribasso dei tassi, con ripercussioni sui bilanci delle banche. Lo yen si è addirittura rafforzato nell’attesa di rappresaglie da parte delle altre banche centrali.

Infatti mercoledì Janet Yellen ha rinviato le attese di rialzo dei tassi Usa e quando ieri la Banca di Svezia ha ridotto a -0,5% il tasso di rifinanziamento si è capito che la competizione tra le autorità monetarie globali era senza regole.

La normalizzazione dei tassi non sarebbe arrivata e i dubbi sulla redditività delle banche si sono aggravati di colpo trascinando le Borse mondiali.

La Bce ha cercato di assicurare che avrebbe contrastato la deflazione con ogni mezzo. Mario Draghi ha dichiarato che non ci sono freni alla capacità di stimolo, né pavimenti che limitino il livello negativo dei tassi. In effetti, invece, le banche commerciali non riescono a trasferire sui clienti i tassi negativi e questo significa che le politiche dei tassi negativi aggravano le perdite delle banche fino a ridurre la loro capacità di credito all’economia.

Per le banche centrali sembra una situazione senza via d’uscita: non possono alzare i tassi, né ridurli senza gravi conseguenze.

Ma il beneficio di aver vissuto la crisi del 2008 è che qualcosa dovremmo averla imparata. Le autorità fiscali sanno che devono rilanciare la domanda in un contesto di stagnazione in cui la politica monetaria ha esaurito le proprie armi. Le banche sono in crisi infatti anche perché la debolezza della ripresa comporta che la domanda di credito sia mediocre. Magari accelera la domanda di mutui ma non quella di prestiti delle imprese, la cui debolezza si riflette nella scarsità di investimenti. Eppure solo l’aumento del volume dei crediti avrebbe potuto compensare la minor redditività delle banche dovuta al calo dei tassi.

Ma, come detto, il tasso di crescita dell’economia resta troppo basso. Le attese di inflazione, invece di crescere, diminuiscono e questo fa aumentare i tassi reali nonostante la discesa di quelli nominali.

Dovremmo inoltre essere in grado di capire gli errori di regolazione che stiamo commettendo. In Europa esiste un problema di prestiti incagliati accumulati durante la recessione. Se ne stimano 900 miliardi lordi.

Quando sono emersi i problemi di alcune banche locali e poi in Portogallo del Novo Banco si è vista la pericolosità dei nuovi sistemi di risoluzione delle banche attraverso la ristrutturazione delle obbligazioni soggette a bail-in. Anche se oggi tutte le banche quotano a valori inferiori a quelli di libro, gli investitori colpiscono maggiormente quelle che, a fronte di requisiti di capitale più elevati richiesti dalle autorità di regolazione, si sono affidate all’emissione di obbligazioni. La regolazione del bail-in va dunque sospesa dato il rischio sistemico che ha innescato.

Infine a peggiorare la situazione è il fatto che siano circolate proposte di associare indici di rischiosità anche ai titoli di Stato nei portafogli bancari. Come rivelato su questo giornale, il governo tedesco propone di anticipare in Europa gli accordi che sono già allo studio a Basilea, imponendo alle banche di detenere capitale a fronte dell’enorme quantità di titoli pubblici.

A questo punto la redditività attesa del capitale bancario è precipitata e gli spread tra gli stati si sono riaperti. Questo modo di gestire la crisi europea va rimpiazzato da buon senso e spirito di cooperazione.

Banca di Etruria, lo stato di insolvenza apre automaticamente l'inchiesta di bancarotta fraudolenta anche nei confronti del Boschi e Rossi non ha titolo per indagare omette coscientemente, mente, i suoi rapporti con la famiglia Boschi



Banca Etruria: Csm chiede altri atti sul procuratore Rossi
DI BARBARA VELLUCCI, 12 FEBBRAIO 2016

Ieri il Tribunale di Arezzo ha dichiarato lo stato di insolvenza diBanca Etruria, un atto che potrebbe aprire le porte all’accusa dibancarotta fraudolenta per i membri del consiglio di amministrazione mentre è di oggi la notizia che il Consiglio superiore della magistratura avrebbe deciso di proseguire l’istruttoria nei confronti del procuratore di Arezzo Roberto Rossi. Il Consiglio avrebbe richiesto altri atti al Procuratore generale della città di Firenze, a proposito delle inchieste condotte sul padre della Ministra delle riforme, Maria Elena Boschi. Sarebbe stato proprio Rossi ad occuparsi delle inchieste sul padre della Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria.

Il Consiglio superiore della magistratura ha richiesto ulteriori attisoprattutto per vedere chiaro in una ben precisa vicenda: la Commissione che sta vagliando la posizione del procuratore Rossi vorrebbe sapere l’esito di un procedimento del 2014 per cui la Procura di Firenze aveva richiesto infine l’archiviazione del caso. Caso che si riferirebbe ad un’indagine su Pier Luigi Boschi, contro cui sarebbe stato ipotizzato un reato di natura previdenziale.

Il Consiglio superiore della magistratura avrebbe richiesto anche atti in merito ad un’ulteriore questione: l’inchiesta collegata ad unacompravendita immobiliare al cui centro era stato collocato sempre il padre della Ministra Boschi. Procedimento anch’esso archiviato, facendo cadere le accuse di turbativa d’asta, riciclaggio ed estorsione.

Soltanto dopo aver acquisito e valutato tutti questi atti il Consiglio superiore della magistratura valuterà la posizione del procuratore di Arezzo Roberto Rossi. Si ricorda che il Cms deve stabilire che Rossi e il suo ruolo siano stati incompatibili a svolgere l‘attività di consulenzaricoperta per il governo Renzi fino ad un anno fa.

