L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 12 novembre 2016

Stati Uniti - la rivoluzione colorata è voluta e portata avanti dalle Consorterie Guerrafondaie Statunitensi ed Ebraiche



Augusto Rubei Diventa fan

Soros, MoveOn e la triste storia dei "Democratici" che contestano un voto democratico

Pubblicato: 12/11/2016 13:05 CET Aggiornato: 12/11/2016 13:05 CET





Migliaia di persone in questi giorni si sono riversate nelle strade delle principali città statunitensi per protestare contro l'elezione di Donald Trump. Siamo alla terza notte di manifestazioni. Raduni a Portland, Oregon, Los Angeles, Philadelphia, Denver, Minneapolis, Baltimora, Dallas e Oakland, in California. Era cominciata come una marcia pacifica, poi è diventata una rivolta: atti vandalici, bottiglie contro gli agenti, vetrine di negozi in frantumi.

E' il popolo dei giovani democratici che contestano un voto democratico. E' il sequel della campagna denigratoria lanciata da prestigiosi quotidiani come il New York Times (costretto a scusarsi) e il Washington Post contro The Donald. E' la supremazia morale di chi crede di essere titolare del sapere assoluto, "compagnucci" e reazionari con la grana in tasca che cercano un tasso di adrenalina sufficiente a compensare la loro inettitudine sociale. E', in sintesi, il braccio esecutivo dell'establishment.

Basta dare un'occhiata alle piattaforme che hanno lanciato questo round di proteste. Su tutte c'è MoveOn.org, un'organizzazione che si definisce progressista e che ospita numerose petizioni sul modello di Change.or. Fu fondata come risposta all'impeachment del presidente Bill Clinton e sostenne la candidatura di John Kerry alle presidenziali del 2004, accumulando milioni di dollari per i candidati democratici.

All'indomani della vittoria di Trump, MoveOn ha annunciato guerra in un post dal titolo "Riflessioni sulle elezioni 2017", in cui un tale Brian Stewart descrive l'elezione del tycoon alla Casa Bianca come "un disastro". "Abbiamo combattuto con i nostri cuori per scongiurare questa realtà. Ma ora ce l'abbiamo di fronte. Il nuovo presidente eletto e molti dei suoi sostenitori hanno umiliato e minacciato milioni di noi e milioni di nostri amici, le nostre famiglie e le persone a noi care. Entrambe le camere del Congresso rimangono in mani repubblicane. Siamo in pericolo - si legge -. Nei giorni a venire, dovremo tirarci su e combattere. Se avete paura, sappiate che non siete soli. Cambieremo le cose insieme. La maggioranza dei 250 milioni di americani non ha scelto Trump. In realtà, Hillary Clinton ha vinto il voto popolare".

Insomma, un delirio di onnipotenza vero e proprio (che fa seguito alla campagna #StopHateDumpTrump lanciata durante la corsa presidenziale sempre su MoveOn), senza contare che siamo alla propaganda più becera. Non è infatti vero che la Clinton ha vinto il voto popolare. O meglio, lo scarto è così minimo da non poter essere considerato. Ad Hillary sono andati 60.467.245 voti, a Donald 60.071.650 voti. Il Paese si è dimostrato diviso in due. Questi sono i fatti.

Un altro fatto sono anche le dure critiche mosse nel 2007 da David Rhodes, oggi presidente di CBS News e allora vicepresidente di Fox News, e dai commentatori Sean Hannity e Bill O'Reilly nei confronti della piattaforma, rea di essere vicino all'Asinello e accusata di aver ricevuto finanziamenti milionari da George Soros. L'imprenditore ungherese da parte sua non ha mai nascosto di aver sostenuto economicamente, vista la sua dichiarata simpatia, le campagne di Barack Obama e Hillary Clinton.

Questi sono ulteriori elementi da cui prendere spunto nell'analisi delle ultime 48 ore. MoveOn ha il suo ruolo nelle manifestazioni anti-Trump è impossibile negarlo. Le centinaia di persone che ancora oggi inondando le piazze farebbero meglio a contestare chi in campo "democratico" non e' andato a votare. Magari domandandosi il perché, prima ancora di lanciare una bottiglia contro un agente di polizia.

Mosul. Le vittime della campagna elettorale statunitense

Autovelox - dovunque la sicurezza è un falso ideologico, le operazioni hanno tutti i presupposti per fare cassa. I limiti di velocità sono non reali

SAVONA

Se i sindaci sono contro l’autovelox
«La Provincia vuole fare solo cassa»


La rivolta dei primi cittadini dei piccoli Comuni della Val Bormida. La replica: «Non è vero». In arrivo 56 mila verbali. «C’è chi ha preso 8 multe in un giorno»
di Erika Dellacasa

Uno dei due autovelox contestati

La brutta notizia è che negli uffici della Provincia di Savona sono pronti per essere spediti 56 mila verbali per altrettante multe di cui 40 mila nell’entroterra di Albenga: questa è la bomba che sta per scoppiare nella guerra degli autovelox che vede contrapposta la Provincia e i piccoli Comuni della Val Bormida.

«Operazione in malafede»

Il 3 di agosto la Provincia ha installato due autovelox remoti a distanza di pochi chilometri su una strada appena fuori dal centro abitato che collega Albenga con una serie di piccoli Comuni con una popolazione complessiva di circa 3000 abitanti, la gran parte pendolari. È su questi malcapitati che sta per arrivare la pioggia di multe e non è la prima: c’è già stata infatti pochi giorni fa una raffica di verbali che ha seminato il panico nella vallata. «Ci sono famiglie che hanno ricevuto decine di multe per migliaia di euro — dice Michael Volpati, il sindaco di Casanova Lerone, 700 abitanti — soprattutto pendolari che percorrendo quella strada quattro volte al giorno sono riusciti a prendere otto multe in una giornata. La malafede di questa operazione è dimostrata dal fatto che le multe sono arrivate all’ottantanovesimo giorno in modo che le persone sono state prese di sorpresa. Se l’obiettivo era la sicurezza bisognava fermare comportamenti ritenuti pericolosi subito, non lasciarli andare avanti fino all’ultimo giorno utile per riscuotere: la verità è che non ci sono comportamenti pericolosi perché le velocità contestate sono tutte, o con poche eccezioni, intorno ai 60 all’ora. La verità è che la Provincia voleva fare cassa per salvare il bilancio e lo fa ammazzando i cittadini con questo sistema di autovelox. Nel mio Comune ho persone che hanno minacciato di darsi fuoco, famiglie distrutte dall’ansia».

Autovelox - le province hanno l'ordine di fare cassa con gli automobilisti. Limiti di velocità inaccettabili ed irreali. La Sicurezza è un falso ideologico

LETTERE AL DIRETTORE
AUTOTUTELA

Autovelox sulla Sp6, il consiglio di un lettore: “Multe illegittime, gli automobilisti agiscano legalmente”

Lettera pubblicata il - 10 novembre 2016 - 14:00

Continuano incessantemente ad arrivare verbali per eccesso di velocità tra San Fedele e Lusignano. Personalmente ne ho ricevuti quattro, dei quali due sulla Sp6 km 1+256 direzione Villanova d’Albenga (ad una velocità di 58 chilometri orari che sottratti i 5 di tolleranza si arriva a 53 chilometri orari) e due sulla Sp6 km 4 + 125 direzione Albenga (ad una velocità di 59 chilometri orari che sottratti i 5 di tolleranza si arriva a 54 chilometri orari) per un importo complessivo di oltre 400 euro.

Il punto in cui sono stati posizionati i rilevatori di velocità da remoto (autovelox) è una zona fuori dal centro abitato e quindi il limite stabilito dalla provincia di km 50 orario è inaccettabile in quanto la strada non presenta elementi di pericolosità per i cittadini. Sarebbe opportuno elevare a 70 chilometri orari il limite di velocità senza venire meno alla sicurezza stradale. Evidentemente la Provincia vuole ripianare il proprio bilancia sulle spalle della povera gente. Inoltre l’installazione dell’autovelox posizionato sulla Sp6 km1+286 direzione Villanova non rispetta quanto stabilito dal decreto della prefettura di Savona del 14 settembre 2012 n.24446 che lo posiziona al km1 +500. Quindi tutti i verbali effettuati in questo tratto di strada sono da considerarsi illegittimi.

Inoltra bisogna tener presente che molte infrazioni sono state notificate oltre i 90 giorni previsti dal c.d.s. e non bisogna tenere conto della tesi che sostiene che i novanta giorni decorrono dalla data dell’accertamento. Infatti l’art.201 del c.d.s, comma 1- nella parte relativa alla determinazione del dies a quo di decorrenza del termine di novanta giorni entro il quale l’organo accertatore, in caso di contestazione non immediata, ha l’obbligo di effettuare la notificazione a decorrere dal giorno della commessa violazione e non dall’accertamento della stessa vedi giudice di pace, Milano, sentenza 09/02/2015 n° 1189; ministero degli interni nota n. 0016968 del 7 novembre 2014.

Pertanto invito tutti i cittadini che si trovano nella mia stessa situazione ad agire legalmente in autotutela presso la provincia di Savona facendo attenzione che si hanno a disposizione 30 giorni dalla data della notifica per ricorrere al giudice di pace oppure 60 giorni per ricorrere al prefetto.

Gianfranco Barbieri

Snam Sulmona - imporre dall’alto una infrastruttura che aumenta i rischi per il territorio, significherebbe dimostrare incoerenza e cinismo

CITTADINI AMBIENTE: ‘CHIEDIAMO STOP A GASDOTTO SNAM’



Posted By: Redazioneon: novembre 11, 2016

Sulmona. ‘Condividiamo le parole del Sindaco Annamaria Casini secondo cui, il convegno di oggi al Cinema Pacifico, può servire a gettare le basi per “progettare il futuro del territorio montano in termini di messa in sicurezza e di prevenzione”.

Ma, come si può progettare il futuro, se sul nostro territorio continua a pendere la spada di Damocle di un’opera pericolosa e dannosa come il metanodotto e la centrale Snam?’

