L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 1 aprile 2017

30 marzo 2017 - Gang jihadiste all’attacco in Siria

"11 Settembre La Nuova Pearl Harbor" - Sintesi (di Massimo Mazzucco)

PTV news 30 Marzo 2017 - Vittoria (di Pirro?) delle agenzie di rating a ...

31 marzo 2017 - Mario Albanesi: L'allibiito Ceausescu

questi non sono economisti ma servitori di interessi stranieri, con la Sovranità Monetaria facciamo investimenti pubblici per la Piena Occupazione Dignitosa

Per essere credibile in Europa all'Italia serve un gendarme

Il nostro paese dovrebbe impegnarsi a stabilire con le istituzioni europee un rapporto "do ut des". L'analisi di due studi pubblicati dalla School of European Political Economy (Sep) della Luiss

di Alberto Brambilla
31 Marzo 2017 alle 11:30


foto LaPresse

Roma. “Do ut des”, “Io do affinché tu dia”, è nel diritto romano la base di ogni accordo tra privati ed è il rapporto che l’Italia dovrebbe impegnarsi a stabilire con le istituzioni europee, secondo due studi pubblicati nei giorni scorsi dalla School of European Political Economy (Sep) dell’Università Luiss di Roma, controllata da Confindustria, a firma congiunta di rispettati economisti Carlo Bastasin (senior fellow Brookings institution, editorialista Sole 24 Ore), Lorenzo Bini Smaghi (ex membro board Bce, presidente di Societé Generale), Marcello Messori (direttore Sep), Stefano Micossi (direttore generale Assonime, presidente Sep), Fabrizio Saccomanni (ex direttore generale Banca d’Italia, ex ministro dell’Economia), Gianni Toniolo (docente di storia economica Luiss).

Il rapporto Luiss parte dall’assunto che l’Europa non sia la causa dei mali dell’economia italiana, ma che sia invece l’Italia a rappresentare una delle ragioni per cui l’Europa non realizza i progressi che si propone ad esempio quando nel giugno 2016 ha ostacolato il completamento dell’Unione bancaria. L’Italia dovrebbe perciò guadagnare credibilità non solo sollevando i veti posti in passato ma anche consentire a un monitoraggio da parte delle istituzioni europee sull’uso dei fondi comunitari ricevuti e di cui ha estremo bisogno in quanto unico paese che ha visto calare gli investimenti esteri per via della perdurante incertezza politica. L’alternativa, secondo il rapporto, sarebbe altrimenti un programma di assistenza con delle condizionalità stringenti come in Grecia. “L’Italia deve smettere di gridare contro l’Europa matrigna. I guai iniziano a casa nostra. Discutere di concessioni sul deficit che già abbiamo avuto ma abbiamo usato male è patetico. A sessant’anni dai trattati fondativi proponiamo di tornare adulti e partecipare al concerto europeo come pari tra i pari”, dice Micossi.

Una prova di credibilità per un governo “adulto” – secondo il rapporto “Completing the economic and monetary union and the pivotal role of Italy” – sarebbe sollevare il veto posto l’anno scorso dal governo Renzi alla rivalutazione dei titoli sovrani nel portafoglio delle banche, per sciogliere il circolo vizioso tra bilanci creditizi e debiti pubblici, il che aveva impedito di trovare un accordo per stabilire il terzo pilastro dell’Unione bancaria, ovvero il Fondo europeo a tutela dei depositi dopo che la Vigilanza unica sugli istituti continentali e il meccanismo di risoluzione delle banche in dissesto sono già in piedi. “Una condivisione dei rischi è possibile solo se i rischi vengono prima ridotti – dice Lorenzo Bini Smaghi – l’Italia deve riaprire il negoziato perché un atteggiamento rigido ci mette in difficoltà. L’obiettivo è fare progressi sull’Unione bancaria e solo una tutela dei depositi comune ci protegge in caso di crisi. Il caso italiano dimostra che l’Europa non è incapace di risolvere i problemi, come sostengono gli anti-eruopeisti, ma spesso sono i governi nazionali a bloccare i progressi”.

A monte c’è poi l’incertezza politica che – unita ai proclami da parte di diversi partiti (Lega, Forza Italia, Movimento 5 stelle) che teorizzano un’uscita dall’euro – allontana gli investimenti che nel periodo 2008-2012, italiani ed esteri, sono calati – caso unico in Europa – del 30 per cento. Il rapporto avanza l’idea che l’Italia in cambio di finanziamenti europei consenta a un monitoraggio rigoroso dell’uso che ne viene fatto da parte della Commissione. “L’Italia dice che farà ad esempio un’autostrada e l’Europa controlla che lo faccia – dice Bastasin – non lo vedo come una sottrazione di sovranità ma di ripartizione delle funzioni. L’Europa non sta sopra all’Italia nel suo rapporto con i cittadini ma a fianco dei cittadini”. Secondo Bastasin l’intento non sarebbe quello di creare un cordone sanitario in prospettiva di un governo tifoso dell’uscita dall’euro in quanto “è sufficiente continuare sulla strada della scarsa credibilità” per motivare un commissariamento tout-court.