Giulio Regeni e i Fratelli Musulmani, la più grossa minaccia esistente per gli europei e il Nord Africa, ma gli euroimbecilli fanno finta di niente anzi quelli italiani di Firenze e Torino ci fanno gli accordi

Luttwak choc: “Regeni? Magari l’ha ucciso un’amante. Se uno fa cose pericolose, se ne assuma i rischi”

Giulio Regeni ammazzato dai servizi segreti egiziani? Questa è mera speculazione, non sappiamo assolutamente niente su questi servizi segreti, che sono un’entità su cui non c’è nessuna informazione. Magari Regeni è stato ucciso da un’amante, da un poeta o da chissà chi”. Sono le parole choc pronunciate dal politologo americano Edward Luttwak ai microfoni de La Zanzara (Radio24), sulla tragica morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore universitario ucciso in Egitto. “E’ vietato assolutamente picconare il governo egiziano” – ammonisce Luttwak – “perché è quello che ha salvato l’Egitto e anche l’Europa dal regime dei Fratelli Musulmani, la più grossa minaccia esistente. Il governo egiziano ci sta proteggendo. E’ più che un alleato per l’Italia, una barriera protettiva, una diga. Un disappunto, una critica o qualsiasi dichiarazione italiana che eroda l’Egitto sono irresponsabili. Il governo italiano non deve dire niente”. E aggiunge: “Gli italiani sono liberi di viaggiare dove vogliono, sono liberi di esprimersi come vogliono, sono anche liberi di scrivere per Il Foglio o per Il Manifesto, però quando loro fanno queste cose ci sono conseguenze. Il governo italiano deve solo intervenire solo quando c’è una violazione dei diritti umani dalle autorità e non cominciare ad accusare un regime sulla base di nessun fatto”. Luttwak rincara: “Tutti facciamo cose pericolose e irresponsabili e prendiamo rischi. Quando però io prendo un rischio, ad esempio quando faccio SCUBA (immersione subacquea, ndr), non chiedo certo a un governo di compromettere i suoi interessi per quello che succede a me qualora io muoia. Le indagini sulla morte di Regeni? Il governo italiano può agire in maniera amministrativa, senza nessuna pubblicità o dichiarazioni ufficiali di ministri che possano suonare come critiche al governo egiziano”

2016 crisi economica, questo sistema economico e finanziario globalizzato è fallimentare, pensa solo ai profitti, e non alla Piena Occupazione Dignitosa

Lidia Undiemi sull'altalena dei mercati: "il neoliberismo ha fallito. Il potere politico del capitale va ridimensionato".


Meno 5%, più 4%, meno 5% e poi di nuovo rimbalzo tecnico. La frenesia di questa settimana nelle borse mondiali è stata enorme con Milano che ha perso quasi il 5%. Abbiamo intervistato l'esperta di diritto ed economia Lidia Undiemi sulla questione.

L'Intervista di Lidia Undiemi a l'AntiDiplomatico.

Come spiega l'altalena finanziaria di questi giorni?
Sono bastate le poche parole pronunciate da Janet Yellen per conto della Fed a scatenare il tonfo delle borse mondiali. Sia chiaro, l'economia globale è in crisi, la Cina rallenta più del previsto, la crescita è debole. Siamo al “si salvi chi può”, e i primi a salvarsi saranno i grandi capitalisti, come sempre.

Cosa attendersi nei prossimi giorni?
Quello della tempesta finanziaria dovuta all'inversione di rotta della politica monetaria statunitense è un film già visto. Pensiamo al 1979, quando Paul Volcker fu nominato presidente della Fed, con la sua politica di restrizione della politica monetaria (Volcker shock) – attraverso cui tentò di porre rimedio alla caduta del dollaro – ma per i paesi emergenti indebitati in dollari fu un disastro, restando intrappolati nella morsa del debito con pagamenti via via crescenti. La crisi finanziaria dei paesi debitori aprì la strada alle politiche di austerità imposte dal FMI. Gli anni &#
39;80 segnarono l'avvento delle politiche neoliberiste come risposta alla crisi: liberalizzazioni, privatizzazioni e austerità, manovre che colpirono anche i paesi l'Occidente, indipendentemente dall'indirizzo politico assunto dalla maggioranza. Questa parte di film l'abbiamo vista molto di recente.

Crisi finanziaria, crolli delle banche e tutti a dire “fate presto” per nuove riforme che significa meno sovranità e meno diritti per le popolazioni. Anche questo un film già visto di un sistema, quello capitalista, che possiamo definire fallito?
C'è un passaggio storico che non va sottovalutato, prima i neoliberisti potevano dire che occorrevano le riforma liberiste per rilanciare l'economia. Oggi invece questo non è possibile, le riforme sono state realizzate e la crisi è sempre più acuta.
E' arrivato il momento di guardare in faccia la realtà, questo sistema economico e finanziario globalizzato è fallimentare, e le politiche di correzione adottate dal FMI e dalla Troika sono servite soltanto a rimandare il problema facendo pagare il prezzo alle popolazioni colpite. Non è più possibile continuare a pensare che l'obiettivo primario è il salvataggio degli interessi finanziari a spese degli Stati.
La politica si fa economia, l'economia si fa politica, il neoliberismo ha fallito. Il potere politico del capitale va ridimensionato.