A chiederselo in una nota sono i Comitati cittadini per l’ambiente.

‘Auspichiamo, pertanto, che tutti i nostri rappresentanti istituzionali presenti al convegno – dal Sindaco al Governatore D’Alfonso, agli Assessori Gerosolimo, Mazzocca e Di Matteo, ribadiscano l’assoluta incompatibilità del progetto Snam con aree altamente sismiche quali sono quelle dell’Appennino centrale.

Auspichiamo, inoltre, che essi chiedano pubblicamente al Ministro Graziano Del Rio un chiaro impegno affinché il Governo fermi il progetto ed attui finalmente quanto deciso dalla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati : l’attivazione del tavolo tecnico istituzionale al fine di individuare una soluzione alternativa, al di fuori della dorsale Appenninica.

I disastrosi sismi che, dal 2009 ad oggi, hanno provocato lutti e distruzione nell’Italia Centrale, hanno coinvolto più dei due terzi dei Comuni interessati dal tracciato del metanodotto, dimostrando ampiamente quanto contraria ad ogni principio di buon senso e di precauzione, sia la scelta della Snam.

Parlare di prevenzione e di messa in sicurezza e, contemporaneamente, imporre dall’alto una infrastruttura che aumenta i rischi per il territorio, significherebbe dimostrare incoerenza e cinismo e rendere ancora più elevata la distanza tra cittadini e classe politica’, si legge in conclusione della nota.

PTV News 11 Novembre 2016 - Il funerale del mainstream. Non fiori ma ope...

CETA, Comprehensive Economic and Trade Agreement, temiamo che vengano immessi nel mercato europeo prodotti potenzialmente nocivi

11 novembre 2016
Ceta, il trattato tra Europa e Canada è un regalo alle multinazionali
(disegno di escif)

Incontro Lena a Weserstrasse, una delle strade più vive di Neukoelln, quartiere a sud est di Berlino. Se fosse sabato sera sarei già circondata dalla folla pronta a iniziare la notte, invece è solo un pigro e comune pomeriggio autunnale. Lena Blanken è giovane, ha una presenza imponente e possiede due occhi vivi e lucenti. Sembra una vichinga, e in un certo senso lo è: a poco più di trent’anni ha già un ruolo di spicco presso Foodwatch, una delle più importanti organizzazioni non governative in materia di diritti dei consumatori. «Dopo una laurea in economia ho deciso di occuparmi di sostenibilità, ed è ormai da diverso tempo che le mie attenzioni sono rivolte al CETA». CETA sta per “Comprehensive Economic and Trade Agreement” e costituisce il principale accordo commerciale in corso tra Canada e Unione Europea, le cui trattative, ormai in conclusione, sono iniziate circa cinque anni fa. Il CETA viene definito il “fratello minore” del TTIP, altro importante trattato in materia di libero commercio. Ma mentre il TTIP è in fase di stallo, il testo del CETA è già stato negoziato. La Commissione Europea sostiene che l´accordo “offrirà alle imprese europee nuove e migliori opportunità commerciali in Canada e sosterrà la creazione di posti di lavoro in Europa”. Non soltanto, il CETA dovrebbe prevedere l´eliminazione del 99% dei dazi doganali. Esiste, però, un movimento, ben radicato soprattutto in Germania, che da circa tre anni prova a combattere questa intesa transatlantica e all’interno del quale Foodwatch è solo un tassello, tra la vasta rete di Ong e associazioni.

Lena monitora da tempo il processo alla base della negoziazione del trattato: «Si tratta di una questione di libertà. Se il trattato prendesse piede assisteremmo a una forte limitazione della democrazia in Europa. I vantaggi di cui si parla sono ben pochi e non abbiamo certo bisogno di ulteriori leggi che regolino i commerci internazionali: quelle esistono già. Il CETA, al contrario, investirà le multinazionali di un potere illimitato».

I punti controversi dell’accordo sono diversi. Uno in particolare riguarda il cosiddetto “Investment courts system”, che autorizza le aziende e gli investitori stranieri a fare causa agli stati, per mezzo di tribunali speciali (le cosiddette private courts) nel momento in cui temano che una legge di un singolo paese possa limitare i commerci internazionali. «Questi tribunali non sono soggetti alle costituzioni degli stati coinvolti nel processo, per cui è come se si stabilisse un vero e proprio sistema giudiziario parallelo. Nel caso in cui vincano le cause, queste multinazionali potrebbero costringere i governi a risarcimenti molto cospicui. È possibile, così, che le singole nazioni inizino a rallentare rispetto all’esecuzione delle leggi in ambito ambientale e alimentare. Possiamo immaginare quanta influenza potrebbero avere, a quel punto, le grandi imprese internazionali su questioni delicatissime, a cominciare dal riscaldamento globale».

Proseguiamo nella discussione, e riusciamo a farlo con leggerezza, malgrado la complessità del tema. Lena mi parla dell’“Organismo di cooperazione sulla regolamentazione”, altra novità introdotta dal trattato. In parole semplici, ogni qualvolta un governo intenda negare il commercio di un determinato prodotto perché giudicato dannoso, questo organismo potrà decidere di rifiutare tale scelta. «Ciò significa che gli standard europei non faranno che peggiorare. Un esempio concreto sono le leggi canadesi in materia di Organismi geneticamente modificati, che sono molto meno rigide di quelle europee. Se il CETA dovesse essere applicato, si assisterebbe a un fluire considerevole, nel nostro continente, di Ogm».

Foodwatch non è l´unica Ong che si occupa di accordi commerciali, anzi sono tante le voci unitesi contro il trattato. Una complessa alleanza che ha dato vita, lo scorso 17 settembre a Berlino, a una immensa manifestazione nazionale. Svenja Koch è la press office di Campact, altra importante Ong che opera sul territorio tedesco. Svenja arricchisce il discorso sul CETA di un importante dettaglio: «In Europa viene applicato il principio di precauzione, secondo il quale, prima che un prodotto venga messo in commercio, è premura dell’azienda provare che esso non sia dannoso. In Canada e USA tale principio non esiste. Il problema è che in nessun punto del trattato è menzionato tale principio, per cui temiamo che vengano immessi nel mercato europeo prodotti potenzialmente nocivi. Per dirne una, in Canada, i polli, per essere disinfettati, vengono immersi nel cloro. Se l´accordo procederà, ce li ritroveremo anche sulle nostre tavole».

Pia Eberhardt si occupa da quindici anni di libero commercio, ed è referente di spicco presso Corporate Europe Observatory, ente indipendente impegnato ad analizzare l’influenza delle lobby sulla politica europea. Le chiedo se si possa giudicare pericoloso un trattato che garantirà la nascita di nuovi posti di lavoro: «In realtà – risponde – leggendo il testo dell´accordo, in nessun punto vengono menzionati studi concreti facenti riferimento a un reale aumento occupazionale».

Nell´ultimo mese si è svolta la prima fase di convalida del trattato, durante la quale abbiamo assistito a un incalzare di eventi e colpi di scena, terminati in un finale alquanto discusso. Questo primo stadio della negoziazione prevedeva la ratifica dell´accordo, il cui testo era stato già stato concordato lo scorso aprile, tra il governo canadese e tutti i ventotto stati membri dell’Unione Europea. Sebbene il 19 ottobre la Vallonia sia riuscita a bloccare le trattative sostenendo a gran voce il proprio no al CETA e influenzando, di conseguenza, la decisione di tutto il paese (il Belgio è costituito da stati federali, e ognuno avrebbe dovuto, per legge, fornire il proprio consenso all’intesa), la ratifica del trattato si è conclusa il 30 dello stesso mese con esito positivo. Dopo numerose pressioni, si è infatti raggiunto un accordo anche con questo piccolo stato. Adesso toccherà solo al parlamento europeo dare il proprio beneplacito. 
(laura federico)

Renzi non è solo un cialtrone bugiardo ma certi suoi atti sono vomitevoli, questo individuo non può governare l'Italia

LA POLEMICA

Battaglia sugli italiani all’estero
La lettera di Renzi diventa un caso


Polemica sulla lettera ai 4 milioni di italiani all’estero in cui si spiega come votare per il referendum e si invita a scegliere il Sì. Il PD respinge le accuse: «legge rispettata, Bersani fece lo stesso». I comitati del No chiedono un incontro al capo dello Stato

di Alessandro Trocino



Fanno discutere la lettera a 4 milioni di italiani all’estero annunciata dal ministro Maria Elena Boschi, e firmata da Matteo Renzi, e la denuncia interna alla Farnesina sul rischio brogli, rivelata dal Fatto quotidiano e risalente al 2013 (?!?!). Nella missiva firmata da Renzi, come segretario del Pd, una brochure di due pagine a cura del comitato Basta un Sì già spedita, si spiega che la riforma costituzionale «è un altro tassello per rendere più forte l’Italia». Nella lettera, tra foto del premier con vari capi di Stato e di governo, si spiega come votare entro l’1 dicembre e si invita al Sì. Ma i comitati del No chiedono un «incontro urgente» al capo dello Stato e al ministro degli Esteri per denunciare quello che Paolo Romani, capogruppo azzurro alla Camera, chiama «uno sgarro istituzionale», «un reato, roba da Procura» per Renato Brunetta. C’è «confusione tra il ruolo istituzionale di premier e l’interesse di parte» per Alfiero Grandi e Domenico Gallo (comitato No). Grillo invita in un tweet a «distruggere la lettera di #SpamPd», riecheggiando l’allarme-confusione di Danilo Toninelli: «La lettera arriverà insieme alle schede elettorali per il voto».

«Questa lettera l’hai scritta tu?»

