la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune. Produrre, organizzare, trovare soluzioni, impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST? Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
sabato 18 giugno 2016
Euroimbecilli servi al comando degli Stati Uniti ignorando i propri interessi, il mondo che cammina sulla testa
venerdì 17 giugno 2016
Stati Uniti - la sua superiorità è indiscutibile in ogni campo, hanno i soldati più ladri
Trump ha ragione: i soldati Usa hanno rubato milioni di dollari in Iraq e Afghanistan
Quando Trump ha fatto riferimento alle ruberie commesse dai soldati americani in Medio Oriente, non stava affatto scherzando, né stava commettendo una gaffe. Aveva completamente ragione
Affermazioni certamente controverse, soprattutto se a farle è colui che potrebbe diventare il prossimo comandante in capo delle forze armate americane, per di più il giorno in cui si celebra un anniversario tanto importante. Ma Trump, si sa, non è uno che si formalizza per qualche ricorrenza. Non deve averlo fermato nemmeno il pensiero che, secondo le stime, il 74% degli americani reputa l'esercito un'istituzione rispettabile e pensa che i soldati Usa abbiano sempre fatto un buon lavoro. Così, svicolando dalla linea prefissata del suo discorso - che doveva limitarsi a una critica all'inettitudine delle amministrazioni Bush e Obama - il tycoon ha sostanzialmente accusato in mondovisione i soldati americani in Iraq di avere, di fatto, rubato milioni e milioni di dollari.
The Donald ha esagerato? E’ una delle sue tanto contestate «gaffe»? Affatto: Trump ha perfettamente ragione. Perché sono molte le inchieste in cui membri delle forze armate americane sono accusati di essersi appropriati tramite furto o corruzione di fondi del governo americano stanziati per progetti di ricostruzione in aree di guerra. Secondo un report del 2015 realizzato dal Center for Public Integrity, almeno 115 reclute e ufficiali dell’esercito sono stati riconosciuti colpevoli, dal 2005 in avanti, di aver commesso furti, episodi di corruzione, turbative d’asta per un valore complessivo di 52 milioni di dollari durante le missioni in Iraq e Afghanistan.
Secondo il rapporto, addirittura vi era tra i soldati l’abitudine di vendere segretamente il combustibile destinato ai mezzi dell’esercito americano agli afghani, per poi intascarsi i proventi. In questo modo, i soldati americani, dall’inizio della guerra in Afghanistan, avrebbero illecitamente guadagnato almeno 15 milioni di dollari, perlomeno secondo la testimonianza di Stephanie Charboneau. Specialist dell’esercito americano implicata nel traffico, Charboneau è diventata una delle 115 persone che, da dentro l’esercito, ha fatto razzia dei fondi governativi.
Crimini favoriti da cattive pratiche che gli esperti dicono ancora in uso nell’esercito: una forte dipendenza dal contante, procedure di assegnazione di lucrosi contratti decisamente «frettolose», una sostanziale mancanza di vigilanza e una cultura regionale della corruzione che ha facilmente sedotto le truppe americane. Sono numerosissime le inchieste ancora in corso per simili reati, in cui sono coinvolti appaltatori, civili e soldati alleati in Afghanistan, e la refurtiva sarebbe nell’ordine – secondo alcune fonti militari – di miliardi di dollari. In pratica, le ruberie accertate sarebbero soltanto una minima parte dei reati commessi dai soldati americani nei due tormentati Paesi mediorientali. John F. Sopko, ex ispettore generale per la ricostruzione in Afghanistan, ritiene di aver portato alla luce meno della metà delle frodi commesse dall’esercito americano. Nel febbraio 2015, aveva sul tavolo ben 327 fascicoli riguardanti 31 membri dell’esercito.
Secondo il report, oltre i quattro quindi delle frodi in Iraq sono state portate avanti da ufficiali dell’esercito, mentre in Afghanistan sembrano aver rubato di più le reclute, all’incirca secondo la medesima proporzione. Le ragioni di tale differenza non sono chiare, ma Sopko si aspetta che, con la prosecuzione della missione in Afghanistan, più ufficiali verranno messi sotto inchiesta.
