L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 14 gennaio 2017

Lo schifo delle casette dei terremotati di Amatrice non finisce più

implosione europea - i tedeschi guardano il proprio ombelico mentre gli euroimbecilli italiani stanno a guardare

Economia e Finanza
SPY FINANZA/ Germania, le nuove bordate contro Draghi (e l'Italia)
Mauro Bottarelli
sabato 14 gennaio 2017

Da giorni ormai, l'ultima volta non più tardi di ieri, vi ripeto che le dinamiche macro della Germania stanno tramutandosi nel cavallo di Troia che Berlino, intesa sia come governo che come Bundesbank, utilizzeranno per mettere sotto pressione la Bce rispetto al programma di acquisti obbligazionari, sia sovrani che corporate. Come ho detto, il problema principale riguarda proprio quest'ultima categoria di bond, perché al netto di un sistema bancario restio nel concedere prestiti, il fatto che Francoforte compri obbligazioni di aziende anche con rating ballerino costituisce un sistema di finanziamento backdoor per l'economia. Sbagliatissimo, ma, al netto delle contingenza, per ora ancora necessario.

Bene, nell'arco di 24 sono arrivate due conferme più che ufficiali a questa mia convinzione. A testimoniare come la spaccatura interna alla Bce sia ormai lampante ci hanno pensato le minute dell'ultimo incontro tra i membri dell'istituto di Francoforte, meeting nel quale l'Eurotower ha deciso di estendere il Quantitative easing di 9 mesi, anche se con un ammontare ridotto da 80 a 60 miliardi di euro al mese a partire da aprile. Nei verbali si legge che, nonostante i governatori della Bce abbiano dato «un sostegno molto ampio» alla decisione del collegio, alcuni banchieri si sono opposti al prolungamento del Qe per via del loro «ben noto scetticismo riguardo al programma e in particolare dell'acquisto di debito pubblico». Stando a tale visione, quest'ultimo «dovrebbe restare uno strumento contingente da usare solo in ultima istanza in uno scenario avverso come una situazione di deflazione imminente, non applicabile al presente dato che i rischi di deflazione si sono largamente dissipati». Nemmeno a dirlo, a capitanare l'ala degli scettici c'era Jens Weidmann, presidente della Bundesbank.

Alcuni membri, invece, hanno proposto un allungamento ancora più consistente del piano di acquisto di asset fino al 2018, mentre altri hanno suggerito un'estensione di 6 mesi a un ritmo di 60 miliardi. In ogni caso, «devono essere tenuti presenti i possibili effetti collaterali derivanti da ulteriori acquisti di titoli sovrani, particolarmente nel medio-lungo termine e in relazione all'interazione con l'ambito delle politiche di bilancio». Un riferimento non da poco, visto che gli esponenti della Bce «hanno espresso preoccupazione sulle decisioni a livello europeo che mettono in dubbio il funzionamento del patto di stabilità e di crescita». È stato specificato, infatti, «che la piena e coerente attuazione delle sue regole nel tempo e in tutti i Paesi resta cruciale per assicurare fiducia nel quadro di riferimento delle politiche di bilancio».

Ieri, poi, a rincarare la dose, con un peso specifico potenzialmente maggiore anche di quello di Weidmann, ci ha pensato il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, in persona, il quale ha chiesto alla Bce, alla luce dell'aumento dell'inflazione nell'area euro, di iniziare a ridurre da quest'anno le sue misure straordinarie a sostegno dell'economia, a cominciare dal Qe. «Ritengo sia giustificato - dice Schaeuble in un'intervista alla Sueddeutsche Zeitung - che la Bce cominci, a partire da quest'anno, a tentare di uscire" dalla sua politica monetaria ultra-accomodante». Pur ammettendo, bontà sua, che «questo compito sarà difficile», Schaeuble insiste sulla necessità di ridurre gli stimoli che l'istituto ha introdotto due anni fa per favorire la ripresa economica e far aumentare i prezzi.

E la malafede tedesca è testimoniata dal fatto che l'inflazione è risalita di molto in Germania per effetto degli aumenti salariali, +2%, che hanno spinto i consumi e quindi fatto salire i prezzi, ma non nel resto dell'eurozona, tanto più che qui in Italia stiamo ancora flirtando con la deflazione: la politica della scarpa di una sola misura che deve andare bene a tutti fa comodo a Berlino, ma non è accettabile ancora per molto dagli altri Paesi, Italia, Spagna e Portogallo in testa. È pur vero che la Germania non ha mai nascosto il suo scetticismo sui tassi ultra-bassi della Bce e sul suo programma di acquisti, ma non certo per amore della Scuola austriaca di economia, bensì per interesse di parte: la politica ultra-accomodante e il Qe hanno drasticamente abbassato i rendimenti degli assets detenuti dai risparmiatori tedeschi e ha schiantato la profittabilità delle loro banche, sparkasse in testa. Ora, con l'inflazione che in Germania a dicembre è risalita al'1,7%, Schaeuble torna alla carica e non nasconde di condividere le lamentele dei risparmiatori del suo Paese: «Sto dalla loro parte - dice nell'intervista - I loro lamenti quest'anno cresceranno con l'aumento dell'inflazione».

Dunque, le scelte di politica economica della Merkel, legate unicamente al fatto che quest'anno si vota in Germania, visto che fino al 2015 la spesa interna tedesca era a zero e si esportava con il badile, dobbiamo pagarle tutti noi: aumentano i prezzi in Germania per dinamiche interne? La ricetta per contrastare il contraccolpo patito da banche e risparmiatori teutonici deve essere applicata a tutti, non importano gli effetti collaterali. E la malafede di Schaeuble travalica, quando dice che «l'origine del problema non è la Bce, ma la costruzione dell'area euro. Un certo numero di Paesi membri non sta facendo quello che si erano impegnati a fare, specie riguardo al miglioramento della competitivita. La banca centrale ha un mandato da rispettare per l'Eurozona e lo sta facendo bene». Se sta lavorando così bene, perché allora il suo fidato giannizzero Weidmann passa tutto il tempo a cercare di sabotarne l'operato, opponendosi a tutto? Tanto più che il mandato della Bce riguarda la stabilità dei prezzi, i quali, in base agli obiettivi prefissati, devono attestarsi a un livello vicino ma inferiore al 2%: a dicembre i prezzi al consumo nell'area euro sono rimbalzati all'1,1% tendenziale contro lo 0,6% di novembre. Non proprio il 2%, ancora. E, ripeto, l'Italia - la quale conta qualcosa a livello di peso economico nell'eurozona - è molto vicina allo 0.

Certo, noi abbiamo la nostra notevole parte di responsabilità, visto che non facendo nulla per il problema numero uno, ovvero l'occupazione, difficilmente potremo vedere l'economia ripartire e le spese private per consumi salire grazie ai voucher. Resta però il fatto che il momento è delicatissimo e i potenziali disastri che potrebbe fare la politica economica di Trump, uniti a un dollaro indebolito per scelta commerciale, potrebbero far ripiombare l'Europa in piena crisi. E la conferma a quanto dico è arrivata, indirettamente, anche dalle caute parole del governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau, il quale ha affermato che è esagerato dire che ci sia un ritorno dell'inflazione nella zona euro.

Per l'esponente del Consiglio direttivo della Bce, non occorre la modifica della politica monetaria in risposta all'accelerazione della crescita dei prezzi al consumo nel mese di dicembre: stando a Villeroy de Galhau, la politica della Bce è un «segno di stabilità in un anno di incertezze, tra cui le elezioni in Francia, Germania, Olanda e forse Italia». Come vedete, ognuno tira l'acqua al suo mulino. Solo in Italia ci riempiamo la bocca con il concetto di Europa inteso come unione e condivisione: quando ci sveglieremo, sarà sempre troppo tardi.

In compenso ciò che è sempre ben sveglio e in continua ascesa è il nostro debito pubblico. È infatti di ieri il dato in base al quale, a novembre, il debito delle amministrazioni pubbliche è stato pari a 2.229,4 miliardi di euro, in aumento di 5,6 miliardi rispetto al mese precedente. Bankitalia ha spiegato che l'incremento è dovuto al fabbisogno mensile delle amministrazioni pubbliche per 7,1 miliardi, parzialmente compensato dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro per 1,6 miliardi. Considerando i primi undici mesi del 2016, il debito delle amministrazioni pubbliche è aumentato di 56,7 miliardi: l'incremento riflette il fabbisogno di 52,4 miliardi e l'aumento delle disponibilità liquide del Tesoro per 10,4 miliardi. Infine, a ottobre, l'ultimo dato disponibile, su un debito pubblico pari a 2.223 miliardi la quota in mano all'estero, ovvero ai soggetti non residenti, è risultata pari a 737,8 miliardi. Sulla quota di debito in mano estera 689,9 miliardi sono rappresentati da titoli pubblici, in aumento di quasi 2 miliardi rispetto al mese di ottobre.

Si compra Italia, ma non perché Renzi era un fenomeno e Gentiloni (a proposito, auguri di pronta guarigione) ancora meglio, ma solo perché c'è Draghi che garantisce sul rischio Paese con i suoi acquisti. Ancora qualche latrato tedesco e qualcuno potrebbe cominciare a prezzare davvero la possibilità del tapering, magari cominciando a scaricare posizioni sui Btp, tanto per vedere l'effetto che fa. E, attenti, sono molti gli hedge funds che hanno in portafoglio debito italiano a solo fine speculativo, visti i rendimenti ancora generalmente molto bassi: e quella è gente che oggi c'è e domani non si sa. Magari non hanno voglia di restare con il cerino in mano e il bluff di Schaeuble andranno a vederlo. Il governo batta un colpo con Berlino. E in fretta.