Si riaccende la polemica interna al Pd. Miguel Gotor, della minoranza, invita ad «affrontare la questione». E Chiara Geloni si chiede dove Renzi abbia trovato i 4 milioni di indirizzi. Stefano Esposito replica con un link: «Gotor, questa lettera di Bersani agli italiani all’estero l’hai scritta tu? Basta polemiche per evitare merito». E anche David Ermini ricorda la lettera analoga spedita da Bersani nel 2013, oltre che da Silvio Berlusconi. A difesa del premier, Ettore Rosato spiega: «Il Pd agisce, come sempre, rispettando le leggi e le regole, in questo caso pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 71 del 2014». Cioè il provvedimento del Garante della privacy in base al quale l’elenco dei cittadini italiani residenti all’estero aventi diritto al voto è accessibile e utilizzabile da parte di partiti e singoli candidati a fini di propaganda elettorale. Dal partito specificano che il Pd «si fa carico» di tutto «dal punto di vista finanziario». Intanto il No va in piazza con Matteo Salvini che convoca i suoi 300 sindaci a Firenze per oggi; Stefano Parisi lo ignora e continua nel suo tour MegaWatt, Energie per l’Italia. Il M5S percorre in treno l’Italia con Alessandro Di Battista. Per il Sì arrivano 150 firme, c’è la regista Cristina Comencini e le scrittrici Susanna Tamaro e Chiara Gamberale. Il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, non ha ancora deciso: «Mi sto informando». Per Ixè l’affluenza alle urne sale al 61% (+3% in una settimana). Si allarga la forbice tra il No e il Sì: dal 39 a 38% di sette giorni fa, al 40 contro 37%.

Eugenio Orso - L'albero della storia è sempre verde, ORA un soggetto politico alternativo, un programma e la capacità di attuarlo

Il piddì nella ridotta della Leopolda in attesa del Ciclone Trump di Eugenio Orso

Posted on 11 novembre 2016


Renzi si congratula con Trump augurandogli buon lavoro, magnifica le solide relazioni Italia-Usa nel quadro di un’alleanza strategica! Proprio divertente. Forse pensa di fare bella figura davanti a Trump, accreditandosi in occasione del G7 del prossimo anno, a presidenza italiana.

Il cordiale messaggio di Renzi al neopresidente degli Stati Uniti nasconde la preoccupazione, se non la paura, che caschi improvvisamente il palco e lo schianto metta a nudo la vera natura del suo sub-potere, ma soprattutto la vera natura, perversa, del potere dei padroni che lo “sponsorizzano”.

Forse costui spera che l’appoggio smaccato alla Clinton, da parte della sua “cancelleria” e del piddì tutto – dalla Boschi a D’Alema – sia passato inosservato, negli Usa, profittando del fatto che moltissimi americani considerano l’Italia un remoto paese d’operetta e di vacanze, ammesso che sappiano dove si trovi.

Non è che dopo la vittoria di Trump – supremo “populista” anti-sistema, terrore dei media e dei sondaggisti al servizio dei potentati finanziari – vorrebbe far dimenticare la sua visita alla Casa Bianca, durante la campagna elettorale americana, e l’atteggiamento (interessato) di pieno appoggio che ha avuto l’astuto Obama nei suoi confronti?

Sa Donald Trump che Renzi, poveretto, ha dovuto fare tutto questo per avere l’appoggio/interferenza di Obama (e dell’ambasciatore Usa a Roma John Phillips) al Sì per fargli vincere il referendum costituzionale di dicembre?

Probabilmente Trump e il suo staff se ne fregano di queste cose. Gran parte degli americani, del resto, non sa nulla della politica italiana. Mia figlia, sposata in America e residente a New York da anni, non sapeva neppure che Berlusconi non è più presidente del consiglio da circa un lustro (ho dovuto rivelarglielo io al telefono) e ignorava l’esistenza di Renzi. Ma sicuramente i vincitori delle presidenziali Usa hanno notato i rapporti di sudditanza del governicchio italiano nei confronti di Obama, della Clinton, dell’Asinello in generale e delle élite finanziarie che li manovrano (in pratica, dell’ “establishment”).

Hollande la mozzarella compare di Renzi – poveretto anche lui, disprezzato com’è dai francesi – aveva già preparato un accorato discorso per la vittoria della Clinton, ma si è trovato a dover fare i conti (e gli auguri!) con Donald Trump.

Scherzi a parte, l’avanzata del “populismo” nel cuore del sistema global-finanziario neocapitalista, i cui effetti dirompenti arriveranno presto anche in Europa continentale, non lascia ben sperare sulla sorte dei sinistroidi del vecchio continente, da molti anni saldamente legati al carro del Libero Mercato Globale, delle City finanziarie e delle élite dominanti, assolutamente allineati con l’”establishment” contro il popolo.

Tralasciando il finto scontro interno all’entità collaborazionista della troika e del Pentagono (pre-Trump) – Bersani, D’Alema contro Renzi, Cuperlo nel mezzo – il piddì tutto, dalla Leopolda ai vecchi circoli sparsi sul territorio (che io chiamo simpaticamente “covi”) sa che il Ciclone Trump, dopo aver colpito gli Usa, si abbatterà anche sull’Europa, perché le due coste dell’Atlantico sono strettamente interrelate, anche se il micidiale TTIP probabilmente non si farà, grazie a The Donald.

La sinistra europea che lavora come un sol uomo per l’“establishment” – cominciando dal piddì, continuando con il partito socialista francese e chiudendo con syriza – questa volta ha buone ragioni per preoccuparsi. Non sarà più sufficiente agitare gli spettri del politicamente corretto, come il sessismo, il fascismo, l’omofobia, la xenofobia, il razzismo e il populismo, per imbrogliare il popolo e tenerlo sotto il tallone delle élite. Soprattutto quando la crisi, la delocalizzazione/deindustrializzazione (“turismo industriale”, per i più spiritosi) e l’impoverimento di massa avanzano implacabili.

La situazione italiana è però peggiore di quella francese, non soltanto da un punto di vista economico, perché oltralpe c’è la Le Pen, con tanto di Front National al seguito, che giubila per la vittoria di Donald Trump e si candida alla presidenza della République. La strada sarà in salita, per lei, perché probabilmente dovrà affrontare in ballottaggio il ferrovecchio Sarkozy, ultima risorsa del solito “establishment”, che potrebbe ingannare i francesi e catalizzare il consenso idiota/politicamente corretto/”moderato”, ma la Le Pen ha qualche speranza di farcela (data la situazione sociale francese, in costante peggioramento), come gliel’ha fatta Trump contro ogni previsione e ogni manipolazione.

Qui, in Italia, invece, tutto lo spazio “politico” è occupato dai collaborazionisti della troika e del Pentagono (ovviamente pre-Trump), dalle false opposizioni come i sinistroidi extra-piddì e soprattutto i cinque stelle, dalle opposizioni deboli o debolissime, che hanno gli slogan giusti in campagna elettorale (Basta euro!), ma a essi non fanno seguire nulla (vedi la Lega di Salvini).

Il fatto che da noi lo stato comatoso della popolazione – nonostante la rapida discesa dei redditi, le impennate della disoccupazione e la sistematica distruzione dello stato sociale – abbia raggiunto un picco come in nessun altro grande paese europeo, alla fin fine favorirà il piddì, graziando anche i sinistroidi extra-dem e le opposizioni posticce. Può sembrare bizzarro, ma sarà così …

In effetti, siamo davanti a un paradosso, perché maggior disoccupazione e maggior perdita di reddito, combinate con l’immigrazione selvaggia da ripopolamento, che i sinistroidi mascherano da civilissima “accoglienza”, dovrebbero aprire i cuori delle classi dominate al populismo più spinto e all’anti-sistema in forme estreme (ben oltre Trump e Le Pen). Ma il paradosso è solo apparente. Un quarto di secolo d’inganni, manipolazioni mediatiche e ricatti economici, hanno ridotto tanta parte della popolazione italiana come la possiamo osservare oggi: inerte, lontana mille miglia dalla politica, preda di una sconcertante passività sociale, o addirittura disposta a vendersi per ottanta euro di elemosina (che poi la sinistra si riprende con gli interessi).

Altro dato cruciale è che qui, in Italia, a contrastare i collaborazionisti piddini-sinistroidi euroservi pro “establishment” ci sono solo opposizioni posticce, di comodo, dal cinque stalle che è la più consistente ai sinistrati extra-dem del 3%, e opposizioni deboli/debolissime, del tutto interne alle regole truffaldine della liberaldemocrazia, che agli slogan elettorali non fanno seguire niente e non ottengono risultati tangibili.

Ciò significa che la storia, per noi, potrà essere rimessa in movimento soltanto da eventi politici, geopolitici, socioeconomici o, purtroppo, bellici, esogeni, come, ad esempio, l’elezione di Trump alla presidenza Usa, piuttosto che la Brexit, e la possibile, futura, elezione di Marine Le Pen alla presidenza francese. Una triangolazione Usa di Trump, Russia di Putin e Francia della Le Pen, potrebbe rivelarsi letale per le infami sinistre europoidi pro-Ue e pro-élite, cui dobbiamo la nostra decadenza.

Cosa farà il piddì in simili frangenti, non potendo più sventolare il “sogno europeo”, trasformatosi in un incubo, per coprire le sue vergogne e non potendo più contare oltreoceano sugli astuti Obama, sulle Killary e sulle Nancy Pelosi?

Semplice, cercherà di cambiare pelle, come fanno periodicamente i serpenti. Probabilmente si ricompatterà per sopravvivere, perché i collaborazionisti, abbandonati sul terreno al loro destino dal padrone in ritirata, o vanno a nascondersi, facendo perdere le proprie tracce, oppure cambiano casacca, azzerando il passato e saltando sul carro del vincitore. Un esempio storico, che riguarda l’Italia? I partigiani, durante la guerra civile, erano all’inizio poche decine di migliaia (forse quarantamila?), mentre i repubblichini più di centomila. Alla fine della guerra, con il collasso di Salò e la ritirata dei tedeschi, il numero dei partigiani è lievitato a più di centomila …

Temo che i piddini riusciranno a cambiare pelle per salvarsi il culo e la poltrona, se Le Pen vincerà in Francia nel 2017, unione europide ed eurozona saranno prossime al collasso, Trump si accorderà con Putin, il TTIP globalista non si farà, la Nato inizierà a smobilitare.