La Russia non può permettersi di dormire

RUSSIA, INIZIA L'ERA DEI SOTTOMARINI CLASSE YASEN-M

(di Franco Iacch)
30/03/17 
Inizia ufficialmente l’era dei sottomarini classe Yasen, Progetto 885M. I lavori sul sottomarino K-561 Kazan sono ufficialmente conclusi. L’unità sarà ufficialmente consegnata domani ed inizierà i test in mare prima di entrare in servizio con la Marina russa entro la fine dell’anno.
Il sottomarino d'attacco nucleare multiruolo di quarta generazione classe Yasen (designazione Nato Graney), ha un dislocamento in immersione di 13.800 tonnellate. Ha una lunghezza di 119 metri, con una velocità massima di trentuno nodi in immersione. Può immergersi fino a 600 metri, con profondità operativa di 500. Ha un equipaggio di novanta uomini, tra cui trentadue ufficiali: ciò conferma un elevato grado di automazione raggiunto.
È probabilmente uno dei sottomarini d’attacco a propulsione nucleare più potenti mai entrati in servizio nell’ammiragliato russo e si antepone alla classe Virginia statunitense.
Le specifiche del Progetto 885 prevedono un doppio scafo in acciaio amagnetico così da ridurre la traccia acustica ed una maggiore capacità di sopravvivenza del battello rispetto agli Akula I/II. Da quest’ultima eredita parte del design. Il monoalbero è alimentato da un reattore termo-nucleare di quarta generazione OK-650V da 200 MW raffreddato ad acqua pressurizzata realizzato da Afrikantov OKBM. La torre di comando ha una forma ovale idrodinamica, mentre lo scafo è suddiviso in dieci scomparti.
La classe Yasen è progettata per lanciare missili da crociera con testate convenzionali o nucleari, ingaggiare sottomarini ed unità di superficie e colpire target costieri. In forma primaria, ogni sottomarino Yasen trasporta 24/32 missili da crociera su otto tubi di lancio verticali. Otto i tubi lanciasiluri da 650 mm e due da 533 mm.
Il K- 560 Severodvinsk (foto e video), primo ed unico sottomarino d’attacco russo progetto 885 classe Yasen, è stato consegnato il 17 giugno del 2014. La sua lunga valutazione operativa si è conclusa nella primavera del 2016, tuttavia è stato consegnato alla Marina con molte perplessità. Il K-560 ha successivamente completato con esito positivo quattro turni di prove in mare.
Il K-561 Kazan Progetto 885M deve essere inteso proprio come la prima unità della classe che implementa sostanziali migliorie sulla base delle lezioni apprese dal lungo processo di sviluppo dell’originale 885. Il K-561 Kazan, K-573 Novosibirsk, K-571 Krasnoyarsk ed il K-564 Arhangelʹsk, rispettivamente secondo, terzo, quarto e quinto sottomarino della classe, fanno parte del Progetto 885M, la classe Yasen aggiornata. Il cantiere del sesto sottomarino classe Yasen, il Perm, è stato ufficialmente aperto lo scorso luglio. La Sevmash Shipbuilding Company, avvierà il prossimo giugno la produzione della settima ed ultima unità della flotta.
La classe Yasen Progetto 885/885M, sarà operativa entro il 2023 e sostituirà i sottomarini classe Oscar ed Akula. Ogni sottomarino classe Yasen ha un costo medio di 1,5 miliardi di dollari, l'equivalente di un Los Angeles ed un terzo della classe Seawolf. Il costo medio dei classe Virginia è di 2,7 miliardi di dollari.
(immagini: MoD Fed. russa)

Abbandoniamo gli euroimbecilli a loro stessi e Noi Italiani sviluppiamo la politica del Mare Nostrum insieme all'amico Putin

EUROCRAZIA SENZA VISIONE CI METTE IN MANO ALLA CINA.

Maurizio Blondet 1 aprile 2017 

Trump metterà dazi sulla Vespa e l’acqua San Pellegrino!”: i media mettono il lutto, strillano, piangono. Trump il protezionista! La nostra rovina! La rovina del libero commercio mondiale! Nessuna cifra sull’export di Vespa in Usa, sicuramente una nicchia da pochi soldi.

Come amano odiare Trump, i nostri media, e politici di governo, e le oligarchie europee. Tanto amano odiarlo, che mentre piantano il piagnisteo corale sull’acqua San Pellegrino che sarà (forse) tassata in Usa, manco si accorgono della seguente notizia:

“Nel corso del 2016, gli investimenti diretti della Cina in Europa sono cresciuti del 77 per cento, mentre sono cresciuti ‘solo’ del 40 per cento nel resto del mondo”.

Ciò significa che, approfittando della crisi economica ormai decennale e mai curata che mette alla fame le imprese europee, Pechino se le sta comprando. Naturalmente si sceglie quelle di cui ha bisogno, le cui tecnologie e know-how mancano ancora all’Impero del Mezzo; insomma le migliori. E l’Europa è piena di aziende “migliori” abbandonate al “mercato” (ossia alla predazione) durante la recessione globale, in forza del sacro dogma liberista-globalista che a Bruxelles non si può violare: è per questo che nel solo 2016 la Cina ha aumentato suoi acquisti in Europa del 77%, contro il 40 per cento nel resto del mondo. Aziende i cui profitti andranno in Cina, quando ricominceranno a fare profitti.

Svendiamo le industrie a Pechino

Altro che Acqua San Pellegrino. Giusto per dare un’idea: tutte le esportazioni agroalimentari italiane in Usa valgono 38,4 miliardi; il danno che potrebbe venirci da dazi Usa è sul 10% , ossia 3,8 miliardi. Ma per i suoi acquisti diretti, nel solo 2016, la Cina ha sborsato 200 miliardi di dollari. Perché si sa, Pechino è strapiena di dollarie sa che sono carta straccia, che gli Usa stampano a ritmi ormai demenziali, insostenibili. Quindi si libera a vagonate dei 200 miliardi di dollari, comprando con essi i gioielli europei, valori reali. Gli europei in crisi accettano carta straccia e vendono i gioielli.