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2017/1/14/SPY-FINANZA-Germania-le-nuove-bordate-contro-Draghi-e-l-Italia-/742317/

Ptv news 13.1.2017 - La Cia protagonista del tentativo eversivo contro T...

Siria - gli ebrei amici intimi dei mercenari tagliagola, li proteggono in tutte le maniere

Internazionale

Attacco alla base aerea di Mezze. Damasco accusa Israele

Siria/Israele. L'aeroporto è stato colpito da missili sparati dal Golan, denuncia la Siria. Il governo Netanyahu non commenta. Sullo sfondo c'è la rabbia di Israele per la conferenza di pace che si apre domani a Parigi
Si respirava una calma carica di tensione ieri a Damasco dopo il raid israeliano di giovedì notte compiuto, secondo le autorità siriane con missili sparati dal Golan occupato, contro l’aeroporto militare di Mezze. Un attacco preceduto da attentato suicida a Kfar Suse nel centro della capitale siriana che ha fatto almeno otto morti. Tel Aviv non ha commentato l’accusa giunta da Damasco. I due attacchi, avvenuti a poche ore di distanza l’uno dall’altro, hanno spinto non pochi siriani, anche in rete, a denunciare quello che leggono come un coordinamento tra Israele e le formazioni jihadiste schierate contro il governo di Damasco e il presidente Bashar Assad. L’agenzia statale Sana ha annunciato “ripercussioni” . Tuttavia è difficile immaginare che Damasco possa imbarcarsi in reazioni militari contro Israele mentre resta impegnata in un devastante conflitto interno, che coinvolge anche aree del Paese a pochi chilometri dalla capitale.
Negli ultimi anni Israele ha più volte colpito in Siria, senza mai rivendicare apertamente i suoi attacchi compiuti nei pressi di Damasco, lungo la frontiera tra Siria e Libano, a ridosso del Golan e nella Siria meridionale. Il governo Netanyahu, a ogni raid denunciato dai siriani, si è limitato a dichiarare che non consentirà il trasferimento di armi e razzi dalla Siria al movimento sciita libanese Hezbollah. Sino ad oggi però, tranne le immagini trasmesse dai siriani di incendi ed esplosioni, le autorità israeliane non hanno messo a disposizione foto, video o altri documenti a sostegno della tesi del passaggio di armi a favore di Hezbollah, alleato di Damasco. Da parte loro i siriani accusano Tel Aviv di collusione con l’opposizione armata. La base aerea di Mezze, già presa di mira a dicembre, è strategica anche per l’artiglieria siriana che da quel punto può prendere di mira le postazioni delle formazioni islamiste e jihadiste a est di Damasco.

Non è escluso che l’attacco missilistico dell’altra notte abbia avuto anche il fine di lanciare messaggi politici. Il governo Netanyahu forse ha voluto segnalare ad Assad che l’insediamento alla Casa Bianca, previsto tra una settimana, di Donald Trump renderà ancora più libere le mani di Israele. Trump se da un lato è poco interessato a prendere di mira il presidente siriano, come ha fatto Barack Obama, dall’altro proclama che la stretta alleanza con Israele sarà il pilastro della sua futura politica in Medio Oriente. Tel Aviv forse ha voluto ricordarlo alla Siria. Come è possibile che Netanyahu abbia voluto far sentire forte la sua “voce” in vista dell’apertura del negoziato turco-russo sulla Siria del 23 gennaio ad Astana, per mettere in chiaro che Mosca e Ankara dovranno tenere conto anche degli interessi di Israele nella soluzione politica che si vuole dare alla guerra civile siriana.
Se queste sono solo ipotesi, non ci sono invece dubbi sul fatto che Netanyahu sia impegnato in queste ore a silurare la conferenza di pace israelo-palestinese che si aprirà domani a Parigi, con la partecipazione di più di 70 Paesi. «La consideriamo una truffa palestinese sotto egida francese, il cui scopo è di adottare altre posizioni anti-israeliane», ha sentenziato il premier israeliano giovedì ricevendo il ministro norvegese degli esteri Borge Brende. Il presidente palestinese Abu Mazen invece, vista l’aria che tira a Washington, con Trump intenzionato a trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme che, così, verrebbe riconosciuta dagli Usa capitale dello Stato ebraico, punta a un maggior coinvolgimento della Russia. Abu Mazen ha chiesto con una lettera a Vladimir Putin di fare il possibile affinchè Trump rinunci a una mossa che avrebbe «un impatto disastroso». E attraverso il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat, ieri a Mosca, il presidente palestinese ha fatto sapere di essere pronto a incontrare Netanyahu in Russia. Abu Mazen preme anche su altri fronti. Oggi, spiegano i giornali palestinesi, durante l’incontro a Roma con papa Francesco non mancherà di chiedere il sostegno del Vaticano contro le intenzioni di Trump. Quindi ufficializzerà l’apertura dell’ambasciata della Palestina in Vaticano, prima di volare verso Parigi.

Roma - la sanità è dagli anni '80 in mano alla politica, al corrotto Pd e ai suoi satelliti, il Partito dei Giudici batta un colpo

IL PRESIDENTE DELL’ANAC

Cantone: nella sanità la corruzione esiste ed è profonda

«Io sfido i numeri e dico che la corruzione esiste, è particolarmente profonda e grave nel settore della sanità». Non ha dubbi il presidente dell'Anac Raffaele Cantone. Convegno sull’intreccio tra amministrazione pubblica e malaffare, a Napoli. Il magistrato taglia corto sul vento delle polemiche alzato dai pazienti curati a terra nell’ospedale di Nola. Fuori del dato di cronaca rimane un altro però il punto cruciale e che per i riflessi generali merita l’attenzione di ogni cittadino. «Sulla corruzione dati numerici non esistono e chiunque dice che si può avere un numero dice una bugia. Gli unici sono le sentenze penali» è la premessa del ragionamento di Cantone. Allo stesso tempo non mancano elementi utili a capire lo stato reale delle cose. Ad esempio esistono «casi di dispositivi medici identici venduti con prezzi differenzi non per esempio tra Piemonte e Sicilia, ma tra Piemonte e Piemonte o Campania e Campania e c'è qualcosa che non va». E ancora che «ci sono appalti in sanità che sono stati uno scandalo, prorogati per anni, e questo significa mantenere una situazione di illegalità».
«Ok a piani di prevenzione ma vanno applicati»
«Ben vengano i codici di autoregolamentazione, ma bisogna farli funzionare e ricordare che per legge non rispettare quei codici rappresenta un illecito penale». Paradigmatico in senso negativo il caso dell'Azienda ospedaliera di Caserta, sciolta per infiltrazioni camorristiche. «Si erano dotati di un piano di prevenzione che era lo stesso di un ospedale del Nord». Ciononostante, per Cantone non è servito perché «chi commetteva la corruzione non era un vertice sanitario». «Prevenire è inserire gli anticorpi nel sistema e il sistema deve essere in grado di reagire, il corpo è il migliore strumento per reagire, ovviamente mettendolo in condizioni di reagire, anche per evitare che si arrivi alle manette». «Mi indigna che ci sia qualcuno che dice che tutta la sanità è corrotta perché non è così perché ci sono tanti casi di impegno contro la corruzione».

«Serve la responsabilizzazione della Pa»
«L'operatore sanitario sa benissimo quali sono i problemi e, se non lo sa, significa che non fa bene il proprio lavoro - entra nel dettaglio Cantone - e se dopo l'evento dice di non sapere, è consapevole che non è così». Il manager «non ha bisogno del grande orecchio per sapere cosa accade. Prevenire la corruzione è una cosa interna. La criminalizzazione del settore non è colpa dei media, ma è scarso coraggio di dire quello che non va, senza mettere la testa sotto la sabbia. Serve la responsabilizzazione della Pubblica amministrazione». A oggi le sanzioni emesse per la mancata applicazione del piano si contano sulle dita di una mano. «Solo alla terza richiesta e al terzo no, abbiamo emesso la sanzione». In conclusione la prevenzione della corruzione « deve essere percepita come attività reale e non come adempimento burocratico».
«Medici vanno premiati, non puniti»
«Io mi sono permesso di dire che ritengo che i medici che l'hanno fatto sono degli eroi, per paradosso ma comunque non hanno mandato a casa i pazienti. Perché l'alternativa era che venissero mandati a casa i pazienti». In merito al caso dell'Ospedale di Nola, Cantone rileva che «ci sono oggettive responsabilità di gestione». «Ovviamente è la situazione che merita di essere considerata e se c'è un ospedale in quelle condizioni è evidente che c'è una responsabilità di gestione, ma non del personale medico».

