Il tempo in Iraq è scandito dal té che puntualmente viene servito
ad ogni incontro da sottoposti svelti e silenziosi. Scrivo Iraq, ma
penso Kurdistan, perché è qui che mi trovo: nel Kurdistan iracheno, non
semplicemente nel nord del paese, come scrivono sbrigativamente i
giornali e come qui detestano essere riassunti. A meno di 20 miglia da
Mosul, sul fronte di Makhmur, si trova il campo peshmerga 'Black Tiger'.
Al caldo di un camino appena acceso sotto una tenda coperta da reti per
la mimetizzazione, sono al cospetto del generale di brigata Serwan
Barzani.
Il generale siede tra noi e con tono pacato e distinto ci racconta
come sia difficile combattere un nemico insidioso, asimmetrico,
multiforme e ben addestrato come l'ISIS. "I combattenti dell'ISIS
sono inclini a cambiare in fretta le loro tattiche; tra le loro fila si
contano militanti ben addestrati provenienti da Cecenia, Albania, Egitto
e dall'ex esercito di Saddam. Poco tempo fa le bandiere nere
sventolavano proprio qui, nell'area dove ci troviamo adesso e in tutti i
villaggi circostanti che, con grande sacrificio, sono stati liberati
uno dopo l'altro. Si stanno ritirando ovunque su un fronte
lungo 2.000 chilometri diviso in 8 settori dove, oltre ai battaglioni di
volontari peshmerga, sono schierate 6 divisioni irachene. Anche
se peggio equipaggiati e non pagati dal governo di Baghdad, i nostri
battaglioni di volontari peshmerga, inferiori di numero, riescono a dare
più filo da torcere all'ISIS di quanto non riescano a darne intere
divisioni irachene (...) e poi sono terrorizzati dalle nostre 'donne
combattenti', hanno paura di essere uccisi da loro e perciò di non
andare in paradiso dalle loro vergini. Solo letteralmente terrorizzati
nel vederle avanzare contro di loro, spesso si ritirano senza nemmeno
combattere" - spiega compiaciuto il generale.

Alla
domanda su quando verrà liberata Mosul, il generale glissa, poi cede, e
rivela una verità comune a tutte le guerre moderne: "
È una questione politica, la città ormai è praticamente caduta..." ma poi aggiunge "
Nonostante
il nostro profondo e fondamentale sforzo, non saremo comunque noi a
liberare la città: questo onore spetta all'Esercito iracheno."
A pranzo, davanti ad un piatto di orecchiette condite con un ragù molto iracheno,
il generale prosegue i suoi racconti di guerra. Scherza domandandoci se
le nostre famiglie non abbiano paura a saperci qui, perché siamo tutti
molto giovani. Alla domanda se l'appoggio aereo portato dalla Coalizione
Internazionale sia abbastanza efficace, la diplomazia fa sentire il suo
peso: "L'appoggio dell'aria che ci fornisce la Coalizione è molto efficace. Per un esercito che non possiede aviazione, e che non aveva mai ricevuto appoggio aereo prima d'ora, questo è un grande aiuto".
In una sala attigua poi, il generale ci mostra sulla carta i vari
settori e le ultime manovre militari mosse sul campo dalle truppe
peshmerga .
Il 'Black Tiger Camp' è costituito da basse strutture di cemento
bianco coperte da reti mimetiche, alternati da tende da campo, con ambi
spazi per l'addestramento, e circondo da terrapieni coperti da sacchetti
di sabbia, filo spinato intramezzato da ostacoli anti-carro a istrice.

Una lunga fila di LAV (
Light Armored Vehicle)
Spartan
4x4 è parcheggiata al riparo di una rimessa: sono tutti dotati di
torrette con mitragliatrici e piccoli calibri di artiglieria, alcuni
riportano i segni evidenti di colpi di arma da fuoco sui vetri blindati.
Accanto a loro sono parcheggiati mezzi curiosi, un
peshmerga
mi spiega che quelli sono tutti veicoli catturati all'ISIS durante le
azioni: tra loro spicca uno dei tipici pezzi da mortaio impiegati del
califfato, con sopra dipinta la bandiera nera, un
Hummer con blindature aggiuntive, due vecchi cingolati, probabilmente appartenuti all'Esercito Repubblicano e qualche
pick-up.
C'è anche un drone artigianale abbattuto da una raffica ben mirata:
sembra un giocattolo per bambini, ma riportava informazioni letali.
Siamo noi curiosi, staccati dal gruppo, a sorprendere per primi il picchetto di peshmerga
intento a schierarsi in nostro onore. Nessuno di loro ci capisce,
nessuno di loro parla inglese, solo una cosa sanno e li fa sorridere
compiaciuti: capiscono che siamo italiani. Italiani come alcuni dei loro
migliori addestratori che operano nella nostra base di Erbil, ci
spiegano degli ufficiali; e questa è una soddisfazione non da poco.
Il loro equipaggiamento è assortito da pezzi la cui provenienza si può giudicare ad occhio: elmetti inglesi, body armour americani, gibernaggi italiani su mimetiche woodland. Sono tutti armati con varianti di AK-47.

Mentre
il picchetto viene passato in rassegna, un rombo d'elicotteri fa alzare
a tutti gli occhi al cielo. Sono una coppia di NH 90, con buona
probabilità sono i nostri che tornano ad Erbil.
Dopo le foto di rito il generale ci lascia con una richiesta: se i nostri peshemerga continuano a conseguire vittorie, è solo per il loro indomabile coraggio, non di certo per la loro potenza militare; i peshmerga
hanno bisogno di armi più efficaci da impiegare in prima linea, di
equipaggiamento, del sostegno dell'EU e degli USA; ma continueranno a
combattere comunque, con o senza, contro l'oppressione dell'IS. Sono
abituati a combattere per la loro libertà, è una scomoda tradizione che
li ha resi combattenti leggendari, dei moderni 'spartani'.
Prima di lasciarci un'ultima domanda lo trattiene "Perché 'Black Tiger' generale?" Sorride sotto i baffi "Era il mio soprannome 25 anni fa, quando combattevo sulle montagne: Tigre nera".
"Tigre nera" ripete sorridendo anche con gli occhi.
(foto ed immagini dell'autore)
Nessun commento:
Posta un commento