Libia, gli imbecilli pompano sempre di più il governo fantoccio ma nonostante ciò ancora a carissimo amico



Libia, sprint negoziale per nuovo governo

Roma - I membri del Consiglio di presidenza libico hanno lavorato tutta la notte per cercare di formare entro oggi la lista coi nomi dei membri del nuovo governo di riconciliazione nazionale. Secondo quanto riferisce il sito "al Wasat", le consultazioni per la formazione dell'esecutivo "ristretto", che dovrebbe essere composto da appena dodici ministri, in corso a Skhirat, in Marocco, ha avuto ieri un'accelerazione. L'idea è quella di annunciare la nascita dell'esecutivo lasciando al Consiglio di presidenza le deleghe del ministro della Difesa, essendo questo il vero ostacolo alla formazione del governo. L'articolo 8 dell'accordo sulla formazione del governo di unità nazionale, infatti, delega la responsabilità delle nomine dell'esercito al premier Fayez al Sarraj e al Consiglio di presidenza libico, formato dai rappresentanti delle tribù e delle regioni di tutto il paese. Proprio il mancato accordo sulla figura del ministro della Difesa ha spinto il premier incaricato Fayez al Sarraj a chiedere maggiore tempo, almeno fino a domenica 14 febbraio, per presentare la sua squadra.
Secondo i media libici la discussione sul ministero della Difesa era su tre nomi: Abdel Basat al Badri, attuale ambasciatore libico in Arabia Saudita e Giordania; Mohammed Hussein al Baraghuthi ex ambasciatore in Giordania; Hussein Abdullah al Abar, ufficiale di polizia in pensione. Il governo dovrà poi avere la fiducia del Parlamento di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale. E tre deputati libici che hanno sempre boicottato questo parlamento, dal suo insediamento due anni fa, contestandone la legittimità, hanno deciso di unirsi ai lavori dell'aula, seguendo il cammino di altri sette deputati che hanno giurato nei giorni scorsi e di altri dieci che lo avevano fatto a gennaio. Se si dovesse risolvere il complicato nodo del nuovo governo, tornerebbe di attualità l'eventualità di un intervento internazionale contro l'Isis a sostegno dell'esecutivo. A tal proposito le brigate di Misurata si sono proposte come avanguardia di un'eventuale missione militare dei paesi occidentali contro la citta' di Sirte, roccaforte del gruppo jihadista. E da Tunisi il ministero della Sanita' tunisino ha fatto sapere di aver gia' studiato un piano di emergenza per accogliere una possibile ondata di rifugiati e migranti in caso di eventuale azione militare dei paesi occidentali. (AGI) 

Siria&Parigi, gli Stati Uniti difendono i tagliagola, la Turchia e l'Arabia Saudita li foraggiano

SIRIA: COSA C'È DIETRO L'ACCORDO DI MONACO

(di Giampiero Venturi)
12/02/16 
L’International Syria Support Group formato da rappresentanti di Nazioni Unite, Stati Uniti, Russia, Unione Europea, Lega Araba, Cina, Egitto, Francia, Germania, Gran Bretagna, Iran, Iraq, Italia, Giordania, Libano, Organizzazione per la Cooperazione Islamica, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi ha annunciato oggi a Monaco il raggiungimento di un accordo sulla Siria.
Più che un accordo, nella sostanza si tratta di una convergenza d’intenti: aiuti umanitari da subito per le popolazioni dilaniate dal conflitto e un cessate il fuoco (non menzionato ufficialmente) entro una settimana.
Il prodotto finale in realtà nasconde una scissione profonda all’interno dei soggetti che hanno preso parte ai lavori: come è ormai noto da mesi, da una parte c’è la Russia che difende gli interessi di Damasco assente a Monaco; dall’altra il fronte variegato delle opposizioni alimentate dal cartello sunnita formato da Arabia Saudita, Turchia, Qatar ed Emirati, a loro volta confortati dagli Stati Uniti.
Dietro la cortina dei diritti umani si cela una partita geopolitica di portata non solo regionale. Gli USA e la Turchia premono per un cessate il fuoco reale quanto più rapido possibile per evitare ulteriori progressi dell’operazione di riconquista delle Forze Armate siriane dei territori strappati dalle fronde islamiste e dai disertori del Free Syrian Army tra il 2012 e il 2014. La Russia, impegnata nel sostegno politico e militare al governo di Damasco, preme viceversa per consolidare le posizioni di vantaggio raggiunte sul campo.
Non a caso sarebbe fresca la notizia da Ankara secondo cui Erdogan spingerebbe Washington per inserire nei futuri accordi l’istituzione di unaNo Fly Zone nel nord della Siria. La Turchia, in evidente imbarazzo internazionale per l’ormai conclamato sostegno militare ai terroristi di Al Nusra di etnia turcomanna (vedi reportage), cercherebbe così di congelare la raggiunta superiorità aerea ottenuta dai siriani con l’aiuto diretto e indiretto dei russi in una fascia di territorio che per tre anni ha potuto controllare più o meno liberamente.
La Turchia sarebbe ormai anche cosciente del fallimento del progetto di creare un’area cuscinetto al confine con la Siria da amministrare proprio con le popolazioni islamiche (e islamiste…) di origine turca. La “fascia protetta” avrebbe garantito una gestione dei profughi fuori dai propri confini e un ridimensionamento politico delle milizie curdo-siriane, determinante per la propria politica interna. Inutile aggiungere che la sottrazione territoriale a Damasco avrebbe avuto un significato geopolitico non indifferente nell’intera regione, con uno smacco evidente anche all’impegno pro siriano dell’Iran.
L’arma della minaccia profughi giocata da Erdogan contro l’Unione Europea sarebbe quindi la carta di riserva di Ankara, che dalle paure europee incasserebbe 3 miliardi di dollari. L’appiattimento di Bruxelles e delle singole cancellerie all’alzata di scudi turca, è un dato di enorme gravità su cui si sta parlando pochissimo.
Tornando all’accordo di Monaco, l’interpretazione nemmeno troppo sottile che intende dividere fra guerrafondai (Siria e Russia) e fautori della pace (il fronte sunnita) lascia quindi il tempo che trova. Gli stessi operatori, fra cui spicca Farah Atassi, membro dello High Negotiations Committee (dietro cui c’è l’ombra guarda caso dell'Arabia Saudita n.d.r.), fanno più confusione che chiarezza. Anche perché siamo ancora sul campo della teoria e i principali attori della guerra in Siria (governo e terroristi) non sono coinvolti nei lavori, per ovvie e comprensibili ragioni.
A questo proposito Difesa Online tiene a sottolineare che le notizie rimbalzate dalla quasi totalità dei media non sono provate direttamente sul terreno. I giornalisti accreditati dal governo siriano (fino a prova contraria l'unico ad averne il diritto sul proprio territorio) si contano sulle dita di una mano. Nella stragrande maggioranza dei casi, gli scoop non sono altro che copia-e-incolla di frammenti raccolti in giro e ripetuti secondo convenienza.
È bene quindi anche per quanto riguarda i diritti umani, andarci con i piedi di piombo. Siamo stati ad Aleppo quando altri ne ignoravano perfino l’esistenza e l’attuale overdose di notizie dalla seconda città siriana fronte caldo della rivincita dei governativi, ci fa rimanere quanto meno perplessi.
Alle 16 si riunisce a Ginevra una task force umanitaria che discuterà un piano ONU per un intervento di aiuti diretti alle popolazioni devastate da 5 anni di guerra. Se non si trasformasse in una bolla di sapone, potrebbe essere tra le poche notizie serie fra le tante frottole che si raccontano sulla Siria.
(Foto: القوات المسلحه السورية)