Italia prossimo presente - Le 70 bombe atomiche situate nelle terre italiane non hanno ragione d'essere, devono ritornare negli Stati Uniti

Armi atomiche Usa, Girotto: “Vanno rimosse dalle basi militari di Aviano e Ghedi”

13.01.2017 - Redazione Italia
Armi atomiche Usa, Girotto: “Vanno rimosse dalle basi militari di Aviano e Ghedi”
(Foto di Wikimedia Commons)
Ottenere dagli Stati Uniti la rimozione delle 70 bombe nucleari presenti sul territorio italiano, nel pieno rispetto della risoluzione Onu sui negoziati per il disarmo atomico. È questo il senso dell’interrogazione parlamentare presentata dal senatore del Movimento 5 Stelle Gianni Girotto.
Con questo atto – commenta l’esponente grillino – intendiamo ribadire il nostro sostegno alla decisione del rappresentante per l’Italia all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a favore dell’avvio dei negoziati per un disarmo nucleare.
Questo comporta una maggiore attenzione del nostro Paese verso la discussione per l’eliminazione di quelle armi, così come richiesto anche da Papa Francesco nel suo discorso alla Giornata per la Pace il 1 gennaio 2017.
La Guerra Fredda è lontana. Ora dobbiamo dimostrarlo coi fatti, cancellandone i segni per sempre.
Chiediamo dunque al Presidente del Consiglio dei ministri Paolo Gentiloni quali siano le azioni che il Governo italiano vuole intraprendere per la rimozione dei 70 ordigni nucleari americani che si trovano tra la base dell’aeronautica militare di Ghedi (Brescia) e quella statunitense di Aviano (Pordenone). In coerenza con il voto all’Onu del 23 dicembre 2016. Ricordiamo inoltre – conclude Girotto – che sul territorio italiano sono depositate la maggior parte delle armi atomiche Usa (70 su un totale di 180 bombe) presenti sull’intero continente europeo.
Gianni Girotto

Libia - il governo fantoccio risiede all'estero, Haftar è il braccio militare del legittimo governo di Tobruk. Sirte è stata liberata da 1 mese gli italiani con il loro ospedale da campo cosa ci stanno a fare ancora a Misurata?

Navi russe davanti alla Cirenaica: così Putin irrompe sulla scena

Mosca esce allo scoperto e si schiera con il generale Haftar. Italia preoccupata: continuiamo a sostenere il governo di unità

 
Il generale Haftar sulla portaerei Ammiraglio Kuznetsov insieme ad alcuni comandanti dell’aviazione russa

Pubblicato il 14/01/2017
Ultima modifica il 14/01/2017 alle ore 09:30

Stavolta è una voce pesante, di quelle che non si possono archiviare con facilità, e che invita al-Sarraj e il suo antagonista Haftar a un «dialogo» tra pari, di fatto una equiparazione che Tripoli non accetta. Il presidente francese François Hollande, ieri, parlando al corpo diplomatico nel suo ultimo discorso da inquilino dell’Eliseo, ha espresso una posizione che forse non era mai venuta così platealmente allo scoperto: «Sosteniamo il premier incaricato dalle Nazioni Unite, al-Sarraj, e invitiamo al dialogo le parti in Libia. Lo invitiamo al dialogo con il generale Khalifa Haftar». Solo dal dialogo tra questi due uomini potrà ripartire la stabilizzazione, è il ragionamento ormai ufficializzato dei francesi. Che però non è quello italiano, né quello delle Nazioni Unite.  

Viene fuori così una frattura che finora era rimasta sottotraccia. E resta sospesa nel nulla la grandissima irritazione italiana, attribuita dall’Ansa a «fonti vicino al dossier». E dunque: «Il sedicente “governo” di Tobruk guidato da Al Thani non è un’entità riconosciuta dalla comunità internazionale e mira solo a creare tensioni attraverso “strumentalizzazioni” che i media possano montare. L’unica autorità legittima e riconosciuta in Libia è il Consiglio Presidenziale insediato a Tripoli sotto la guida del premier Fayez al-Sarraj, sostenuto dall’Onu».  

Di fronte alla crisi della Libia, insomma, il nostro governo resta fermo nell’appoggio ad al-Serraj (creando pure qualche dissenso in Parlamento, si vedano le prese di posizione dei grillini o del leghista Alessandro Pagano). Ma la storia corre veloce, e non soltanto a Tripoli. Nel giro di pochi giorni, l’uomo forte della Cirenaica ha incassato assist eccezionali. Sono venuti allo scoperto due tra i suoi principali sponsor (il terzo, come è noto, è l’Egitto) che finora erano rimasti in ombra: la Francia con il discorso presidenziale agli ambasciatori e la Russia con un minuetto diplomatico-militare che vale più di tante parole.  

Dopo essere stato ospite di Putin nei mesi scorsi a Mosca, infatti, qualche giorno fa Haftar è salito in pompa magna sulla portaerei russa Ammiraglio Kuznetsov, reduce dai bombardamenti sulla Siria. Con lui c’erano i comandanti dell’esercito e dell’aviazione di Tobruk, i generali Abdul Razzak Al Nazhuri e Saqr Adam Geroushi. Sulla tolda della portaerei hanno assistito compiaciuti a decolli e appontaggi. Di seguito Haftar ha parlato in videoconferenza con il ministro russo della Difesa e poi ha firmato alcuni documenti davanti alle telecamere - prontamente girati sul web - che sono i prodromi di una alleanza che cambia le carte in tavola. Da ieri, infatti, dalle parti di Tobruk si annuncia che sarebbero stati offerti alla Russia le basi navali di Tobruk e di Bengasi.  

La mossa ovviamente non è sfuggita all’intelligence e alla Difesa italiana. Trovarsi la marineria russa proprio di fronte le nostre coste cambia e parecchio lo scenario strategico-militare per i decenni a venire. Anche Malta, peraltro, che si trova ancor più vicina di noi a quelle coste, mostra il suo disagio. Il ministro degli Esteri, George Vella, ieri ha dichiarato: «Non sono sereno». Di più non ha avuto il coraggio di dire. 

Forse i giochi sono già conclusi. La squadra navale russa è entrata nelle acque della Cirenaica, ha emesso addirittura un Notam per avvertire i voli civili libici di non sorvolare le sue navi per motivi di sicurezza, e tutto questo è stato motivo di vanto per il sedicente governo di Tobruk mentre il premier al-Sarraj resta confinato a Tunisi, dimostrando la fragilità del suo governo, pur benedetto dalle Nazioni Unite.  

Solo delle menti perverse possono pensare di abolire i contanti, i popoli non devono avere nessuna via d'uscita, sono dei criminali in libertà