A giudicare da questo fosco scenario, Donald Trump è tutt’altro che un visionario. Per evitare che le sue affermazioni potessero inficiare la sua campagna, la sua portavoce ha cercato di convincere i media che il tycoon si stesse riferendo a soldati iracheni. Ma già in altre occasioni il miliardario ha fatto riferimento ad episodi di corruzione nell’esercito americano in Iraq e Afghanistan: come durante la convention di settembre nel New Hampshire, quando ha rivolto all'esercito americano accuse piuttosto esplicite. «Vorrei sapere chi erano i soldati che portavano in Iraq 50 milioni in contanti. In contanti! Quanto siamo stupidi?», ha rimarcato. Per poi aggiungere: «Non sarei per nulla sorpreso se quel denaro non fosse mai arrivato. Devo essere onesto». E i fatti sembrano decisamente dargli ragione.
11 settembre 2001 - due aerei tre torri mentre gli asini volano, l'Italia, la Nato, in Afghanistan producono eroina
Terzo Millennio
Undici settembre, ha senso parlarne ancora?
- Dettagli
- Pubblicato: 17 Giugno 2016
Non è solo per la persistenza del 'terrorismo islamista' che l'argomento 11/9 rimane molto attuale. Prendiamo l'incredibile caso dell'oppio afghano, ad esempio...
A seguito degli attacchi dell'undici settembre il presidente Bush ha equiparato l'associazione terroristica Al Qaeda con una nazione nemica; questo ha permesso agli Stati Uniti di invocare l'articolo V del trattato della NATO (1), che afferma sostanzialmente che un attacco militare contro un membro della NATO è un attacco contro tutti, coinvolgendo gli alleati nelle azioni susseguenti.
Avendo ratificato quel trattato ed avendo accettato l'interpretazione statunitense e quella del Consiglio di Sicurezza ONU, la Repubblica Italiana è di fatto in stato di guerra contro Al Qaeda dall'undici settembre 2001.
Ma c'è anche una piccola ed importante digressione: nell'anno 2000, già liberi dall'occupazione russa, in Afghanistan sono saliti al potere i Talebani, che essendo dei fondamentalisti islamici compiranno tante azioni negative come distruggere statue e rappresentazioni di cultura millenaria afgana; tuttavia il gruppo si adopera anche per un'azione altrettanto positiva: distruggere le immense coltivazioni di oppio di cui la nazione è letteralmente ricoperta, in quanto l'uso di stupefacenti è contrario alla dottrina islamica.
L'oppio è l'ingrediente principale nella realizzazione dell'eroina, e come sappiamo la droga è in assoluto la merce a maggior rapporto di guadagno tra i costi di produzione e costi del prodotto finale: ai prezzi del 2002 stiamo parlando di 300$ spesi dal coltivatore per un kilogrammo di prodotto, che si traducono in 800$ come prezzo di vendita in Afghanistan, e che salgono fino a 16000$ nelle strade occidentali, ancor prima della conversione in eroina. (2)
Per capire appieno l'impatto delle azioni dei Talebani occorre anche ricordare che l'Afghanistan nel 2000 produceva tre quarti dell'intera produzione mondiale di oppio. (3)
Nel 2001, attraverso minacce, intimidazioni, e azioni dirette, i Talebani avevano ridotto la produzione di oppio in Afghanistan del 99%!
Quello che segue è un grafico tratto dallo studio sull'estensione in ettari dei campi dedicati alla produzione di oppio in Afghanistan, compiuto dall'UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime - Ufficio droga e crimine delle Nazioni Unite) (4)
Poi nel 2002 la nazione è stata invasa dalla NATO, i talebani sono stati sostanzialmente sbaragliati, così come Al Qaeda, mentre si installava un nuovo governo delle tribu afgane ed è iniziata l'era dell'occupazione, che da noi si chiama "collaborazione". E tutto è ripreso come e meglio di prima.
Vediamo allora il grafico completo, da cui è stato tratto il precedente:
La produzione di oppio è ripresa alla grande, e oggi, dopo 15 anni di presenza degli eserciti della NATO e con la piena collaborazione del compiacente governo locale, l'Afghanistan produce oltre il 90% dell'intera produzione mondiale di oppio.
Questo mostra anche quanto fosse il reale interesse nel punire chi ha causato 4000 morti civili del 2001, quando la droga che riesce ad uscire dalla stessa nazione oggi ne causa più di 8000 all'anno.
Bene: i nostri soldati italiani sono lì, ora, in questo momento. E i fatti non cambiano semplicemente ignorandoli, negando lo stato di guerra, oppure chiamando un'occupazione militare "missione di pace".
