Nelle ultime ore, sia da fonti vicine ai servizi segreti (Mossad in particolare), che da quelle giornalistiche (tra tante
v.articolo),
sarebbe trapelata la notizia di possibili attacchi terroristici, anche
nel nostro territorio, per mezzo di APR (Aeromobili a Pilotaggio Remoto)
o UAV (Unmanned aerial vehicle), più comunemente noti come droni. In
realtà, di questa possibilità, già se ne era discusso alla vigilia
dell’apertura dell’anno giubilare appena trascorso, con la conseguente
interdizione dello spazio aereo capitolino e di altre misure poste in
atto dall’Aeronautica Militare, di concerto con gli enti civili deputati
al trasporto ed alla sicurezza aerea (ossia, Enac ed Enav).
Questa volta l’allarme sembrerebbe ancor più concreto, soprattutto se
fosse verificata la notizia fornita proprio dai servizi segreti
israeliani, di alcuni dispositivi a pilotaggio remoto di piccole
dimensioni che, opportunamente modificati, in modo da poter essere
“armati”, sarebbero entrati in Italia.
Al netto di considerazioni riguardanti il dato politico della
questione ed a prescindere da ragionamenti sulla probabilità di una
simile evenienza, così come dei possibili obiettivi, quello su cui si
andrà a focalizzare l’attenzione è - seppur con le dovute limitazioni
dettate da ovvie esigenze e da altrettanta segretezza di più specifico
materiale - l’attuale sistema di difesa da minacce di questo tipo.
In parole povere, si cercherà di rispondere a quello che molti, in
questi giorni, si stanno chiedendo: in caso di attacco terroristico con
un APR (pardon, drone), siamo inermi o, al contrario, possiamo rispondere o, addirittura, prevenire?
In linea di massima, salvo sviluppi tecnologici improbabili, tutti i
veicoli a pilotaggio remoto, anche quelli di piccole dimensioni, possono
teoricamente essere individuati (“Surveillance & Target
Acquisition”) tramite apparecchi radar, in grado di captare sia le
radiazioni termiche dei motori che le onde acustiche delle eliche.
Escludendo, naturalmente, contromisure per mezzo di proiettili o di
missili, che potrebbero avere effetti devastanti se attuate su un centro
abitato, quelle che, più opportunamente, troverebbero applicazione
potrebbero allora essere di natura elettronica o cinematica.
Quanto alle prime, vi sarebbe la possibilità di intercettare il link
video o di comando e controllo (e, in molti casi, anche di determinare
la posizione esatta del pilota che agisce da remoto) e,
conseguentemente, attaccare il velivolo con la produzione di onde
elettromagnetiche capaci di interferire con il suo funzionamento (quasi
come ad esorcizzare il pericolo, destò stupore, a giugno dello scorso
anno la notizia secondo cui il Bayern Monaco - nota società calcistica
tedesca - prese contatti con la Rheinmetall, azienda leader nel settore
degli armamenti, per l'installazione di uno scudo elettromagnetico a
difesa dell'Allianz Arena, proprio in seguito ad alcune notizie di
intelligence che avvisavano - anche lì - di possibili attacchi a stadi o
comunque luoghi affollati, per mezzo di APR).

Altra
possibilità, potrebbe essere quella di interrompere il collegamento
radio tra l’APR ed il pilota, tramite contromisure di “jamming”: per
mezzo di disturbatori di frequenze (jammers, per l’appunto), si emettono
delle onde radio con lo scopo di “sovrastare”, e quindi disturbare e
bloccare, i segnali di trasmissione tra l’UAV ed il suo operatore. Tra
l’altro, se si considera che alcuni di essi, in caso di interruzione di
collegamento con il pilota, sono programmati per tornare automaticamente
al punto di decollo (la funzione c.d. “return to home”), sarebbe anche
possibile (a patto che vi sia integrato a bordo anche il GPS) risalire,
come sopra, alla posizione del pilota.