Esiste un segretariato dell’ONU, United Nations Capital Development Fund  (UNCPD) di  cui pochissimi conoscono l’esistenza. Ma lo conoscono bene Master Card Foundation e  la Bill and Belinda Gates Foundation,  perché ne sono divenuti i più generosi donatori. Il motivo: l’UNCPD è la centrale ideologica occulta del progetto di abolizione mondiale  del contante. E’ l’ente – con Bill Gates e  le finanziarie che emettono carte di credito, come Master Card –  del crudele esperimento sociale  che ha luogo in India, la  prima cashless society a spese di un miliardo di poveri, che  non hanno, ne possono avere, un conto in banca.  Ricostruire  chi  e come ha indotto quell’esperimento in corpore vili, è un istruttivo compendio dei metodi con cui gli   interessi americani  si impongono dietro le quinte.
Master Card in versione indù
Presso la sede a  New York dell’ UNCPD (“Fondo per lo Sviluppo del Capitale”: piuttosto esplicito) ha sede il segretariato della   Better Than Cash Alliance  (Alleanza Meglio-del-contante:  molto  esplicito) ,   nata nel 2012, un’associazione di puri idealisti che promuovono la scomparsa del liquido. Mastercard, Visa, Dell Foundaton, Omidyar Network (eBay), Citi,  insomma le IT, e-commerce e finanziarie che si aspettano di fare miliardi dal passaggio totalitario ai  pagamenti elettronici.  Ma non si deve tralasciare che della Better than Cash Alliance sono soci anche  il noto fondo filantropico e umanitario  che è la Gates Foundation (Microsoft) e l’USAID,  l’ente americano volto a  a fare il bene   dei popoli sottosviluppati – come dice il nome: Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo   Internazionale” –  che l’agenzia del Dipartimento  di Stato e  una delle principali  coperture della CIA nelle operazioni estere.
E’  dunque ovvio che l’USAID abbia sede aperta a Nuova Delhi, e dia consigli per migliorare lo sviluppo ai governanti.  L’USAID  finanzia  (le cifre  segrete) un’associazione di cui il pubblico ha avuto notizia solo l’ottobre scorso, ossia un mese prima che il premier Modi   annunciasse lì abolizione delle banconote più usate dagli indiani: la “Catalyst  – Inclusive Cashless  Payment  Partnership”,  che  nel suo primo comunicato stampa del 14 ottobre, si definisce “la fase ulteriore della  collaborazione fra USAID e Ministro delle Finanze [indiano]  per facilitare l’inclusione  finanziaria universale”.
Infatti nella lingue di legno orwelliana,   l’abolizione del denaro fisico viene gabellata  come “inclusione”  dei poveri,  di cui va facilitata l’entrata nei gioiosi benefici del sistema bancario,  da cui sono finora esclusi.   Nonostante che in India, come ha appurato uno studio della stesso USAID,  97% delle transazioni avvengano in banconote, e  solo il  55% degli indiani ha un conto in banca ma – attenzione! – “solo il 29 per cento di questi conti sono stai usati  negli ultimi tre mesi”.  I poveri dell’India sono stati “esclusi” dall’economia con l’abolizione   del contante, e  le conseguenze si vedranno nei prossimi mesi.
Ma importa poco a lorsignori. L’ambasciatore Usa Jonathan Addleton, che è anche il capo-missione USAID in India,  è stato chiaro: “L’India è all’avanguardia degli sforzi globali di digitalizzare le economie  e creare nuove opportunità per la parte  di popolazione difficile da raggiungere. Catalyst sosterrà questi sforzi concentrandosi sul compiti di rendere senza contanti gli acquisti quotidiani”.
Catalyst, partecipazione di USAID  e Ministero  delle Finanze indiano, dove ha   sede  a Delhi? Nello IFMR, un istituto di ricerca di cui è membro il capo della Gates Foundation in India, il banchiere  Nachiket  Mor, e che è finanziato da  donatori Usa e da molti degli interessi partecipanti alla “Better Than Cash Alliance”.  “Oltre 35  importanti organizzazioni indiane, americane e internazionali si sono unite al ministro delle finanze e all’USAID  in questa iniziativa”, si legge in un euforico annuncio dello stesso USAID.
Ci si può chiedere come mai al  grande  esperimento non si sia opposto, o non abbia  almeno obiettato, l’autorità di emissione. Risposta facile: a  capo della Reserve Bank of India è stato, dal 2013  fino al settembre scorso, Raghuram  Rajan; terminato il suo incarico a settembre 2016, è tornato a fare quel che faceva prima: il docente di economia alla  Università  di  Chicago.   Dal 2003 al 2006, il personaggio è stato capo economista al Fondo Monetario a Washington . Questo “indiano” è stato  anche presidente  della American Finance Association, per le sue teorie è sta (riccamente) premiato da Deutsche Bank  e da Infosys; ha ricevuto il “Premio Financial Times –Goldman Sachs  per il miglior libro di economia”;  è stato decretato  “Indiano dell’anno” dalla rivista Euromoney.   Potrebbe succedere  alla Lagarde a capo del Fondo Monetario. E’ dunque uno di quei tecnocrati transnazionali  (e  “apatridi”, li diceva De  Gaulle)  selezionato  e coccolato dai  poteri  sovrannazionali per   completare le loro strategie secondo l’ortodossia monetaria, un po’ come (in piccolo)  Padoa Schioppa, Mario Draghi, Padoan..
Difatti  Rajan  è anche  membro di un club molto esclusivo,  che si riunisce a porte chiuse  e senza fare verbali delle sedute: il Gruppo dei Trenta, “un corpo privato internazionale”  dove colludono grandi banchieri privati e i governatori  delle banche centrali (ovviamente,  c’è Draghi)
E’ chiaro che il Group of Thirty sia la centrale strategica di coordinamento della guerra  al contante;  in esso il peso degli americani o americanizzati come Rajan, è del tutto preponderante.
Il Gruppo dei Trenta
Il 2013, quando Rajan passa dagli uffici direttivi del Fondo Monetario a  Washington alla massima poltrona della banca centrale indiana, è anche l’anno in cui viene fondata  la “Better  Than  Cash Alliance”.  Appena insediatosi, il nuovo governatore si china sui problemi dei poveri:  crea nella Reserve Bank of India un “ “Committee on Comprehensive Financial Services for Small Businesses and Low Income Households”,  per le famiglie a basso reddito e i piccolissimo commercio.   Una impresa   umanitaria, come sempre  fannoi globalismi. E chi mette a capo di questo committee?  Nachiket Mor, banchiere,  quello che abbiamo visto   diverrà capo della Gates Foundation per l’India. Naturalmente lo scopo è di “promuovere l’inclusione dei poveri e delle aree  rurali” attraverso…. l’abolizione del contante. Nel Committee figurano, di conseguenza, filantropi come un ex amministratore delegato di Citigroup, l’agenzia indiana di rating CRISIL posseduta da Standard & Poor’s,   la National Payment Corporation of India, ossia l’organizzazione di tutti i servizi di pagamento digitale, eccetera.
Si noti: nel triennio in cui Rajan, prestato da Washington,  è stato governatore della banca centrale,  è stata amatissimo dal settore finanziario, per il quale ha scatenato  la deregulation,  ma detestato dagli imprenditori dell’economia reale, gli industriali, per la sua politica monetaria estremamente restrittiva.  A giugno,  è stato  attaccato da un ex ministro del commercio e  membro del partito al potere, Subranian Swamy:  “Il suo pubblico   favorito era l’Occidente, e in India, la società  occidentalizzata e  trapiantata”.  Disse Swamy.  Allora   Rajan ha annunciato che non avrebbe più cercato un secondo mandato.   Il suo compito era finito: già nel maggio la sua banca centrale aveva   annunciato  la stampa delle nuove banconote da 2000 rupie, che avrebbero sostituito quelle da 500  e  1000, che sarebbero state tolte dalla circolazione  entro dicembre.  Erano i tagli  usati dal brulichio della micro-economia indiana,  l’86% del circolante.
L’improvvisa sparizione di tali banconote ha prodotto un vero e proprio infarto dell’economia informale, quella di  cui campa quasi un miliardo  di indiani.  C’è  il sospetto che questo fosse uno degli scopi del banchiere centrale; nei giorni della crisi, in cui non si trovavano banconote  da 100 e 500  e si allungavano le file di disperati che andavano nelle banche a depositarle per avere i tagli da 2000, i supermercati  “moderni” erano benissimo forniti nei  loro bancomat interni –  praticamente distruggendo la concorrenza della piccola economia in nero.
Ma per Visa, Mastercard, i fornitori di servizi digitali, Microsoft, DELL, Citi eccetera l’operazione invece è stata un successo se  l’imposizione del  no-contanti è riuscita in India (il  costo umano per costoro non conta, è noto) riuscirà ancor meglio in Europa, dove  la classe dirigente è guadagnata al  progetto e la cittadinanza è passiva. In india, il traumatico passaggio alla società senza contanti per tutti  gli operatori economici che si possono permettere un POS, e  che prima anch’essi operavano in contanti, è stata una dura   lezione che non dimenticheranno.  Forse il   governo Modi cadrà,  travolto dal malcontento popolare; ma che importa  agli strateghi?  Sono tornati  alle loro cattedre di Washington, alle loro poltrone transnazionali. Rafforzati  da quest’esperimento,  accelereranno   la espansione totalitaria della cashless society a tutti noi.
Il racconto di cui sopra ci ha consentito  di intravvedere che   la spinta all’abolizione del contante, la sua promozione globale, viene appunto da Washington. I motivi sono palesi e numerosi.  Sono le grandi  compagnie Usa a dominare il business del pagamenti digitali  e dell’IT su scala mondiale.  Il potere politico-economico che iene dalla possibilità di sorvegliare tutti i pagamenti  nazionali e internazionali,   che avvengono tramite banca, offre  un bel campo d’azione alla Cia e alle altre agenzie americane di  spionaggio (anche industriale). Essendo il dollaro la moneta di riferimento  mondiale,  di fatto chiunque  – individuo, impresa o paese – che partecipa   all’economia senza contanti si trova soggetto alle leggi americane  e non a quelle del diritto internazionale; ancor più di quanto lo siamo adesso – e   come si vede dalle multe che gli Usa impongono su Volkswagen, Deutsche Bank, Fiat Chrysler  o  qualunque banca estera che faccia – poniamo – transazioni con un paese a cui l’America ha imposto sanzioni.  Ditte europee che hanno commerciato con l’Iran  sono state escluse dal sistema finanziario internazionale,   basato su trasferimenti cashless: non possono più  pagare nemmeno le compagnie di autotrasporti e logistiche che possano portare le loro merci ad altri clienti.   Ad  altre banche viene tolta la licenza per operare in Usa, il che significa la morte.
Ovviamente, il progetto di dominio totale ha volonterosi complici nel sistema creditizio e finanziario.  Ingolosito dalle commissioni che  potrà estrarre da ogni minima transazione – quelle che  sfuggivano al tributo bancario  –  per miliardi.  Ma ancor più attratto dal fatto che, nella società senza contanti, diventa invisibile  l’insolvenza delle banche: l’insolvenza fondamentale della banca che crea denaro dal nulla indebitando, l’insolvenza delle banche schiacciate dai cattivi crediti concessi ai compari, amici e complici (come ha mostrato la MontePaschi).  Non saranno più   possibili corse agli sportelli; le più criminose operazioni  saranno impunite. Le banche centrali inietteranno cifre spettralmente illimitate – tutti i poteri si saranno sottratti al giudizio degli esseri umani.

Bill e Melinda Gates, filantropi e monopolisti

http://www.maurizioblondet.it/india-la-manina-usa-dietro-la-guerra-al-contante/

Post-verità - il Circo Mediatico in difficoltà vuole creare il Ministero della Verità



zenit

Dal relativismo alla sindrome da “fake news”

Federico Cenci intervista Vladimiro Giacché

Chi per anni ha affermato che la verità non esiste, oggi invoca agenzie statali per intercettare le notizie non vere. Il parere di Vladimiro Giacché, autore de “La fabbrica del falso”
L’anno nuovo sembra essersi aperto con una sindrome che sta contagiando diversi ambienti, quella delle cosiddette “fake news”, le notizie false.
Il leader del M5S, Beppe Grillo, invoca la necessità di formare improbabili giurie popolari con il compito di controllare la veridicità delle notizie diffuse da stampa e tv. Facebook ha elaborato un software che avrebbe la capacità di segnalare agli utenti le notizie ritenute inattendibili. C’è poi chi, come il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, propone un’agenzia statale di vigilanza.
Quest’ultima idea ha suscitato diverse critiche. Molti la paragonano a quegli uffici statali, tipici dei totalitarismi, che hanno il compito di controllare ogni pubblicazione e sequestrare quelle potenzialmente pericolose o esplicitamente ostili al potere. Altri ancora, più in vena letteraria, agitano l’accostamento con il ministero della Verità del libro 1984, di George Orwell.
Tra questi c’è Vladimiro Giacchè, economista e filosofo, presidente del Centro Europa Ricerche, autore de La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (nuova ed. aggiornata 2016). ZENIT lo ha intervistato.
* * * *
Cosa non la convince della proposta di Pitruzzella?
Mi sembra una proposta sbagliata e pericolosa. Sbagliata per molti motivi. Perché oggi le fake news non passano soltanto attraverso la rete ma anche attraverso i media tradizionali. Perché la menzogna veramente pericolosa non è il singolo enunciato falso, ma la falsa cornice interpretativa generale che viene offerta per certi fatti. E perché spesso la menzogna non si presenta come tale: pensiamo alle mezze verità (per cui ti parlo degli atti di violenza dell’aggredito, ma non ti dico che si sta difendendo da un aggressore), a quello che non ci viene detto (pochi giorni fa un rapporto sulla povertà in Germania è stato depurato dal governo di alcune frasi “spiacevoli”), agli eufemismi che consentono di rendere la verità meno brutta (“uso della forza” per parlare della guerra, “interrogatori rafforzati” al posto di “tortura”, e così via). Ma è anche una proposta pericolosa, perché adombra una sorta di controllo governativo o paragovernativo sulla rete, che può facilmente tradursi nella chiusura di siti non graditi a chi è al potere.