Ecco uno dei motivi per cui ha ancora senso oggi parlare di undici settembre.
Pure se uno dovesse credere a tutto il resto.
Riccardo Pizzirani (Sertes)
1 - http://www.studiperlapace.it/documentazione/natotreaty.html
"Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale. Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali"
2 - https://en.wikipedia.org/wiki/Opium
3 - http://reformdrugpolicy.com/wp-content/uploads/2011/09/AfghanTalibanOpium.pdf
4 - https://www.unodc.org/pdf / http://www.latimes.com
Fonte: luogocomune.net
Tratto da: megachip.globalist.it
#No3GuerraMondiale - Ucraina - cecchini che sparavano sulla folla da chi erano pagati?
Ucraina, Stone mette
a fuoco la verità
17/06/2016
Il regista newyorkese ha presentato al Taormina FilmFest il documentario di Igor Lopatonok. Il cineasta americano intervista i leader politici più influenti da Putin a Yanukovich
di Franco Cicero
«Mi sono accorto che l’Occidente conosce le vicende della storia dell’Ucraina soltanto attraverso l’impostazione fornita dai mass media dominanti in maniera spesso superficiale, senza che gli eventi venissero approfonditi. E mi è sembrato giusto che l’informazione fosse completata almeno con un altro punto di vista». Così Oliver Stone ha introdotto il dibattito nella “Tao Class” di ieri al 62esimo Taormina FilmFest, al termine della molto applaudita proiezione del documentario “Ukraine on fire” di Igor Lopatonok (pellicola premiata ieri sera come miglior documentario del FilmFest). Un progetto che il regista newyorkese plurivincitore di Oscar sostiene fortemente, al punto che l’ha prodotto – assieme a Eleonora Granata, pure presente a Taormina – e ha messo a disposizione il rilevante peso della propria immagine.
In “Ukraine on fire” è infatti Oliver Stone in prima persona a intervistare i leader politici più influenti in quel delicatissimo scenario che rende incandescente lo scacchiere mondiale. A partire dal presidente russo Vladimir Putin e dall’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich.
Stone, quindi, autentico reporter sul campo, come si è sentito soprattutto nel faccia a faccia con Putin e che tecnica giornalistica ha usato nel caso in cui si fosse accorto che le risposte fossero più di propaganda anziché veritiere?
«In realtà – spiega Stone – le domande erano state preparate dal regista Igor Lopatonok, che è nato in Ucraina e conosce benissimo la situazione, anche se poi si è trasferito negli Usa ed è diventato cittadino americano. Ho trovato Putin molto competente e preparato sulla questione ucraina: non ha eluso nessuna domanda e non ha avuto bisogno di consultare appunti o altro. Ovviamente anche io avevo una mia idea ben formata sul contesto ucraino e certamente non avrei accettato risposte apertamente in contrasto con l’esatta evoluzione degli eventi, testimoniata dai chiari filmati che si vedono nel documentario». Interviene il regista Lopatonok: «Nell’intervista con Yanukovich a un certo punto ho temuto che l’ex presidente si alzasse e se ne andasse, perché Stone, da buon lottatore, lo stava incalzando con le domande».
Poi però, prosegue Stone, l’intervista è continuata, anzi è stata assai lunga. «Più di quattro ore – sottolinea Stone – che naturalmente nel documentario sono state sintetizzate. Ma mi hanno consentito di farmi un’opinione personale, che non vuole interferire con la visione oggettiva del documentario: credo che forse Yanukovich avrebbe dovuto essere più duro con l’opposizione. Probabilmente la situazione non sarebbe degenerata e lui non sarebbe stato costretto a fuggire in Russia». “Ukraine on fire” in cento minuti dà un bell’esempio di scienze politiche, di storia e di come l’informazione possa essere pericolosamente manipolata da certi potentati finanziari multinazionali. Vengono anzitutto presentate le fasi salienti della storia ucraina del XX secolo: dagli sconquassi causati sul territorio dalle due guerre mondiali, l’insorgere di movimenti nazionalisti, di estrema destra, fortemente antisemiti, al dissolvimento dell’Unione sovietica con la riacquistata indipendenza dell’Ucraina. Vengono descritte le differenze nella popolazione locale, anche linguistiche e culturali, con le aree in cui si parla prevalentemente il russo. Nozioni importanti per un approccio agli eventi a noi più vicini, dalla cosiddetta “Rivoluzione arancione” con il contrasto tra cosiddetti filo-europeisti e filo-russi, fino ai tragici avvenimenti del febbraio 2014 in piazza Maidan a Kiev, noti come “Euromaidan”, che causarono molti morti. Responsabili – secondo molte fonti e secondo “Ukraine on fire – gli agitatori (con cecchini) infiltrati tra i manifestanti allo scopo di interrompere bruscamente la presidenza di Yanukovich.