venerdì 12 febbraio 2016

2016 crisi economica, la Deutsche Bank è la miccia sistemica che farà scoppiare l'economia, le banche centrali nulla potranno

La sede di Deutsche Bank – Credits: ANSA

Deutsche Bank farà la fine di Lehman Brothers dando il via alla prossima crisi finanziaria? Domanda da catastrofisti, ma a chiederselo in queste ultime settimane non sono in pochi.

Non è una novità, per la verità, delle ultime settimane, nonostante il crollo in Borsa del titolo: -38% da inizio anno.

Basta fare una rapida ricerca sul web. In pochi minuti ci si accorge che a fare il paragone tra la banca d’affari americana, fallita nel 2008, e il colosso tedesco erano in molti.

Tra tutti il blog Zero Hedge, seguitissimo a Wall Street, in un post dello scorso giugno, e Seekingalpha, un sito americano specializzato in investimenti molto popolare tra gli addetti ai lavori, in un post dello scorso ottobre

Entrambi partono da un dato: la montagna di scommesse in derivati su cui siede il colosso di Francoforte (i dati sono però quelli di fine 2014) pari a 52 [52 mila miliardi anzi si dice 75 mila miliardi, martelun] miliardi di euro, un livello più alto del 66% rispetto a quello di Lehman ai tempi del crac e pari a circa 20 volte il Pil della Germania, stimato attorno a 2.700 miliardi di euro (9.600 miliardi di euro quello dell'Eurozona), con perdite potenziali da capogiro che fanno intuire l'importanza sistemica della banca tedesca.

È, infatti, la più esposta al mondo al business dei derivati. Ma davvero il mondo dopo otto anni rischia di rivedere nelle prossime settimane un film già visto? 

I rischi per gli investitori
Andiamo con ordine. Partiamo dal valore di Borsa di Deutsche Bank: oggi un’azione ha un prezzo inferiore a 15 euro (dati Bloomberg), meno del valore che aveva nel 2008 – 2009, tornando così ai livelli più bassi del 1999.

Il crollo a inizio settimana è stato di oltre il 10% a seguito delle preoccupazioni degli investitori sulla solvibilità dell'istituto (il debito in circolazione ammonta a 144 miliardi di euro), ma una notizia pubblicata dal Financial Times, che l'istituto tedesco però non ha confermato, di un maxi riacquisto di obbligazioni ordinarie ha dissipato i dubbi. 

Solo in parte, però: ora c’è il timore che la banca non riesca a onorare i pagamenti delle cedole dei cocos, le obbligazioni convertibili che permettono all'emittente di saltare il pagamento in periodi di stress e di convertirle in azioni per rafforzare il capitale e che, naturalmente, finiscono in prima linea in caso di bail-in.

Sono strumenti più rischiosi delle normali obbligazioni e sono diventati popolari negli ultimi anni tra le banche, perché possono essere inclusi nel patrimonio di vigilanza, e anche tra gli investitori per i loro rendimenti (anche il 6 e 7%).

Deutsche Bank nel 2014 ne ha messe per un controvalore di 5 miliardi di euro, ma il loro prezzo è crollato vistosamente negli ultimi mesi: sono scambiati ora al 75 - 80% del loro valore nominale. Come quelli di Santander e UniCredit

Il paragone con la banca italiana lo fa anche l’agenzia Bloomberg: segnala che la più grande banca tedesca oggi è considerata dal mercato più rischiosa di UniCredit, finita al centro degli attacchi speculativi a Piazza Affari delle ultime settimane. 