Ci riusciranno proprio perché in Italia c’è il vuoto, mancando del tutto una vera opposizione organizzata anti “establishment”. Lo spazio politico che dovrebbe essere occupato da coriacei oppositori “populisti”, per liberare definitivamente il paese, lo occuperanno ancora una volta gli infami sinistroidi (ex)servi delle élite finanziarie, sostituendo allo slogan “ci vuole più Europa”, con cui hanno inculato a sangue il popolo, slogan accattivanti dal vago sapore populista. Che ne so … “soldi pubblici per lavoro e pensioni, non per le banche”, o rispolverando il bersaniano “abbiamo messo al centro il lavoro”. Pretendendo di essere loro, ancora una volta ma in direzione apparentemente opposta, i salvatori e il cambiamento.

Costoro si ricicleranno molto più facilmente dei loro compari socialisti francesi, guidati dalla scartina Hollande, o dei seguaci imbroglioni di Tsipras in Grecia, appunto perché in Italia non c’è una vera opposizione, per quanto piccola, pronta a occupare gli immensi spazi politici, le voragini che potrebbero aprirsi nel prossimo futuro, grazie al terremoto causato da cruciali eventi geopolitici esterni. Uno dei quali si appena verificato: l’elezione a presidente Usa di The Donald.

Ancor peggio, il piddì potrà continuare a esistere e a governare con una robusta operazione di maquillage, un “change” di facciata aiutato dai soliti media compiacenti (che sentiranno anche loro un po’ di fuoco sotto il culo), ritrovando la sua unità per opportunismo e necessità di sopravvivenza, dopo i contrasti Sì/No al referendum fra renziano-leopoldini e sinistra dem.

Tuttavia, sappiamo che la forza arrogante del collaborazionista, tutto il suo potere esercitato contro il suo stesso paese, risiede esclusivamente nella forza del padrone esterno che lo appoggia e lo usa. Se il padrone è costretto alla ritirata, non si occupa di mettere in salvo il servo, ma lo abbandona al suo destino pensando soltanto a se stesso. Ritornando alla seconda guerra mondiale, tanto per fare un esempio, i tedeschi in ritirata non si sono preoccupati di portare in salvo i repubblichini italiani, i cosacchi, e tanti altri collaborazionisti, che se la sono vista brutta, abbandonati sul territorio. Ma in quel caso c’erano i partigiani a occupare spazi politici, e militari, impedendo che i collaborazionisti la passassero liscia.

La mia conclusione è che nel prossimo futuro (questione di un paio d’anni, o forse anche meno), se la storia andrà nella direzione giusta in Francia con Le Pen, oltre che negli Usa con Trump, e le élite finanziarie perderanno progressivamente potere effettivo, non assisteremo alla liberazione del paese perché qui manca una vera opposizione, pronta a cogliere l’occasione storica. Assisteremo, con maggiori probabilità, al cambio di pelle dei collaborazionisti piddini che si ricicleranno e che manterranno, almeno per un po’, il governo del paese.

Allora capiremo che sarà stata colpa nostra, della nostra inerzia, della nostra viltà, del nostro implicito rifiuto a rischiare per un futuro più dignitoso, più degno di essere vissuto.

Donald Trump - Esiste una vera e propria mobilitazione organizzata e pagata per conquistare con la piazza spazi politici all'interno della Strategia della Paura voluta e portata avanti dalle Consorterie Guerrafondaie Statunitensi ed Ebraiche

Ribelli stupidi e borghesi

Cosa lega Pier Paolo Pasolini, il Sessantotto, George Soros e il movimento contro Donald Trump "MoveOn".

di Sebastiano Caputo - 11 novembre 2016

Sul voto industriale e rurale che in parte ha portato Donald Trump a capo della Casa Bianca abbiamo già scritto a caldo l’indomani delle elezioni statunitensi. Ora la storia va avanti e ritorna, inesorabile, con le stesse dinamiche del passato. Nelle principali metropoli nordamericane gli “under 30”, sostenuti da pseudo-intellettuali e personalità dello starsystem, sono scesi nelle strade per manifestare la loro rabbia contro The Donald. “Democratici” che contestano un voto democratico. Figli di papà che giocano a fare gli incendiari. Probabilmente se avesse vinto la Clinton, operai, allevatori e agricoltori non sarebbero mai scesi in piazza, non tanto per indifferenza, ma perché quando si lavora duramente ci si sveglia presto la mattina. Ce lo insegnò Pier Paolo Pasolini nei suoi “scritti corsari” in occasione degli scontri a Valle Giulia, quando gli studenti affrontarono a viso aperto la polizia, avviando quel movimento pseudo-rivoluzionario che è stato il Sessantotto.

“Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano”.


I versi di Pier Paolo Pasolini che scatenarono l’ira degli studenti.

E meno male che gli “ignoranti” erano i sostenitori di Trump, condannati all’unanimità per non essere laureati (una buona parte di questi). Con quello che costano le università negli Stati Uniti poi anche l’educazione si è trasformata in un affare di classe. La loro colpa, secondo questi benpensanti, sarebbe quella di non potersela permettere. Paradossalmente i semi-colti, gli acculturati, i letterati, prigionieri del politicamente corretto, e di quella “cultura del piagnisteo” (Robert Hugues), appartenenti alla grande famiglia liberal sono diventati i campioni di un illiberalismo morale prima ancora che filosofico. La saggezza dei non-laureati è infinita di fronte agli slogan sbandierati dai manifestanti. Eccone alcuni raccolti qui e là dalle fotografie che li mostrano sbraitare con i cartelli: “Not my president”, non è il mio presidente; “Facciamo di nuovo amare l’America”; “Trump fa odiare l’America”; “Love Trumps hate”, l’amore vince l’odio; “Impeachment per Trump”; “Not in my name” “non in mio nome”; “Never lose hope”, “non perdere mai la speranza”; “Trump razzista”; “Trump antisemita”; “Trump molestatore”; “Black lives matter”, “le vite dei neri contano”; “Trump odia le donne”; “Trump togliti il parrucchino”.

Le proteste anti-Trump a NYC

C’è un filo conduttore che collega il pensiero di Pier Paolo Pasolini, con le moderne e sofisticate tecniche di manipolazione di massa. Tra i manifestanti c’è chi vive la contestazione in buona fede, ma c’è chi, gli idioti utili li chiamerebbe Lenin, sarebbe stato letteralmente spinto da alcuni appelli apparentemente “dal basso” per riversarsi nelle strade contro il nuovo presidente degli Stati Uniti. Accanto al sollevamento spontaneo, seppur contestabile, esisterebbe una vera e propria mobilitazione eterodiretta dall’alto attraverso un’organizzazione chiamata “MoveOn-democracy in actione che vede tra i suoi innumerevoli finanziatori il magnate George Soros. Personaggio noto per il suo giro d’affari mondiale, ma soprattutto per aver appoggiato Hillary Clinton durante questa tornata elettorale. Ancora una volta si fa leva sui più deboli e vulnerabili, in questo caso i ventenni, pura manovalanza gratuita, per conquistare spazi economici e politici che alla fine della fiera li lasceranno fuori dal campo delle decisioni. Il lascito pasoliniano andrebbe scolpito nell’immaginario di tutti: quando ci mobilitiamo per un ideale, qualunque esso sia, domandiamoci sempre per chi stiamo facendo il lavoro sporco.

Alfredo D'Attorre - Dopo il Referendum si andrà a votare. Se vince il Si con il Porcellum bis, se vince il no, forse, con una legge proporzionale con collegi uninominali

«Renzi è come la Clinton, serve una nuova sinistra di governo»
Parla Alfredo D’Attorre: «Se al referendum vince il Sì, Renzi andrà al voto con l’Italicum per provare a capitalizzare il successo. Ma non accadrà. Il premier ha scelto come interlocutori i grandi poteri economici, gli elettori lo puniranno. Alla fine anche Bersani dovrà lasciare il Pd»

di Marco Sarti
11 Novembre 2016 - 09:01

Il premier Matteo Renzi è come Hillary Clinton. Un leader troppo vicino al potere economico e lontano dalle richieste di cambiamento dell’elettorato. Ne è convinto il deputato di Sinistra Italiana Alfredo D’Attorre, uno dei pochi parlamentari ad aver lasciato il Partito democratico in opposizione al presidente del Consiglio. A sentire lui, presto altri ne seguiranno l’esempio. «Bersani proverà a rimanere fino alla fine, ma la sua è un’impresa improba. Ormai Renzi ha stravolto l’identità del Pd». Da qui la necessità di dar vita a una nuova alternativa politica, che prenderà forma nei prossimi mesi. «Serve una casa della sinistra ampia e plurale, in grado di recuperare l’anima ulivista - racconta D’Attorre - Un partito popolare e di governo, lontano da qualsiasi deriva settaria».

Onorevole, al referendum del 4 dicembre ormai manca meno di un mese. In queste settimane sta facendo campagna per il No? Come andrà a finire?
Sono impegnato nella campagna referendaria da molto tempo. In questi mesi avrò partecipato a più di un centinaio di iniziative sul territorio. Sono sempre stato convinto che questa sarebbe stata una partita aperta e si sarebbe conclusa con la vittoria del No. Lo ero anche all’inizio dell’anno, quando i sondaggi davano il Sì al 70 per cento e il premier Renzi era talmente sicuro da annunciare il suo ritiro dalla politica in caso di sconfitta.

Parliamo della riforma. Secondo i sostenitori del Sì, con la nuova Costituzione si otterranno evidenti risparmi. Meno poltrone, meno spese.
I risparmi sono risibili. La ragioneria generale dello Stato ha certificato che il Senato, che non sarà affatto abolito come si dice, manterrà il 91 per cento degli attuali costi di funzionamento. Vogliono risparmiare meno di un euro a cittadino e in cambio privano gli elettori del diritto di scegliere i loro rappresentanti….

Però sarà una sola Camera a fare le leggi. E questo renderà più veloce il procedimento legislativo.
Anche questo argomento non sta in piedi. Il processo di formazione delle leggi diventerà più complicato. Si passerà da un bicameralismo paritario a un bicameralismo pasticciato. Il nuovo articolo 70 è stato scritto in maniera incomprensibile. Piuttosto ci saranno molti più ricorsi davanti alla Consulta che finiranno per rallentare l’iter legislativo.

