Stretti in un’attesa morbosa, tiriamo i primi bilanci sulla
forbice che divide la campagna elettorale di Trump dai suoi primi 60
giorni di potere.
In termini di politica interna la bomba tycoon è esplosa,
non c'è che dire. Il perno delle attività è finora rappresentato dal
bando sull’immigrazione, dai rimpatri dei clandestini e dallo studio di
argini al fisco di Obama. Fa da sfondo il pessimo rapporto con i media,
diventato sistemico al punto da condizionare pesantemente
l’informazione. Non passa ora che le agenzie di tutto il mondo non
battano una gaffe, un brufolo o una carie del Presidente americano. Ma
se è vero che l’inflazione di un qualcosa ne abbassa il valore unitario
(anche delle notizie), allora presto o tardi l’opinione pubblica rimarrà
indifferente.
In due mesi gli attacchi dell’establishment contro lo zio Donald si
sono sovrapposti però, fino a parlare apertamente di golpe bianco e
impeachment manovrato, addirittura coinvolgendo il suo vice Pence (
leggi articolo).
Che Trump avesse scelto una strada conflittuale per la sua permanenza
a Washington era scontato, ma in termini di politica interna argini e
focolai mediatici dell’ancien régime si misureranno
comunque solo coi numeri. Parliamo di infrastrutture, di fisco, di
lavoro, di sicurezza domestica, ecc… In questo senso la distanza fra
l’amministrazione Trump e quella Obama non è detto che sia maggiore di
altre del passato. Basti pensare all’inizio della Reaganomics o
all’arrivo dello stesso Obama dopo l’era Bush. Quel che cambierà sarà
solo l’appoggio del sistema e per capirne gli effetti ci vorrà tempo.
Viceversa il nodo da sciogliere in tempi più brevi, riguarda la
linea di Trump in politica estera. Dopo le esternazioni elettorali
contro la NATO, pro Brexit, contro Bruxelles e dopo gli occhiolini a
Mosca, l’allarme nei salotti del potere sono arrivati oltre i livelli di
guardia.
Tra i problemi principali di Trump c’è la squadra. Costretto a correre come outsider
repubblicano, odiato dai falchi del partito almeno quanto dai liberal
DEM, lo zio Donald ha dovuto circondarsi di uomini esterni all’establishment classico, con ovvie ripercussioni sulle protezioni mediatiche e sulla stessa affidabilità.
La prima tegola è stata Michael Flynn, Consigliere per la Sicurezza
Nazionale osteggiato da tutti già prima del voto di novembre. Se Flynn a
febbraio sia stato fatto fuori da una cospirazione, interessa fino a un
certo punto: resta il dato che la sola possibile idea di un’intesa coi
russi abbia scatenato le comari di palazzo.
Il caso Flynn ci fa entrare nel cuore delle aspettative o dei timori
che le cancellerie di tutto il mondo hanno maturato negli ultimi tre
mesi: che rapporto avranno Washington e Mosca nei prossimi anni?
Dalle prime parole dell’ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley, la
musica non sembra cambiata molto. I primi moniti a Mosca riguardo il
Donbass sono sembrati più vicini al linguaggio repubblicano della Guerra
fredda che ad una nuova stagione di baci e abbracci.
È una tattica studiata o Trump ha davvero le mani legate?
Probabilmente entrambe le cose.
Niente è più “politicamente scorretto” di un’intesa geopolitica tra i
due maschi alfa della politica globale, Vladimir Putin e Donald Trump.
Le resistenze interne ed esterne sono tante e le possibili ripercussioni
non del tutto decifrabili. Se in politica interna un ostacolo grande al
“trumpismo” è il filtro delle procure, in politica estera oltre ai
media e al rodaggio del nuovo corpo diplomatico, il tycoon
neworchese deve vedersela soprattutto con la vecchia guardia
repubblicana. Il clan dei Bush, tanto per fare un esempio, dichiarò
scheda bianca l’8 novembre…
C’è una componente importante della destra americana che di
distensione con la Russia di Putin non vuole sentir parlare. È l’ala
ultraliberista, interpretazione conservatrice repubblicana a tratti in
salsa neocon, non meno mondialista dei DEM della scuola keynesiana.
Ovviamente non tutti sono rimasti nel ‘900 e le cose in qualche modo
si muovono. Per ora USA e Russia sono costretti a comportarsi come due
tizi che si danno appuntamento ad una festa, ma fanno finta di non
conoscersi. Per parlare si parlano, ma lo fanno a livelli più bassi e
più tecnici. I reciproci capi di stati maggiore interforze Dunford e
Gerasimov per esempio, si sono già incontrati due volte
dall’insediamento di Trump.
Quello che conta in fondo sono i risultati e non i proclami. I riscontri pratici dei contatti Usa-Russia, per ora sono due:
- in Siria la collaborazione militare nella campagna congiunta contro l’ISIS sta producendo effetti;
- in Ucraina il rubinetto aperto a Kiev si sta chiudendo.
Per quanto riguarda la Siria, la coperta corta di Trump si
chiama Israele: troppa corda a Damasco non si può dare, per colpa
dell’Iran. L’importante per ora è recuperare parte dei disastri compiuti
dalle precedenti amministrazioni. Non essere tagliati fuori dai giochi,
già sarebbe un ottimo risultato.
Della fine della luna di miele tra Washington e Kiev invece non si
parla, ma con la primavera arriveranno i frutti. I rubinetti
ufficialmente mai stati aperti, ufficialmente non possono chiudersi… ma
il focolaio architettato nel 2014 con Maidan è destinato a spegnersi. La
prova è il nervosismo del governo di Kiev, che intensifica le
provocazioni militari per cercare una reazione di Mosca a fianco dei
separatisti del Donbass. Bisogna ricordarsi però che se a Kiev non c’è
più Yanukovich, a Washington non c’è più Kerry… L'Europa dovrebbe
imparare.
A proposito. L’Unione Europea nel frattempo cerca il modo migliore
per suicidarsi tenendosi ben lontana da ogni possibile intesa fra
Washington e Mosca. Trump sarà in carica almeno fino al 2020; Putin,
sicuramente fino al 2024. Basterebbe fare due conti…
Impegnata con ben altri bilanci Bruxelles per ora scredita entrambi, seguendo l’onda di un mainstream di cui potrebbe presto diventare unico punto di riferimento globale.
(foto: web)
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