Mica solo in Europa, attenzione. I cinesi stanno iniettando miliardi nel cinema americano, soccorrono Hollywood coi loro capitali: capite cosa vuol dire? L’industria dei sogni Made in Usa, il cuore del “soft power” americano, sta già cominciando a produrre film in gloria della Cina… Donald Trump, e la parte dell’elite che lo sostiene, hanno preso atto dei danni che la globalizzazione senza freni ha prodotto nell’economia americana, e stanno cercando (goffamente) di risalire la china della de-industrializzazione, del vuoto industriale che minaccia ormai il poter globale americano. In Usa, questo cambio di prospettive è ferocemente contrastato, fino alla guerra civile, da ogni sorta di poteri “progressisti” (fra cui la Cia, progressista): di fatto è una lotta – molto sudamericana – fra una “borghesia nazionale” (bollata come “populista”e protezionista) e la “borghesia compradora” che vive di importazioni (cinesi), di speculazioni finanziarie e di riduzione dei salari, dunque austerità per tutti gli altri connazionali.

Ma che dire dell’Europa? Quella di Bruxelles, di Berlino dove albergano le povere “menti strategiche” che ci guidano? E di Francoforte, da cui impera la intelligentissima BCE?

Lasciano Pechino fare acquisti a man bassa, non sanno reagire: si vietano “rigurgiti protezionisti”, certo. Ma anche non hanno alcuna strategia a lungo termine, alcuna visione geopolitica. Meglio: continuano ad adottare quella che hanno ricevuto da Washington, quando ormai a Washington è in discussione, perché sono incapaci di pensare in proprio. Sono un ventre molle intellettuale mai visto nella storia.

Le oligarchie europee non possono guardare in volto i loro errori geopolitici epocali; anzi li hanno celebrati a Roma, incensandosi a vicenda, ripetendosi che i problemi che loro hanno creato saranno curati da “più Europa”, da più forti dosi del farmaco che ci ha ammalati tutti. Anzi,”la faremo pagare” all’Inghilterra che ci ha lasciato, minacciano Juncker, Tusk, la Mogherini, la Merkel.
Sciolta nel mercato globale, a che serve più la UE?

Persino Lucina Castellina su Il Manifesto (ed è tutto dire) ha indicato a questi “europeisti” che sono stati loro ad avviare lo smantellamento della Ue (non certo i “protezionisti e sovranisti”) commettendo l’errore fatale: “Sempre più confondendo il progetto europeo con quello della globalizzazione.. E allora, perché l’Europa? Che senso ha, se resta niente altro che un pezzetto anonimo del mercato mondiale?”. 

Hanno “fatto” la UE di nascosto, senza ascoltare i popoli, e perché? Per poi dissolverla nel mercato globale. Ossia decretando la sua inutilità. Se una “unione” europea aveva un senso, non poteva che essere nella Fortezza Europa”, un blocco commerciale di mezzo miliardi di abitanti con alto potere d’acquisto ed alta istruzione, potenzialmente autosufficiente (una volta integratavi la Russia). Invece hanno svenduto i suoi popoli – alla concorrenza mondiale dei salari più bassi. Ossia svendendo le specificità di valore, culturali, proprie dell’Europa storica.

Ma poi hanno fatto di peggio: hanno allargato la UE ad Est, e adesso la stanno identificando sempre più con la NATO, l’alleanza militare anti-Russia, sotto dettatura americana rialzando la Cortina di Ferro; perché all’America non interessa più l’Europa se non come terreno militare, di espansione in profondità in ostilità alla Russia.

E’ la politica americana tradizionale: impedire l’integrazione fra Europa dell’Ovest e Russia, che creerebbe uno spazio economico autosufficiente sia dal punto di vista tecnologico che da quello energetico (e quello culturale, non dimentichiamo) liberato dall’egemonia Usa. Dal punto di vista americano, il progetto ha una logica. Ma dal punto di vista europeo?

Di fronte agli “acquisti” cinesi, e di fronte al – da loro imprevisto – riflesso protezionista e sovranista della Casa Madre americana, la sola cosa che ci servirebbe sarebbe avere la Russia dalla nostra parte. Invece abbiamo gettato Putin nelle braccia della Cina, colpendolo con sanzioni che hanno danneggiato noi, e bollandolo come “dittatore” di uno “stato ostile” . Grazie Tusk. Grazie, Merkel. Grazie, Mogherini,

Che tragica e comica cortezza di vedute, che mancanza totale di visione. Nani politici ma soprattutto intellettuali, al comando di quella che è ancora l’economia col maggior poter d’acquisto del mondo (ancora per poco) il che la rende preda di intelligenze che hanno saputo concepire progetti geopolitici di lunga durata.

Secondo Michael Pillsbury, un ex sottosegretario aggiunto alla Difesa ed esperto della Cina, questa si trova a metà della sua “maratona del secolo per rimpiazzare gli Usa come superpotenza mondiale” e questa strategia è stata definita dal Partito Comunista cinese dal 1972, all’indomani della riapertura delle relazioni con gli Stati Uniti grazie a Nixon e Kissinger, con lo scopo di cancellare le umiliazioni del passato e organizzare un nuovo ordine che rimetta in causa l’ordine finanziario di Bretton Woods.