Come diceva prima, il referendum avrà inevitabili conseguenze politiche. Se vince il Sì cosa accadrà?
Lo ritengo uno scenario improbabile. Se Renzi dovesse farcela immagino che cercherà di capitalizzare il successo portando il Paese ad elezioni con l’Italicum. Convinto di poter vincere il ballottaggio e riconquistare il governo.

Non crede che la legge elettorale sarà cambiata? Il premier si è impegnato, c’è un accordo nel Pd.
In caso di vittoria del Sì, il foglietto privato siglato all’interno del Partito democratico diventerà carta straccia. Nel giro di pochi mesi si tornerà ad elezioni con l’Italicum. Ecco perché l’unica possibilità di cambiare la legge elettorale è la vittoria del No.

Cosa accadrà, invece, se gli italiani non approveranno la riforma costituzionale?
In quel caso servirà un governo ponte della durata di pochi mesi per scrivere una legge elettorale più proporzionale, che rimetta al centro il rapporto diretto tra eletti ed elettori attraverso i collegi uninominali. E poi si dovrà restituire rapidamente la parola ai cittadini.

Questo scenario prevede l’implosione del Partito democratico?
Ma guardi che Renzi ha già stravolto il profilo, il radicamento sociale e l’identità di quel partito. Per questo ormai è necessario che la sinistra organizzi un proprio soggetto politico autonomo.

Magari con la presenza della minoranza Pd? Bersani, Speranza… Gli stessi che il popolo della Leopolda ha invitato a lasciare il partito?
Quelle urla esprimono lo stato d’animo profondo del renzismo. Il presidente del Consiglio persegue da anni il tentativo di trasformare il Pd nel PdR: il partito di Renzi. È un partito costruito a sua immagine e somiglianza, che dopo aver reciso il legame con la storia della sinistra ha scelto come principali interlocutori i grandi interessi economici. Un Pd più amico della Confindustria, di Briatore e di Marchionne rispetto ai sindacati. In questa transizione è evidente che la presenza della sinistra nel partito diventa solo un orpello. E chi non si rassegna a questo passaggio, come Bersani, viene vissuto con crescente insofferenza.

Secondo lei una scissione è inevitabile?
Conoscendo Bersani proverà a tenere uno spazio aperto finché potrà. Ma è un’impresa improba. È scontato che molte forze usciranno dal Pd e diventeranno il nostro interlocutore privilegiato.

Torniamo al futuro della sinistra.
Non c’è alcuna necessità di costruire un nuovo partitino radicale. Serve una nuova casa della sinistra italiana. Ampia e plurale, che recuperi la matrice ulivista intesa come capacità di unire culture diverse. Penso a quel cattolicesimo democratico che al referendum si è schierato contro la riforma di Renzi. Serve un partito di sinistra popolare e di governo, non una forza settaria.

A febbraio si celebrerà il congresso fondativo di Sinistra Italiana. Si parte da qui?
Il congresso sarà una tappa. Ci batteremo perché diventi un primo tassello di un campo progressista più largo e di un vero progetto di governo. Non deve essere un luogo di testimonianza, ma l’innesco di un processo più ampio dove ritrovare tante energie che hanno creduto nel progetto nel Partito democratico e oggi sono senza casa. E questo potrà avvenire solo avendo la capacità di riconoscere gli errori che il centrosinistra ha compiuto nell’ultimo ventennio.

Ad esempio?
La subalternità alla globalizzazione liberista e all’idea che il mercato sia sempre in grado di autoregolarsi. Tutti errori che hanno aperto la porta al renzismo.

C'è già un leader?
Il leader uscirà dal congresso di Sinistra Italiana. Si confronteranno idee e progetti e si deciderà.

Mentre in Italia ci si prepara al referendum, il mondo si interroga sulla vittoria di Donald Trump. Crede che le presidenziali americane avranno ripercussioni anche da noi?
Non credo che ci sarà un’influenza diretta sul referendum. Semmai ci sarà la conferma di una tendenza in atto in tutto l’Occidente, dove gli elettori si schierano contro le élite politiche e finanziarie. Riconosco un tratto comune a tutti i leader sconfitti, dalla Clinton a Renzi: la contiguità con il potere economico e finanziario. Sono leader che hanno preso in mano forze progressiste e invece di ascoltare i lavoratori hanno scelto come interlocutori privilegiati banchieri e grandi imprenditori. Ecco perché il referendum potrebbe caratterizzarsi anche come un voto contro l’establishment politico e finanziario. Tre anni fa Renzi è riuscito a presentarsi come una novità. Oggi il bilancio del suo governo è fallimentare e lui non è più credibile. Il No al referendum rappresenterà anzitutto una richiesta di cambiamento.

venerdì 11 novembre 2016

Donald Trump - Identitarismo vince contro il Globalismo, se non capiscono questo sono out

Marco Tarchi: "Chi ha votato per Trump aveva motivi concreti per farlo"

Il politologo sulle motivazioni che hanno portato al triofo di The Donald. L'inattendibilità dei sondaggi, il ruolo "ricattatorio" dei media. E l'Italia? «Anche Renzi sta giocando la carta populista»
di Marco Sarti
11 Novembre 2016 - 12:29

Populisti sì, ma mica scemi. Gli elettori che hanno votato Donald Trump «avevano motivi concreti, e non solo impulsi emotivi, per reclamare un cambio di rotta e affidarsi ad un uomo estraneo alla politica». Per Marco Tarchi, politologo all’Università di Firenze e uno dei massimi esperti di populismi, quello americano è stato un voto mosso non solo dalla passione, ma anche dalla ragione. Alle spalle del nuovo presidente si è unito un elettorato che in pochi avevano individuato. E che «i media e gli intellettuali hanno cercato in tutti i modi di stigmatizzare e intimidire». Ottenendo il risultato opposto a quello sperato. Anche da noi può succedere qualcosa di simile? Per Tarchi è Beppe Grillo che più si avvicina al messaggio complessivo di Trump. Ma in vista del referendum persino Renzi «sta giocando la carta dello stile populista». Cercare una copia italiana del nuovo inquilino della Casa Bianca, in ogni caso, può essere fuorviante. «La mentalità populista può presentarsi in forme politiche molto diverse - continua - Anche Bernie Sanders ne esprimeva alcune caratteristiche».

Professore, la vittoria elettorale di Donald Trump può essere considerata una vittoria del populismo? Fin dalle prime ore molti analisti hanno parlato della reazione degli “sconfitti” contro le élites, di un messaggio anti establishment.
Sì, l’analisi mi sembra corretta, anche se i fattori che hanno portato a questo risultato inatteso sono molteplici. Gli argomenti e lo stile populisti della campagna di Trump hanno certamente contribuito in misura sostanziale.

È sbagliato inquadrare il risultato delle presidenziali Usa attraverso il confronto Democratici-Repubblicani? Lo stesso Grand Old Party non ha mai nascosto più di un dubbio sulla candidatura di Trump.
Più che sbagliato, sarebbe insufficiente. Non c’è dubbio che la fedeltà partitica degli elettori ha avuto, su entrambi i versanti, il suo peso, ma l’elemento aggiuntivo vincente è venuto da votanti indipendenti, in forte crescita (non va trascurato che il candidato libertario ha ottenuto il 3,2% e la candidata verde l’1,1%: ulteriori piccoli ma significativi segnali di crepe nel bipartitismo), che non avrebbero probabilmente sostenuto un candidato dell’establishment, di cui i vertici repubblicani fanno parte a pieno titolo. C’è da immaginarsi che costoro, da sempre diffidenti od ostili verso Trump, non mancheranno di creargli ostacoli nei due rami del parlamento se vedranno proposte politiche che non li soddisfano. La disciplina di partito dei parlamentari, negli Stati uniti, è estremamente limitata. Si risponde, semmai, agli elettori – e in primis ai grandi elettori, cioè ai finanziatori della propria campagna – del collegio in cui si è si è stati eletti.

Nel suo primo discorso Trump si è rivolto ai “dimenticati". È questo il suo bacino di voti? Chi è più sensibile ai richiami del populismo americano? Nelle analisi post elettorali si citano gli arrabbiati d’America, i bianchi, i disoccupati, le classi medie impoverite, i perdenti della globalizzazione...
Sono tutte analisi “a spanne”, perché i dati di sondaggio sono, al momento, scarsi – e, come sempre accade ad onta di quanto pensano taluni analisti, da prendere con le molle. Tuttavia, tutti i gruppi sociali che Lei cita paiono aver contribuito al risultato. E poiché si tratta di categorie eterogenee, si può ipotizzare che a tenerle insieme nella decisione di voto siano stati più uno stato d’animo che richieste settoriali. Anche se ciò non significa affatto, come qualcuno sostiene, che il voto per Trump sia stato mosso solo dalla passione e non anche dalla ragione. I “dimenticati” avevano motivi concreti, e non solo impulsi emotivi, per reclamare un cambio di rotta e affidarsi ad un uomo estraneo alla politica di professione.

È un elettorato che si vergogna anche un po' della propria scelta? Nei sondaggi molti sostenitori di Trump hanno preferito non esprimersi per paura di essere giudicati. E questo ha reso più difficile prevedere il risultato elettorale.
È più corretto dire che è un elettorato che i media e gli intellettuali hanno cercato in tutti i modi, con una campagna martellante, di stigmatizzare e intimidire. Ciò spiega il desiderio di non esporre le proprie “deplorevoli” – o meglio, deplorate – intenzioni a chi li chiamava al telefono per sapere come avrebbero votato. Si ha un bel dire che i sondaggi garantiscono l’anonimato; chi vi è sottoposto sa che i sondaggisti dispongono del suo numero di telefono; sarà anche stato selezionato a caso, ma la diffidenza è radicata. Molti anni fa un’eccellente studiosa tedesca, Elizabeth Noël-Neumann, individuò questo fenomeno come un dato cruciale per le indagine d’opinione e lo inquadrò nella teoria della “spirale del silenzio”, di cui evidentemente non tutti gli addetti ai lavori hanno compreso la portata.

