L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 20 febbraio 2016

Sanità pubblica, sono anni che il corrotto Pd succhia soldi e li spartisce con l'uno o con l'altro, a Roma si tace sul magna magna perpetuato nel tempo

Italia: tra tangenti e sprechi sanità perde 6 miliardi l’anno 

19 febbraio 2016, di Alessandra Caparello

MILANO (WSI) – L’ultimo caso esploso nella Regione Lombardia che ha portato all’arresto di Fabio Rizzi consigliere regionale per aver ricevuto tangenti dall’imprenditrice Canegrati per una serie di forniture odontoiatriche, riporta sotto i riflettori la questione delle mazzette e frodi all’interno del nostro sistema sanitario.

Secondo gli ultimi dati raccolti dalle Fiamme Gialle da gennaio 2014 a giugno 2015 sarebbe del 14% il danno erariale perpetrato ai danni della sanità pubblica da sprechi e frodi. Un danno pari a 6 miliardi di euro all’anno che vanno persi secondo quanto rivela l’ultimo rapporto Ispe-Sanità del 2014.

Sulla base di queste cifre infatti l’Istituto per la promozione dell’Etica in Sanità insieme al Censis, Transparency International Italia e Rissc (Centro Ricerche e Studi su Sicurezza e Criminalità) hanno avviato un progetto intitolato “Curiamo la corruzione” con l’obiettivo di promuovere la trasparenza, integrità e responsabilità individuale e collettiva nella sanità attraverso attività di ricerca, iniziative di formazione e comunicazione sul territorio, sensibilizzazione dei decisori pubblici e privati, sperimentazione di misure anticorruzione nelle strutture sanitarie pilota di Bari, Melegnano, Siracusa e Trento.

E i dati che emergono non sono certo positivi. Sarebbero almeno due milioni infatti – circa il 4%- gli italiani che secondo il progetto “Curiamo la corruzione” avrebbero pagato una mazzetta per ricevere un favore in ambito sanitario nel corso degli ultimi 12 mesi. Ma quali sarebbero questi favori? “Regali a medici e infermieri per ottenere dei posti letto, o per aver saltato delle liste d’attesa; o donazioni conseguenti ad alcuni favori che agevolano la vita del paziente” – così spiega alla Stampa Marco Magheri di Ispe-Sanità.

10 milioni invece gli italiani che non ricevono ricevuta fiscale per le visite mediche. Comportamenti diffusi e sbagliati visto che per il 31% degli italiani, è più grave l’attesa per le visite mediche pubbliche piuttosto che lo spreco delle risorse nel settore sanitario.

L’Italia in ogni caso è al 69esimo posto della classifica di 107 paesi per la corruzione della sanità, così come rilevato dal Quality Governmente Institute di Goteberg secondo cui al top della trasparenza è la Finlandia con la città di Aland. L’Italia non figura nella top ten, solo Trento si aggiudica il 39esimo posto mentre la corruzione nella sanità dilaga in Puglia (189esimo posto) e Calabria (191esimo). 

Implosione Europea, il semplice dar voce alle scelte dei popoli di decidere, referendum, mette in fibrillazione gli euroimbecilli

Brexit, G. Chiesa: “Gb fuori da Ue è certificato di morte. Col secolo americano addio pace mondiale”
 
19 febbraio 2016 ore 15:41, Lucia Bigozzi
 
“La Gran Bretagna che esce dall’Europa è il certificato di morte dell’Europa”. Giulietto Chiesa, giornalista e scrittore, come al solito non ci gira troppo intorno e nella conversazione con Intelligonews argomenta il ragionamento focalizzando tre nodi strategici per lo scenario europeo ma anche mondiale: il caso Austria sul blocco delle frontiere e mezza Europa che “non ha altra idea in testa che chiuderle”, Brexit, la Grecia. Con in mezzo un paio di domande per Renzi. E non solo…

L’Austria chiude le frontiere: Europa in pezzi? Renzi oggi dice di non essere così tanto ottimista. Fa bene a non esserlo?

«Fa bene a non esserlo. L’Europa sta crollando un pezzo alla volta. A Renzi direi che invece che essere ottimista o pessimista, dovrebbe chiedersi come mai si è arrivati a questo punto, nel pieno silenzio dell’Italia che finora non ha aperto bocca»

Se l’Austria blocca le frontiere cosa succede?

«Se fosse solo l’Austria… Il problema è che mezza Europa o tre quarti di Europa, non ha altra idea in testa che chiudere le frontiere. Dunque il problema in generale è di un’Europa che non ha idee comuni sulla sua collocazione mondiale. C’è qualcuno che pensa che l’Europa debba essere solo una colonia degli Stati Uniti, come le tre Repubbliche Baltiche e la Polonia, la stessa Gran Bretagna. E c’è qualcuno che pensa che l’Europa abbia qualcosa da dire nel mondo ma – sempre che esista – non si fa sentire. Faccio un esempio: la questione delle sanzioni alla Russia. Chi è che ha imposto a Renzi le sanzioni? La questione dell’Ucraina e della Crimea sono pure fandonie: la Russia non ha invaso l’Ucraina e non ha annesso la Crimea. Se Renzi crede a questo, vuol dire che ha pessime informazioni oppure che lui stesso non sa cosa succede»

Se cade l’Europa, c’è chi come l’economista Sapelli ipotizza una leadership mondiale. E’ la soluzione?

«No, non è la soluzione. Anche perché non si può fare una nuova leadership mondiale senza un accordo mondiale. Mi spiace per Sapelli ma bisogna sapere che il mondo è plurale e ho per lui una domanda: chi è che mette insieme i protagonisti del mondo per costruire una nuova leadership condivisa? Non c’è nessuno che vuole questa cosa perché in Occidente non c’è nessuno che voglia affrontare il problema di una nuova leadership riconosciuta e concordata. Invece, c’è quello che io chiamo l’impero degli Usa con i suoi vassalli europei, che vuole il dominio e questo non è più possibile. Il punto è che l’Occidente vuole il dominio del mondo e ripete che il ventunesimo secolo sarà il secolo americano: lo considero una dichiarazione di guerra a miliardi di persone. Rivolgo a Renzi un’altra domanda…».

Quale?

«Ma lui è proprio convinto che il ventunesimo secolo è quello americano? Se ne è convinto, allora addio a Renzi e addio alla pace mondiale. Se invece, non è convinto, allora sarebbe bene facesse sentire la sua voce e come amico degli Stati Uniti dovrebbe andare in America e dire loro: cari amici, noi non siamo d’accordo con voi, la vostra linea è sbagliata, irrealistica e pericolosa, e noi non vi seguiremo su questa linea.  Ecco cosa dovrebbe fare il capo di una nazione responsabile, nei confronti dei nostri amici americani»

In tutto questo i diritti sociali diminuiscono. Come ribaltare il tavolo ed è possibile?

«Io credo sia possibile ma dipende dalla volontà della gente. Rispondo citando ciò che ho visto alla tv pubblica italiana l’altra sera in un talk: ho sentito la Fornero strillare che gli italiani devono abbandonare l’idea dei diritti acquisiti. Considero questa affermazione una ignominia perché la signora Fornero ha gridato che loro, i padroni, non vogliono abbandonare i propri diritti acquisiti e pretendono che 60 milioni di italiani, cioè la povera gente, accettino i loro diritti acquisti mentre noi dovremmo rinunciare ai nostri, dopochè paghiamo le tasse per avere servizi e ci siamo già pagati la nostra pensione. Sì, è possibile uscirne sconfiggendo le banche che hanno in mano tutto il nostro destino. Noi stiamo regalando, ad esempio, alle banche europee per decisione del governatore della Bce 60 miliardi di euro all’anno; in più diamo a quello che considero uno Stato ‘canaglia’ come la Turchia, nostro alleato, miliardi di euro per regolare le sue frontiere rispetto all’emergenza profughi. Questo è il quadro dell’Europa, mentre neghiamo alla Grecia che sta andando al disastro totale ed è il nostro futuro, dieci miliardi di euro che risolverebbero i problemi per i prossimi 5-10 anni; oltre a non risolvere i problemi che abbiamo in Italia. Se qualcuno pensa che così l’Europa possa resistere a lungo, si sta facendo solo delle illusioni»

Brexit: come va a finire?