Tecnicamente, il credit default swap sul debito senior di Deutsche Bank (una sorta di "assicurazione" che rimborsa gli investitori in caso di default della banca che ha emesso l'obbligazione) è salito a 265 punti rispetto ai 245 punti di UniCredit.

Altri osservatori ricordano che la perdita per la banca tedesca è di 7 miliardi di euro nel 2015, la metà del rosso segnato nel 2013 dalla più piccola UniCredit (-14 miliardi di euro). Nessuno allora disse che la fine del mondo era vicina, anche se è evidente che il peso sui mercati finanziari dei due istituti è ben diverso. 


Aumenti di capitale e cambi al vertice
Ma torniamo a Zero Hedge, che ha ricostruito i movimenti degli ultimi due anni, forse le prime avvisaglie di uno stato non proprio di salute dell'azienda.

L'elenco parte con l'annuncio nell'aprile del 2014 di una prima ricapitalizzazione da 1,5 miliardi, salito poi a 8 miliardi il mese succesivo, e prosegue con la bocciatura agli stress test di marzo 2015, con l’accordo con le autorità britanniche e statunitensi, con il pagamento di una maxi multa da 2,1 miliardi di dollari per la manipolazione del Libor, e con l'aumento dei poteri in carico a uno dei duo ex ceo di allora, Anshu Jain, come nei periodi di crisi aziendale.

Ma la serie di fatti più sospetti sono quelli accaduti durante l'ultima crisi del debito in Grecia: il mercato da mesi parlava di possibili conseguenze su Deutsche Bank di un default di Atene.

Il 6 e 7 giugno, subito dopo l'annuncio di Tsipras, il 4 giugno (il giorno prima della scadenza), di far slittare a fine mese i pagamenti al Fondo monetario internazionale, i due ceo (Jain e Fitschen) si sono dimessi.

Tre giorni dopo, il 9 giugno, è arrivata puntuale bocciatura da parte di S&P del rating alla banca: BBB+, tre passi prima di finire tra i titoli spazzatura (junk).

Un giudizio di poco superiore a quello dell'Italia (BBB-) e più basso del rating che aveva Lehman Brothers (AA-) nell'estate del 2008, poco prima che fallisse.

La banca newyorkese, dopo l'ultimo taglio di rating a giugno 2008, impiegò 3 mesi per collassare. Sono passati sette mesi dall'ultima bocciatura per la banca tedesca che, malconcia, è ancora in piedi. Incrociamo le dita.

Arexpo-Expo, niente idee, una classe dirigente inutile, un governo di bamboccioni



PARLA IL RETTORE VAGO
“Post Expo senza regia”

Venerdì 12 febbraio 2016 ore 16:01

“Manca una regia chiara di questo progetto”. È un appello al governo quello del rettore dell’Università degli Studi di Milano, Gianluca Vago. Un appello affinché sul post Expo si passi dagli annunci ai fatti.

L’Università è stata tra i primi, esattamente un anno fa, a mettere sul tavolo un progetto per il post Esposizione. “La Statale prenota il dopo Expo: su quell’area la nuova Città Studi” titolava il Corriere della Sera il 4 febbraio 2015. Un progetto ambizioso da 500 milioni di euro e per 18 mila persone tra studenti, docenti e personale tecnico e amministrativo. Una città universitaria in cui accogliere le facoltà scientifiche oggi a Città Studi e con a fianco il polo tecnologico di Assolombarda.

I mesi passano, tutti rispondono positivamente alla proposta di Vago, il campus universitario sembra piacere sia alla politica sia ai privati. Poi il 10 novembre 2015 arriva a Milano il presidente del consiglio Matteo Renzi e in un discorso dal Piccolo Teatro spariglia le carte: dalle ceneri di Expo nascerà il progetto “Human Tecnopole Italy” con al centro l’Istituto Italiano Tecnologico di Genova di cui nessuno, almeno pubblicamente, aveva sentito parlare fino a un minuto prima. Le università milanesi ci rimangono male ma non fanno polemiche. L’IIT di Genova è un centro di ricerca nato nel 2003 per volontà degli allora ministri Giulio Tremonti e Letizia Moratti ed è finanziato dal governo per 100 milioni l’anno. Secondo una relazione della Corte dei conti del 31 dicembre 2013 ha 430 milioni di fondi non spesi, particolare non secondario in una operazione come quella del post Expo, dove di soldi da spendere ne servono molti.

A mesi di distanza continuano a mancare una regia di governo unica sul progetto e un piano economico per il finanziamento. “Questa necessità c’era un anno fa e c’è oggi – dice il rettore Gianluca Vago – Non c’è ancora un esplicito riferimento a una struttura di governo, credo sia decisiva la partita sul futuro di Arexpo”. Si torna sempre lì, alla governancedi Expo, divisa tra Expo Spa e Arexpo, con tutti i nodi irrisolti ancora da sciogliere a partire dai crediti per 86 milioni di euro che Expo Spa ha chiesto ad Arexpo per bonifiche e infrastrutture del sito. “E’ un tema rilevante perché avere interlocutore chiaro è decisivo nel proseguimento dei lavori di studio e fattibilità dei singoli pezzi dell’area e poi per lavorare sul masterplan complessivo dell’area stessa” spiega Vago. Non sapete con chi parlare tra Expo, Arexpo e governo? “C’è una cabina di regia con rappresentanti Regione, Comune e il ministro Martina, ma ha un mandato transitorio”. Quando Vago parla di regia unica non pensa necessariamente a un commissario come è stato Giuseppe Sala, “può anche essere la società Arexpo ma va trasformato il suo mandato in soggetto esecutore unico con cui parlare. E’ un passaggio organizzativo decisivo”

La proposta del campus rimane sostanzialmente la stessa, l’annuncio di Renzi e l’ingresso dell’IIT di Genova hanno però ridefinito il perimetro del piano della Statale. “Consideriamo positivo l’impulso dato da Renzi” dice Gianluca Vago. Serviranno meno dei 200mila mq previsti all’inizio, ma il campus, nell’idea di Vago, resta da 16.500 studenti, circa 20.000 persone in tutto sommati i docenti, i ricercatori e il personale tecnico.