Lei si batte perché il fenomeno populista sia studiato senza accezioni negative. È difficile non notare come nella campagna elettorale americana il fenomeno Trump sia stato criticato e denigrato dai principali media. Paradossalmente questo può aver aiutato la corsa del nuovo presidente?
È probabile, perché l’insofferenza nei confronti dei dettami della “correttezza politica” è oggi visibilmente in crescita in molti paesi. Chi coltiva, ad esempio, un’immagine negativa dei flussi migratori è investito da una comunicazione pubblica che vuole convincerlo di essere un razzista o quantomeno uno xenofobo, viene descritto come uno stupido senza cuore in balia della propaganda di malvagi imprenditori della paura e si sente trattato come un essere ignobile. Questo modo di comportarsi dei media mainstream, che non esitano ad utilizzare un ricatto della compassione e della commozione che fa il paio con il ricatto della paura e dell’insicurezza di certi populisti, spesso ottiene un risultato opposto a quello sperato e rende sistematica l’ostilità del telespettatore verso chi pretende di impartirgli di continuo lezioni di civismo.

Adesso la vittoria di Trump può dare nuova consapevolezza alle forze populiste e anti-élite mondiali? Il successore di Obama può diventare un punto di riferimento?
Psicologicamente, potrebbe “scongelare” un certo numero di elettori che preferiscono le proteste, e le proteste dei movimenti populisti, alle opinioni e ai comportamenti dei loro avversari, ma che finora temevano di varcare la soglia della rispettabilità votandoli (e, soprattutto, facendo sapere, o anche solo sospettare, di averli votati). Politicamente, il discorso è più complicato, perché ogni populista guarda in primo luogo, o solamente, al proprio popolo, e Trump è statunitense, quindi ha in vista l’interesse dei suoi connazionali; ciò significa che alcune sue mosse potrebbero andare in una direzione contraria agli interessi di paesi europei. E questo dispiacerebbe certamente a un populista francese, olandese o italiano. Solo il tempo ci dirà come andranno le cose su questo versante. Anche perché, sin qui, il tallone d’Achille del populismo è stata proprio la sua capacità di governo di situazioni complesse, perché i populisti hanno una visione iper-semplificata della realtà e faticano a superare gli ostacoli posti da ambienti a loro ostili, come i poteri finanziari, i burocrati e gli intellettuali. I risultati ottenuti da Trump potrebbero ribadire o ribaltare la regola.

C’è un filo conduttore che lega il voto in Gran Bretagna per l’uscita dall’Europa e l’affermazione di Trump alla Casa Bianca? Quale sarà la prossima tappa, magari il referendum italiano? 
Sicuramente c’è: le preoccupazioni in materia di sicurezza – economica e psicologica – e la voglia di affermare le proprie specificità nei modi di vita nei confronti dell’irruzione di atteggiamenti e stili ispirati al cosmopolitismo globalista hanno pesato molto in entrambi i casi. Il caso del referendum italiano è, in questo senso, anomalo, perché Renzi, che pure agli occhi di molti è in tutto e per tutto un rappresentante tipico dell’establishment, timoroso di questa sua immagine, sta giocando la carta dello stile populista per diminuire l’efficacia delle argomentazioni avversarie: le tirate contro l’inefficienza e l’immobilismo burocratico dell’Unione europea, l’irrisione verso i “professoroni” che non condividono la riforma, l’enfasi sul “tagliare i costi della politica” sono tutti elementi di questa sua strategia.

In Italia chi ha celebrato la vittoria di Trump sono stati soprattutto Cinque Stelle e leghisti, le principali realtà populiste del nostro Paese. Ma chi dei due è più affine al messaggio del presidente Usa? Entrambi si accreditano come una forza anti sistema, ma solo Salvini condivide con Trump le spinte nazionaliste anti immigrazione.
Lei sa che io da anni distinguo il discorso pubblico di Beppe Grillo, che considero populista a pieni carati, da quello del Movimento Cinque stelle, che ne segue solo in parte le coordinate. Se dovessi dire chi è più affine al messaggio complessivo di Trump, direi Grillo (e difatti è stato lui a proporre il paragone con il suo “vaffa”), ma se parliamo del M5S, che cerca di muoversi sul sottile filo di un equilibrio instabile delle posizioni dei suoi esponenti di vertice e intermedi e quindi non se la sente di seguire il fondatore su temi come quelli dell’immigrazione e del multiculturalismo, le cose stanno diversamente. Anche la Lega di Salvini, peraltro, non si presenta come una copia conforme del fenomeno Trump, pur ricalcandone vari aspetti. Non va mai dimenticato che la mentalità populista può presentarsi in forme politiche molto diverse e attecchire, in dosi più o meno massicce, in ambiti diversi. Del resto, anche Bernie Sanders ne esprimeva alcune caratteristiche, e, come ha fatto notare un populista di sinistra francese qual è Jean-Luc Mélanchon, forse, se fosse stato il candidato dei democratici contro Trump, avrebbe fatto meglio dell’icona dei “poteri forti” Hillary Clinton.

Uccideranno Trump, forse, le manifestazioni colorate sono iniziate, il Circo Mediatico è parte integrante del caos creato ad arte. Un fatto è certo, per il momento la nuvola nera della guerra mortale con la Russia è stata rimandata

IL MESE PERICOLOSO E AMBIGUO DI “THE DONALD”

Maurizio Blondet 11 novembre 2016

Tanti lettori mi chiedono giudizi e valutazioni sulla Amministrazione Trump. Sarei lieto di accontentarli, se solo avessi la sfera di cristallo che alcuni di loro mi attribuiscono. Non ci possono essere che chiacchiere interlocutorie, fino a che non si precisa la squadra che assocerà a sé. Posso solo dire che la vera incoronazione –il voto dei 537 grandi elettori – avverrà il 19 dicembre. Si apre un mese e mezzo pericolosissimo per lui e il suo progetto – ammesso che vi giunga vivo, perché già si affollano, persino nei tweet, i candidati al suo assassinio.

L’odio della sinistre, degli studenti-psicopoliziotti del politicamente corretto, dei militanti negri e lgbt, delle femministe – per non parlare della Famiglia Clinton con le sua capacità di omicidio – è spesso e rovente in questi giorni. Bisogna chiedersi persino se le manifestazioni anti-Trump stanno configurando o preparando una “rivoluzione colorata” in Usa

Soros all’attacco?

Le manifestazioni sono sincronizzate alla perfezione; a inscenarle prima sono i locali studenti detti “snowflakes”, perché si ritengono delicati preziosi e perfetti come fiocchi di neve, e nei campus pretendono “spazi sicuri” dove le loro fragili emozioni siano protette dalle parole “offensive” contro le minoranze (figurarsi come li ha offesi Trump);

Uno snowflake

però i manifestanti più violenti, quelli che aggrediscono i passanti che inalberano un berretto alla Donald, arrivano in pulman da altri stati: qualcuno paga i pulman e la loro giornata “lavorativa”, perché in America nessuno ha i soldi e il tempo libero per protestare a sue spese (anche da noi, di solito paga la CIGL). E’ ovvio sospettare i finanziamenti della “Open Society” di Soros e gli specialisti di agitazione di strada di Gene Sharp e la sua Einstein Institution che abbiamo visto tante
volte in azione nell’Est europeo, col logo del pugno chiuso.


Il fatto che i grandi network coprano in modo ossessivo queste manifestazioni, creando l’idea che siano dilagando in ogni città (anche se per lo più sono sparse e piccole, tranne a New York e Washington) rafforza il sospetto che siano parte di un progetto: il vostro cronista era presente, nel 2003 a Washington, ad una marcia di protesta contro la guerra all’Irak di Saddam con almeno 50 mila manifestanti: il giorno dopo il Washington Post non ne dava notizia, e la CNN non la mostrò. A cosa puntano i disordini e i loro organizzatori? Forse ad una situazione che consenta ad Obama di dichiarare lo stato di emergenza. Forse mira a un progetto più sottile, l’intimidazione dei “grandi elettori” che devono votare il 19 dicembre, ciascuno nella capitale del suo stato.

Soros paga bene per il “lavoro”
Le Idi di dicembre

Sulla carta, Trump ha dalla sua 290 elettori, Hillary 228. Ma nulla impedisce ad ogni elettore di rifiutarsi di votare per il candidato a cui è stato collegato dal voto popolare, invocando la propria libertà di coscienza, o astenersi. C’è persino un termine tecnico per questo: “faithless elector”, elettore che ha perso la fede … non è accaduto quasi mai, e mai un faithless elector ha rovesciato una elezione, ma talora sì. L’ultima volta nel 2004, un elettore del Minnesota rifiutò di votare per il suo candidato democratico, che era John Kerry, preferendo John Edwards, e con ciò rafforzando il numero per la rielezione di Bush jr. (che non ne ebbe bisogno, avendo già 286 voti elettorali).

Oggi però, nota il New York Post, “data la diffusa insoddisfazione dei repubblicani per Trump” (ricordiamo: il Partito non ha investito un solo dollaro nella sua campagna) “alcuni elettori repubblicani faithless possono far di testa loro” il prossimo mese. Qualcuno c’è già: Chris Suprun, un pompiere del Texas, ha dichiarato di trovare Trump così schifoso che pensa di votare Hillary il 19 dicembre. Un imprenditore di Atlanta, Baoky Vu (vietnamita), che ha confessato la stessa tendenza a un sito locale ad agosto, è stato discretamente convinto dal leader repubblicani locali a dare la dimissioni da elettore. Ovviamente, bisognerebbe che fossero ben venti i grandi elettori che il 19 dicembre facessero il voltafaccia a favore della Clinton, un grosso improbabile numero. Ma un cambiamento di idee può essere facilitato in questi personaggi – gente comune che tornerà nell’ombra – dalla suggestione delle proteste di strada, se non cessano e diventano sempre più grosse e agitate, magari fino ad una “piazza Maidan” con cecchini a versare sangue. O magari un cambiamento di convinzioni può dipendere da aperte minacce ricevute dai “libertari” militanti, chissà. Tanto più che la Clinton, ha ricevuto 220 mila voti popolari più di Donald.