Qualcuno sta coniando un nuovo termine per indicare la nostra epoca: post-verità. Di orwelliano c’è anche la neo-lingua? Quanto è importante il potere delle parole?
Le parole sono importantissime. Harold Pinter diceva che “il linguaggio viene adoperato per tenere a distanza il pensiero”. Questo avviene tutti i giorni, e proprio attraverso i termini chiave del nostro lessico politico. Basti pensare alla metamorfosi che hanno conosciuto parole come democrazia o riforma. Quanti ancora associano al termine democrazia il concetto di “potere del popolo”, che poi dovrebbe essere il suo significato letterale? Angelo Panebianco ha denunciato anni fa che la stessa “democrazia rappresentativa” (concetto comunque già più ristretto di quello di democrazia) “a voler essere realisti, è poco più di un sistema di oligarchie in competizione”. Ancora più clamoroso il caso di una parola come “riforma”. Un tempo le “riforme” indicavano provvedimenti di legge per migliorare la condizione delle persone. Oggi le “riforme” indicano tagli allo Stato sociale e alle pensioni.

Anche complottista è un termine coniato in modo artificiale? Magari per screditare chi la pensa in modo non allineato…
I complottisti ci sono davvero, e ci sono sempre stati. Ma spesso hanno lavorato al servizio del potere: ad esempio i Protocolli dei savi di Sion, un documento falso costruito per dimostrare un presunto complotto degli ebrei, fu opera della polizia segreta zarista. Oggi spesso si usa il termine contro chi mette in dubbio che alcune “verità” del potere siano realmente tali. Anni fa si diede del complottista a chi sosteneva che la famosa fialetta con le armi chimiche di Saddam agitata da Powell all’assemblea dell’Onu fosse una messinscena. All’epoca tutti i principali giornali, anche in Italia, presero per buono quel falso vergognoso. È chiaro che in rete girano molte notizie inventate di sana pianta, ma in genere si attirano il discredito che meritano. E comunque la pericolosità delle sciocchezze sulle scie chimiche è ben diversa da quella delle menzogne sulle armi di distruzione di massa di Saddam, che sono servite a scatenare una guerra in cui sono morte centinaia di migliaia di persone.

Nel libro “La fabbrica del falso” afferma che “la menzogna è il grande protagonista del discorso pubblico contemporaneo”. Lei ha citato le fialette di antrace agitate da Colin Powell. Qualche altro eclatante esempio?
C’è l’imbarazzo della scelta. Praticamente tutte le più recenti guerre sono state giustificate e vendute all’opinione pubblica attraverso la costruzione di fake news e la loro diffusione attraverso i grandi media. A sostegno della prima guerra in Iraq si disse che i soldati di Saddam avevano staccato la corrente alle incubatrici degli ospedali di Kuwait City, per giustificare la seconda – come abbiamo detto – si tirarono fuori le armi di distruzione di massa, in Libia ci hanno fatto vedere fosse comuni che erano normali cimiteri, per di più fotografati mesi prima. È importante capire che in tutti questi casi la falsa notizia è funzionale a costruire una cornice interpretativa (il dittatore cattivo, pericolo per l’umanità, ecc.): una volta recepita questa interpretazione, le persone collocheranno entro di essa le altre notizie che ricevono, dando meno importanza – o non prendendo in considerazione – quelle che la contraddicono. Ad esempio, nel caso della Siria, i monasteri e le chiese distrutti dai cosiddetti “ribelli” e non dalle truppe governative.

Facebook ha elaborato un software per individuare e segnalare agli utenti le notizie inattendibili. Questo lavoro di vigilanza è affidato alla Poynter Institute, società finanziata dalla fondazione Open Society di George Soros. C’è il rischio che il controllore non sia propriamente super partes…
Sarebbe divertente applicare il software alla notizia che Facebook ha elaborato un software per segnalare le notizie inattendibili: se il software è ben fatto, dovrebbe segnalarla come inattendibile. Scherzi a parte, trovo molto significativo che fondazioni nate (a loro dire) per diffondere gli ideali delle “società aperte” contro i “totalitarismi” finiscano poi per farsi promotrici… della chiusura delle società aperte. E per di più facendo uso di algoritmi e altri strumenti automatici. Non mi sembra un passo avanti. Più in generale, credo che lo stato di salute dei paesi del “libero Occidente” sia ben definito dal ruolo conferito a uno speculatore di borsa che, dopo aver tratto profitto per decenni dalla destabilizzazione dei mercati finanziari, ora con i soldi così guadagnati si dedica a destabilizzare regimi che non gli piacciono e a promuovere “rivoluzioni colorate”.

Eppure fino a ieri ci era stato insegnato che la verità non esiste, che è un retaggio oscurantista medievale, che tutte le opinioni sono uguali e relative. Non evince anche Lei una contraddizione?
La contraddizione c’è eccome. Ma entrambi gli atteggiamenti rappresentano una scorciatoia. Quando si è in difficoltà perché non si riesce a confutare le argomentazioni di qualcuno, spesso si gioca la carta del relativismo, mettendo sullo stesso piano tutte le opinioni (la propria, infondata, e quella altrui, più fondata). Ma anche l’accusa di costruire fake news o di credere ad esse è una via di fuga: in questo caso, dal fatto che non si riesce ad imporre il proprio punto di vista, pur avendo dalla propria parte tutti o quasi gli organi di informazione “ufficiali”. Questo apre un problema gigantesco: chi è legittimato a decidere se una notizia è vera o falsa, e a comminare sanzioni su questa base? In realtà, il fatto di ritenere che non esista qualcosa come la Verità assoluta non impedisce di demistificare un enunciato falso. Ma a mio giudizio questo può e deve emergere dal libero confronto delle opinioni. E deve riguardare tutti i media.

Chi può decidere quando una notizia è falsa?
Ciascuno di noi, se è posto in condizione di esercitare il ragionamento e di verificare contenuti e contesto della presunta notizia. Però, per chi non si occupa professionalmente di queste cose, la possibilità di ragionare è resa complicata dalla velocità con cui le notizie si susseguono e la verifica dei contenuti dalla difficoltà di accesso alle fonti. Precisamente a questo dovrebbero servire i professionisti dell’informazione: a renderci disponibili notizie quanto più possibili verificate, basate su fonti attendibili e riferite con onestà. Come sappiamo, purtroppo le cose spesso non vanno così. È per questo che occorre che ciascuno di noi eserciti in prima persona il proprio senso critico. Nella “Fabbrica del falso” parlo di “strategie di resistenza”, che vanno dalla demistificazione del linguaggio usato per dare certe notizie all’utilizzo delle incongruenze presenti nel discorso ufficiale. Meglio adoperare queste strategie che far decidere a un’agenzia statale se una notizia è vera o falsa.

* Vladimiro Giacché è Vice Presidente dell'Associazione Politica e Culturale Marx XXI
 http://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/8880-vladimiro-giacche-dal-relativismo-alla-sindrome-da-fake-news.html

Ungheria, Orban dice chiaramente che le Organizzazione non governative che fanno capo a Soros lavorano per la Globalizzazione capitalistica che fa affari sulla pelle dei popoli

Europa

Orban va alla guerra contro le Ong di Soros

  • –Luca Veronese
Alla continua ricerca di nemici, insistendo nella propria deriva autoritaria, l’Ungheria di Viktor Orban ha deciso di mettere al bando le organizzazioni non governative che si occupano di diritti civili, accusando direttamente il finanziere George Soros di essere al servizio dei poteri forti globali e di tramare contro il governo.

«Useremo tutti i mezzi necessari per spazzare via» le organizzazioni sostenute da Soros nel Paese, ha detto pochi giorni fa, Szilard Nemeth, numero due di Orban nel Fidesz, il partito che governa l’Ungheria dal 2010. E non si è trattato di un’incomprensione o di una dichiarazione estemporanea, perchè lo stesso Nemeth, ha confermato tutto in un’intervista televisiva riferendosi in modo specifico a tre organizzazioni: Hungarian civil liberties, Transparency international e Hungarian Helsinki commitee. «Sento che è il momento buono per fare pulizia», ha ribadito Nemeth per il quale l’elezioni di Donald Trump negli Stati Uniti è un’opportunità da cogliere per cambiare molte cose.