Si tratta di fatti ancora storicamente scottanti e controversi, che hanno causato l’inasprimento delle sanzioni occidentali alla Russia e che non sempre sono stati adeguatamente interpretati. Anche per l’accelerazione improvvisa, dovuta al referendum con cui la Crimea ha deciso di staccarsi dall’Ucraina per tornare alla Federazione russa, e all’aereo malese abbattuto da un missile nel luglio 2014 sui cieli ucraini: una tragedia accompagnata dalle veementi accuse incrociate tra i nuovi dirigenti ucraini e la Russia.
«Volevamo fare un documentario – racconta Lopatonok – su Euromaidan, ma poi non finivamo più di raccogliere materiale per tutti gli avvenimenti che si susseguivano, finché abbiamo deciso di fermarci, altrimenti staremmo ancora girando perché, come sapete tutti, la situazione è sempre in ebollizione». Adesso Stone spera principalmente che “Ukraine on fire” possa avere la più ampia distribuzione possibile. Ma l’autore di “Platoon”, “Nato il 4 luglio”, “Wall Street” e “JFK” sa che è un’impresa ardua: «Anzitutto – dice – i documentari hanno in generale canali più ristretti rispetto ai film di fiction. Se poi sono “scomodi”, e io stesso ho diretto alcuni documentari non graditi dal sistema dominante, le difficoltà aumentano. Ma sono fiducioso. E anche l’accoglienza così calorosa al Taormina FilmFest mi fa ben sperare».
Concentrato sul lancio di “Ukraine on fire”, Oliver Stone non vorrebbe parlare di altro. Si limita a confermare il suo ritorno alla regia di film con l’altrettanto scottante “Snowden”, che uscirà a dicembre. E risponde laconicamente sulle sue previsioni sul prossimo presidente americano: «La politica estera degli Usa non cambierà. Negli Usa non conta se vincerà Hillary Clinton o Donald Trump. Conta il sistema». Tuttavia, nella parte finale di “Ukraine on fire” che descrive realisticamente l’angoscioso scenario da “Guerra fredda 2.0”, l’ultima parola è “speranza”.
http://www.gazzettadelsud.it/news/taorminafilmfest/201229/Ucraina--Stone-mette--.html
'Ndrangheta - è nei gangli dello stato, compra alberghi, ristoranti e bar, si trova negli appalti pubblici, è nelle banche, l'informazione non si sottrae
Ndrangheta, Gratteri: “In pericolo anche giornali e televisioni”
Implosione europea - euroimbecilli al servizio degli Stati Uniti, ormai siamo in tanti a pensarlo, sanzioni alla Russia fino a giugno 2017, ci si fa male da soli senza motivo
17 giugno 2016, di Laura Naka Antonelli
ROMA (WSI) – Europa e dunque Italia sudditi dei voleri degli Stati Uniti. Vladimir Putin non lo dice chiaramente, ma il senso della sua ennesima critica è quello, riferendosi alla punizione sotto forma di sanzioni che l’Occidente ha deciso di imporre contro la Russia, per il suo ruolo nella crisi ucraina. Sanzioni di cui l’Europa non è stata mai del tutto convinta, tanto meno le aziende italiane che si sono ritrovate di colpo senza quei proventi che riuscivano a guadagnare con le esportazioni nel paese. E Putin, di questo, ne è perfettamente consapevole.
“Non vogliamo che gli Stati Uniti impartiscano lezioni, condizionando così le relazioni tra noi e l’Ue; anche perchè, fa notare, “le sanzioni hanno conseguenze di rimando che colpiscono l’Europa”, mentre “le controsanzioni russe hanno zero effetti su Washington, che dice all’Europa di avere pazienza. Ma perché l’Europa dovrebbe avere pazienza? Se lo vogliono va bene, magari il presidente Renzi che è qui potrebbe spiegarlo”.