«Ritengo che la Gran Bretagna voterà l’uscita dall’Europa. Ho letto un interessante articolo del New York Times in base al quale l’80 per cento degli elettori conservatori britannici vuole uscire. Se l’80 per cento dei conservatori vuole uscire, ci aggiungiamo quelli che hanno votato per Farage calcolando un 70 per cento in quell’elettorato, oltre a una buona metà dell’elettorato laburista, per ragioni opposte, non vuole restare, mi pare chiaro l’esito finale a meno di un miracolo»

Qual è lo scenario per l’Europa?

«L’Europa perderà definitivamente la faccia. Io apprezzo poco la politica britannica e da sempre; ma la Gran Bretagna che esce dall’Europa è il certificato di morte dell’Europa».
 

Implosione Europea, i migranti la minano dall'interno e dall'esterno

Migranti, Fusaro: "L'Europa non esiste più. Siamo oltre l'illuminismo, è la rifeudalizzazione globalistica"
19 febbraio 2016  Andrea De Angelis
La questione relativa agli immigrati (non parliamo di emergenza, per favore) torna di nuovo sul tavolo dell'Unione Europea, specie dopo quanto accaduto in Austria. In molti si interrogano sul futuro dell'Europa, compreso Papa Francesco che di ritorno dal Messico ha parlato di "rifondazione europea". IntelligoNews ne ha parlato con il filosofo Diego Fusaro...

Ancora muri in Europa e l'impressione che Bruxelles sia sempre più scollegata dai singoli Stati aumenta. Ora che in ballo c'è anche l'Austria noi italiani lo notiamo di più?
"Certo è evidente che l'Europa oggi non esiste, lo dico da tempo. Esistono solo la moneta unica e la Bce, poi quando ci sono problemi da concertare a livello politico ecco che spuntano i muri, le frontiere a Ventimiglia e succede quanto sta accadendo in Austria. La prova di quello che sapevamo da tempo: l'Unione Europea è solo un nome nobilitante che copre ciò che già Lenin aveva previsto, ovvero l'Europa come trionfo del capitale finanziario dei signori europei". 

Ieri il Papa tornando dal Messico ha parlato della necessità di una rifondazione europea. Che messaggio ha voluto dare?
"Non so a quale spirito facesse riferimento, perché se si riferiva a quello di Kant o di Edmund Husserl allora sono d'accordo con lui, ovvero un'idea di Europa di popoli fraterni e democratici. Se però faceva riferimento allo spirito che ha creato questa Europa, quello di Maastricht e di Lisbona, allora mi permetto di dissentire perché questa Europa di cui siamo abitanti non c'entra nulla con la prima essendo quella dello spirito capitalistico e finanziario". 

L'Europa va comunque rifondata?
"Sì, è evidente. Quello che bisogna precisare è che per rifondarla bisogna prima abbatterla. Cioè se tu sei in un edificio barcollante e dalle fondamenta instabili non puoi cercare di ripararlo in itinere, devi abbatterlo e ricrearlo su nuove basi". 

Quali?
"Quelle politiche e culturali, poi per ultime quelle economiche in modo che ci sia un'economia politicamente guidata". 

Il professor Giulio Sapelli scrive intanto un articolo dal titolo "Perché serve una leadership mondiale". Ovvero?
"Riconosco la grande onestà di quest'uomo che ha detto quello che segretamente circola nell'aria già da un po', cioè l'idea di un nuovo ordine mondiale gestito da quello che io hegelianamente chiamo "il nuovo Signore", cioè la figura dei nuovi dominanti. Parliamo dell'1% della popolazione che vuole superare strumenti obsoleti e fastidiosi come le democrazie degli Stati sovrani nazionali, come i Governi eletti da quell'orrore che sono i popoli portatori di autonomia e decisione democratica. Quindi non mi stupisco che vogliano un Governo mondiale non democraticamente eletto, puramente economico e rispecchiante gli interessi finanziari che gestisca il mondo e la nuova plebe globale". 

Da chi è composta quella che chiama nuova plebe globale?
"Precari, vecchia classe media dissolta e più in generale il 99% della popolazione". 

Altro che illuminismo...
"Sì, altro che illuminismo. Questa è una rifeudalizzazione globalistica che pone in essere il rapporto servo e signore in una forma che è insieme capitalistica e feudale. Capitalistica perché sfrutta il lavoro salariato e neo-feudale perché pone il servo in una situazione sempre più subordinata e impotente dinanzi al signore globale". 

Una leadership in cui si parlerà sempre più di diritti civili e sempre meno di quelli sociali?
"Questa è ormai una grande tendenza. In Grecia abbassano le pensioni minime e promuovono i diritti civili, in Italia tolgono l'articolo 18 e vogliono fare le unioni civili. In qualche modo i diritti civili fanno fine e non impegnano, come si dice da me a Torino. Sono qualche cosa che illude le masse togliendo loro la cosa importante che sono i diritti sociali". 

Non c'è uno scontro verticale.
"Esatto, i diritti civili non costano nulla perché non toccano i rapporti di forza economici. La vera emancipazione sarebbe implementare i diritti civili e sociali insieme, ma loro usano quelli civili per togliere quelli sociali. Questo è il segreto...".

Yemen, nonostante i mercenari statunitensi, austrialiani e colombiani l'Arabia Saudita nel pantano

Yemen: ancora sconfitte le forze saudite

(di Giampiero Venturi)
19/02/16
L’attenzione in Medio Oriente rimane principalmente focalizzata sulle evoluzioni militari dello scacchiere siriano, in questo momento predominante. I futuri sviluppi politici di tutta la regione sembrano però legati anche a fronti marginali che nel silenzio generale dei mass media continuano a mietere morte e distruzione.
Lungi dall’essere pacificato con i negoziati di gennaio, lo Yemen si conferma teatro di sanguinosi scontri tra il “fronte lealista” sunnita supportato da Arabia Saudita e Coalizione araba e i ribelli sciiti Houthi, a loro volta sostenuti dall’Iran. Potenziale casus belli fra Riad e Teheran il fronte yemenita non accenna a freddarsi, anzi sembra entrare in una spirale senza fine.
Dal 17 febbraio le Forze Reali saudite avrebbero scatenato una massiccia offensiva per recuperare la strategica città di confine di Rabuah, occupata dai ribelli Houthi e dai reparti della Guardia Repubblicana fedeli all’ex presidente (sciita) Saleh. Per la terza volta in un mese però i sauditi avrebbero subito pesanti perdite e sarebbero stati respinti. 24 soldati sarebbero caduti e 3 veicoli corazzati distrutti. Due settimane fa erano stati 28 i soldati di Riad uccisi in battaglia.
Lo sforzo saudita non sta dando i risultati sperati ma fa parte di un quadro d’insieme teso a recuperare tutto il territorio rimasto in mano alle milizie fedeli al presidente (o ex che dir si voglia) Saleh. La riconquista di Aden dell’estate scorsa sembrava il preludio ad una rapida avanzata delle forze sunnite filogovernative e filosaudite. In realtà il problema politico emerge più grande alla luce delle difficoltà di penetrare militarmente nelle regioni del nord, montagnose, tribali e soprattutto a maggioranza zaydita, ramo minoritario dell’islam sciita.