Si assegni pure alla paranoia americana (di questi tempi acutissima) il sospetto di un così lungo progetto cinese. Certo è che la paranoia appare giustificata, se si considera che gli Usa hanno accumulato oggi 20 mila miliardi di dollari di debito, del quale Pechino detiene un terzo.
Il grande controllo cinese sulla heartland

I dollari post-1971, non più convertibili in oro, hanno reso comodo per gli americani di procurarsi beni fabbricati all’estero, pagando coi dollari stampati senza limiti. Una comodità che hanno pagato con l’aver consentito a paesi esteri di costruire le proprie industrie nazionali esportatrici: ovviamente la Cina è stata la massima beneficiaria, ma non senza l’aiuto (stolto? Volontario?) delle centrali finanziarie americane che hanno aperto alla Cina il mercato mondiale, lasciandola entrare nella globalizzazione senza esigere da essa la condizione imposta a tutti gli altri: che lasciasse fluttuare liberamente la sua moneta secondo la domanda dei mercati. I cinesi sono dunque da anni nella competizione con la moneta svalutata e controllata dal Partito-stato, un trucco sleale, di cui solo oggi un presidente di nome Trump ha chiamato il bluff.

Dominio dello “Heartland” – e del “Rimland”.

Forse troppo tardi. Il deficit degli Usa verso la Cina ammonta ormai a un miliardo di dollari al giorno. E mentre Obama badava ad antagonizzare Putin (e noi europei con lui), la Cina ha silenziosamente realizzato una gigantesca rete di infrastrutture eurasiatiche.

Dodicimila chilometri di ferrovie ad alta velocità, e altri 50 mila progettati.

Oleodotti e gasdotti come “Forza di Siberia”, 4 mila chilometri dai giacimenti della Jacuzia nell’estremo nord-est cinese.

Il gigantesco progetto di trasporti stradali-ferroviari e marittimi integrati, denominato One Belt One Road, lanciato nel 2013 da Xi Jinping per unire l’Eurasia e raggiungere l’Europa, ma anche l’India e il Medio Oriente evitando lo stretto di Malacca (passaggio obbligato ma controllato dal “nemico”) con un raddoppio di vie terrestri. Basta elencare i 7 assi ufficialmente resi noti da Pechino per avere un’idea:
The Twenty-First-Century Maritime Silk Road (MSR)
The China-Mongolia-Russia Economic Corridor (CMREC)
The China-Pakistan Economic Corridor (CPEC)
The Bangladesh-China-India-Myanmar Economic Corridor (BCIMEC)
The China-Indochina Peninsula Economic Corridor (CICPEC)
The China-Central and West Asia Economic Corridor (CCWAEC)
The New Eurasian Land Bridge (NELB)


Il colossale programma di infrastrutture, di dimensione continentale – che mira a racchiudere il continente più vasto, l’Asia, la heartland che turbò i sonni del geopolitico McKinder (“chi controlla lo heartland controlla il mondo”) ha a disposizione strumenti finanziari adeguati, forniti essenzialmente dalla Cina:
La Asian Infrastructure Invesment Bank (AIIB), capitale iniziale 100 miliardi di dollari, che è praticamente il rivale di Fondo Monetario e Banca Mondiale, organi strategici del potere mondiale anglo-americano. Vi partecipano, nonostante le minacce di Washington per dissuadere, 57 paesi, fra cui molti europei; ci siamo anche noi; Londra è stata fra le prime ad aderire, per avervi lo stato di “socio fondatore”. Il solo ad aver obbedito alle ingiunzioni americane è stato, in Asia il Giappone: per sua disgrazia.


Il Silk Road Fund, fondo di Stato del governo cinese, dotato di 40 miliardi di dollari, per intervenire in appoggio della AIIB.

Quanto alle istituzioni, è il caso di ricordare che la Cina è parte (la più grossa) della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, una alleanza fondamentalmente militare, di autodifesa, che inizialmente comprendeva, oltre Russia e Cina, anche Kazakstan, Kirghizistan, Tagikistan; ma dal 2001 comprende anche India e Pakistan – e presto si prevede l’ammissione dell’Iran, oggi membro osservatore.

Bruxelles ha gettato Putin nelle loro braccia

E’ una piccola cosa: che comprende quattro potenze nucleari, fra cui la seconda al mondo (la Russia); il 43% della popolazione mondiale, e oltre il 60 per cento del territorio del continente eurasiatico. L’ostilità europea, con le sanzioni e il resto, ha gettato la Russia nelle braccia di questo blocco, costringendo Putin ad approfondire e rendere permanenti i rapporti “di buon vicinato e cooperazione amichevole” con Pechino.

Dimentichiamo qualcosa? Ah sì, ecco: i BRICS – Brasile, Russia, India, Sudafrica. Oggi somigliano sempre più ad una Shanghai Cooperation Organization che unisce un paese africano essenziale per posizione geopolitica, e il più grande paese sudamericano – uno e l’altro situati in quello che i geopolitici britannici chiamano il “rimland”: il contorno dell’heartland, che è necessario che le potenze navali controllino per minacciare chi controlla lo heartland.

Dunque la Cina con la Russia (a questo punto, come partner junior) hanno rafforzato il dominio sullo heartland, e nello stesso tempo hanno sfondato la continuità geo-strategica del rimland. Per esempio, la partecipazione del Brasile al BRIC mette in discussione la dottrina Monroe, l’inviolabilità totale dell’egemonia Usa nel suo emisfero – il che può spiegare certe sovversioni attuate contro quel paese. Per ora hanno avuto successo; ma i BRICS hanno una propria banca di sviluppo, dotata di 100 miliardi di capitale per le infrastrutture – un aspetto che gli Usa hanno troppo trascurato, lasciandosi guidare dal suo capitalismo finanziario, ossia predatorio e di corto respiro.

Ma c’è ancora di più, e lo sottolinea l’analista Jean-Claude Empereur, docente di geopolitica all’università di Nantes: “Il programma di contro-accerchiamento [cinese] non sarebbe completo se non si citasse il Libro Bianco sulla politica spaziale cinese 2017-2022, che propone di fare della Cina una potenza spaziale indipendente. Un grande programma scientifico, militare ed economico: “A lungo termine, lo sfruttamento delle risorse lunari è una delle grandi priorità della Cina. La Luna ha riserve di un gas raro sulla Terra, l’helium-3, che potrebbe essere usato per ottenere energia da fusione” .