Nei prossimi giorni si dovrebbe capire innanzitutto come il Governo vuole entrare in Arexpo. Si parla del 40%, ma il nodo resta quello del bilancio Expo, su cui pesano le incertezze dei crediti, e come finanziare l’operazione. Qui entra in gioco Cassa Depositi e Prestiti, di cui l’ex commissario Expo Giuseppe Sala è diventato recentemente consigliere nel cda. “Occorre decidere rapidamente se la destinazione è quella legata alla formazione e la ricerca – dichiara Vago – e anche il tema del fast post è delicato: come si integrerà con il polo della ricerca?”.

L’operazione complessiva vale almeno 700 milioni di euro a cui si sommano i 300 del valore dei terreni, da vendere.

La Statale metterà i soldi che metterebbe nella ristrutturazione di Città Studi, circa 200 milioni. Insieme a Cassa Depositi e Prestiti sta rivalutando le aree e gli edifici di via Celoria, ma serve, per finalizzare l’operazione, un forte investimento pubblico del Governo. E al momento siamo ancora alla fase degli annunci.
Per il rettore Gianluca Vago i timori di alcuni lavoratori sul rischio di un eccessivo indebitamento dell’Università non ci sono. “È comunque una operazione da fare, se non passa l’idea del campus dobbiamo ristrutturare Città Studi e altre aree vicine a via Celoria, nella stragrande maggioranza in condizioni molto precarie, stabili datati, costruiti oltre cinquant’anni fa. Quei soldi vanno spesi lo stesso – spiega Vago – altrimenti dobbiamo chiudere, e io credo sia più sensato usare questi fondi per generare un nuovo progetto, radicalmente diverso da Città Studi”.

Il tetris del post Expo è appena iniziato.

Sistema Bancario un'altro passo verso la privatizzazione

Bcc, il dl aiuta la banca vicina a Renzi e Lotti

La riforma concede agli istituti con 200 milioni di riserve di rimanere autonomi. È il caso di Cambiano. Dove lavora il padre del sottosegretario di Palazzo Chigi.


11 Febbraio 2016

(© Imagoeconomica) Il premier Matteo Renzi assieme al sottosegretario con delega all'editoria Luca Lotti.

Il governo Renzi ha varato un decreto legge contenente misure urgenti per la riforma delle banche di credito cooperativo e altre disposizioni per il settore.
Nuove disposizioni che, tempo 18 mesi, obbligano diverse piccole banche sul territorio a entrare in un gruppo bancario cooperativo (una holding) che abbia come capogruppo una società per azioni (Spa) con un patrimonio non inferiore al miliardo di euro.
Molte delle quasi 370 Banche di credito cooperativo (Bcc) presenti in Italia quindi potrebbero sparire, lasciando diversi territori sguarniti di rappresentanze e di connessioni con il tessuto economico sociale della zona.
C'È UNA VIA D'USCITA. Però l'esecutivo ha concesso una via d’uscita: la Bcc che non intende aderire a un gruppo bancario potrà farlo a condizione che abbia riserve di entità consistente (almeno 200 milioni).
In cambio però deve versare un'imposta straordinaria del 20% su questo patrimonio.
Una quota certo non da poco.
Al momento sarebbero soltanto una decina le banche sopra questa soglia.
Questo consentirebbe agli istituti, nonostante la sovrattassa, di mantenere la loro autonomia.

UNA BANCA IN PARTICOLARE... E tra queste ce n'è una che desta qualche malizia. Mauro Benigni, direttore generale della Banca di Pisa e Fornacetta, gruppo Cabel, ha spiegato infatti all’Ansa che «l'unica banca del nostro gruppo che potrebbe farlo e che ha oltre 200 milioni di patrimonio e riserve è quella di Cambiano».
Non si tratta di una Bcc qualunque, ma di una delle più vicine al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al sottosegretario di Palazzo Chigi Luca Lotti, che diventando una Spa potrebbe mantenere a questo punto la sua autonomia sul territorio.

Banca Etruria, l'indagini sul Rossi non sono finite, troppe indagini sul Boschi, che dice di non conoscere, che ha fatto chiudere

Il Csm non chiude il caso del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi.


La I Commissione ha deciso di andare avanti nell'istruttoria, chiedendo ulteriori atti al Procuratore generale di Firenze sulle inchieste sul padre del ministro Boschi, l'ex vicepresidente di Banca Etruria, di cui si è occupato Rossi, direttamente o come capo dell'Ufficio.

In particolare la prima Commissione vuole sapere dal Pg di Firenze, quale sia stato l'esito di un procedimento per cui nel 2014 la Procura di Firenze ha chiesto l'archiviazione.

Si tratterebbe di un'indagine in cui era stato ipotizzato per Pier Luigi Boschi un reato di natura previdenziale.

La seconda richiesta di informazione e di acquisizione di atti riguarda invece l'inchiesta legata ad una compravendita immobiliare e che si è conclusa con l'archiviazione per il padre del ministro in relazione ai reati di estorsione, turbativa d'asta e riciclaggio.