E Renzi, tra l’incudine e il martello – o per i polemici con il piede in due scarpe -, risponde. “Noi abbiamo bisogno di considerare che la parola guerra fredda non può stare nel vocabolario del terzo millenio. E’ fuori dalla storia, fuori dalla realtà ed è inutile. Noi abbiamo bisogno che Ue e Russia tornino ad essere buoni vicini di casa. Russia ed Europa condividono gli stessi valori”.
Renzi e Putin parlano in occasione del Forum economico internazionale, in corso in queste ore a San Pietroburgo, in Russia. Ma non sono d’accordo su tutto. Non sul futuro dell’Europa condizionato pesantemente da una eventuale uscita di scena del Regno Unito, almeno.
Il premier tiene a precisare:
“Il mio Paese vuole rafforzare la sua presenza economica in Russia. E sarebbe felice che le sue tecnologie per l’agricoltura fossero applicate in Russia per rafforzare quel legame finché persiste il bando di Mosca sui cibi della Ue”. Sugli Usa, “sono un grande modello di democrazia da cui ho molto da imparare. Anche l’Italia lavorerà con chiunque sarà il prossimo presidente, personalmente preferirei dire chiunque sarà ‘la’ prossima presidente”, appoggiando chiaramente la candidata democratica Hillary Clinton.
Riferendosi allo spettro Brexit, Renzi ha detto di credere che il referendum UK del prossimo 23 giugno si concluderà con la vittoria del fronte “Remain”, ovvero di coloro che sono favorevoli a rimanere nell’Ue. Il presidente del Consiglio ha lanciato anche un avvertimento, affermando che se invece vincesse il fronte opposto – del “Leave – ci sarebbero tensioni sui mercati finanziari. Il concretizzarsi del Brexit, inoltre, rappresenterebbe un problema per tutti, ma soprattutto per il Regno Unito.
Così Renzi sulla Gran Bretagna:
“Se lascia è per sempre, non ci sarà un’andata e un ritorno. A farne le spese saranno i cittadini e i pensionati, anche se personalmente penso che vinceranno i ‘restare’ perchè gli inglesi sono più saggi e concreti di quanto pensiamo”. In ogni caso, ha detto Renzi parlando da San Pietroburgo, l’Ue deve ripensare al modo di riiniziare, o sarà finita.
Una dichiarazione che non è stata condivisa da Putin, che ha detto di non essere d’accordo con il premier italiano riguardo all’avvertimento secondo cui l’Ue rischierebbe la fine in assenza di riforme.
L’atmosfera generale appare amichevole, ma solo di facciata, visto che proprio qualche ora fa è arrivata la notizia della decisione dell’Ue di estendere le sanzioni contro la Russia per un anno, almeno fino alla metà del 2017, per l’annessione della Crimea. Bruxelles voterà inoltre la prossima settimana sulle sanzioni più ampie che sono state imposte alla Russia per il ruolo che ha avuto nel conflitto in Ucraina.
Prima di intervenire al forum economico, Renzi comunque aveva annunciato – a margine della visita del cantiere di Astaldi nella città di San Pietroburgo – che le aziende italiane firmeranno accordi “per oltre un miliardo di euro, nel rispetto degli accordi della comunità internazionale e del quadro sanzionatorio”. Renzi ha invitato l’Unione europea a cogliere “tutte le opportunità di dialogo” e “tutto ciò che ci unisce, più che ciò che ci divide”
Intanto, è chiaro il comunicato dell’Ue relativo all’estensione delle sanzioni:
“Il Consiglio europeo (degli Stati membri) ha esteso fino al 23 giugno del 2017 le misure restrittive adottate in risposta all’annessione illegale della Crimea e di Sebastopoli da parte della Russia”.
Putin ha comunque ribadito che l’Europa “è il nostro grande vicino” e “il nostro partner commerciale chiave”, con “un enorme potenziale”. Sulle sanzioni europee ha tenuto a ricordare che “i gol non si tirano in una sola porta”. In definitiva:
“Noi non serbiamo rancori. Siamo pronti a fare un passo verso i nostri partner europei. Ma ciò non può avvenire solo in un’unica direzione”.