Sarà pure fantascienza. Ma confrontatele con la visione della Mutti Merkel da cui ci siamo lasciati guidare noi europei, la piccineria e la stupidità con cui, in nome di non si sa quali principi morali, ci siamo fatta nemica la Russia che stavamo integrando, perché “Putin è un dittatore” – mentre Mutti non ha avuto remore a promettere ad Erdogan l’entrata della Turchia nella UE.

Hanno fatto l’Unione, e poi l’hanno disciolta nella globalizzazione, obbligandoci a competere sui ribassi salariali nel calcolo impossibile di concorrere a forza di austerità con quelli cinesi; e adesso, Trump suona la campana della fine della globalizzazione, odiano Trump invece dei loro errori sesquipedali. Che hanno degradato l’Europa e la condannano alla dismissione storica.

Si poteva, forse si potrebbe ancora, distogliere Putin dall’abbraccio cinese, che certo è imbarazzante e pericoloso, e culturalmente persino innaturale; ma non ci vorrebbero una Mogherini o un Gentiloni, uno Stoltenberg o un Tusk. Invece ecco, partono alla guerra contro “i protezionisti” e i “sovranisti”, e lamentano una possibile riduzione delle vendite della Vespa in Usa, mentre la Cina si propone di diventare una potenza spaziale nei prossimi cinque anni. Che pochezza mentale. Che tristezza.

Interesse Nazionale - Il movimento degli Stati Identitari deve contenere al suo interno un faro, la solidarietà fra di loro

Dazi Trump, Fusaro: ''Europa rimarrà in ginocchio e super colonia Usa''

31 marzo 2017 ore 13:50, intelligo
di Stefano Ursi 

Sta scatenando un acceso dibattito la minaccia del presidente americano Donald Trump di introdurre dei dazi in ingresso sui prodotti importati, fra cui anche quelli italiani. Ovviamente ci si divide fra sostenitori di questa politica perché mette al primo posto l'interesse nazionale americano e dunque da replicare, e fra quelli che invece in questa possibilità vedono un ritorno al protezionismo radicale, che rischia di compromettere le economie di molti Paesi e le prospettive di crescita. In sintesi, lo scontro fra nazionalismi e globalismi. Su questo IntelligoNews ha chiesto l'opinione del filosofio Diego Fusaro, che ha una visione più sfumata: ''E' un cattivo nazionalismo, tutela interesse nazionale ma nuoce a quello degli altri Paesi. La reazione dell'Unione Europea? È colonia americana, ancora una volta sarà in ginocchio''. 



Diego FusaroCome valuta questa idea di Trump? 

''Mi pare stia tutelando il suo interesse nazionale, ma in maniera nazionalistica: cioè da un lato lo tutela ma dall'altra nuoce a quello delle nazioni altrui. E questo è un cattivo nazionalismo, perché il buon uso della nazione prevede la tutela degli interessi del proprio Paese, ma senza offendere quelli altrui''. 

Oggi sui giornali si elencano i possibili prodotti italiani che potrebbero essere interessati dai dazi, dal prosciutto alla cioccolata passando per la Vespa: il Made in Italy ne risentirà? Sarà penalizzato? 

''E' presto per dirlo, potrebbe esserlo. Quel che io posso dire è che io sarò un sostenitore di Trump quando riporterà a casa tutti i soldati americani in giro a far danni per il mondo e quando libererà il nostro territorio nazionale dalle cento basi che indebitamente lo occupano''. 

Gli ultraliberisti oggi replicano sostenendo l'argomentazione secondo la quale senza libero scambio non c'è crescita: ci dobbiamo rassegnare alla dicotomia fra chi tutela l'interesse della sua comunità e chi invece quello globale? 

''Tanto per cominciare è tutto da vedere se la crescita sia qualcosa di positivo, per ora sta giovando ad una parte limitata dell'umanità e non a tutta. Con danni incredibili per l'ambiente, oltretutto. In secondo luogo qui non è questione di nazionalismi contro globalismi, ma di superare questa dicotomia e tutelare l'interesse degli Stati nazionali che si rafforzino in maniera solidale fra loro. Dunque né nazionalismo né mondialismo''. 

L'Unione Europea che farà secondo Lei? Proporrà dei ''contro-dazi'' scendendo così sul territorio di Trump, ma snaturandosi, oppure rimarrà sulle proprie posizioni? 

''Non dimentichiamo che l'Europa è una colonia degli Stati Uniti d'America, con tutte le basi che la occupano, quindi sarà ancora una volta in ginocchio davanti alle scelte di Washington''. 

Come si possono valutare, oggi alla luce di questa situazione, le sanzioni alla Russia? Motivazioni politiche? Economiche? 

''Quello fu l'unico esempio di sanzioni a danno del sanzionante e non del sanzionato, una scelta orrenda fatta ancora una volta per volontà di Washington e contro il nostro interesse nazionale. Molti imprenditori hanno dovuto chiudere in Italia per colpa di quelle sanzioni scriteriate volute dagli Usa''.

Interesse Nazionale - riappropriazione dell'identità storica come Nazione

Fusaro: “Rossobrunismo e Interesse Nazionale: Armi Culturali Contro il Capitalismo mondialista”

30 marzo 2017 

“Rossobrunismo è la sintesi diabolica dei due estremi che hanno versato lacrime e sangue nel Novecento: Comunismo e Fascismo. Per le grammatiche del pensiero unico, sovrastruttura egemonica che giustifica i rapporti di forza del blocco monopolare americanocentrico iperclassista post ’89, Rossobruno è chiunque proponga la possibilità di controllo dell’economia di mercato, oggi assolutizzata, o chiunque solo prospetti la possibilità alternative di “essere”, rispetto al capitalismo.”