Se i meccanismi della “democrazia Usa” paiono cervellotici, ebbene, lo sono. Per volontà precisa dei Padri Fondatori, oligarchi e massoni, che temevano la democrazia diretta.

Fatto sta che alte figure storiche repubblicane, come Pat Buchanan o Craig Roberts, invitano Trump a fare in fretta, non perdere tempo, non esitare, non cercare accomodamenti con la cosca democratica perdente; lo invitano a far fuori i neocon che si sono incistati nei governi precedenti, repubblicani o democratici non importa da 15 anni, altrimenti non riuscirà ad attuare il programma. Dovrà agire – dice Buchanan – nei primi cento giorni, a smantellare i trattati commerciali globalisti, le legislazioni “ecologiche” che hanno vietato l’uso del carbone nelle centrali, indurire le politiche immigratorie , togliere i fondi alle città-santuario (che non perseguono gli immigrati illegali), cancellare la Dodd-Frank, la legge che cercava invano di regolamentare Wall Street e sostituirla “con politiche pro-crescita”. Ma qui sono numerose la ambiguità del programma di Trump, come “la promozione di una robusta forza militare contro il terrorismo” e la promessa di cancellare l’accordo che ha sollevato l’Iran dalle sanzioni per il nucleare, voluto da Obama, e aborrito da Israele e di neocon. Trump ha promesso di essere duro con Teheran, ossia di accontentare i neocon.

Rudy Giuliani è mascherato da donna. A una festa dove Trump lo palpava….

I nomi che si sceglierà come ministri chiariranno le sue scelte, che non sono sicuramente le mie (ma l’hanno votato gli americani, mica noi). Rudy Giuliani come attorney general è parte di questa sgradevolezza: come sindaco di New York, è stato complice del gigantesco delitto chiamato 11 Settembre, è stato lui a cedere in affitto a 99 anni il World Trade Center a Larry Silverstein, che subito assicurò le due Torri contro un impatto aereo le due separatamente, guadagnando miliardi contro una rata dell’affitto di qualche milione. Tuttavia, Giuliani è la vecchia volpe che tranquillizza i golpisti dell’11 Settembre e insieme ha l’esperienza maneggiona dei politicanti, anche repubblicani, da cui Trump è visto male . La scelta New Gingrich come segretario di Stato sarebbe molto significativa; al contrario, John Bolton a quella carica avrà tutt’altro senso: Bolton è un ebreo un sionista con doppio passaporto, membro del PNAC (il think-tank che auspicò la “nuova Pearl Harbor” dell’11 Settembre) promotore di tutte le guerre di destabilizzazione dell’amministrazione Bush jr. – che lo ha fatto ambasciatore all’Onu. Se Trump sceglie Bolton, dà il potere ai neocon. Anche la posizione del generale Michael Flynn, l’ex capo della DIA ed esponente della nutrita schiera dei generali che non vogliono più l’avventurismo delle guerre di destabilizzazione, sarà indicativa: capo della Cia? Della NSA? Ministro al Pentagono? Non sappiamo ancora, quindi non possiamo valutare la forza del cambiamento – se ci sarà.

Gli Invisibili gli hanno concesso di reindustrializzare

Per ora una cosa sembra certa: la fine della spinta alla globalizzazione ulteriore. Circola persino una teoria, secondo cui la vittoria di “The Donald” sarebbe stata favorita – o almeno non ostacolata – da non meglio precisati Invisibili, che dopo aver voluto la globalizzazione, vedono ora necessaria una reindustrializzazione degli Stati Uniti, constatando l’indebolimento della Superpotenza che resta la loro base e centrale di potere. A forza di favorire l’interdipendenza e la ricerca di profitti sul “vantaggio competitivo” transnazionale, c’è il rischio che si debbano fare le guerre future comprando i missili dai cinesi – così suona più o meno l’allarme di questa fazione degli Invisibili.

Il protezionismo di Trump non sarebbe malvisto da questi potenti invisibili. Lasciate che i servi della passata dottrina strillino che il protezionismo “danneggia il motore della crescita degli ultimi vent’anni”. Essi conoscono il piccolo inconfessato segreto: il commercio mondiale è bloccato da mesi.

A Little-Noticed Fact About Trade: It’s No Longer Rising

Le compagnie armatoriali falliscono, con le navi da trasporto ferme davanti ai porti, troppe per il commercio globale che, nel primo trimestre del 2016, è stato piatto, e nel secondo è sceso di -0,8 per cento. Il valore totale dell’import-export americano è caduto di 200 miliardi di dollari nel 2015, e di 470 milioni nei primi sette mesi del 2016. Insomma, i “vantaggi competitivi” della ricerca del basso costo di lavoro sono arrivati al capolinea. Lorsignori ne hanno tratto tutto il possibile, oggi la nuova normalità sarà: reindustrializzazione, autarchia energetica (torna il carbone, industria che stava licenziando decine di migliaia di minatori votanti per Trump), infrastrutture da ricostruire, “pace e lavoro”. E fuori gli immigrati che portano via i posti agli americani.

Attenzione a credere che sia una evocazione a modelli sociali dell’Europa anni ’30, o anche rooseveltiani e keynesiani. Sarà piuttosto, temo, un cambiamento basato sulle dottrine di Ayn Rand (nata Alisa Rozenbaum in Russia: “Tra tutti i Paesi della Terra, quello meno adeguato per una sostenitrice dell’individualismo »), la pensatrice dell’egoismo razionale. Trovate l’essenziale su Wikipedia. Ayn Rand predicava che “l’individuo fosse dotato di un diritto di esistere fine a se stesso, che non prevede né il sacrificio di se stesso a beneficio degli altri, né il sacrificio di nessun altro a suo vantaggio; e nessuno avesse il diritto di esigere il rispetto dei propri valori da parte di altri tramite la forza fisica, o di imporre idee agli altri tramite la forza fisica”.

Da dove ci viene questa sensazione? Perché l’egoismo razionale è la filosofia predicata dall’unico potente che si è messo dalla parte di Trump nello “steering committee” del Bilderberg, e sembra sia uscito vincitore dallo scontro in questo riservatissimo salotto buono senza testimoni : Peter Thiel 48 anni, “ orgoglioso di essere gay”, 2,8 miliardi di dollari fatti come cofondatore di PayPal e tra i primi investitori di Facebook”, contrario all’intervento statale in economia solo quando si tratta di aiutare i poveri, che ha fatto di Ayn Rand la sua filosofa, ed è stato chiamato “il Nietzsche dell’impresa” . Fatene la conoscenza in questo articolo antipatizzante del Corriere del giugno scorso: Thiel il sodomita si scagliava contro la stupidissima questione di quale toilette assegnare ai LGBT, dicendo (non a torto) che altri sono i problemi del paese.

Peter Thiel

http://www.corriere.it/esteri/16_luglio_22/thiel-miliardario-pro-trump-che-concilia-omosessualita-intolleranza-c4e1dbc4-4fef-11e6-a079-6300f66c3f65.shtml

Ma naturalmente è presto per fasciarci la testa, per attribuire a Trump le stesse visioni di Ayn Rand. Per adesso ci rallegri il fatto che, liquidando Hillary, abbiamo rimandato la guerra alla Russia, se non per sempre, per alcuni mesi.

Corto circuito del Sistema di Comunicazione

Ecco come gli editori di carta si stanno suicidando su Facebook e Google

Roberto Sommella


L'intervento di Roberto Sommella, giornalista, comunicatore e saggista

Le prime tre piattaforme social di messaggistica più usate sono tutte di Facebook. Per parlarsi si passa di lì, ma anche per scambiarsi semplici notizie. È questo il dato che conta di più se si cerca di capire dove sta andando il mondo dell’informazione.

Pensateci un attimo. Cosa fate come prima cosa la mattina davanti al caffè? Il consueto gesto quotidiano di aprire il tablet o lo smartphone per consultare la versione digitale dei giornali preferiti o la rassegna stampa, viene anticipato con un’occhiata diretta a Facebook. Sul pianeta di Mark Zuckerberg – un posto dove vivono ormai un miliardo e 600 mila persone e ogni trimestre si fatturano oltre 6 miliardi di dollari e si incassano utili per due miliardi – ormai si trovano non solo foto, sfoghi e vecchie polaroid, ma interi articoli postati da giornalisti, professionisti e non, sugli argomenti più disparati e si commentano in diretta gli avvenimenti. Un sisma, il referendum costituzionale come le presidenziali americane. Molto spesso, è dura ammetterlo ma è così, gli stessi editorialisti trovano nel vasto universo della rete più lettori di quanti ne hanno concretamente nel mondo cartaceo.

Questa rivoluzione silenziosa è stata completa il giorno dell’ultima scossa di terremoto in Italia, domenica 30 ottobre. Quel giorno un canale all news televisivo ha fatto vedere i filmati dei lampadari degli italiani che dondolavano messi dai reporter per caso su Twitter, mentre gli stessi un attimo prima vedevano la rassegna stampa dei giornali in tv. Insomma il web mostrava i lettori dei quotidiani che guardano la televisione fotografando e navigando su internet. Negli anni Venti i newspapers cominciarono ad andare in crisi di vendite per l’avvento della radio. Da allora si disse che la radio annunciava l’evento, la tv lo faceva vedere e il giornale lo spiegava. Un equilibrio perfetto. Quel giorno di fine ottobre del 2016 internet ha compiuto tutte e tre le performance. Qualcuno sostiene che sarà proprio la rete, come la radio cento anni fa, a decretare tra un lustro la fine del dominio dell’elettrodomestico finora più amato al mondo. Parafrasando la celebre canzone, Internet killed the video stars.