TTIP - euroimbecilli ci vogliono imporre un trattato che cambia radicalmente le nostre vite i nostri progetti e viene difesa la segretezza con metodi assurdi ed illogici
TTIP: chi difende l’interesse dell’Europa?
Da una parte è stata imposta una peculiare quanto ingiustificata ed intollerabile segretezza sui documenti, sulle procedure e sul contenuto del Trattato. Dall’altra, avendo radicalizzato l’argomento e avendolo portato nelle piazze con forti dimostrazioni, a volte anche provocatoriamente degenerate in scontri, si tenta di etichettare come “facinoroso” chiunque chiede chiarezza e vuole esprimere la sua democratica opposizione.
Eppure, dal poco che è trapelato, il TTIP potrebbe avere un impatto profondo, per alcuni anche devastante, sulle nostre produzioni, soprattutto, ma non solo, nel settore agricolo ed agroalimentare, sul nostro sistema sociale di mercato e sul nostro commercio.
I promotori vorrebbero la sua ratifica prima della scadenza della presidenza Obama, che ne è stato uno dei grandi promotori. Hilary Clinton lo ha già definito la nostra ‘Nato economica’.
Alcuni parlamentari tedeschi hanno recentemente chiesto di visionare i documenti presso il Ministero dell’Economia di Berlino. Ne hanno fatto un resoconto desolante. Si possono leggere alcuni documenti solo sul computer in una stanza controllata, per poche ore senza consultazioni con altri e senza prendere appunti. Del materiale letto non se ne può neanche parlare pubblicamente.
E’ grave che il commissario europeo per il Commercio, Cecilia Malmström, sostenga che la stesura del trattato non sia di competenza dei parlamenti nazionali.
L’obiettivo del TTIP sarebbe la creazione della più grande zona di libero scambio commerciale del pianeta, con circa 800 milioni di consumatori. Questa rappresenterebbe quasi la metà del Pil mondiale e un terzo del commercio globale. L’Ue è la principale economia e il maggior mercato del mondo. In gioco, quindi, ci sono enormi interessi economici. Ma in gioco c’è anche il futuro delle relazioni politiche internazionali.
Non si tratta di mettere in discussione il rapporto di amicizia con gli Stati Uniti, ma la mancanza di trasparenza fa dubitare della bontà dell’accordo.
Gli interrogativi che i cittadini e gli operatori economici, non solo italiani, si pongono sono tanti. Gli Usa usano gli ogm in agricoltura. Sarà anche l’Europa costretta a introdurli nelle sue coltivazioni? L’Italia ha 280 prodotti a denominazione d’origine protetta. E’ il numero più grande in Europa. Gli Usa li rispetteranno oppure avremo il ‘parmisan della Virginia’ o il ‘san danny del Minnesota’? Eventualmente venduti anche nei nostri mercati?
Molti, anche negli Stai Uniti, credono che uno dei principali pericoli del TTIP sia la possibilità che investitori privati possano iniziare procedimenti legali e querele milionarie contro gli Stati in tribunali internazionali d’arbitraggio. L’intenzione positiva di proteggere l’interesse pubblico potrebbe essere interpretata dalle multinazionali come una “limitazione dei profitti degli investitori stranieri”, un ostacolo al business e alla libera concorrenza.
E’ molto importante notare che questa è anche la maggior preoccupazione della London School of Economics che punta appunto il dito sulle camere arbitrali, i tribunati istituiti dal Trattato. Nel suo studio l’istituto inglese cita come esempio una serie di querele passate, come quelle della Phillips Morris contro l’Uruguay e l’Australia per aver lanciato delle campagne contro il fumo.
In Europa si sentono voci di grande preoccupazione, anche se ancora espresse troppo sottovoce. Il governo francese afferma che dirà un forte no se il Trattato dovesse mettere in discussione la struttura della sua agricoltura. Ci si augura che l’Italia non si dica soddisfatta di qualche generica garanzia di rispetto del nostro ‘Made in Italy’.
Per il sistema agroalimentare italiano, a partire da quello del sud, il Trattato sarebbe esiziale. La geopolitica ed il business tout court non possono mortificare le prerogative democratiche e indisponibili dei popoli e dei loro parlamenti, a partire dal diritto alla conoscenza.
* Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista e docente universitario.