Professor Diego Fusaro, lei parla di Rossobrunismo come sintesi del dissenso dal capitalismo e dal mondialismo. Come definirebbe, dunque, il Rossobrunismo?
Rossobrunismo è la classificazione di ogni possibilità di resistere al mondialismo, mentre l’unica resistenza possibile può scaturire solo da una dinamica di deglobalizzazione, difesa nazionale e risovranizzazione dell’economia.
Rossobruno è chiunque che, consapevole che l’antagonismo odierno si basi sulla verticale contrapposizione tra servi e signori e non su vane divisioni orizzontali, oggi rigetti destra e sinistra. Pertanto, viene bollato come gli estremi di esse. Oggi chiunque propugni un’economia di mercato sovrana, viene automaticamente chiamato Rossobruno. La classe dirigente è tale non soltanto in termini economici e sociali, ma anche e soprattutto nella concezione simbolica del linguaggio. Previa una neolingua del modernismo postmoderno, il pensiero unico politicamente corretto, viene demonizzata ogni possibilità del “Pensare altrimenti”, di dissentire dal pensiero unico. Ci convincono così a orientarci come masse che legittimano il loro dominio. Dissentire da ciò è il reato di Rossobrunismo.

Rossobruno è pertanto colui che dissente dall’imposizione mondialista?
E’ colui che critica il capitale, che vuole una riorganizzazione in termini di sovranità si pone in contrasto al capitalismo, e pone le basi per una collaborazione sovranazionale, il che non significa l’appiattimento della globalizzazione, dimentica dell’identità nazionale, quanto piuttosto un rapporto tra nazioni in termini di equilibrio, autodeterminazione e orgoglio identitario.

Perché l’egemonia bancaria tedesca non teme mai di ricadere nell’accusa di “nazismo economico”?
Perché oggi le uniche critiche valenti sono quelle che non hanno a che fare con l’economia di mercato. Critiche indubbiamente giuste, alle quali tuttavia manca quella volta a intaccare l’oppressione dell’economia vigente.

Orgoglio nazionale, senza nazionalismo. E’ possibile? 
occorre distinguere tra nazione e nazionalismo; il nazionalismo è patologia degenerativa dell’idea di nazione, in quanto mirante alla negazione delle altre nazioni stesse. Proponendo la rilettura di Gramsci, occorre ripartire dalla Nazione, in un’idea di quest’ultima rispettosa delle altre, senza sterili contrapposizioni; al contrario, in un’ottica di valorizzazione dell’orgoglio della propria. A questo proposito, come Associazione, abbiamo rilanciato una nuova Rivista online, volta a valorizzare l’identità storica e a costruire il futuro prossimo della Nazione, ripartendo dalla cultura, per combattere il mondialismo. Interesse Nazionale, per l’appunto.

Intervista di Chantal Fantuzzi

Gli ebrei, insediamento su insediamente effettuano il genocidio dei palestinesi

Lo strappo di Israele: sì a una nuova colonia in Cisgiordania. Palestinesi furiosi

Per la prima volta dagli accordi di Oslo del 1993, il governo israeliano ha deciso di consentire la creazione di una nuova colonia in Cisgiordania. L'annuncio di Netanyahu scatena la rabbia dei palestinesi

Raffaello Binelli - Ven, 31/03/2017 - 12:35

Il governo israeliano ha deciso: via libera alla creazione di una nuova colonia in Cisgiordania.


Non accadeva dagli accordi di Oslo del 1993. La mossa sicuramente contribuirà a infiammare i rapporti, già tesissimi, tra palestinesi e israeliani. L’annunciò è arrivato nella tarda serata di ieri: l'esecutivo ha detto sì all’unanimità, dopo una discussione a onor del vero molto lunga avvenuta in seno al Consiglio per gli affari della sicurezza, presieduto dal Benjamin Netanyahu. Ovviamente non si è fatta attende la reazione furiosa dei palestinesi: decisione presa "in plateale disprezzo per i diritti umani dei palestinesi", ha replicato Hanan Ashrawi, politica della minoranza cristiana anglicana. "Israele è più impegnato a blandire la popolazione dei suoi insediamenti illegali che attenersi alle richieste a favore della stabilità e di una pace giusta".

Ma dove sorgerà il nuovo insediamento? Vicino a quello che un tempo era l’avamposto di Amona, sgomberato all’inizio di febbraio per ordine della Corte Suprema israeliana: la zona è nota come la Valle di Shiloh, a nord di Ramallah. Come dicevamo è il primo nuovo insediamento approvato dal governo israeliano dopo quasi 24 anni. Di recente, infatti, la politica delle colonie era stata portata avanti allargando gli insediamenti gli esistenti. Ora però il governo israeliano di Tel Aviv vuole alzare il tiro, forte anche del nuovo forte sostegno americano, dopo l'insediamento di Trump. Anche se, a onor del vero, lo scorso 15 febbraio alla Casa Bianca il presidente Usa aveva chiesto a Netanyahu "moderazione" nelle sviluppo di nuove colonie.

Ma facciamo un passo indietro: perché Amona era stata sgomberata? La decisione della Corte suprema era arrivata, dopo un duro scontro giudiziaria, perché i coloni si erano insediati su terre private palestinesi. Il premier israeliano però sin da subito aveva promesso di trovare una soluzione per i coloni, ma il primo "tentativo" era fallito perché le nuove terre assegnate erano anch’esse di proprietà privata.