La Commissione vuole in particolare sapere l'esito di un'interlocuzione che c'è stata tra la Dda di Firenze e la Procura di Arezzo su uno dei filoni di questa indagine.

Solo quando arriveranno le informazioni richieste la Commissione arriverà alle sue conclusioni. Il fascicolo del Csm vuole accertare se ci sia mai stata incompatibilità tra il ruolo di Rossi e un incarico di consulenza che lui stesso ha ricoperto per il governo fino alla fine dell'anno scorso.

Banca Etruria, bancarotta e ora il Rossi non ha titolo per indagare, omette e le sue omissioni equivalgono a menzogne

Banca Etruria, crisi irreversibile, c'è insolvenza
Sentenza giudici Arezzo. Ora procura valuterà se c'è bancarotta

Foto di archivio, la protesta dei risparmiatori davanti alla sede di Banca Etruria ad Arezzo, 28 dicembre 2015 © ANSA/ANSA

Redazione ANSA
12 febbraio 2016

Banca Etruria è insolvente: c'è una "irreversibilità dello stato di crisi" del vecchio istituto ed un "drammatico ed irreversibile dissolvimento dello stato patrimoniale dell'ente". A dichiararlo è il Tribunale di Arezzo e, nelle 15 pagine della sentenza del collegio fallimentare, presieduto da Clelia Galantino, si rigettano anche le eccezioni di costituzionalità sul decreto salva-banche sollevate dalla difesa dell'ultimo presidente Lorenzo Rosi e il merito sulla mancanza dei requisiti di insolvenza. Gli avvocati di Rosi Michele Desario e Antonino Giunta hanno annunciato l'impugnazione della sentenza davanti alla Corte d'appello, I giudici che hanno esaminato il caso, Antonio Picardi e Paolo Masetti oltre alla presidente Galantino, hanno sposato in pieno le richieste del liquidatore Giuseppe Santoni così come aveva fatto, direttamente in aula lunedì scorso, il procuratore capo Roberto Rossi. Sarà ora proprio il capo della procura aretina, sul quale il Csm non ha ancora chiuso il caso chiedendo altri documenti alla procura generale di Firenze sulle inchieste condotte da Rossi sul padre del ministro Maria Elena Boschi, Pierluigi, ex vicepresidente di Banca Etruria, a dover esaminare gli atti trasmessi dal tribunale fallimentare e a decidere se vi sono o meno profili di bancarotta fraudolenta. Un reato che potrebbe aggiungersi a quelli già contestati in altre inchieste ad alcuni amministratori della vecchia banca. L'apertura di quello che sarebbe il quinto fascicolo della procura su Banca Etruria sembrerebbe quasi scontata. Questa fase potrebbe portare all'iscrizione nel registro degli indagati di ex amministratori, tra cui i componenti dell'ultimo Cda di cui era presidente Lorenzo Rosi e vecchi amministratori già indagati nei primi filoni di indagine. Tra i casi che potrebbero confluire nel nuovo fascicolo ci sono le consulenze per 17 milioni, la liquidazione da 1,2 milioni all'ex direttore Luca Bronchi, i premi ai dipendenti e soprattutto i crediti finiti in sofferenza per quasi 2 miliardi di euro. Gli altri quattro filoni d'inchiesta riguardano l'ostacolo alla vigilanza di Banca d'Italia per il quale il 10 marzo appariranno dinanzi al Gip Anna Mario Lo Prete Giuseppe Fornasari, Luca Bronchi e il direttore centrale David Canestri; il secondo è quello delle false fatturazioni con avviso di chiusura indagini bis a carico ancora di Fornasari e Bronchi; il terzo il conflitto di interessi nel quale sono indagati Lorenzo Rosi e l'ex consigliere Luciano Nataloni; il quarto quello relativo alla truffa ai danni dei risparmiatori per le obbligazioni subordinate. Nella stessa giornata di oggi la prima commissione del Csm ha intanto deciso di andare avanti nell'istruttoria ed ha chiesto ulteriori atti al Procuratore generale di Firenze sulle inchieste che hanno riguardato in passato l'ex vicepresidente di Banca Etruria Pierluigi Boschi, di cui si è occupato Rossi, direttamente come pm o come capo dell'ufficio. In particolare la Commissione vuole sapere dal Pg di Firenze qual è stato l'esito di un procedimento per cui nel 2014 la Procura di Arezzo, tramite il pm Ersilia Spena, ha chiesto l'archiviazione. Si tratterebbe di un'indagine in cui era stato ipotizzato per Pierluigi Boschi un reato di natura previdenziale. La seconda richiesta di informazione e di acquisizione di atti riguarda l'inchiesta legata alla compravendita immobiliare della fattoria di Dorna, che si è conclusa con l'archiviazione per il padre del ministro in relazione ai reati di estorsione, turbativa d'asta e riciclaggio. Quando arriveranno le conclusioni la Commissione inizierà il lavoro di esame.

Siria&Parigi, la verità avanza implacabile

PERCHÉ DIFESA ONLINE SI TROVA IN SIRIA?

