la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
sabato 7 gennaio 2017
Giuseppe Fava - la mafia risiede nel Parlamento, nelle Istituzioni. Il corrotto Pd lo sa bene
Pippo Fava e quell'amore per la ricerca della verità
Il 5 gennaio 1984 sicari di Cosa Nostra
uccisero Pippo Fava, il direttore de 'I Siciliani'. La sua lettura del
nesso mafia-politica è sorprendentemente attuale.
"Chi non si ribella al dolore umano, non è innocente" scriveva Pippo Fava. E ancora: "Mi
batterò sempre per cercare la verità in ogni luogo ove ci sia confronto
fra violenza e dolore umano. E per capire il perché".
Da queste parole di Giuseppe Fava emerge
chiaramente lo spirito che lo guidò nel suo lavoro di scrittore,
giornalista e drammaturgo. Poteva essere un articolo, un romanzo o una
delle sue opere teatrali, ad ogni modo, l'importante era che il tema
fosse la verità. Una verità che come lui stesso spiegava si incontra
sulla strada: "Tutti
gli infiniti fatti e personaggi che animano la vita della società
italiana, e quasi sempre restano nel buio, rintanati, nascosti,
interrati".
Quella
verità che per Cosa nostra ed alcuni poteri imprenditoriali e
istituzionali collusi con la mafia doveva invece rimanere nel buio. Così
il 5 gennaio 1984 dei sicari di Cosa Nostra con 5 colpi di pistola alla
nuca uccisero Pippo Fava, il direttore de "I Siciliani". Giornale con cui Fava, dopo la rottura con il Giornale del Sud,
culminata con il suo licenziamento, aveva denunciato le peggio
collusioni tra boss e imprenditori catanesi, sfidando quell'ambiente di
omertà e opportunismo che anteponeva le convenienze personali alla
responsabilità etico morale del giornalismo vero.
"Io ho un concetto etico di giornalismo. - Spiegava infatti Fava nel 1981, in un editoriale per il Giornale del Sud - un
giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la
violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili,
pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante
attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un
giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane. Un
giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si
porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le
sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è
stato capace di combattere".
Un
concetto che portò Fava dal 1980 a condurre il giornale del Sud
rendendo note, senza ossequi, le sue investigazioni che trovavano sempre
riscontri e che ben presto portò alla rottura con l'editore del
quotidiano che pochi mesi dopo cessò le pubblicazioni.
Fu così che nel 1982, assieme alla parte della redazione del Giornale del Sud che ne aveva condiviso le scelte di fondo, Giuseppe Fava fondò la cooperativa editoriale Radar e registrò la nuova testata I Siciliani.
Nel
primo numero Fava puntò il dito sui quattro maggiori imprenditori
catanesi, Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro scrivendo l'articolo "I quattro cavalieri dell'Apocalisse mafiosa".
Nell'inchiesta, frutto di due anni di lavoro, accusava il mondo
imprenditoriale e politico della città di essere legato a doppio filo
con la mafia catanese e in particolare con il boss Nitto Santapaola. Con quel mensile Fava attuò il suo ideale di ricerca della verità che "i ragazzi di Fava" cercarono di portare avanti anche dopo la sua morte. Tra le inchieste più rilevanti de "I Siciliani" ci
sono quelle sui rapporti tra la mafia e la politica, le banche, e le
altre criminalità organizzate, a cui si aggiunsero quelle sulla
Giustizia e il "Caso Catania", sullo stanziamento dei missili nucleari
nelle Basi Nato siciliane.
Quel clima torbido e ostile contro chi troppo aveva capito
Come
spesso accade per i delitti di uomini e donne scomodi ai poteri
criminali, inizialmente l'omicidio fu etichettato come delitto
passionale, sia dalla stampa sia dalla polizia. Si cercò di allontanare
l'ipotesi di omicidio mafioso sostenendo che la pistola utilizzata non
fosse tra quelle solitamente impiegate in delitti di stampo mafioso. Fu
suggerito di cercare tra le carte de "I Siciliani" e
qualcuno si spinse anche a sostenere tra i possibili moventi quello
economico, per le difficoltà in cui versava la rivista. Addirittura il
sindaco Angelo Munzone,
evitò di organizzare una cerimonia pubblica con la presenza delle
cariche cittadine e arrivò a dire che la pista mafiosa era impossibile
in quanto "a Catania la mafia non esiste".
L'onorevole Nino Drago chiese una chiusura rapida delle indagini perché "altrimenti i cavalieri potrebbero decidere di trasferire le loro fabbriche al nord".
Solo nel 1998 si giunse alla condanna in primo grado per i boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, considerati i mandanti, e Marcello D'Agata, Francesco Giammuso e Vincenzo Santapaola,
come organizzatori ed esecutori dell'omicidio. In secondo grado poi,
furono confermate le condanne all'ergastolo per Santapaola e Ercolano,
mentre la Corte D'Appello di Catania assolse D'Agata, Giammuso e Vincenzo Santapaola. La sentenza diventò definitiva nel 2003. Di grande aiuto furono le dichiarazioni di Maurizio Avola, collaboratore di giustizia che si autoaccusò dell'omicidio, patteggiando sette anni di pena. "Fava non era controllabile"Maurizio Avola ha parlato così, attraverso il suo avvocato, in un'intervista al quotidiano "La Repubblica". Avola, dopo 31 anni, ha spiegato che "l'omicidio Fava è servito allo scopo della mafia e dei Cavalieri" di cui "Fava aveva scritto molto, parlando, in particolare, della mafia dai colletti bianchi".
Memorabili sono infatti le parole del giornalista, scrittore e drammaturgo una settimana prima di essere ucciso.
Nel rispondere a Enzo Biagi nella trasmissione "Filmstory" andata
in onda il 28 dicembre 1983, Fava sembra anticipare concetti che solo
decenni più avanti approdarono nelle aule giudiziarie: "I
mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i
mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono
ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di
fondo.. Insomma non si può definire mafioso il piccolo delinquente che
arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale,
questa è roba da piccola criminalità che credo abiti in tutte le città
italiane ed europee, il problema della mafia è molto più tragico e
importante, un problema di vertici di gestione della Nazione che rischia
di portare al decadimento politico, economico e culturale l'Italia. I
mafiosi non sono quelli che uccidono, quelli sono gli esecutori, anche
ai massimi livelli".
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