Netanyahu però ha voluto mantenere fede all'impegno preso: "Avevo promesso di creare una nuova comunità e abbiamo intenzione di rispettare questo impegno e crearlo oggi", ha detto giovedì sera il premier entrando nella riunione del Consiglio per gli affari della Sicurezza. Autorizzata la vendita di 2mila nuove abitazioni nelle colonie, nell'ambito di un pacchetto di 5.700 approvate due mesi fa in risposta a una condanna del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Israele ha anche dichiarato come "terre statali" circa 90 ettari attorno agli insediamenti di Adei Ad, Guivat Haroe ed Ali, per risolvere non meglio specificate "questioni legali".

La mossa di Israele arriva il giorno dopo il vertice della Lega araba, svoltosi in Giordania, in cui i leader si sono detti pronti a una "riconciliazione storica" con Israele a condizione del ritiro dello Stato ebraico entro i confini del 1967. La dichiarazione finale del summit sottolineava l'impegno a sostenere colloqui di pace israelo-palestinesi se sarà garantita la creazione di uno stato palestinese e a patto che cessino "misure unilaterali da parte di Israele, che compromettano la soluzione dei due stati". E dopo il piano Usa per spostare a Gerusalemme l'ambasciata in Israele, i leader arabi riuniti a Sweimeh, località giordana sul Mar Morto, hanno invitato le diplomazie a non trasferire le ambasciate da Tel Aviv.

L'Euro figlio emancipato del Globalismo Capitalistico è il centro dove la catastrofe si è avviata e diventerà sempre più veloce

TRA SOVRANISMO E GLOBALISMO COME TRA SCILLA E CARIDDI – di Luigi Copertino – seconda parte

Luigi Copertino 31 marzo 2017 

TRA SOVRANISMO E GLOBALISMO COME TRA SCILLA E CARIDDI

seconda ed ultima parte

Se, quindi, quella del sovranismo può essere solo una cauta e pragmatica scelta provvisoria, nelle date circostanze del momento, verso quel modello ideale deve lavorare il cattolico impegnato nella cultura e nella politica?

Questa sarà la questione più importante per il futuro, quando caduto rovinosamente il falso impero della globalizzazione e svelati come improponibili i populismi nella misura in cui si mostreranno neopagani, si porrà il problema di un assetto politico internazionale dei rapporti fra i popoli del mondo che non cada nella negazione delle specificità culturali immanenti, di natura.

In particolare il problema si porrà per l’Europa dato che qualcosa ci dice che la catastrofe della globalizzazione inizierà, forse è già iniziata, proprio dal nostro continente.

L’Europa, intesa come civiltà, è già esistita nei secoli della Cristianità mentre quella che oggi affannosamente cercano di tenere in piedi altro non è che una sua contraffazione con radici massoniche. La storia della Cristianità ha, quindi, già conosciuto il modello di riferimento che stiamo cercando di individuare. Si tratta dell’Imperium cristiano tradizionale. Sia esso quello medioevale o quello ispanico-asburgico, già moderno rispetto a quello medioevale ma alternativo ai nascenti Stati nazionali, oppure ancora quello dell’Austria felix della seconda metà del XIX secolo.

Sia chiaro: nessun romanticismo, perché conosciamo bene tutti i limiti ed i problemi che quei modelli soffrirono e che non riuscirono a superare. Ma, del resto, lo abbiamo detto, sul piano immanente non c’è alcun assoluto.

Tuttavia quei modelli avevano questo di fondamentale: la tensione, tutta verticale e verticalizzante, all’unità universale nella salvaguardia orizzontale delle particolarità sussidiarie locali, senza dimenticare il livello intermedio della nazione benché almeno fino al XVI secolo non sono esistiti Stati nazionali veri e propri. Erano modelli costruiti sull’archetipo ecclesiale del Corpo Mistico di Cristo. Un archetipo che veicola la Trascendenza.

Nei termini della moderna tipologia giuridico-politica, questo modello può definirsi confederalista. La confederazione di Stati si distingue, infatti, dallo Stato federale perché, diversamente da questo, non è essa stessa uno Stato. Gli organismi costituzionali di una confederazione non posseggono una sovranità diretta sui cittadini degli Stati che la compongono. Nella Federazione, inoltre, i singoli Stati federati non hanno soggettività giuridica internazionale, spettante solamente allo Stato federale, mentre gli Stati confederati mantengono la loro soggettività internazionale, cui può aggiungersi quella della confederazione. Quel che, però, manca alla concezione moderna della Confederazione tra Stati è un’Autorità di tipo “imperiale”, quindi indipendente dagli Stati medesimi, che senza trasformare la Confederazione in uno Stato Federale le conferisca una unità al vertice capace di imporsi alla base senza violare i legittimi ambiti di autonomia nazionale e locale.

L’attuale Unione Europea può essere considerata una confederazione abortita perché condizionata dall’egemonia degli Stati più forti a causa della mancanza di una riconosciuta e universalmente garante Autorità Sovrana super partes capace di coordinare pariteticamente le varie componenti. Questo è appunto l’esiziale difetto dell’Unione Europea: l’assenza di un’Autorità “imperiale”. Una assenza che ha lasciato troppo spazio agli Stati più forti che hanno finito per occupare il vuoto politico che ne è conseguito.

Attualmente, infatti, l’organo decisionale che nell’Unione esercita l’effettivo potere è il Consiglio europeo, noto alle cronache come “Eurogruppo”, ossia l’assemblea dei ministri, di volta in volta competenti per le materie all’ordine del giorno, che è un organo intergovernativo con poteri “legislativi”, ossia decisionali, mentre la Commissione ha solo poteri esecutivi. Ma il Consiglio non è presieduto né coordinato da nessuna Autorità Confederale di tipo “imperiale” superiore ad esso, né tale tipo di Autorità potrebbe essere incarnata dalla Commissione sia perché, appunto come dice il nome, si tratta di organo esecutivo sia perché essa è a sua volta espressione degli Stati e non rappresenta una Autorità super partes ed indipendente dalle nazionalità confederate.