Nelle settimane scorse c’è stata una sensibile progressione dell’esercito lealista di Hadi verso San’a, ma la situazione rimane estremamente fluida. Tutta la regione intorno alla capitale, ancora in mano ai ribelli, è stata interessata da una concentrazione di forze preceduta da fitti bombardamenti delle Forze Reali saudite e degli Emirati Arabi. Le operazioni sono state così intense che la caduta della Venezia del Medio Oriente, è stata data per imminente più volte.
Il fatto determinante è che San’a fino alla riunificazione del 1990 era stata capitale del riottoso e tradizionalista Yemen del Nord. A prescindere dagli sviluppi nel tessuto urbano, è molto difficile pensare ad una rapida penetrazione anche nelle provincie tribali a ridosso proprio dell’Arabia Saudita. Anche se il fronte fedele a Saleh non sembra uniforme né dal punto di vista politico, né confessionale (sarebbero centinaia le defezioni tra i miliziani) sembra che l’intervento diretto dei sunniti sauditi (e degli Emirati) abbia finito per fare da collante e ne impedisca il collasso. Due i fattori ancora determinanti: i legami ancora molto forti di molti capi ribelli tribali Houthi col potere burocratico militare di Saleh; l’Iran, che interessato alla sconfitta saudita, continua a fornire appoggio ai “fratelli sciiti”. Ribelli Houthi e militari sciiti pro Saleh, pur non amandosi, finirebbero così per essere ancora una validissima opposizione al cartello sunnita, soprattutto sul piano militare.
L’imbarazzo della comunità internazionale che appoggia Hadi e considera Saleh un golpista, intanto continua. Così come l’impasse delle operazioni di Riad che impegna 100.000 uomini sul terreno, guida una coalizione di altri 9 Paesi, ma non riesce a trovare ancora il bandolo della matassa.
(nel fotogramma d'apertura ribelli houthi in azione, nel successivo la distruzione di un M1 Abrams saudita)

http://www.difesaonline.it/geopolitica/tempi-venturi/yemen-ancora-sconfitte-le-forze-saudite 

NoMuos, precise e circostanziate le memorie difensive contro le osservazioni del Collegio di verificazione che non ha verificato

Giudizio MUOS: depositate le memorie in vista dell’udienza

di Redazione


Lo scorso 15 febbraio è scaduto il termine per la presentazione delle memorie difensive in vista della prossima udienza davanti al CGA, che porrà fine alla questione MUOS. Le memorie hanno rappresentato, per i difensori delle parti costituite e degli intervenienti, lo strumento per rispondere alle osservazioni riportate dal Collegio di verificazione nella Relazione finale depositata lo scorso 29 gennaio.

I giudici del CGA, dunque, dovranno pronunciarsi sul merito della questione e sull’istanza cautelare, tenendo in considerazione, da un lato la Relazione finale del Collegio, quale adempimento alle richieste istruttorie formulate nella sentenza non definitiva, dall’altro lato, delle osservazioni dei tecnici di parte.

Nello specifico, hanno depositato memorie difensive: il Comune di Niscemi, i Comuni di Modica, Gela, Vittoria insieme alle Associazioni NO MUOS, LEGAMBIENTE, WWF ITALIA, il Comune di Ragusa rappresentato anche dall’Avv. Giurdanella, e il Ministero della Difesa.

I difensori hanno rilevato taluni aspetti problematici della Relazione, tra cui:

-l’insufficienza delle operazioni di verificazione svolte, dovuta alla mancata realizzazione delle misurazioni che erano state preventivate e che sono state, successivamente, bloccate dall’intervento della Prefettura di Caltanissetta;

-la rilevanza del principio di precauzione, che deve prevalere sulle conclusioni del Collegio in merito all’assenza di specifici riferimenti, nella normativa sul sito di interesse comunitario, alle radiazioni elettromagnetiche;

-il vizio di composizione del Collegio di verificazione, composto da tre Ministri e due esperti della comunità scientifica, che finisce, inevitabilmente, per inficiare la Relazione stessa;

-il mancato rispetto dei termini di deposito delle memorie e dei documenti in vista dell’udienza di discussione, quali previsti dall’art. 73 cpa.

Da ultimo, sono stati riscontrate talune incongruenze tecniche specifiche nella Relazione, che compromettono l’idoneità della Relazione a soddisfare le esigenze istruttorie rilevate in sentenza dal CGA.

Dal canto suo, il ministero della Difesa si è allineato sulle conclusioni del Collegio di verificazione, dal momento che la relazione ha rilevato l’assenza di criticità alcuna del rapporto tra l’ impianto MUOS e i rischi paventati per la salute umana, il traffico aereo, la tutela dell’ambiente.

Sarà solo la decisione dei giudici del CGA a chiarire se le considerazioni avanzate dai tecnici di parte saranno state sufficienti a ribaltare le sorti che la sentenza parziale di settembre ha in gran parte già preannunciato.

19 febbraio 2016 
 

Snam di Sulmona, i no a prescindere sono sempre del corrotto Pd che devasta i territori e non li preserva

AltreMenti Sulmona: Noi non non diciamo “No a prescindere”

AltreMenti SulmonaSULMONA (AQ) – Riceviamo e pubblichiamo la nota dell’Associazione AltreMenti Sulmona: “Questo comunicato scaturisce dall’ incontro che si è tenuto nei giorni scorsi tra l’Assessore alle Aree Interne Andrea Gerosolimo, imprenditori e associazioni cittadine, che si sono seduti intorno al “tavolo delle opportunità” o Stati Generali dell’imprenditoria. In quell’ occasione si è dato il via ad una fase di “serena valutazione” dei progetti Snam e Toto ed è stata fermamente bocciata la tesi dei “no a prescindere”.
Ci teniamo a chiarire un concetto: la retorica del “no a prescindere” è una vecchia e tediosa bufala con la quale gli affaristi, i lobbisti e la miope gente comune sono soliti additare chiunque OSI opporsi ad opere che potrebbero rappresentare una concreta minaccia per se stessi e per il territorio nel quale vivono.
Sui nostri striscioni, nei nostri comunicati stampa, volantini e dibattiti usiamo da sempre affiancare il “NoSnam” a “SìFuturo”, “SìTurismoSostenibile”, “SìAgricolturaSostenibile”.
Questa nostra scelta è dettata dal fatto che noi sappiamo bene cosa vogliamo e cosa no, a differenza dei tanti politici ruffiani che durante questi lunghi otto anni hanno usato la questione SNAM per far carriera tentando di guadagnare da un lato le simpatie dall’azienda e dall’altro quelle dei cittadini contrari al progetto.
NON vogliamo la SNAM, la sua centrale elettrica o a metano e non vogliamo il suo metanodotto, perché siamo convinti del fatto che sia un’opera inutile, che non porterà alcun beneficio alla nostra Valle, ma arricchirà solo il suo livello di degrado e abbandono compromettendo per sempre il suo paesaggio, la sua agricoltura, la qualità dell’aria, l’economia, con gravissime ricadute nel settore turistico, agricolo, immobiliare e sociale.
Diciamo Sì, accogliamo e VOGLIAMO un’economia in linea con il nostro territorio e con il patrimonio storico, naturalistico, enogastronomico e turistico della nostra Valle, che possa donare a giovani e meno giovani la reale opportunità di vivere, investire e lavorare qui dove siamo nati e cresciuti, contribuendo ad una sua rinascita.
Noi non siamo il popolo del “no a prescindere”.
Abbiamo sempre espresso i nostri “Sì” e li abbiamo espressi a gran voce, affinché anche quelli molto “in alto” potessero sentirli.
Ora gli interrogativi sono due: la politica non li ha ancora recepiti, o NON vuole recepirli?
Abbiamo il vago sentore che la risposta giusta sia la seconda perché i veri “no a prescindere”, quando non c’è un immediato ritorno, sono i loro da sempre.”