Interessante e molto promettente, ancora, è risultato l’esperimento
(condotto di recente dalla Corea del Sud), secondo cui è stato
utilizzato il suono per disattivare i giroscopi presenti all’interno dei
APR e che servono per mantenerlo in equilibrio.
Ovvio immaginare che, dall’altra parte, non vi siano ad operare -
probabilmente - persone sprovvedute, e che quindi, a loro volta, esse
attuino appositi accorgimenti o contromisure (ad esempio, rilevando, con
appositi strumenti, l’esistenza di interferenze provocate dai jammer
poc’anzi detti, permettendo la loro individuazione, oppure, eseguendo
traiettorie di volo che, sfruttando barriere naturali come gli alberi, o
artificiali come i monumenti, possano consentire di evitare di essere
intercettati o, comunque, rendendo questo molto difficile).
Le seconde (quelle di natura cinematica), invece, traggono origine
soprattutto dall’esperienza quotidiana delle forze di polizia mondiali e
variano in un range piuttosto ampio e, per certi versi, bizzarro, ma
che consente di avere diverse opzioni dalla propria parte, in una guerra
che si preannuncia sempre più incisiva e variegata, che sarebbe bello
immaginare priva di effetti collaterali, ma che forse, nel migliore dei
casi, potrebbe essere condotta secondo il principio del male minore.
Si passa, infatti, dall’utilizzo di falchi e di aquile usati per
intercettare e catturare gli UAV, proprio come farebbero con le loro
prede (sperimentato, in Europa, dalla polizia olandese), a metodi più
tecnologici, come - per rimanere in tema - la “falconeria robotica” (un
APR che abbatte un altro APR, secondo l’esperienza della polizia
giapponese, o di quello che ne cattura un altro lanciandogli una rete
addosso, facendolo poi precipitare), o a quello (sperimentato in alcuni
penitenziari americani, negli stadi e negli uffici governativi)
dell’utilizzo di particolari percettori acustici ad altissima
sensibilità che si attivano all’avvicinarsi di un UAV, avvertendo il
personale di sorveglianza.
Se questo è il quadro generale, non si possono nascondere dei dati
oggettivi, tra cui: l’alea dell’attentatore isolato, imprevedibile o,
più semplicemente, fortunato; il fatto che con poche centinaia di euro,
chiunque possa acquistare un velivolo a pilotaggio remoto (anche su
internet), munito di telecamera e GPS; l’attacco di sciami,
difficilmente contrastabile.
Nessuno che non sia “del mestiere” può scordare episodi, accaduti nel
recente passato, che dimostrano l’imprevedibilità derivante dall’uso di
questi velivoli: quello del 2013, quando unUAV, gestito dagli attivisti
del German Pirate Party, riuscì ad atterrare vicino il cancelliere
tedesco Angela Merkel, durante un evento a Dresda.
O quello che, nell’aprile del 2015, vide protagonista un altro APR
che, trasportando sabbia radioattiva proveniente dalla centrale nucleare
di Fukushima, riuscì ad atterrare sul tetto degli uffici del primo
ministro giapponese a Tokyo.
Gli APR possono, allo stato, costituire una seria minaccia, dunque,
in uno scenario complessivo in cui qualsiasi mezzo può diventare
strumento esplosivo (camion, barche, macchine o anche animali), di
contaminazione radioattiva o, comunque, di morte (non occorre che un
drone sia per forza munito di carica esplosiva): in tale ottica, oltre
alle contromisure di natura tecnologica, occorrerebbe incrementare anche
quelle di natura legislativa, magari con un giro di vite anche
sull’attuale legislazione (ad esempio, vietando la vendita, o
restringendola a determinati soggetti/società per scopi ben precisi), ed
un maggior controllo sul flusso di acquisti (soprattutto via internet).
Certo, allo stato delle cose, potrebbe risultare un “chiudere la
stalla dopo che siano scappati i buoi” ma, anche in previsione dei
sempre più veloci sviluppi tecnologici in materia, sarebbe comunque un
passo in avanti.
(foto: U.S. Air Force)
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