Banca Etruria - fuori i conti e i soldi
16 giugno 2016
Bankitalia tiri fuori i conti di Banca Etruria: lo scrive Francesco Storace citando l’iniziativa di Daniele Capezzone che ha scritto una lettera aperta “al governatore, Ignazio Visco, chiedendogli di tirar fuori i conti dell’Istituto di credito toscano. Chi, fra dipendenti e dirigenti, ha percepito premi di produzione milionari mentre la Banca si avviava al fallimento e a quale titolo. La trasparenza è un obbligo, ora più che mai”. “Non è tollerabile l’ombra del sospetto che l’Istituto con una mano sfilasse i soldi dai conti dei clienti e con l’altra fosse appeso alle gonadi del Premier e del suo cerchio magico per non fallire. E che mentre ciò avveniva, venissero elargiti premi di produzione milionari a dipendenti e dirigenti. Si parla – prosegue Storace su Il Giornale d’Italia – di 14 milioni di euro distribuiti al CdA in 5 anni. Un CdA in cui sedeva anche il padre del ministro Boschi. Banca d’Italia e Banca Etruria tirino fuori i conti, quelli veri”. “Ci devono la verità e devono recuperare queste somme che vanno restituite ai correntisti che, in quella banca, hanno depositato i risparmi di una vita credendoli al sicuro mentre invece glieli sottraevano, con l’inganno, durante la notte. Perché di gente che si è già tolta la vita per questa vicenda ne abbiamo avuta fin troppa. Ora è il momento della verità – conclude Storace – fuori i conti”. Fonte: ANSA
Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2016/06/16/banca-etruria-storace-bankitalia-tiri-conti/
Copyright © gonews.it
Autovelox - non è ricorrendo ai pannicelli caldi che risolviamo MA solo rivedendo i limiti di velocità contestualizzandoli alla realtà
Multe autovelox: cambiano le regole, ecco quando è possibile contestarle
Arriva una sentenza contro le multe con autovelox che potrebbe far annullare migliaia di contravvenzioni.
Un precedente per ricorrere
Le multe con autovelox
Pensioni - ma veramente questi imbecilli al governo possono pensare che ci faremo truffare in maniera così plateale?
Pensioni anticipate, banche prudenti. Si rischia di ripetere il flop del Tfr
Anche assicurazioni e fondi cauti in attesa del piano del Governo - di ACHILLE PEREGO
di ACHILLE PEREGOPensioni anticipate, le simulazioni
Russia&Israele - questo non toglie che il popolo eletto sia diventato fautore del genocidio dei palestinesi
Le evoluzioni delle relazioni internazionali russo-israeliane
F-35 - la multinazionale guarda solo ai profitti e per questo ricatta senza nessuno scrupolo
F-35, Canada: Lockheed minaccia chiusura della forza lavoro, Ottawa pronta a bloccare tutte le acquisizioni
Una mossa, quella della Lockheed, che andrebbe ad azzerare l’impatto lavorativo del valore di miliardi di dollari, per le aziende canadesi impegnate nella produzione dell’F-35. "Questa non è una minaccia – dice Steve Over, direttore dell’International Business dell’F-35 alla Canadian Broadcasting Corporation - ma non avremo scelta. Se il Canada dovesse uscire dal programma F-35, investiremo nella forza lavoro delle nazioni che acquisteranno il velivolo”.
Il governo canadese starebbe per acquistare tre squadriglie Super Hornet come soluzione ad interim per rimpiazzare l’attuale flotta CF-18. Una soluzione politica che “salva” il governo attuale sulla decisione finale in merito alla vicenda F-35. In poche parole, il Canada qualora dovesse acquistare l’F-35 lo farebbe soltanto dopo il 2020, per una decisione che spetterebbe comunque al prossimo governo. L’attuale primo ministro del partito liberale Justin Trudeau, aveva promesso durante la campagna elettorale dello scorso anno che il suo governo non avrebbe mai acquistato il Joint Strike Fighter. Il ministro della Difesa canadese Harjit Sajjan ha affermato che il Canada dovrà decidere nell’immediato considerando gli impegni con il NORAD e con la NATO. Da anni il governo canadese è alla ricerca di una piattaforma che possa sostituire i caccia CF-18. Per garantire una sicura ed efficace transizione verso il nuovo sistema d’arma, il Canada ha esteso la vita operativa di tutta la flotta CF-18 al 2025.