Snam Sulmona, le imprese (confindustria) guardano solo il profitto immediato aziendale e poco gli interessa la salvaguardia del territorio che devastano in continuo per aumentare guadagni

Pizzola

Metanodotto SNAM: intervista a Mario Pizzola


2016/02/19

Mario Pizzola Comitati Ambiente Sulmona
Mario Pizzola è il portavoce dei Comitati cittadini per l’ambiente di Sulmona. Da sindacalista ha ricoperto l’incarico di segretario degli edili della CISL per l’Abruzzo e il Molise. In rappresentanza del movimento dei Verdi è stato consigliere alla Provincia dell’Aquila e al Comune di Sulmona. Come segretario regionale dello stesso movimento ha svolto un ruolo di primo piano nella battaglia contro il terzo traforo del Gran Sasso. È co-portavoce del Comitato che si batte per la riconversione a fini civili e di pace del deposito militare di Monte San Cosimo.
Mario che cos’è la Snam?
La Snam Rete Gas S.p.A. è una società con persona giuridica di natura privata, con sede centrale a San Donato Milanese. Incorporata fino al 2011 nel gruppo ENI, la Snam ha come finalità la costruzione e gestione di gasdotti. Ha una rete di trasporto gas di 32.300 km. Il 30% del suo azionariato è posseduto dalla Cassa Depositi e Prestiti.
Qual è il progetto che la Snam vorrebbe realizzare nel centro Abruzzo, nello specifico a Sulmona? 
Il progetto Snam che interessa l’Abruzzo è quello del metanodotto Sulmona-Foligno di 170 km, dei quali quasi due terzi insistono nel territorio della Provincia dell’Aquila. Questo progetto è parte di un’opera molto più grande denominata ‘Rete Adriatica’, di circa 700 km, che coinvolge 10 Regioni, da Massafra (TA) a Minerbio (BO). Oltre al metanodotto, a Sulmona la Snam intende costruire anche una centrale di compressione e spinta.
Quali saranno gli impatti della centrale di compressione e del relativo metanodotto?
In primo luogo il rischio sismico che accentua la pericolosità, già di per sé elevata, di questi impianti. Diversi sono i casi di metanodotti esplosi per cause naturali, come è accaduto a Mutignano di Pineto il 6 marzo dello scorso anno. C’è poi l’impatto ambientale, che è notevole, per un territorio come il nostro che è il crocevia del sistema dei Parchi in Abruzzo. Da considerare, inoltre, i danni all’economia locale, in primo luogo all’agricoltura di qualità e al turismo. Oltre a tutti questi impatti negativi la centrale di compressione porta con sé anche i rischi per la salute pubblica, a causa delle emissioni nocive che scaturirebbero dall’impianto.
Il comitato ha richiesto al Governo di istituire immediatamente un tavolo tecnico istituzionale per l’individuazione di alternative al progetto attuale della Snam. Il Consiglio dei Ministri ha vagliato la vostra rivendicazione?
Il 16 dicembre scorso a Roma, nell’incontro che come Comitati abbiamo promosso presso il Senato della Repubblica, ben 14 Parlamentari appartenenti a diverse aree politiche hanno sollecitato il Governo ad istituire il tavolo tecnico istituzionale per le alternative al progetto della Snam, tavolo previsto dalla risoluzione della Camera dei Deputati approvata con voto unanime il 26 ottobre 2011. A tutt’oggi il Governo Renzi, al pari dei precedenti, è inadempiente nel dare attuazione alla volontà della massima Istituzione elettiva del nostro Paese.
Nonostante la vostra apertura democratica gli imprenditori locali (in particolare Confindustria) vi definiscono ‘quelli del no a prescindere’. Lei non lo trova un epiteto pregiudizievole?
Al mondo imprenditoriale locale noi, con uno specifico documento, abbiamo richiesto un confronto approfondito. Siamo sorpresi che ci si risponda con epiteti stantii ed anacronistici. La nostra opposizione ai progetti altamente impattanti è stata sempre molto motivata, non solo per quanto concerne la questione Snam, ma anche nei casi del cementificio, con mega cava, di Toto e dell’inceneritore per rifiuti ospedalieri. Dagli imprenditori ci aspettiamo non slogans ma un impegno concreto per la difesa del nostro territorio, della sua vocazione naturale e dell’economia che essa mette in moto.
I rappresentanti politici, locali e nazionali del territorio, quanto hanno contribuito nella lotta No Snam?
In questi otto anni il peso della mobilitazione è ricaduto essenzialmente sulle spalle dei Comitati. I nostri rappresentanti politici hanno fatto ben poco. Avrebbero dovuto mettersi alla testa della lotta, come abbiamo insistentemente richiesto, e invece sono stati quasi sempre alla finestra o non si sono visti affatto; nel migliore dei casi si sono limitati ad approvare delibere o a partecipare alle Conferenze dei Servizi.
La profonda crisi politico-amministrativa che sta vivendo la città ovidiana quanto peserà sulle questioni del Punto nascita, del tribunale e della Snam?
Penso che peserà notevolmente perché si tratta di questioni che richiedono delle forti risposte politiche; risposte che non possono arrivare da un commissario prefettizio il cui compito è quello di curare l’ordinaria amministrazione. Per il problema Snam, soprattutto, c’è l’elevato rischio che il Governo possa autorizzare la centrale proprio in questa fase in cui a Sulmona mancano il Sindaco e la giunta municipale.
Il Presidente della provincia dell’Aquila Antonio De Crescentiis è l’assente ingiustificato di questa battaglia. Il 25 agosto 2015, in occasione della visita di Renzi nel capoluogo Abruzzese, il quotidiano «Repubblica» ha ripreso un battibecco molto animato tra lei e De Crescentiis. Perché c’è stato questo diverbio? 
Il Presidente della Provincia dell’Aquila si è risentito perché in quella occasione abbiamo chiesto ai nostri rappresentanti istituzionali, D’Alfonso in testa, di mostrare la schiena dritta di fronte a Renzi; ma essi hanno tenuto un comportamento subalterno, infatti nessuno ha ritenuto di dover far presente al premier le tante emergenze ambientali dell’Abruzzo, progetto Snam compreso. De Crescentiis, che ha intrapreso una battaglia contro il nuovo progetto di variante autostradale di Toto (battaglia che nel merito condividiamo) brilla invece per la sua totale assenza sulla questione Snam. Non ricordiamo nessuna iniziativa che egli abbia preso al riguardo, da Presidente della Provincia. Eppure il tracciato del metanodotto corre per oltre 100 km lungo il territorio provinciale, interessando numerosi Comuni. Siamo ormai nella fase conclusiva del procedimento autorizzativo ma il Presidente della Provincia continua ad essere un fantasma, in senso figurato ovviamente.
Mario qual è la via da imboccare per salvaguardare la Valle Peligna dall’aggressione di un capitalismo sempre più selvaggio?
Manca una visione strategica per il nostro territorio, non solo da parte del mondo imprenditoriale e produttivo, ma soprattutto da parte dei nostri rappresentanti politici ed istituzionali. Chi si candida a gestire la cosa pubblica deve porre al centro la difesa del bene comune, del quale sono parte essenziale le ricchezze naturali, come ci ricorda anche papa Francesco con la sua recente enciclica. Dopo il fallimento delle politiche industrialiste degli ultimi decenni, ciò è ancora più vero per il nostro comprensorio. Non possiamo consentire l’aggressione e il depauperamento delle nostre risorse ambientali perché è proprio sull’utilizzo accorto ed intelligente di esse che potremo costruire il nostro futuro.
Marco Alberico

Banca Etruria, il governo dei bamboccioni del corrotto Pd ha responsabilità precise deve restituire a TUTTI i risparmiatori che sono stati truffati i soldi

Banca Etruria, la denuncia della 92enne: “Mi consigliarono di sostituire i bot con le obbligazioni subordinate” 


Mentre il governo prende altro tempo sul rimborso ai truffati, ad Arezzo arriva l'esposto della signora Delfini

di F. Q. | 19 febbraio 2016

“A inizio ottobre 2013 mi consigliarono di sostituire i bot con le obbligazioni subordinate di Banca Etruria e mi fecero anche prendere cento azioni perché l’operazione non si poteva fare sennò”.

E’ la denuncia arrivata venerdì 19 febbraio sul tavolo della Procura di Arezzo. A presentarla è stata Elda Delfini, una signora di 92 anni che si è recata personalmente dai magistrati per presentare il suo esposto per la perdita di 75mila euro investiti in azioni e obbligazioni subordinate stipulate con Banca Etruria.