(di Andrea Cucco)
11/02/16 
Era il 2011 quando, sull'onda dei "massacri" compiuti da Gheddafi, Francia e Gran Bretagna intervenivano militarmente contro il nostro "alleato" libico. Il raìsnon è mai piaciuto a nessuno in Italia, eravamo tuttavia soci in molti ambiti, da quello economico a quello del controllo dell'immigrazione.
Abbiamo assistito prima inermi e poi complici.
Quel che ci ha colpito in quei mesi era l'incoerenza tra le informazioni che giungevano ai/dai media - da una celebre emittente del Qatar in particolare - e ciò che fonti (in loco!) ci riportavano telefonicamente.
È andata come tutti sappiamo: non è ancora finita.
Dopo quell'esperienza abbiamo deciso di faretabula rasa, niente più giudizi preconfezionati da fonti "autorevoli".
In prima linea nel Donbass e poi in tutti i teatri che abbiamo raccontato, siamo andati a vedere di persona. Rischiando grosso, ma facendo giornalismo in presa diretta (vedi tutti i reportage).
Con riguardo alla Siria, abbiamo iniziato ad ascoltare e raccogliere esperienze di connazionali che in Siria ci avevano vissuto. Il quadro è apparso subito diverso...
Ora che vediamo con i nostri occhi il Paese, crediamo che le testimonianze fossero (sostanzialmente) corrette e che qualcosa non torni nella nostra informazione libera, democratica ed indipendente...
Buon ascolto!

Francesco Palenzona&Roberto Marcuri, quando le banche sono gestite in maniera mafiosa

Derivati: udienza gup vertici Unicredit
Manifestazione ex dipendenti dinanzi a palazzo di giustizia

© ANSA

Redazione ANSABARI
11 febbraio 2016

(ANSA) - BARI, 11 FEB - Con la richiesta di costituzione delle parti civili è iniziata l'udienza preliminare per il rinvio a giudizio dei vertici Unicredit accusati di concorso in bancarotta fraudolenta. Hanno chiesto di costituirsi il sindacato Filca Cisl, in rappresentanza dei 430 ex lavoratori dello stabilimento Divania di Modugno, il titolare dell'azienda, Francesco Saverio Parisi, e la curatela fallimentare. Il giudice, Francesco Pellecchia, scioglierà la riserva sulle parti civili nell'udienza del prossimo 10 marzo. In occasione dell'udienza una delegazione di ex dipendenti dello stabilimento ha manifestato all'esterno del Palazzo di Giustizia. Rischiano il processo 16 persone, tra cui l'ex ad di Unicredit Banca, Alessandro Profumo, e l'attuale Federico Ghizzoni. A loro e ad altri 14, tra manager e funzionari della banca, il pm contesta di aver ingannato il titolare dell'azienda barese, inducendolo a sottoscrivere 203 contratti derivati che, in pochi anni, avrebbero portato la società al dissesto e al fallimento.

Rifiuti tossici, il governo dei bamboccioni sulle cose serie scantona


Giovedì, 11 Febbraio 2016 09:55
Scritto da Roberta De Carolis


Siti nucleari: l’Italia è in ritardo sullo smaltimento, cosa che sta aumentando i costi di gestione. E i finanziamenti al parco tecnologico annesso al deposito unico dei rifiuti nucleari? I dubbi aumentano. Riccardo Casale, ormai ex-ad di Sogin, si è dimesso ormai diversi mesi fa, ma lo stallo nel quale versano 90mila metri cubi di rifiuti nucleari italiani resta.

Il ritardo è preoccupante. Basti pensare che il condizionamento dei rifiuti radioattivi già presenti negli impianti nucleari avrebbe dovuto concludersi entro il 2010. Ma la relazione con cui la commissione ha concluso i lavori nella precedente legislatura, ancora nel 2012, lo descriveva come ancora in una fase poco più che iniziale.

Al di là delle ovvie questioni ambientali, il problema è anche economico. Nel 2011 infatti si stimava già che l’intera operazione arriverà infatti a costare 6,7 miliardi, contro i 4,35 previsti nel 2006. Di soldi pubblici, chiaramente.

Ultima, ma non per importanza, la questione del finanziamento del parco tecnologico che dovrà affiancare il deposito unico. Il polo dovrebbe garantire circa 700 posti di lavoro e generare un indotto sul territorio, argomentazioni che dovrebbero essere usate per convincere le comunità locali a candidarsi per ospitare il deposito unico. Ma per ora, tutto fermo. La Sogin, di fatto, naviga a vista.
“Lo stallo in cui versa la Sogin sta assumendo i caratteri della farsa – aveva già commentato il 21 gennaio il responsabile energia di Green Italia Francesco Ferrante - se non fosse però una questione che investe un problema serissimo, di importanza nazionale".
Quale? "Il Ministro dell’Economia ha impiegato due mesi e mezzo per accettare le dimissioni dell’a.d. Riccardo Casale - continuava Ferrante - e costui nel frattempo ha continuato a lavorare come se nulla fosse, tanto da averci forse ripensato, rimanendo attaccato alla poltrona. Ora addirittura parrebbe che in Cda abbia ribadito che non ha alcuna intenzione di dimettersi. Si impone un intervento risolutivo e rapido del Ministro Padoan”.

È cambiato qualcosa? Qualche aggiornamento? L’abbiamo chiesto direttamente a Ferrante:
“Nessun aggiornamento significativo da segnalare e questo è ancora più grave - ci ha scritto - Casale non si dimette formalmente e non viene sostituito dal Governo; questo determina unostallo molto preoccupante. Sia per il futuro, il deposito nucleare con la Carta Nazionale Aree Potenzialmente Idonee ancora nascosta nei cassetti dei Ministeri, ma anche e forse più grave per il presente. L’ordinaria amministrazione, che quando si parla di nucleare non è mai tanto “ordinaria”, di messa in sicurezza dei rifiuti nucleari risente di questo stallo. Sicuramente dal punto di vista economico e si continuano a buttare soldi senza risolvere i problemi. Ma lasciare senza guida un’azienda la cui mission è un campo di lavoro così delicato è davvero da parte del Governo un atto irresponsabile”.

Quanto tempo perderemo ancora?