E Orban sembra non voler perdere l’occasione di realizzare in Ungheria quello che lui stesso ha definito uno «uno Stato illiberale» disegnato, in opposizione alle democrazie liberali occidentali, sui modelli della Russia di Vladimir Putin, della Turchia e ora prendendo ad esempio anche gli Usa di Trump. Senza considerare che l’Ungheria è tutt’ora membro dell’Unione europea e della Nato.

Più caute ma non meno preoccupanti le parole di Janos Lazar, ministro che ha la responsabilità dell’ufficio del premier. «Non vogliamo spazzare via nessuno ma è evidente che dobbiamo avere maggiori informazioni sui bilanci e sui finanziamenti di queste organizzazioni», ha detto Lazar. «Soros è un cittadino americano che ha deciso di opporsi a Viktor Orban nella politica ungherese e per questo - ha spiegato ancora Lazar - pensiamo che ogni cittadino ungherese abbia il diritto di sapere attraverso quali organizzazioni agisce».

George Soros, nato a Budapest nel 1930, è emigrato a Londra nel 1947 dove ha studiato alla London School of Economics (è stato anche allievo di Karl Popper) per poi prendere la cittadinanza americana. Finanziere, attivista politico, filantropo, è uno degli uomini più ricchi del mondo e con la sua Open Society Foundations ha speso, negli ultimi trent’anni, più di 1,6 miliardi di dollari per sostenere la democrazia e lo sviluppo nell’Europa dell’Est. In Ungheria sostiene oltre sessanta organizzazioni non governative che promuovono l’informazione indipendente, «si battono contro la corruzione e contrastano le discriminazioni». Finanzia la Central European University di Budapest e mette a disposizione numerose borse di studio per i giovani ungheresi che vogliono studiare all’estero. Lo stesso Orban nel 1989, quando era uno dei leader studenteschi contro la Russia comunista, ricevette una borsa dell’Open Society Foundations per studiare alla Oxford University.

Orban, forte di una maggioranza schiacciante nel Paese e in Parlamento, ha riscritto la Costituzione accentrando i poteri sul governo, ha attaccato i media non allineati e la Corte Costituzionale, ha ingaggiato sui migranti una battaglia con l’Unione europea mettendone in discussione i principi fondanti.

Già in passato aveva accusato molti gruppi della società civile di essere «solo una copertura» dei poteri forti internazionali. E ora sembra volere indebolire le opposizioni già divise e quasi ininfluenti mettendo a tacere le voci più critiche come quella di Soros e delle organizzazioni da lui appoggiate. Per l’Ungheria la strada è stata tracciata dalla Russia di Putin che già nel 2015 ha messo osservazione le organizzazioni non gradite al suo regime. Oltre che da Trump per il quale Soros «è a capo di una struttura di potere che ha derubato le classi dei lavoratori».

Nonostante la dichiarata ostilità del governo di Budapest, l’Open Society Foundations ha fatto sapere che proseguirà la sua attività in Ungheria. «Continueremo a darci da fare per realizzare una società più giusta e responsabile», ha spiegato Christopher Stone, presidente della Open Society Foundations. «In Ungheria e in tutto il mondo - ha aggiunto Stone - siamo più concentrati che mai nel lavorare con gruppi locali per rafforzare i processi democratici, i diritti e la giustizia».

Decadentismo degli Stati Uniti è in fase avanzata

STATI UNITI D'AMERICA -
Dall’esame del documento presentato dalle agenzie d’intelligence USA sui presunti rapporti tra il tycoon newyorchese e il Cremlino emergono incongruenze ed errori formali
Trump_Company intelligence report
di Alfredo Mantici 

Il 9 gennaio scorso Lookout News commentando il periodo di passaggio tra l’Amministrazione uscente di Barack Obama e quella del suo successore Donald Trump, ha parlato di “una transizione difficile”, resa complicata non soltanto dalle difficoltà oggettive che tradizionalmente accompagnano questa delicata fase istituzionale negli Stati Uniti, ma anche da polemiche miranti di fatto a delegittimare il nuovo presidente americano.

In particolare, con la pubblicazione di un report elaborato dalle quattro principali agenzie di intelligence USA – la National Intelligence, la CIA, l’NSA e l’FBI – su mandato del presidente Obama, è stata messa in dubbio in modo ambiguo e allusivo la scelta degli elettori a favore di Trump in quanto la campagna elettorale sarebbe stata inquinata da pesanti interferenze a favore del candidato repubblicano operate da hacker pilotati dai servizi segreti russi.

Nel parlare di “transizione difficile” si è però peccato di ottimismo. Nella giornata di ieri, mercoledì 11 gennaio, infatti, sui giornali di tutto il mondo è comparsa la notizia di un nuovo report asseritamente proveniente dall’intelligence americana, contenente notizie molto compromettenti per il neo presidente, accusato di essere ricattato dal Cremlino per i suoi affari in Russia e per le sue perversioni sessuali. Accuse gravissime che in un primo momento sono state ricondotte a un’informativa ufficiale dei servizi segreti americani.

Le incongruenze del documento

Un esame del nuovo, incriminante, report mostra chiaramente che non può essere minimamente riconducibile a un organismo ufficiale statunitense. L’intestazione Company intelligence report non è attribuibile alla CIA, che viene chiamata Company” solo nei romanzi di spionaggio. La classifica di segretezza del documento non appartiene al gergo ufficiale: infatti i documenti dell’intelligence recano in testa il livello di segretezza – “confidential”, “secret”, “top secret”, etc. – e nessun altro riferimento.

In questo report la classifica di segretezza è invece Confidential/Sensitive source. Sarebbe stato sufficiente questo riferimento a far capire a chiunque con un minimo di esperienza di documenti dell’intelligence che ci si trovava di fronte a una documentazione quantomeno sospetta.

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Senza entrare troppo nei dettagli tecnici, il protocollo del documento (anno e numero progressivo delle informative), la presenza di errori di ortografia, la denominazione improbabile delle fonti (A, B, C, etc.) che normalmente nei documenti interni dei servizi vengono indicate o con il nome di copertura (“Sonia”, “Mirtillo” e via dicendo) o, nelle informative destinate ai clienti istituzionali, definite in base all’attendibilità o alla capacità di accesso alle informazioni sensibili (“fonte solitamente attendibile” o “fonte con accesso diretto”), da soli erano sufficienti a far capire sia ai tecnici del settore sia a giornalisti di una certa esperienza che ci si trovava di fronte a un documento estraneo all’intelligence ufficiale.

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Le perplessità sull’attendibilità del “Company intelligence report” sarebbero poi dovute aumentare leggendone il contenuto, pieno di errori formali e di notizie strampalate e inattendibili. Infatti, nel testo si parla di russian regime, un termine che neanche un giornale scandalistico userebbe per definire il governo russo. Si afferma che fin dal 2013 Trump lavorava per screditare la sua concorrente Hillary Clinton con l’aiuto del Cremlino, quando è noto anche ai lettori meno attenti che nel 2013 la Clinton era ancora segretario di Stato e Donald Trump un ricco immobiliarista e che nessuno dei due – tra i due soprattutto Trump – poteva ancora immaginare che tre anni dopo avrebbe vinto le primarie e che avrebbe affrontato proprio quel rivale nella corsa alla Casa Bianca.

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Per non parlare delle notizie sulle perversioni sessuali di Trump e sui suoi intrecci con i vertici del Cremlino, fornite da una rete di fonti di altissimo livello, una rete che se fosse esistita realmente avrebbe fatto sognare i vertici di qualsiasi servizio segreto, una rete che la CIA ha sempre sconsolatamente ammesso di non avere.

Senza andare oltre nel citare le incongruenze del report che per ventiquattr’ore ha conquistato l’attenzione dei media di tutto il mondo, questi esempi sono sufficienti a definirlo un falso. I dubbi che si trattasse di un “fake”, di un documento farlocco, avrebbero dovuto consigliare cautela sia ai giornalisti, ai quali “manine” misteriose lo avevano fatto pervenire, sia ai vertici dell’intelligence americana che dopo averlo esaminato lo hanno comunque giudicato degno di essere portato all’attenzione sia del presidente uscente che del suo successore.

TRUMP RUSSIA DOSSIER PDFIL PDF DEL DOSSIER INTEGRALE SUI PRESUNTI RAPPORTI TRA TRUMP E IL CREMLINO

La reazione di Trump

Come era da aspettarsi, la pubblicazione del “Company intelligence report” ha provocato negli Stati Uniti e all’estero una bufera mediatica che ha rovesciato sulla testa del neo presidente americano un quantità di accuse che, se vere e provate anche in minima parte, ne delegittimerebbero in modo irreparabile la figura prima ancora del suo ingresso alla Casa Bianca.

Donald Trump ha ovviamente reagito in modo indignato sia alla pubblicazione del dossier sia per il fatto che l’intelligence lo abbia potuto trovare attendibile al punto di sottoporlo in forma riassuntiva alla sua attenzione durante il briefing del 6 gennaio, quando i capi delle quattro Agenzie lo hanno incontrato alla Trump Tower per discutere delle attività vere e presunte del Cremlino in America. L’11 gennaio, durante la sua prima conferenza stampa dopo le elezioni, il neo presidente, riferendosi alla pubblicazione del report ha detto: “credo sia una disgrazia che le agenzie di intelligence abbiano permesso la circolazione di notizie così false e truffaldine. È qualcosa che poteva accadere, e in effetti accadde, solo nel Germania nazista”.