Queste considerazioni devono convincere gli editori a riconcentrarsi sul business della rotativa perché quello digitale non è affare loro o comunque non completamente. Pensano di governarlo e invece ne sono governati se non addirittura cannibalizzati dagli stessi lettori. Da tempo è chiaro che spostare sul web l’intero prodotto che si vende su carta è assicurarsi il fallimento, quando pubblicità e ricavi continuano in proporzione ad essere maggiori nel settore tradizionale. Leopoldo Fabiani ha giustamente ricordato nella sua rubrica su l’Espresso che uno studio americano ha sottolineato come cinquantuno grandi quotidiani (tutti i più importanti tranne New York Times, Usa Today, e Wall Street Journal) abbiano una diffusione cartacea migliore di quella dei siti delle varie testate, i quali continuano a generare guadagni minori di quanto faccia la carta. La grande illusione è finita. O si mettono a pagamento tutti i siti o si devono oscurare. La pubblicità che arriva lì probabilmente se ne è andata dalla rotative.

A questo punto diventa importante capire che ogni nuovo concorrente non arriva più dal proprio settore. L’antagonista più combattivo degli alberghi proviene infatti dalle case private (AirBnb), quello dei taxi dalle auto dei singoli cittadini (Uber), quello delle agenzie di viaggio spesso giunge dalla grande distribuzione e il competitor più agguerrito del settore bancario è una mela mordicchiata analoga a quella dei Beatles, il cui inventore, per poter usare quel logo, ha dovuto promettere di non entrare mai nella musica perché lavorava in tutt’altro comparto (cosa che poi avvenne con immediato pagamento di penale miliardaria).

Agli editori di giornali ancora non fischiano le orecchie?

Giulietto Chiesa: "Il funerale del mainstream. Fiori non opere di bene."

PTV News 10 Novembre 2016 - Trump e la “paura" degli Stati canaglia

Autovelox - i prefetti lavorano per il governo e le multe servono per fare cassa. I limiti di velocità sono irreali

Caso autovelox di Albenga, chiesto incontro col Prefetto

Proposto l'annullamento dei verbali
di Italo Walter - 10 novembre 2016 - 8:28


Albenga. Non si placano le polemiche sul contestato autovelox posizionato lungo la strada provinciale numero 6 che collega Albenga con Villanova.

Un nutrito gruppo di cittadini con in testa i sindaci Cangiano di Albenga e Balestra di Villanova, sta portando avanti l’iniziativa di una class action, un’azione legale di gruppo, contro le migliaia di multe elevate in quella zona.

I sindaci stessi hanno effettuato sopralluoghi e notato alcune circostanze che potrebbero far emergere diversi profili di illegittimità relativamente alle sanzioni contestate.

E’ stato chiesto un incontro urgente col Prefetto per evidenziare il grave stato di preoccupazione che coinvolge tutto il territorio.

I sindaci di Albenga e Villanova e gli altri della zona chiederanno alla Provincia di verificare la correttezza dell’installazione e del limite di velocità sul quale l’apparecchiatura è tarata proponendo l’annullamento in autotutela di tutti i verbali contestati.

Il risparmio italiano è massacrato e le istituzioni aiutano i truffatori

LA VOCE DEL CONSUMATORE

Banche, scandalo Mps e crac bancari: Codacons organizza assemblea pubblica a Roma

Tutti i risparmiatori che hanno acquistato titoli di Mps, Fondiaria Sai, Unipol, Banca Etruria, Banca Carife, Banca Marche, Carichieti, Banca Veneto, Popolare Vicenza, possono chiedere i danni.

(Codacons) - Il Codacons ha convocato per lunedì 14 novembre (alle ore 16 presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio) un’assemblea pubblica a Roma per dare informazioni a tutti i risparmiatori danneggiati dalle banche circa le procedure da seguire per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali subiti, e per raccogliere le firme per costituirsi parte civile nel processo contro gli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena. 

Mps, Fondiaria Sai, Unipol, Banca Etruria, Banca Carife, Banca Marche, Carichieti, Veneto Banca, Popolare di Vicenza, sono solo una parte degli istituti di credito che hanno portato gli azionisti e i risparmiatori che ne detenevano i titoli a perdere milioni e milioni di euro.

Il Codacons intende fare chiarezza e fornire agli utenti le corrette informazioni su come poter recuperare le somme perdute da azionisti ed obbligazionisti ed indicare loro la via migliore per ottenere il risarcimento spettante. 

A tal fine, nell’ambito delle proprie finalità statutarie, l’associazione organizza a Roma il prossimo 14 novembre una pubblica assemblea nel corso della quale verranno anche raccolte ulteriori firme per le costituzioni di parte civile nel procedimento penale contro gli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena, processo che riprenderà il prossimo 15 dicembre davanti al Tribunale Penale di Milano. I risparmiatori potranno iscriversi all’azione penale anche nel corso dell’assemblea, portando la documentazione indicata nella pagina del sito www.codacons.it dedicata a MPS. 

Nel corso dell’incontro il Codacons informerà inoltre gli azionisti degli altri istituti di credito delle azioni che l'associazione sta realizzando a loro tutela, e sullo stato del procedimento penale contro Salvatore Ligresti a Torino e Paolo Ligresti a Milano, dove il Codacons, così come nel processo MPS , tutela già centinaia di famiglie di azionisti. 

Il Codacons invita pertanto tutti i risparmiatori interessati ad intervenire e porre le domande che riterranno opportune per avere chiare le possibilità di recuperare i risparmi andati in fumo a causa della perdita di valore dei titoli in loro possesso.

Tra le contraddizioni di Francesco

Chiesa e società. Papa Francesco all’Incontro mondiale dei movimenti popolari
Dal popolo, l’economia alternativa


Tra le molteplici iniziative originali del pontificato di Francesco, la convocazione dell’Incontro mondiale dei movimenti popolari ha un posto speciale. Non solo perché gli obiettivi, le riflessioni e le azioni dei rappresentanti di quei movimenti appartengono sicuramente all’orizzonte di valori e allo stile con cui Bergoglio ha vissuto la propria esperienza pastorale e di vita, ma anche perché, di fatto, per la prima volta la Santa Sede riesce a promuovere un dialogo e a offrire spazio e autorevolezza a un percorso, animato da credenti e non credenti, che da sempre (e da molti) è considerato secondario, se non ininfluente, rispetto alle vicende del mondo dell’economia, della politica, della sicurezza

Fin dal primo incontro del 2014 a Roma, e passando per quello tenutosi a Santa Cruz in Bolivia lo scorso anno, a contribuire con riflessioni e proposte sono stati i cartoneros di Buenos Aires, i rappresentanti delle popolazioni indigene della Bolivia, i Sem Terra del Brasile, gli educatori sociali del Mozambico, i contadini di Via campesina, il sindacato dei lavoratori di strada dell’India, gli animatori delle radio popolari dell’Africa. Sono uomini e donne, perlopiù giovani, che si sono auto-organizzati per trovare vie alternative a un sistema economico e politico che considera la miseria come un effetto collaterale della ricchezza della minoranza degli abitanti del pianeta.

Nell’incontro che si è tenuto a Roma dal 2 al 5 novembre scorsi sono rifluite le esperienze e le proposte dei rappresentanti dell’“economia popolare” o “informale” che trova la massima espressione in quei lavoratori che rovistavano tra i rifiuti delle discariche (pepenadores) o dei cassonetti (cartoneros) delle metropoli sudamericane, e che si sono cooperativizzati stringendo accordi prima con la grande distribuzione, poi con le municipalità e, infine, con le grandi centrali del riciclo, riuscendo a dare nuova dignità a molti poveri, a diventare operatori di nuovi modelli ecologici a servizio della comunità, e soprattutto ad assicurare un salario a chi fino ad allora era senza reddito.

Economia popolare come quella sperimentata dal grande movimento brasiliano dei Sem Terra (“senza terra”) che hanno cominciato con l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti e oggi sono una realtà diffusa a presidio della biodiversità e della redistribuzione delle terre stesse.

Certo, nei giorni di incontro, confronto e approfondimento si è parlato anche di landgrabbing, l’accaparramento di terre in Africa da parte di multinazionali straniere che impongono monocolture che annientano sovranità alimentare e diritti dei contadini, che utilizzano pericolose sostanze tossiche e corrompono Governi e istituzioni locali per poter estendersi e trarre sempre più profitto.

Ci si è confrontati anche sulla piaga degli sfollamenti forzati (desplazados) e delle migrazioni e coerentemente con le tematiche che hanno fatto da sfondo sin dal primo incontro – tierra, techo y trabajo: terra, tetto e lavoro -, anche sul tema del diritto alla casa.

Papa Francesco nel bellissimo intervento svoltosi in aula Paolo VI l’ultimo giorno ha voluto sottolineare particolarmente il ruolo realmente innovativo che i leader delle organizzazioni popolari potrebbero svolgere con un impegno diretto nella politica. Ha offerto riflessioni sul sistema “terroristico” prodotto da un modello economico che non ha esitato a definire “atrofizzato”, e ha proposto il modello fondato sull’amore e sulla misericordia, alternativo a quello che utilizza lo strumento della paura.

“La paura – ha affermato – viene alimentata, manipolata… Perché la paura, oltre a essere un buon affare per i mercanti di armi e di morte, ci indebolisce, ci destabilizza, distrugge le nostre difese psicologiche e spirituali, ci anestetizza di fronte alla sofferenza degli altri, e alla fine ci rende crudeli. Quando sentiamo che si festeggia la morte di un giovane che forse ha sbagliato strada, quando vediamo che si preferisce la guerra alla pace, quando vediamo che si diffonde la xenofobia, quando constatiamo che guadagnano terreno le proposte intolleranti; dietro questa crudeltà che sembra massificarsi c’è il freddo soffio della paura.

Vi chiedo di pregare per tutti coloro che hanno paura: preghiamo che Dio dia loro coraggio e che in questo anno della misericordia possa ammorbidire i nostri cuori. La misericordia non è facile, non è facile… richiede coraggio. Per questo, Gesù ci dice: ‘Non abbiate paura’ (Mt 14,27), perché la misericordia è il miglior antidoto contro la paura. È molto meglio degli antidepressivi e degli ansiolitici. Molto più efficace dei muri, delle inferriate, degli allarmi e delle armi. Ed è gratis: è un dono di Dio”.

Una lezione che vale anche dalle nostre parti.

Tonio Dell’Olio