“Avevo 75mila euro che erano i risparmi di una vita, mi dissero che investiti così sarebbero stati più sicuri – ha proseguito la signora di Foiano della Chiana, paese a 30 chilometri da Arezzo – Ora sono qui a presentare l’esposto insieme a mio figlio Domenico che segue la questione e insieme a mia nipote che è avvocato, per chiedere giustizia e riavere i miei soldi”.

La donna ha depositato la denuncia in procura al pool di magistrati, guidati dal procuratore Roberto Rossi, che nell’ambito del quarto filone di inchiesta, quello che lavora sull’ipotesi di reato di truffa, sta esaminando ogni caso singolarmente. Al momento sono oltre 200 le denunce presentate dai singoli risparmiatori.

La notizia arriva mentre si fa sempre più clamoroso il ritardo del governo sul varo delle misure per il ristoro dei risparmiatori truffati. Giovedì il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, aveva fatto sapere che “il testo è concluso, va verificato ma credo che sia in dirittura d’arrivo. Ci sono nodi politici più che tecnici che devono essere ancora sciolti” dal governo. Per quanto riguarda l’Anac, “noi siamo pronti a partire”, ha detto il magistrato, sottolineando però che prima è necessario il varo di questi decreti attuativi.

Nelle stesse ore il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem sottolineava alla commissione Affari economici e finanziari del Parlamento Ue che il fatto che clienti delle banche che acquistino prodotti che possono registrare perdite in seguito a procedure di bail in non vengano adeguatamente informati “è un problema grave, una preoccupazione reale. Possibile che la gente non legga i contratti che firma? Hanno comprato prodotti che possono essere interessati da salvataggi interni (bail in, ndr). Ma se sono stati i venditori a non informare adeguatamente, allora c’è un problema grave, una preoccupazione reale”.

“Chiudiamo la discussione e facciamo uscire i decreti. Qui dobbiamo avere il triplo della fretta messa in altre vicende. Ma cominciamo anche a prendere in considerazione l’idea di ampliare il fondo da 100 milioni perché non basterà a rimborsare chi è stato frodato o non ha avuto adeguata informazione dei rischi”, manda intanto a dire tramite Repubblica il viceministro all’Economia, Enrico Zanetti. “Il testo esiste. E abbiamo tempo fino alla fine di marzo per fare due decreti – aggiunge -. Uno compete a Palazzo Chigi, l’altro a noi. Ma di certo non è il ministero dell’Economia a rallentare. La discussione politica si fa insieme. E allora chiudiamoci in una stanza e decidiamo. Non tergiversiamo un minuto di più. È una questione di segnale e di credibilità del sistema”.

Riguardo il rischio dei ricorsi al Tar, Zanetti evidenzia che “il rischio c’è, ma non è questo il punto. L’impianto esiste, facciamolo uscire”. La coperta del fondo da 100 milioni è corta, appena un terzo dei risparmi azzerati, e il viceministro rimarca: “Riavere tutto è improbabile. Ma detto questo, visto che la logica è cambiata e non si parla più per fortuna di ristoro umanitario o in base all’Isee, allora dobbiamo assicurare a quanti saranno individuati dall’arbitrato come frodati o non adeguatamente informati il rimborso totale. Non può funzionare la logica di restituire solo un pezzo”. Bisognerà convincere le altre banche a metterci più soldi? “Dovrebbe essere nel loro interesse dare maggiore credibilità al sistema. E se sarà il caso arrivare a 150-200 milioni”.

Snam Sulmona, il territorio c'è

I comitati scrivono a Guetta




giovedì 18 febbraio 2016
SULMONA - I Comitati cittadini per l'ambiente hanno inviato al Commissario prefettizio Giuseppe Guetta, una lettera con cui augurano buon lavoro per l'importante compito istituzionale che egli è stato chiamato a svolgere nella nostra città e, nel contempo, chiedono un incontro al fine di approfondire alcune tematiche di più stringente attualità tra cui la vicenda della centrale e del metanodotto Snam.
Di seguito la lettera dei Comitati al Commissario  Guetta.


Sig. Commissario,
con la presente intendiamo formularle i nostri migliori auguri per l’importante compito istituzionale che, per la seconda volta, lei è chiamato a svolgere nella nostra città. Siamo certi che, nell’attuazione di tale compito, lei saprà mettere l’impegno, la competenza e la disponibilità all’ascolto che, come cittadini, abbiamo già avuto modo di apprezzare tre anni fa.   Sulmona è oggi di fronte ad una delle prove più difficili della sua storia recente : come ridare credibilità ad una politica, intesa nel senso più vero della parola, che anziché perseguire il bene comune sembra preda, sempre di più, di faide di potere e scontri personalistici.
Il contesto sociale nel quale lei dovrà esplicare, sia pure per un breve periodo, la sua azione amministrativa, non è meno facile.  Alla  grave situazione di crisi economica ed occupazionale, nel frattempo  accentuatasi,  va ad aggiungersi la soppressione o il ridimensionamento di servizi pubblici fondamentali per la vita della nostra comunità, in particolare nel campo della sanità e della giustizia. Tali scelte, imposte dallo Stato, lungi dal produrre significativi risparmi, sono pagate dai cittadini attraverso la sottrazione di diritti costituzionalmente garantiti, con conseguente aggravio, per i cittadini stessi, di costi economici ed umani.
Come se tutto ciò non bastasse, vengono calate dall’alto sul nostro territorio grandi opere che, senza apportare alcun vantaggio, hanno come conseguenza quella di depauperare le nostre risorse ambientali ed economiche,  peggiorare la qualità della vita ed accentuare la nostra condizione di isolamento. Ci riferiamo al progetto della Snam e al recente progetto Toto che prevede la realizzazione , sulla A25, di una bretella autostradale tra Cerchio e Bussi.  L’opera della Snam consiste in un mega gasdotto – di mero attraversamento territoriale – e in una centrale di compressione al servizio dello stesso. Contro questo progetto, in ragione soprattutto della fragilità del territorio sotto il profilo sismico ed ambientale, si sono ripetutamente espresse tutte le Istituzioni democratiche : Comuni, Comunità Montana, Provincia, Regione e Parlamento. In particolare, per quanto concerne la centrale di compressione e spinta, sono tornati ad esprimersi recentemente sia il Consiglio Comunale di Sulmona che la Regione, bocciando anche l’ipotesi di una eventuale centrale a propulsione elettrica anziché a gas.
Al fine di approfondire quanto sinteticamente abbiamo cercato di rappresentarle con la nostra lettera, le saremmo grati se lei vorrà accordarci a breve uno specifico incontro.
Con l’occasione le inviamo i nostri più distinti saluti.
 Sulmona, 18 febbraio 2016  

venerdì 19 febbraio 2016

Banca Etruria, allo stato dell'arte i risparmiatori truffati sono più tutelati cosa che non ha fatto il bamboccione al governo del corrotto Pd

Vecchia Banca Etruria, lorsignori aspettino a cantar vittoria

Dallo stato di insolvenza dichiarato dal tribunale di Arezzo al futuro prossimo della Banca Popolare dell’Etruria.
Le riflessioni di Roberto Maruffi.
Roberto Maruffi
Roberto Maruffi