Donald Trump(New York, 11 gennaio 2017: conferenza stampa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump)

La risposta imbarazzata della National Intelligence

Accuse pesanti che hanno costretto il capo della National Intelligence, James Clapper, a diffondere un imbarazzato e confuso comunicato nel quale, dopo aver espresso disappunto perché il dossier è stato fatto pervenire alla stampa ha ammesso che le accuse contro Trump provenivano da “un’agenzia di sicurezza privata” e sostenuto che “le agenzie di intelligence americane non avevano espresso alcun giudizio sull’attendibilità delle accuse” e che “tuttavia si era ritenuto di fornire comunque ai vertici della politica un quadro più completo possibile delle materie che possono danneggiare la sicurezza nazionale”. Un’affermazione incredibile che, dopo aver riconosciuto che nessuno nell’intelligence community americana ha vagliato l’attendibilità del dossier, getta una luce ambigua sulla professionalità dei vertici dei Servizi americani e sulle motivazioni di un’azione di indubbia gravità politica.

James Clapper(Il direttore della National Intelligence James Clapper)

Perché è stato considerato attendibile Christopher Steele?

Il dossier, si è poi saputo, è stato elaborato da Christopher Steele, un funzionario in pensione del Servizio segreto inglese, attualmente titolare della Orbis Bussiness Intelligence, società che dopo aver offerto i propri servizi ai concorrenti repubblicani di Trump alle elezioni primarie si sarebbe poi proposta ai democratici.

Michael Morell, ex vicedirettore della CIA e supporter di Hillary Clinton, ha dichiarato al Washingotn Post: “mi sembra un fatto straordinario e senza precedenti che si sia portato all’attenzione di un presidente in carica e di un presidente eletto un documento privato sui cui contenuti non si ha ragione di credere”. Il giornale di Washington ha ammesso di aver ricevuto copia del documento insieme ad altri giornali americani e di aver svolto ricerche anche all’estero per valutare le notizie riportate ma “di non essere riuscito trovare conferma delle accuse” contro Donald Trump.

L’FBI ha ammesso di aver incontrato due volte Steele, nell’agosto del 2016, dopo che questi aveva offerto il documento al senatore repubblicano John McCain, fiero oppositore di Trump, ma di non aver potuto valutare l’attendibilità delle sue fonti perché Steele si era rifiutato di rivelarne l’identità. Comunque l’ex funzionario del Servizio inglese era ritenuto “affidabile” e per questo una sintesi del suo dossier è stata inserita nei briefing presidenziali mentre “qualcuno”, a dieci giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, ha deciso di far arrivare alla stampa la versione integrale di un rapporto che descrive il neo presidente come un pervertito, corrotto e ricattato da Vladimir Putin.

La portata dell’attacco condotto contro Donald Trump non solo dalla stampa liberal, che lo ha sempre avversato, ma anche da istituzioni come le Agenzie di intelligence americane che non hanno esitato a dare una credibilità sostanziale a un “fake” così grossolano come il Company intelligence report, induce a riflessioni preoccupate sul clima avvelenato che contraddistingue la transizione alla Casa Bianca. Un clima inquinato con ogni mezzo da un establishment che sembra non voler accettare di essere messo da parte dopo l’inaspettato successo del tycoon newyorchese che, contro ogni previsione, ha comunque legittimamente conquistato il diritto di essere il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti vincendo libere e democratiche elezioni.

http://www.lookoutnews.it/trump-russia-dossier-intelligence-falso-prove/

L'Italia prossimo presente non è capace strategicamente di fare i propri interessi nel rispetto e negli interessi dei paesi mediterranei



zeroconsensus

Syriana: la cecità dell’Occidente e dell’Italia

di Alberto Negri

Zeroconsensus vi propone un interessante articolo di Alberto Negri pubblicato oggi su il Sole24Ore che fa il punto sulla crisi mediorientale e sulla disastrosa assenza di strategia sia della Nato, dell’UE, degli USA e anche dell’Italia

La Sigonella di Erdogan si chiama Incirlik, la base aerea concessa agli Usa per i raid anti-Isis. I turchi minacciano di chiuderla se gli americani non daranno loro soddisfazione, ovvero abbandonare i curdi siriani ritenuti da Ankara come il Pkk un gruppo terroristico e consegnare l’imam Gulen in auto-esilio dal ’99 in America.

Si può definire un ricatto oppure un modo di sventolare la bandiera del nazionalismo dopo aver rinunciato ad abbattere Assad, come è stato proclamato da Ankara per cinque anni. «Stiamo combattendo una nuova guerra di indipendenza», ha dichiarato Erdogan. Il fondatore della patria Ataturk, astuto stratega, si rivolterà nella tomba ma ognuno si salva alla sua maniera.

Come ha condotto Erdogan, fino a qualche tempo fa, la lotta al terrorismo? Ha aperto “l’autostrada dei jihadisti”, poi ha rilanciato la guerra ai curdi, buttando all’aria l’accordo con il Pkk raggiunto dal capo dei servizi Hakan Fidan, e quando ha perso la partita siriana con la caduta di Aleppo si è messo d’accordo con Putin e l’Iran. 

Mosca e Teheran, due Stati sotto sanzioni occidentali, hanno imposto a un membro della Nato di mettere sotto controllo l’opposizione a Damasco in cambio della mano libera sui curdi siriani, una volta appoggiati anche dai russi.

Erdogan ha piegato la testa e ora fa pressione sugli alleati storici, americani ed europei: anche loro hanno perso la battaglia contro Assad ma fanno finta di niente perché si trincerano in una coalizione, di cui fa parte anche la Turchia, che assedia l’Isis a Mosul da cinque mesi.

La Turchia, dove gli attentati si susseguono, come si è visto ieri a Smirne, è un Paese in bilico: deve seguire la road map della Russia ma anche degli Usa e teme di restare stritolata un giorno da un possibile accordo tra Putin e Trump.

Il confronto strategico con la vicina repubblica islamica dell’Iran, pur sanzionata da tutti per decenni, è impietoso. Gli Usa hanno eliminato tutti i nemici dell’Iran: i talebani in Afghanistan nel 2001, Saddam in Iraq nel 2003, poi gli iraniani hanno visto gli ostili sauditi, i maggiori clienti di armi americane, impantanarsi in Yemen contro gli Houthi sciiti e dopo avere firmato il 14 luglio 2015 l’accordo sul nucleare, hanno trovato la Russia, una superpotenza atomica, pronta a schierarsi in Siria salvando l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut.

La Turchia oggi è il grande malato d’Oriente e Occidente insieme. I jihadisti si vendicano di Erdogan, i curdi colpiscono, gli apparati di sicurezza sono diventati più vulnerabili per le epurazioni seguite al golpe fallito di luglio.

La crisi della Turchia ci interessa direttamente. Gli europei chiederanno a Erdogan non solo di fare il custode di due milioni di profughi siriani ma di diventare l’argine al ritorno dei foreign fighters che combattevano per l’Isis e altri gruppi radicali.

Certo non si comincia bene quando il “poliziotto” ricatta il suo maggiore alleato, gli Stati Uniti. Ma siccome è tornato amico di Putin, Erdogan pensa di usare Nato e Usa per negoziare con Mosca svincolandosi da una fedeltà vista ormai come fumo negli occhi: l’America ospita Fethullah Gulen ed è ritenuta l’ispiratrice del golpe d’estate.

La lotta al terrorismo coincide quindi con un altro problema, quello della Turchia, che americani ed europei hanno lasciato incancrenire. Che cosa hanno fatto per frenare la deriva di Erdogan? Quasi niente. Anzi gli Usa dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton lo hanno incoraggiato nell’avventura siriana insieme alla Francia e alle monarchie del Golfo. Se Erdogan ha aperto l’autostrada della Jihad, americani ed europei hanno poi spalancato in Medio Oriente un’autostrada a Putin.

Il punto è che la corsa di Erdogan contro Assad è finita e quella successiva, contro il Califfato, è densa di incognite.

Abbattere l’Isis è fondamentale per privare i jihadisti dell’arma di propaganda delle conquiste territoriali: su questo si basa il mito sanguinoso del Califfato che ispira i terroristi. Ma non basta.

Chi farà l’offensiva a Raqqa, capitale dell’Isis? Secondo gli americani doveva essere una coalizione di arabi e curdi siriani ma questa opzione sembra naufragata. Ci sono alternative occidentali? No, a quanto pare. E questo avviene in un momento chiave: se il Califfato dovesse crollare, cosa accadrà alle legioni di Al Baghadi e ai foreign fighters, forse ventimila secondo i dati di Europol?

Ci dovremo affidare alla Russia, all’Iran, a Erdogan e anche ad Assad. Bisognerà meditare se non sia il caso di riaprire le ambasciate a Damasco, almeno a livello inferiore, perché è da lì che arrivano informazioni sui jihadisti. La Tunisia, pur ostile al regime siriano, lo ha già fatto perché ha 6mila foreign fighters tra Siria, Iraq e Libia. Ha riaperto anche l’Egitto di Al Sisi: fatto salvo il caso Regeni, forse serve rivedere la presenza diplomatica al Cairo in funzione della Libia dove l’Italia è stata spiazzata dall’ascesa del generale Khalifa Haftar sostenuto da egiziani, francesi e russi. Per l’Italia il fronte libico (immigrazione e sicurezza) è fondamentale è non può limitarsi a Tripoli e Misurata.