Il Canada era interessato alla versione A dell'F-35 che costa attualmente 108 milioni dollari. L'F-35 era una delle più grandi preoccupazioni politiche per il governo conservatore. Il governo liberale aveva originariamente firmato per il programma di ricerca e sviluppo dello JSF, ma i conservatori hanno ampliato in modo significativo il ruolo del Canada ed impegnato, preliminarmente, il governo ad acquistare l'aereo. Ma per affrontare le controversie sul reale costo dell’F-35, il governo ha cercato di nascondere il vero prezzo finale del velivolo. Il Dipartimento della difesa nazionale canadese ha originariamente sostenuto che il programma JSF sarebbe complessivamente costato 14,7 miliardi di dollari. Cifra poi smentita. La stima per l'adozione della piattaforma F-35 (per 65 caccia), era di 29 miliardi di dollari.
L’uscita del Canada, o comunque il congelamento dell’acquisizione per almeno dieci anni, comporterà un aumento di un milione di dollari nel prezzo finale di ogni aereo. L’aumento dei prezzi stimato è dello 0,7% per tutti i paesi partner. Il programma di sviluppo, che si concluderà nel 2017, non subirà alcun ritardo. Lockheed ha già confermato che onorerà i contratti esistenti, ma una volta conclusi trasferirà il lavoro nelle imprese dei paesi coinvolti nell’acquisizione. Se ciò avvenisse, i partner internazionali saranno costretti anche ad assorbire anche la quota del Canada (2,1%) per i costi di sostentamento e di modernizzazione. Secondo contratti, il Canada resta un partner del programma JSF, ma non vi è alcuna clausola che possa obbligare Ottawa ad acquistare l’F-35. In realtà, si tratta di una procedura che dovrebbe essere identica per tutti i paesi partner, nessuno dei quali obbligato (sebbene in quota per lo sviluppo della piattaforma) ad acquistare il caccia tattico di quinta generazione.
La mossa della Lockheed Martin potrebbe avere ripercussioni proprio per il gigante dell’aeronautica. In primo luogo, qualsiasi tentativo di tagliare le imprese canadesi dal programma F-35, dovrebbe essere vagliato con assoluta cautela pena possibili azioni legali. In secondo luogo, il Canada potrebbe a sua volta inserire nella black list la società americana, decidendo di bloccare qualsiasi acquisizione futura targata Lockheed Martin (come quel contrattino da venti miliardi di dollari per il Frigate Replacement Program). In terzo luogo, infine, Lockheed dovrebbe trovare nel breve termine, aziende in grado di produrre sistemi per l’F-35 con la stessa qualità e prezzo di quelli costruiti in Canada. Lockheed Martin, però, precisa che “il coinvolgimento del Canada al programma F-35 è basato sul dichiarato impegno per l'acquisto di 65 aerei”.
(foto: LM)
Grazie a DIFESA ONLINE
Difesa Online è sempre in prima linea!
Implosione europea - gli euroimbecilli al servizio del capitale finanziario sta alzando un polverone su niente, SI all'uscita della Gran Bretagna dall'Europa
IntelligoNews ha chiesto a Giulietto Chiesa un parere sulla consultazione che la prossima settimana coinvolgerà l'Inghilterra, ma riguarderà, come ovvio, tutta l'Europa...
"Si sentirebbero più liberi di essere al fianco degli Stati Uniti rispetto a come lo sono stati fino ad ora. Si trovano infatti in Europa per portarci il punto di vista della finanza americana, del consenso washingtoniano, hanno svolto questo ruolo mentre all'Europa non hanno dato niente di particolare. Sostanzialmente hanno costretto l'Europa a stare agganciata al carro degli Stati Uniti d'America. Se vanno via saranno più liberi".

"Dal punto di vista strategico l'Europa sarà libera di avere una posizione più autonoma e indipendente dal carro anglosassone".
"Faccio un ragionamento realistico. Non credo che l'uscita della Gran Bretagna provocherà danni rilevanti dal punto di vista economico all'Europa. Siamo già in completa libertà di movimento dei capitali, quindi che problema c'è? Sostanzialmente la Gran Bretagna farà mancare le sue quote, tra l'altro non rilevanti, al bilancio europeo. Il resto sarà regolato secondo i criteri del mercato internazionale. Tutto questo allarme non lo considero neanche motivato da ragioni economiche e finanziarie. L'allarme è invece sollevato da coloro che vogliono rimanere legati al carro americano a tutti i costi".