18 febbraio 2016
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Come sappiamo il Tribunale di Arezzo ha dichiarato lo stato di insolvenza della vecchia Banca Etruria. In sintesi ha ritenuto che lo stato di crisi al momento del patatrac fosse irreversibile. Sulla sentenza c’è poco da dire. I giudici dovevano appunto valutare se la vecchia Banca Etruria era in dissesto irreversibile, oppure no, nel momento immediatamente precedente alle note decisioni del Governo che hanno poi spennato i risparmiatori.
La decisione non è definitiva perché la parola forse finale la pronuncerà la Corte di Appello che sarà inevitabilmente chiamata a riesaminare la sentenza del tribunale aretino. Per quanto più ci interessa, ovvero per la tutela dei risparmiatori espropriati, come ci siamo già detti la notizia è rilevante perché apre la possibilità per la Procura della Repubblica di Arezzo di riesaminare la vita della banca negli ultimi anni.
Qualora da queste verifiche dovessero scaturire dei processi, ferma restando la sacrosanta presunzione di non colpevolezza costituzionalmente garantita, ed al di là dell’esito degli stessi si potrebbe comunque aprire la possibilità per i risparmiatori di poter meglio tutelare, nei vari modi che la Legge consente, i propri interessi. Invece Lorsignori ci dovrebbero pensare di più prima di fregarsi le mani dalla gioia perché il tribunale non ha rilevato l’incostituzionalità della terrificante normativa.
Tanto le eccezioni di incostituzionalità verranno sicuramente sollevate di nuovo nelle varie controversie che si susseguiranno per questa vicenda. Nel caso aretino è possibile che Il tribunale, chiamato a valutare soltanto l’insolvenza abbia anche ritenuto di non poter tener conto delle successive ricadute espropriative a carico degli obbligazionisti subordinati e degli azionisti della vecchia Banca Etruria. Inutile nasconderselo la confisca deriva dalle decisioni del Governo, anche indotte dall’Unione Europea.
Sicuramente il Governo si è sentito in parte costretto dall’Unione Europea a fare certe scelte, visto l’evidente stato di permanente subordinazione psicologica nei confronti della signora Merkel e dei suoi camerieri. Basta per esempio vedere come ormai gran parte degli stati se ne infischiano dei parametri europei mentre l’Italia, a parte qualche brontolio dell’ultima ora, continua a farsi dissanguare come avviene ormai da oltre venti anni a questa parte. Di sicuro sarebbe molto avventato da parte di Lorsignori ricavarne strumentalmente un attestato di buona operatività. E soprattutto ritenersi definitivamente legittimati a poter rimborsare soltanto gli ormai famosissimi cento milioni di euro ai risparmiatori, magari balbettando di presunti vincoli europei. Loro ci proveranno, ormai è certo, ma noi venderemo cara la pelle.

Stati Uniti&Russia una partita geopolitica che si gioca su diversi scenari di guerra vera con morti e distruzioni

L’intreccio tra le crisi in Siria e in Ucraina  
 
di Fabio Ragno
19 febbraio 2016, pubblicato in Analisi Mondo
 

Lo scorso 13 febbraio, a ridosso della riunione dell’ISSG (International Syria Support Group) di Monaco e della proposta di cessate-il-fuoco in Siria, il Presidente Obama ha telefonato a Putin sollecitandolo a non ostacolare l’invio di aiuti umanitari nelle zone sotto attacco da parte dell’esercito siriano, ed ipotizzando poi un costruttivo ruolo che potrà giocare la Russia non appena cesseranno i raid aerei contro i ribelli “moderati”.
La telefonata però non si è limitata a questo ed è continuata su tutt’altro argomento. Come spesso avviene nelle trattative, dopo aver formulato la richiesta (cioè l’invio di aiuti nelle zone controllate dai “moderati” e la cessazione dei raids aerei) Obama ha messo sul piatto della bilancia anche qualcos’altro.
Nel sito della Casa Bianca (Press Secretary), nelle note stampa, viene infatti riportato che subito dopo la questione siriana Obama ha parlato della situazione in Ucraina, raccomandandosi – dice la nota – che i filo-russi diano piena osservanza agli accordi di Minsk riguardo il cessate-il-fuoco, l’accesso agli osservatori dell’OSCE, ricordando infine quanto sia importante che venga rapidamente raggiunto un accordo perché siano svolte le elezioni nell’Ucraina-orientale ovvero nella regione separatista del Donbass, e che in base agli accordi di Minsk II si sarebbero dovute tenere entro il 2015, ma rinviate sine-die.
Sul versante russo, il sito del Cremlino (Events) riporta sostanzialmente gli stessi contenuti della telefonata, sia pure mettendo l’accento su altri aspetti quali, ad esempio, il richiamo di Putin alla necessità di intensificare il comune impegno nella lotta al terrorismo evitando, da parte degli Stati Uniti, di adottare due pesi e due misure.

 

Riguardo la questione ucraina, Putin ha poi messo debitamente in chiaro le richieste russe. Capovolgendo le affermazioni di Obama, Putin ha precisato che è in realtà l’Ucraina a dover dar piena osservanza agli accordi di Minsk, in particolare per quanto riguarda lo stabilire contatti diretti con l’autoproclamata repubblica, proclamare un’amnistia, approvare una riforma costituzionale sull’autonomia di quel territorio e porre in essere le modifiche legislative previste.
Condizioni per così dire accettabili, dato che si tratta, da parte russa, di chiedere l’applicazione di quanto già era stato sottoscritto nei precedenti accordi e finora non attuato.
Si può dunque parlare, a questo punto, di una sorta di patteggiamento tra Stati Uniti e Russia? Della possibilità di un accordo in cui, nel richiedere un alleggerimento della pressione militare sui “moderati” in Siria, venga offerto in cambio un analogo atteggiamento verso gli insorti dell’autoproclamata Repubblica di Novorossiya? E prima ancora di questo – ed è una domanda fondamentale – la questione siriana e la questione ucraina pesano entrambe nello stesso modo negli scenari internazionali?

 

Secondo Vadim Karasev, direttore del centro studi con sede a Kiev IGS (Institute for Global Strategy), è l’Ucraina in realtà il centro attorno a cui gravita l’attenzione della diplomazia internazionale, nonostante che alla 52^ Conferenza sulla Sicurezza di Monaco – concomitante con la riunione dell’ISSG – i temi principali siano risultati la crisi siriana e la migrazione verso l’Europa.
In effetti, negli ambienti diplomatici, è buona norma che gli argomenti, tanto più sono scottanti, tanto più siano trattati in maniera riservata, lontani dai rumors giornalistici, lasciando spazio e margine di manovra ai negoziati, e quindi non vi sarebbe nulla di straordinario nel fatto che, anche se non pubblicizzate, delle trattative possano comunque essere in corso, ed ai massimi livelli.

 

Senonché le condizioni non sempre si equivalgono bilanciandosi da una parte e dall’altra, ed obbligando tutti a trovare una situazione di compromesso.
Vi sono anche situazioni in cui una parte ritiene di essere la più forte e poter dettar legge, ed in questi casi la trattativa diviene allora una sorta di ultimatum, in cui la “parte forte” prospetta l’aggravamento di una certa situazione qualora le sue richieste non venissero accolte.
In altri termini, il collegamento fatto da Obama nella sua telefonata a Putin potrebbe intendersi in questo modo: o in Siria accogliete le nostre richieste, o la situazione in Ucraina è destinata ad aggravarsi.

 

A questo secondo quadro sembrano anche adattarsi le dichiarazioni del Segretario di Stato John Kerry, rilasciate pressoché in contemporanea con la telefonata di Obama, a margine della Conferenza di Monaco. In termini molto secchi, Kerry ha infatti accusato la Russia
di ripetute aggressioni verso la Siria e verso l’Ucraina, stabilendo quindi una volta di più un legame tra i due scenari che però, lungi da indicare il possibile avvio di un compromesso, sembra piuttosto indicare il leit-motiv di una definitiva condanna della Russia, di cui viene dimostrata “l’aggressività” in Siria prendendo a riferimento l’Ucraina e viceversa.