La lotta al terrorismo richiede, come ha sottolineato Gentiloni, la massima attenzione al contrasto della propaganda sul web e nelle carceri. Ma ci vuole una strategia nostra e occidentale per Siria e Libia. Tutti aspettano Trump ma intanto gli eventi in Medio Oriente vanno avanti. La guerra non dorme, il terrorismo non bussa alla porta, non prende appuntamenti. E l’Occidente, dimentico del passato, rischia di farsi sorprendere dal presente.

http://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/8878-alberto-negri-syriana-la-cecita-dell-occidente-e-dell-italia.html

Anche la Massoneria usa la tecnica della dissimulazione come la Fratellanza Musulmana

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Giovedì 12 gennaio 2017

Cosa c'entra la massoneria con il cyberspionaggio di Occhionero?

Dopo l'arresto di Giulio Occhionero, massone e membro del Goi, per pirateria informatica, TPI ha intervistato il capo del Grande oriente d'Italia Stefano Bisi
Cosa c'entra la massoneria con il cyberspionaggio di Occhionero?
L'occhio e la piramide sono noti simboli massonici. Credit: Youtube
Sembra un intrigo internazionale quello che ha al centro Giulio Occhionero e la sorella Francesca Maria, italiani residenti a Londra.
I due sono accusati di aver hackerato gli account di personalità importanti della politica e dell'economia italiana e internazionale, tra cui Matteo Renzi e Mario Draghi, attraverso un malware denominato Eye Pyramid che infettava gli account email e archiviava metodicamente tutte le informazioni delle quali entrava in possesso.
Occhionero è membro della loggia massonica romana “Paolo Ungari - Nicola Ricciotti Pensiero e Azione” appartenente al Grande oriente d'Italia (Goi) e tra le persone bersaglio del suo hakeraggio, secondo gli inquirenti, ci sono anche altri “fratelli”, inclusa la massima carica del Goi, il Gran maestro Stefano Bisi.
È stato lui stesso a sospendere immediatamente Occhionero dalla loggia romana, una volta ricevuta la notizia dell'arresto e del tipo di accuse mosse all'ingegnere 45enne, come ha confermato a TPI in un'intervista telefonica.
Il Gran maestro dice però di non aver ancora potuto verificare le informazioni diffuse dalla stampa italiana sui presunti legami massonici di ********* ******, commercialista originario di Catanzaro e residente a Roma, che risulterebbe tra i collaboratori della società d'investimenti dei fratelli Occhionero Westlands Securities, già condannato a cinque anni per 'ndrangheta.
Quali conseguenze pratiche ci saranno sull'appartenenza al Goi di Giulio Occhionero dopo la sua sospensione?
Nei casi come questo si svolge un procedimento disciplinare interno, diverso da quello della magistratura, che può portare a censura semplice, censura solenne o espulsione. Saranno gli organi disciplinari interni del Goi a decidere quale sanzione applicare, sulla base di quello che potranno accertare.
L'espulsione consiste nel depennare la persona dal Goi, le altre sono sanzioni più lievi. In questo caso, se sarà accertato quello di cui viene accusato, mi sembra una cosa molto pesante.
Ha idea del motivo per cui il malware utilizzato da Occhionero si chiami "Eye Pyramid", un nome che rievoca uno dei simboli massonici per eccellenza?
Questo va chiesto a lui e non a me.
Ha avuto modo di parlare con i membri della loggia “Paolo Ungari - Nicola Ricciotti Pensiero e Azione” di Roma? Avevano avuto qualche percezione della vicenda?
Sì ho parlato con loro per cercare di capire. Ovviamente non avevano idea. Ci sono voluti tanti anni e la polizia postale per capire i contorni e i contenuti della vicenda, quindi non ci si può aspettare che gli altri membri sapessero cosa facesse Occhionero nella sua vita professionale.
Tra le persone spiate secondo gli inquirenti c'è anche lei.
Ho saputo due giorni fa di essere tra coloro che sarebbero stati spiati, insieme ad altri fratelli. Posso quindi dire che io e gli altri fratelli siamo le vittime di questa presunta azione di hackeraggio.
Un articolo del quotidiano La Stampa riporta oggi la notizia che un ex sindaco revisore della società dei fratelli Occhionero, ********* ******, è stato condannato a cinque anni per mafia nel 2014. Viene citata una sua “vicinanza” ad ambienti massonici. Può confermare questa affermazione?
È un'informazione che ricevo adesso, quindi non sono in grado di confermarla.
Secondo lei a cosa puntava Occhionero con questa presunta attività di spionaggio? È possibile che mirasse a fare carriera nel Goi e a diventare Gran maestro?
Non posso sapere perché lo facesse né cosa facesse esattamente. Chiunque abbia ricoperto l'incarico di Maestro venerabile può candidarsi a fare il Gran maestro. Lui aveva ricoperto questo incarico in una delle 850 logge in Italia, ma diciamo che da questo a fare il Gran maestro un po' ce ne passa.
Sulla massoneria in generale ci sono ancora diversi pregiudizi nel nostro paese, cosa sta facendo il Goi per abbatterli?
Avere un sito in cui raccontiamo tutto quello che facciamo mi sembra un modo per far capire chi siamo.
Proprio due giorni fa, quando un fratello mi ha chiamato per dirmi della notizia di Occhionero, io stavo lavorando per mettere a punto i dettagli operativi per l'impianto di illuminazione del campo sportivo di Norcia che il Grande oriente d'Italia realizzerà su richiesta della società sportiva e in accordo con l'amministrazione comunale. Abbiamo raccolto dei fondi dai destinare ai giovani delle zone terremotate.
Sempre in quelle ore stavo parlando col sindaco di Camerino, una delle città terremotate, perché il Goi cercherà di sostenere la ricostruzione del liceo musicale della città, frequentato da 150 ragazzi della zona che ora non sanno dove andare.
Il Grande oriente d'Italia, come ha detto anni fa Mario Calvino, è un'associazione di uomini che tutelano il libero pensiero e lavorano per il bene dell'umanità.

http://www.tpi.it/mondo/italia/massoneria-goi-cyberspionaggio-occhionero

Distruzione della Terra - Stati Uniti, tutte le portaerei in cantiere, la pentola bolle e come se bolle


TUTTE LE PORTAEREI USA IN CANTIERE. PER RENDERLE INVULNERABILI?

Tutt’e dieci le portaerei americane,  con le relative squadre d’appoggio,   sono state richiamate in patria; è la prima volta dal 1947, e ciò ha dato adito ad domande e sospetti: false flag  in arrivo?
Paul Craig Roberts  dice di aver ricevuto da un agente dell’intelligence un’altra precisa motivazione: le portaerei sono in cantiere per sostituire l’intero reticolato  in rame dei loro apparati elettrici con fibra ottica. Perché, “apparentemente, i russi hanno la capacità di spegnere i sistemi operativi delle nostre navi e portaerei il cui apparati elettrico funziona a cavi di rame”.
Come (forse) si ricorderà, nell’aprile 2014  l’incrociatore  lanciamissilili americano Donald Cook fu fatto entrare nel Mar Nero  contro le convenzioni di Montreux, a provocare la Russia; un Sukhoi SU-24  disarmato sorvolò a bassa quota  la nave simulando un attacco,   e  l’equipaggio americano scoprì,  con terrore,  che i sistemi  missilistici a bordo erano paralizzati, i quattro radar   disabilitati insieme agli apparati di trasmissione e ai circuiti di controllo:  “ciechi e sordi”.  Il comandante riparò a tutto vapore la Donald Cook in Romania, dove – si dice –  27  marinai avrebbero chiesto di essere  rilevati dal servizio  per lo shock subìto.
Il fenomeno si ripeté, qualche tempo dopo, con l’incrociatore USS Washington.
https://www.voltairenet.org/article185860.html
Secondo Craig Roberts,  successivamente,  “due caccia israeliani Made in Usa  sono stati spediti a mostrare disobbedienza al  controllo russo dello spazio aereo in Siria. I russi hanno  comunicato agli israeliani di andar via, e quando questi non l’hanno fatto, i russi hanno spento i  sistemi di controllo del fuoco e comunicazione dei loro aerei”.
Il 12  gennaio, Israele ha bombardato l’aeroporto militare di Damasco. C’è da chiedersi se i caccia israeliani che l’hanno fatto abbiano ricevuto le modifiche che li rendono non più vulnerabili alle contromisure russe. Quella stessa invulnerabilità che le portaerei americane stanno acquistando con la sostituzione dei cavi di rame con le fibre ottiche.
Se la notizia è confermata, essa  mostra l’estrema pericolosità della situazione; forse la  Russia ha perso un vantaggio militare,  e il Pentagono riacquista la total  global  dominance.
La tensione di queste ore è ancor meglio dipinta da questo fatto: Trump, o meglio la sua squadra di transizione, ha ordinato la rimozione del capo della Guardia Nazionale, generale Errol R. Schwartz,  della capitale Washington un minuto dopo il suo insediamento  (alle 12.01), ma prima della cerimonia di inaugurazione prima che  cominci la parata inaugurale. Schwartz è stato fra quelli che hanno approntato la “security” nel giorno dell’insediamento.  Vedrà partire le guardie  nazionali  della capitale (più 5 mila  truppe aggiunte per la  cerimonia) ma non le vedrà tornare nella caserma. Ci dev’essere un motivo.
Trump ha anche ordinato a tutti gli ambasciatori nominati da Obama  di lasciare i loro posti il giorno stesso dell’inaugurazione – altra cosa molto in abituale, di solito si lasciano gli ambasciatori stare anche qualche mese, perché i figli finiscano l’anno scolastico. Non sono tempi soliti.

http://www.maurizioblondet.it/tutte-le-portaerei-usa-cantiere-renderle-invulnerabili/