L’Europa alla guerra
Le azioni militari degli Stati membri contro il terrorismo
All’indomani della
strage di Nizza del 14 luglio scorso, in cui un cittadino di origine tunisina ammazzò 86 persone investendole con un camion, il presidente francese Francois Hollande
annunciò che avrebbe intensificato i bombardamenti in Siria e Iraq e che avrebbe dispiegato la portaerei Charles De Gaulle nelle acque orientali del Mediterraneo.
Una mossa che evidenzia la svolta nella strategia europea per fronteggiare le minacce terroristiche provenienti dai Paesi stranieri. Negli anni immediatamente successivi al 2001, infatti, molti leader europei
espressero il loro scetticismo rispetto alla ‘guerra globale al terrorismo’ degli Stati Uniti. Ora, di fronte alla minaccia dell’Isis e di altri gruppi jihadisti dislocati non lontano dai nostri confini, i governi europei hanno intrapreso differenti azioni militari in Iraq, Siria e Sahel, non dissimili da quelle che recriminavano a suo tempo agli Stati Uniti.
Il pretesto per la svolta è stata la situazione in Mali, dove nel 2012 una miriade di gruppi jihadisti, tra cui anche Al Qaida nel Maghreb, sono riusciti a prendere il controllo di larghe fette di territorio, fino a lanciare un’offensiva direttamente contro la capitale Bamako, nel 2013. L’allora ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius,
affermò che l’obiettivo degli jihadisti era «controllare tutto il Mali per instaurare uno stato terroristico… minacciando così l’Africa e l’Europa».
Il 9 gennaio 2013, il presidente maliano Dioncounda Traoré chiese e ottenne l’intervento militare francese contro gli jihadisti che occupavano il Paese. Il giorno successivo la Francia diede il via all’‘
Operazione Serval’, un intervento di sostegno militare e logistico alle forze del governo maliano che permise, grazie ai raid dell’aviazione francese, di respingere i gruppi di terroristi, che, però, non vennero del tutto neutralizzati e continuarono a perpetrare una serie di attacchi in una zona più vasta, comprendente più Paesi dell’area Sahel.
Fu così che la Francia ottenne il consenso da parte di Niger, Chad, Burkina Faso, Mauritania, oltre che del Mali, per dispiegare le sue truppe in questi territori e lanciare l’‘
Operazione Barkhane’ finalizzata a uccidere gli jihadisti che ancora infestavano la regione. Un’operazione nella quale la Francia ha dispiegato 3.500 soldati, 17 elicotteri, quattro caccia Mirage e cinque droni, usati per identificare i terroristi che si nascondono nel deserto del Sahel.
Nel 2014, poi, fu la volta dell’autoproclamato stato islamico, che ottenne notorietà internazionale conquistando in luglio la città irachena di Mosul. Ancora più che in Mali, il rischio dell’emergere di uno stato terroristico in grado di destabilizzare la regione era concreto. Uno stato terroristico che contava già nell’aprile del 2014,
secondo le stime del coordinatore europeo antiterrorismo Gilles de Kerchove, più di 2mila ‘combattenti stranieri’ provenienti dall’Europa.
Dopo che l’Isis conquistò ampie fette dell’Iraq curdo, soggiogando la minoranza religiosa degli yazidi, il presidente iracheno, Fouad Massoum,
chiese il 15 settembre del 2014 l’intervento della comunità internazionale, denunciando il rischio di un genocidio.
Il primo Paese europeo a unirsi alla coalizione internazionale contro l’Isis fu la Francia, che lanciò il 20 settembre l’‘
Operazione Chammal’, che, ad ottobre del 2016, ha portato a più di
800 bombardamenti aerei contro bersagli dello stato islamico in Iraq. Bombardamenti finalizzati a fornire supporto areo alle forze che combattono sul campo o a colpire e annientare dei bersagli ben precisi, come i campi di addestramento dei ‘combattenti stranieri’. A questo si aggiungono 100 soldati impegnati ad addestrare le truppe irachene a Baghdad.