“La Russia ha una sola e semplice scelta”- ha concluso Kerry parlando della situazione ucraina – “Implementare integralmente gli accordi di Minsk oppure continuare a subire dannose sanzioni economiche”.
Siccome, come ha detto Putin nel corso della telefonata, l’implementazione riguarda anche l’Ucraina, se ad essa non viene chiesto nulla, si pongono in questo modo le basi per uno stallo definitivo o, per vederla in altra prospettiva, per mettere la Russia con le spalle al muro e senza via d’uscita dalle sanzioni, scopo che probabilmente è quello che si vuole raggiungere per ottenere altri risultati ancora.
La linea d’intransigenza statunitense è seguita anche dai maggiori leader europei. Il Primo Ministro francese Valls ha chiesto che in Siria “la Russia smetta di bombardare i civili”, la Cancelliera Merkel s’è detta -“scioccata e inorridita per i bombardamenti russi sulla Siria”- ed il Primo Ministro britannico Cameron ha drammatizzato che -“in un mondo in cui la Russia sta invadendo l’Ucraina e uno Stato canaglia come il Nord Corea sperimenta armi atomiche, dobbiamo alzarci in piedi e resistere insieme all’aggressione”-

 

Dal canto suo la NATO continua l’allargamento ad est, ed è di questi giorni la notizia (11 febbraio) che sono in corso avanzate trattative di partenariato con la repubblica caucasica della Georgia ed il cui esito, in un non lontano futuro, potrebbe dar luogo a imprevedibili sviluppi-“Invitiamo la Russia”- ha infatti affermato il Segretario Generale NATO Stoltenberg -“a far retromarcia sul riconoscimento dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud come stati indipendenti (nel 2008 la Georgia invase l’Ossezia del Sud provocando un intervento militare russo e successivo riconoscimento dell’indipendenza delle due regioni, ndr). L’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sono parte della Georgia”-.
Un analogo partenariato esiste anche con l’Ucraina, preludio ad un formale ingresso nell’alleanza ed anche in questo caso foriero di imprevedibili sviluppi, stante il reciproco obbligo di intervento militare in caso di aggressione ad uno dei paesi membri (art. 5 del Trattato di Washington).

 

Infine, il 12 febbraio, è stato firmato senza troppi clamori un accordo con la Serbia, in cui quest’ultima accetta l’immunità e la libertà di circolazione di personale NATO nel suo territorio.
Tutto ciò non impedisce comunque al Presidente Vladimir Putin di essere fiducioso e dopo tutto questo di dichiarare, in sede di conferenza stampa assieme al Presidente ungherese Orban, che prima o poi i rapporti con l’Europa torneranno normali. Washington permettendo, naturalmente.

Foto: Ap, Reuters, NATO, RT, Novosti e Moscow Times

Arexpo-Expo, si mischiano le acque e i conti, ci saranno i soldi delle tasse degli italiani che aggiusteranno le spese opache e le regalie ai privati che li hanno arricchiti ancora di più

Post Expo, nuova governance
Ma non ci sarà il commissario

Il governo entra in Arexpo con il 40 per cento di quote. Non ci saranno super poteri per il “fast post”: mancano i tempi

di Paola D’Amico


Arriva il governo ma il commissario per il post Expo non ci sarà. Da ieri si volta ufficialmente pagina: archiviata Expo (e la società di gestione), comincia l’era di Arexpo, la società proprietaria dei terreni che con l’ingresso del ministero delle Finanze cambia fisionomia e forma per la gestione del progetto di sviluppo dell’area. Al vertice a Palazzo Chigi, presenti il ministro Maurizio Martina, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Claudio De Vincenti, il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Roberto Maroni, è stato presentato il decreto della presidenza del consiglio che definisce la nuova governance e le nuove regole: lo Stato entra mettendo 50 milioni e, grazie a questa ricapitalizzazione esclusiva, si aggiudica circa il 40 per cento delle quote. Comune e Regione scendono a circa 25 per cento ciascuna, poco meno di 10 andrà a Fondazione Fiera (che resta ancora nel board, malgrado Fondazione abbia più volte ripetuto di voler uscire dall’operazione), il pochissimo che avanza viene ripartito fra Comune di Rho e Città metropolitana.

Il cda passa da 3 a 5 componenti: il presidente sarà designato dal Comune (fra i 5 idonei il più qualificato pare essere il rettore del Politecnico Giovanni Azzone), mentre l’ad sarà Giuseppe Bonomi, indicato dalla Regione. Sulla carta era prevista anche la nomina di un commissario che avrebbe potuto attuare interventi in deroga per accelerare i tempi visto che la fase intermedia comincerà da maggio. Ma i rappresentanti del governo hanno fatto notare che, per questo, servirebbe un nuovo disegno di legge: quello che aveva nominato Giuseppe Sala, infatti, legava i suoi poteri all’Expo che si è concluso il 31 ottobre. Ma per un nuovo Dl servirebbero settimane e quindi tanto vale proseguire così. Difficile che si riesca a recuperare questa posizione, insomma, per la quale era stato pensato il nome di Gianni Confalonieri, già sub commissario di Sala e braccio destro di Pisapia nell’intera partita Expo. 

In attesa della ratifica dell’accordo, all’assemblea di Arexpo del 29 febbraio, il sindaco guarda avanti: «Adesso è tutto pronto per proseguire con determinazione nell’impegno iniziato nei mesi scorsi per realizzare nell’area del sito di Rho-Pero il grande progetto innovativo che comprende il Campus universitario proposto dall’Università Statale, l’Istituto italiano di Tecnologia e le imprese impegnate nel settore della ricerca e dell’agroalimentare oltre alla creazione di uno dei più grandi parchi d’Europa. Un progetto fondamentale — conclude Pisapia — per il futuro del nostro territorio e dell’intero Paese di cui proprio Arexpo sarà il soggetto protagonista». Soddisfatto anche Maroni: soprattutto perché è stata inserita nello statuto la clausola sollecitata dalla Regione, secondo cui dovranno essere approvate dai tre soci pubblici all’unanimità le decisioni su modifiche statutarie, eventuale alienazione delle aree, masterplan del post Expo. E quindi è scongiurata l’eventualità che due soci possano accordarsi facendo un dispetto al terzo.

Va all’attacco il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo, che torna sullo scandalo che in Regione ha coinvolto Fabio Rizzi, braccio destro di Maroni: «Non possiamo in un’aula chiedere le dimissioni del governatore e a un altro tavolo fare accordi con lui, per altro sul tema più importante che la nostra amministrazione deve affrontare». E poi: «Il mio non è un giudizio sui presunti reati, ma solo politico. Forse dovremmo anche riflettere sull’opportunità di dare poteri a Bonomi che, con tutto il rispetto alla persona, arriva dallo stesso semicerchio magico varesotto di Maroni». 

Libia, accanto all'Egitto con Tobruk, senza nessunissima indecisione e non portare GUERRA come vogliono gli Stati Uniti, ricordando che la Fratellanza Musulmana vuole strategicamente la sharia anche e sopratutto in Europa

Esteri
La Libia oggi: una babele in cui l'Italia rischia tantissimo
Non possiamo lavarcene le mani perché strategica, ma non possiamo intervenire senza correre il pericolo di ritorsioni terroristiche in patria

18 febbraio 2016


Panorama
 La Libia oggi: una babele in cui l'Italia rischia tantissimo
Marco Ventura
Un immenso teatro dell’assurdo nel quale si muore galleggiando in un mare di petrolio. Uno scenario di 230 milizie l’un contro l’altra armate. La Libia oggi è questo. Un’espressione geografica dietro la quale si cela una babele di tribù, di bande più che di eserciti, mosse da burattinai stranieri.

Ma la Libia si trova di fronte alle nostre coste, si potrebbe definire quasi un paese confinante, dista poche centinaia di chilometri di mare (lo sanno bene gli scafisti). E in Libia ci sono giacimenti di petrolio gestiti dall’Eni, ai quali non possiamo rinunciare. Per questo la stabilità libica è strategica per noi, mentre al momento di stabile c’è solo il caos.

Noi ci affanniamo a favorire la nascita d’un governo di unità nazionale libico. E, certo, l’Italia è il paese che più di ogni altro conosce la Libia e le sue mille sfumature. Ma quanto conta l’Italia, che non sa far valere i propri interessi strategici neppure a un tiro di schioppo dalle proprie isole?

I fallimenti della diplomazia
Tutti dicono che l’Italia sarebbe perfetta alla guida di una coalizione con l’incarico di contribuire a rendere sicura la Libia, a stabilizzarla con un po’ di uomini pronti a sporcarsi nel deserto. Tutti lo dicono, ma pochi lo vogliono davvero. Gli sforzi della nostra diplomazia per la formazione di un esecutivo libico autorevole (condizione imprescindibile per la richiesta di intervento internazionale) si infrangono ogni volta contro veti e duelli tra i capibastone resi forti dagli sponsor stranieri.

