la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune.
Produrre, organizzare, trovare soluzioni,
impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST?
Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
sabato 14 gennaio 2017
L'Italia prossimo presente non è capace strategicamente di fare i propri interessi nel rispetto e negli interessi dei paesi mediterranei
Syriana: la cecità dell’Occidente e dell’Italia
di Alberto Negri
Zeroconsensus
vi propone un interessante articolo di Alberto Negri pubblicato oggi su
il Sole24Ore che fa il punto sulla crisi mediorientale e sulla
disastrosa assenza di strategia sia della Nato, dell’UE, degli USA e
anche dell’Italia
La Sigonella di Erdogan si chiama
Incirlik, la base aerea concessa agli Usa per i raid anti-Isis. I turchi
minacciano di chiuderla se gli americani non daranno loro
soddisfazione, ovvero abbandonare i curdi siriani ritenuti da Ankara
come il Pkk un gruppo terroristico e consegnare l’imam Gulen in
auto-esilio dal ’99 in America.
Si può definire un ricatto oppure
un modo di sventolare la bandiera del nazionalismo dopo aver rinunciato
ad abbattere Assad, come è stato proclamato da Ankara per cinque anni.
«Stiamo combattendo una nuova guerra di indipendenza», ha dichiarato
Erdogan. Il fondatore della patria Ataturk, astuto stratega, si
rivolterà nella tomba ma ognuno si salva alla sua maniera.
Come ha
condotto Erdogan, fino a qualche tempo fa, la lotta al terrorismo? Ha
aperto “l’autostrada dei jihadisti”, poi ha rilanciato la guerra ai
curdi, buttando all’aria l’accordo con il Pkk raggiunto dal capo dei
servizi Hakan Fidan, e quando ha perso la partita siriana con la caduta
di Aleppo si è messo d’accordo con Putin e l’Iran.
Mosca e
Teheran, due Stati sotto sanzioni occidentali, hanno imposto a un membro
della Nato di mettere sotto controllo l’opposizione a Damasco in cambio
della mano libera sui curdi siriani, una volta appoggiati anche dai
russi.
Erdogan ha piegato la testa e ora fa pressione sugli
alleati storici, americani ed europei: anche loro hanno perso la
battaglia contro Assad ma fanno finta di niente perché si trincerano in
una coalizione, di cui fa parte anche la Turchia, che assedia l’Isis a
Mosul da cinque mesi.
La Turchia, dove gli attentati si
susseguono, come si è visto ieri a Smirne, è un Paese in bilico: deve
seguire la road map della Russia ma anche degli Usa e teme di restare
stritolata un giorno da un possibile accordo tra Putin e Trump.
Il
confronto strategico con la vicina repubblica islamica dell’Iran, pur
sanzionata da tutti per decenni, è impietoso. Gli Usa hanno eliminato
tutti i nemici dell’Iran: i talebani in Afghanistan nel 2001, Saddam in
Iraq nel 2003, poi gli iraniani hanno visto gli ostili sauditi, i
maggiori clienti di armi americane, impantanarsi in Yemen contro gli
Houthi sciiti e dopo avere firmato il 14 luglio 2015 l’accordo sul
nucleare, hanno trovato la Russia, una superpotenza atomica, pronta a
schierarsi in Siria salvando l’asse sciita
Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut.
La Turchia oggi è il grande malato
d’Oriente e Occidente insieme. I jihadisti si vendicano di Erdogan, i
curdi colpiscono, gli apparati di sicurezza sono diventati più
vulnerabili per le epurazioni seguite al golpe fallito di luglio.
La
crisi della Turchia ci interessa direttamente. Gli europei chiederanno a
Erdogan non solo di fare il custode di due milioni di profughi siriani
ma di diventare l’argine al ritorno dei foreign fighters che
combattevano per l’Isis e altri gruppi radicali.
Certo non si
comincia bene quando il “poliziotto” ricatta il suo maggiore alleato,
gli Stati Uniti. Ma siccome è tornato amico di Putin, Erdogan pensa di
usare Nato e Usa per negoziare con Mosca svincolandosi da una fedeltà
vista ormai come fumo negli occhi: l’America ospita Fethullah Gulen ed è
ritenuta l’ispiratrice del golpe d’estate.
La lotta al terrorismo
coincide quindi con un altro problema, quello della Turchia, che
americani ed europei hanno lasciato incancrenire. Che cosa hanno fatto
per frenare la deriva di Erdogan? Quasi niente. Anzi gli Usa dell’ex
segretario di Stato Hillary Clinton lo hanno incoraggiato nell’avventura
siriana insieme alla Francia e alle monarchie del Golfo. Se Erdogan ha
aperto l’autostrada della Jihad, americani ed europei hanno poi
spalancato in Medio Oriente un’autostrada a Putin.
Il punto è che la corsa di Erdogan contro Assad è finita e quella successiva, contro il Califfato, è densa di incognite.
Abbattere
l’Isis è fondamentale per privare i jihadisti dell’arma di propaganda
delle conquiste territoriali: su questo si basa il mito sanguinoso del
Califfato che ispira i terroristi. Ma non basta.
Chi farà
l’offensiva a Raqqa, capitale dell’Isis? Secondo gli americani doveva
essere una coalizione di arabi e curdi siriani ma questa opzione sembra
naufragata. Ci sono alternative occidentali? No, a quanto pare. E questo
avviene in un momento chiave: se il Califfato dovesse crollare, cosa
accadrà alle legioni di Al Baghadi e ai foreign fighters, forse
ventimila secondo i dati di Europol?
Ci dovremo affidare alla
Russia, all’Iran, a Erdogan e anche ad Assad. Bisognerà meditare se non
sia il caso di riaprire le ambasciate a Damasco, almeno a livello
inferiore, perché è da lì che arrivano informazioni sui jihadisti. La
Tunisia, pur ostile al regime siriano, lo ha già fatto perché ha 6mila
foreign fighters tra Siria, Iraq e Libia. Ha riaperto anche l’Egitto di
Al Sisi: fatto salvo il caso Regeni, forse serve rivedere la presenza
diplomatica al Cairo in funzione della Libia dove l’Italia è stata
spiazzata dall’ascesa del generale Khalifa Haftar sostenuto da egiziani,
francesi e russi. Per l’Italia il fronte libico (immigrazione e
sicurezza) è fondamentale è non può limitarsi a Tripoli e Misurata.
La
lotta al terrorismo richiede, come ha sottolineato Gentiloni, la
massima attenzione al contrasto della propaganda sul web e nelle
carceri. Ma ci vuole una strategia nostra e occidentale per Siria e
Libia. Tutti aspettano Trump ma intanto gli eventi in Medio Oriente
vanno avanti. La guerra non dorme, il terrorismo non bussa alla porta,
non prende appuntamenti. E l’Occidente, dimentico del passato, rischia
di farsi sorprendere dal presente.
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