L’intervento francese contro l’Isis è stato poi esteso nel settembre del 2015 alla Siria, senza che il suo presidente Bashar Al Assad autorizzasse l’intervento. Ciononostante, il ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian
ha giustificato l’intervento francese facendo riferimento al diritto di legittima difesa, esplicitamente sancito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Se la Francia è stato il primo Paese europeo in ordine di tempo a intervenire in Iraq e Siria, il Regno Unito è stato quello più attivo. Lo scorso ottobre, l’aviazione del Regno Unito aveva colpito
999 volte in Iraq e 67 volte in Siria, dove è attiva dal dicembre del 2015.
Oltre a Francia e Regno Unito, anche altri Paesi europei hanno contribuito in diversi modi allo sforzo militare contro l’Isis. La Germania, per esempio, ha fornito armi e addestramento ai peshmerga curdi nel nord dell’Iraq. Inoltre, quando la Francia ha chiesto il sostegno degli altri Stati Ue dopo gli attacchi di Parigi del novembre 2015, la Germania ha risposto
mettendo a disposizione cinque Tornado per la ricognizione aerea, un Airbus per il rifornimento in volo e una fregata per scortare la portaerei francese Charles De Gaulle.
Anche Paesi Bassi e Danimarca hanno preso parte ai bombardamenti della coalizione contro l’Isis, sia in Iraq che in Siria, mentre il Belgio è intervenuto solo in Iraq.
La Spagna è stata, invece, più riluttante ad intervenire militarmente, ma ha comunque inviato un contingente di 300 soldati per addestrare i soldati iracheni. Così come ha fatto l’Italia, che ha inviato circa 300 soldati per l’addestramento dei peshmerga curdi e delle forze irachene. Roma ha, inoltre, contribuito
mettendo a disposizione un Tornado per la ricognizione aerea, due droni da ricognizione Predator e un’aereocisterna per il rifornimento in volo.
Va poi tenuto conto che nell’ultimo anno l’attenzione dell’Italia si è concentrata anche sulla Libia. In tal senso, il governo italiano ha modificato le regole relative ai droni americani che partono dalla base di Sigonella in Sicilia. Mentre prima potevano decollare solo droni da ricognizione ora possono essere impiegati anche quelli da combattimento,
con il limite che vengano impiegati solo per proteggere le forze armate che operano via terra.
In questa cornice si inserisce lo sforzo militare americano cominciato ad agosto 2016, per fornire un supporto aereo alle forze governative libiche impegnate nell’offensiva contro l’Isis, che ha la sua roccaforte libica nella città di Sirte.
Infine, non va dimenticato che anche Finlandia, Lettonia, Lituania, Norvegia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Ungheria, Slovenia e Svezia hanno messo a disposizione i loro esperti per addestrare le forze anti-Isis, sia peshmerga che irachene.
Il rinnovato impegno militare degli Stati europei contro le organizzazioni terroristiche che creano il caos nelle regioni confinanti solleva, però, alcune perplessità, in particolare, in riferimento al caso siriano.
Se sia per quanto riguarda l’intervento nel Sahel che in Iraq, l’intervento militare europeo è stato richiesto dai governi degli Stati interessati, lo stesso non si può dire per quanto riguarda la Siria. Qui, né il governo siriano ha richiesto l’uso della forza da parte dei Paesi europei sul suo territorio, né gli Stati membri dell’Unione europea hanno domandato il permesso ad Assad di intervenire o hanno coordinato le loro azioni militari con quelle del suo regime.
Ai sensi del diritto internazionale, l’uso della forza è autorizzato solo quando il gruppo armato responsabile di un attacco all’interno dei confini nazionali ha un legame diretto con il governo del Paese dove risiede. Si tratta, però, di un concetto già messo in discussione dagli Stati Uniti all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001, che giustificarono il loro intervento in Afghanistan affermando che il diritto alla legittima difesa prevede anche l’utilizzo della forza senza il consenso dello stato dove viene impiegata, laddove questo non sia capace o non sia intenzionato ad intervenire per evitare che dal suo territorio partano degli attacchi terroristici.
Gli Stati europei sono stati però cauti nell’adottare l’interpretazione statunitense e hanno preferito insistere sul fatto che l’Isis è ormai un proto-stato, in quanto presenta molte caratteristiche simili a quelle di un’entità statuale. Si tratta comunque di una forzatura delle norme di diritto internazionale sull’uso della forza, che rischia di creare un precedente per un uso più espansivo e meno regolato dell’intervento militare.
http://www.lindro.it/leuropa-alla-guerra/