Manca in particolare il via libera di uno dei due Parlamenti in cui è spaccata la Libia: quello di Tobruk, in Cirenaica, ipotecato dal generale Haftar appoggiato da Egitto e Emirati arabi uniti e contrapposto al Parlamento di Tripoli vicino ai fratelli musulmani e sostenuto da Qatar, Sudan e Turchia.

Mentre i mediatori, libici e internazionali, disquisiscono all’infinito in una sede sicura del Marocco e il premier designato, Fayez el Sarraj, non può neanche mettere piede a Tripoli perché in molti lo vorrebbero morto, la guerra prosegue in un tutti contro tutti del quale non si vede fine: le milizie islamiste di Tripoli e Misurata contro quelle di Zintan alleate di Haftar, che però non controlla neppure tutta Bengasi, capitale della Cirenaica, i berberi del deserto vicini agli islamisti, e migliaia di combattenti dell’Isis che si sono spostati da Siria e Iraq per un luogo più sicuro e un nuovo trampolino a Sirte, ex caposaldo di Gheddafi, in parte a Tripoli, in alcuni quartieri di Bengasi, e a Derna. Senza contare le altre formazioni jihadiste, in conflitto persino con l’Isis.

Una Libia somalizzata
L’Italia in Libia rischia tantissimo. Non può lavarsi le mani di quanto vi succede, perché si tratta di area d’interesse strategico, né può decidere un intervento senza correre il pericolo di ritorsioni terroristiche in patria. La Libia è ormai somalizzata: districarsi tra le innumerevoli forze in campo significa entrare in un labirinto dal quale si rischia di uscire con le ossa rotte.

E favorire una soluzione unitaria ci pone oggettivamente in rotta di collisione con Paesi come Egitto e Francia, che hanno interesse a spianare completamente una delle forze in campo, quella islamista legata ai Fratelli musulmani, e ottenere la riconquista di tutta la Libia sotto le bandiere di Haftar. Praticamente solo in Libia può succedere che vengano avvistati aerei da guerra che bombardano con insegne camuffate. Fantasmi il cui volto tutti in realtà conoscono.

Si è scritto di caccia egiziani riforniti in volo dai francesi. La Francia vorrebbe assumere un ruolo egemone in Libia per gestire i propri affari, di fatto contrastanti con gli interessi italiani, e usufruire di una base notevole per tutto il Nord Africa. È stata la Francia a volere la guerra che nel 2011 ha abbattuto Gheddafi e scoperchiato il vaso di Pandora.
In Libia si rispecchiano tutte le falle di un sistema che più diventa globale, più si frammenta, e comprende l’astuzia irrilevante dell’Italia, l’ostinato e ignorante sciovinismo francese, in generale le divisioni dell’Europa, la violenza fratricida delle grandi famiglie nazionali islamiche (arabe e no), il disimpegno inefficace e alla lunga autolesionista dell’America di Obama, l’indifferenza della Russia concentrata in altri scacchieri (mediorientali e siriani), e la pressione magmatica e (auto)distruttiva di un’Africa incapace di uscire dalla propria storica minorità.

Libia, l'Italia va alla Guerra, gli imbecilli servi obbediscono agli interessi degli Stati Uniti e non a quelli del popolo italiano, pronti a mandare i disoccupati nel paese, così gli troviamo lavoro e quando moriranno gli faremo i funerali di stato

Via alla guerra in Libia Mattarella convoca il Consiglio di Difesa  
By Magazine Donna - Feb 19, 2016


 
I tasselli sono quasi tutti a posto. Anche se Matteo Renzi preferisce parlare di altro e non ha ancora fatto alcuna comunicazione ufficiale al Parlamento, l’intervento militare a guida italiana in Libia, contro l’Isis, è dato per sicuro sia a Roma sia nelle capitali degli altri Paesi che faranno parte dell’alleanza, iniziando da Washington. Ieri Sergio Mattarella ha annunciato quello che dovrebbe essere l’ultimo passo prima della comunicazione alle Camere che alla fine Renzi, inevitabilmente, dovrà dare: ha convocato per il 25 febbraio il consiglio supremo di Difesa, l’organismo cui spetta, tra le altre cose, esaminare «le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal governo» prima che su queste voti il Parlamento.

In cima all’ordine del giorno c’è un lungo giro di parole che si riferisce proprio all’intervento militare prossimo venturo: «Esame della situazione internazionale e dei principali scenari di conflittualità e di crisi, con particolare riferimento alla Libia (...) e partecipazione delle Forze Armate alle missioni di stabilizzazione e di contrasto del terrorismo».

La decisione arriva pochi giorni dopo il ritorno del presidente della Repubblica dal viaggio negli Stati Uniti, dove aveva discusso dell’operazione con Barack Obama. Gli Stati Uniti hanno rinunciato a chiedere all’Italia un ulteriore impegno contro l’Isis in Iraq – dove non si andrà oltre i 450 soldati da spedire a difesa della diga di Mosul, che sarà riparata dal gruppo italiano Trevi – proprio perché negli ultimi due mesi Roma ha dato a Washington garanzie serie sull’impegno italiano in Libia, che palazzo Chigi ritiene strategicamente molto più importante per il nostro Paese rispetto all’Iraq. Sia perché oggi l’Isis da Sirte controlla oltre 300 chilometri della costa libica che si affaccia sull’Italia, sia perché da quelle parti ci sono da difendere gli interessi degli approvvigionamenti energetici italiani, cioè dell’Eni.

Manca solo la richiesta dei diretti interessati: i libici. La speranza di Stati Uniti e alleati è che riesca a nascere il governo di unità nazionale, il cui primo atto dovrebbe proprio essere la domanda di aiuto per ripulire il Paese dalle milizie dello stato islamico.

Ieri sette Paesi (oltre a Usa e Italia ci sono Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito) hanno sottoscritto un appello comune al parlamento di To- bruk(quello riconosciuto dalla comunità internazionale) affinché «approvi interamente la lista dei ministri» proposta per il «Gan», il governo di accordo nazionale.

In cambio i sette promettono «pieno sostegno al popolo libico e al Gan». Ma il Paese resta spaccato. L’intervento militare contro l’Isis si farà comunque e in tempi rapidi, sia che si formi il governo d’unità nazionale sia in caso contrario, e questo perché l’Isis alle porte è ritenuto un pericolo troppo grande perché l’Europa e l’Italia possano accettare di conviverci. Il grido di dolore del nuovo esecutivo sarebbe una nobile giustificazione da sventolare davanti all’opinione pubblica: molto gradita, ma non indispensabile. «Prima dell’inizio dell’estate», prevede chi sta preparando politicamente il terreno per l’operazione, ci saranno militari italiani e di altri Paesi sul suolo libico, impegnati a combattere l’Isis.

Negli Stati Uniti si sta formando un consenso robusto sulla necessità di intervenire presto anche senza la “chiamata” del Gan. Sul Washington Post, quotidiano di tendenza liberal vicino all’amministrazione Obama, due giorni fa è apparso un appello molto chiaro alla Casa Bianca. «La ragione principale per prendere tempo citata dai responsabili dell’amministrazione è il desidero di creare un nuovo governo in Libia prima dell’intervento militare», nota il giornale, ma «una soluzione politica libica non dovrebbe essere un prerequisito per agire contro la minaccia terroristica».

Sono riflessioni che in riva al Potomac stanno facendo in molti, anche al Pentagono, ma le decisioni che ne seguiranno riguarderanno direttamente l’Italia. La Casa Bianca infatti è consapevole della necessità di non perdere altro tempo, ma non ha intenzione di aumentare la presenza militare americana in Libia. Spetterà così agli alleati, e cioè innanzitutto all’Italia e alla Francia, sobbarcarsi la parte più pesante dell’intervento militare. Con o senza la presenza di un governo di unità nazionale libico.

http://www.magazinedonna.it/via-alla-guerra-in-libia-mattarella-convoca-il-consiglio-di-difesa/26181