A differenza degli Stati Uniti d’America che, dopo un acceso dibattito tra confederalisti capeggiati da Jefferson e federalisti capeggiati da Hamilton, scelsero di diventare uno Stato Federale, quindi uno Stato con propria soggettività internazionale non riconosciuta anche agli Stati federati, l’Europa per la sua storia pluralista non può che essere tutt’al più una Confederazione di Stati sovrani.

La “Monarchia” ispanico-asburgica di Carlo V, ad esempio, erede di una Spagna nata dalla confederazione paritetica tra le due Corone di Castiglia ed Aragona, si configurò come l’unione, nella persona dello stesso sovrano, di tutte le corone dell’Impero, comprese quelle indie delle colonie latino-americane. Ed anche se non sempre era assicurata l’eguaglianza giuridica, nel senso moderno, comunque tale assetto garantiva la conservazione ad ogni componente delle proprie prerogative e dei propri privilegi nazionali, sicché nessuna legge era automaticamente applicata in modo uniforme ed astratto ma ogni territorio godeva di una certa autonomia, anche per le modalità di ricezione delle norme imperiali.

L’Impero austro-ungarico della seconda parte del XIX secolo, d’altro canto, fu un tentativo di confederalizzazione del vecchio Impero austrocentrico. Un tentativo rimasto incompiuto a causa delle resistenze magiare – la componente ungherese, ottenuta la parificazione giuridica a quella tedesca con l’atto di nascita della Duplice Monarchia, si chiuse a riccio di fronte alle analoghe istanze di parificazione delle altre componenti, da quella slava a quella italiana, ben viste invece dall’erede al trono Francesco Ferdinando, assassinato a Sarajevo, e dall’ultimo imperatore, il beato Carlo d’Asburgo – nonché a causa della prima guerra mondiale, senza della quale l’Impero si sarebbe trasformato prima in una Triarchia, con il riconoscimento della parità giuridica agli slavi, e poi, con la parificazione di tutte le altre componenti, in una vera e propria Confederazione. Già, del resto, prefigurata dalla Dieta imperiale, il parlamento, composta più che da partiti da rappresentanze nazionali dei partiti.

L’Austro-Ungheria costituiva un grande mercato comune nonostante la sussistenza della politica daziaria interna che, in assenza a quei tempi di un meccanismo di regolazione normativo dei deficit e dei surplus tra le economie delle varie componenti nazionali dell’Impero, aveva la funzione di parziale compensazione alle asimmetrie degli scambi (3). Nulla però avrebbe impedito lo svilupparsi di maggiori competenze regolatrici ed interventiste in capo all’Autorità confederale ossia al Governo Imperiale man mano che il processo di confederalizzazione fosse andato avanti.

Infatti, il maggior problema cui il Governo Imperiale era costretto a far fronte consisteva, come accennato, nel formarsi di asimmetrie economiche tra le varie regione dell’Impero. Il libero mercato, infatti, porta inevitabilmente a differenziazioni che – nonostante il mito della mano invisibile autoregolatrice – esso non è in grado di riavvicinare o ridurre. Anzi il mercato, per sua natura, divarica ed allontana le posizioni degli attori economici perché, nel libero gioco concorrenziale e nonostante le regole per arbitrare la concorrenza, alla fine ci saranno sempre vinti e vincitori e la partita non si chiuderà mai in pareggio.

Per dirla in termini più attuali, il maggior problema della Duplice Monarchia era l’asimmetria tra le “bilance dei pagamenti” delle economie delle sue componenti nazionali perché, nel libero scambio, si formavano situazioni di deficit per alcune e di surplus per altre, senza che il mercato fosse in grado di riequilibrare automaticamente queste asimmetrie, la quali, in tal modo, alimentavano le spinte nazionaliste e disgregatrici della compagine imperiale.

Si tratta dello stesso problema attuale dell’Unione Europea, alle prese con un vastissimo surplus finanziario e commerciale della Germania e satelliti (Olanda, Austria, Finlandia) ed un altrettanto grande deficit nella bilancia dei pagamenti dei Paesi euro-mediterranei, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, con l’aggiunta dell’Irlanda e della situazione in bilico della Francia.

In una Unione male impostata come l’attuale, pensata in termini tedesco-centrici, Paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e la Francia, nell’impossibilità di svalutare la propria moneta, sono costretti a correggere i loro bilanci statali tagliando la spesa pubblica, anche quella buona, ed a praticare politiche salariali deflattive comprimendo i redditi nel tentativo di competere con la Germania la quale – è nota la disciplina nazionale dei tedeschi, compresi i sindacati che hanno accettato nel 2004 le riforme Hartz a danno dei lavoratori – pratica politiche di contrazione della domanda interna in favore della produttività delle esportazioni.

A tali aggressive politiche neo-mercantili la Germania ha piegato, innaturalmente, anche il modello, organicista, cogestionario e partecipativo che caratterizza, non da ora, i rapporti capitale-lavoro in quel Paese (4). Infatti, attualmente, in Germania il contenimento salariale, accettato dal sindacato, viene parzialmente compensato con l’aumento della retribuzione di produttività: aumento consentito dal buon andamento delle esportazioni ottenuto grazie alla moneta unica, ossia al cambio fisso per eccellenza, che impedisce ai concorrenti europei di svalutare la moneta per combattere il dumping salariale tedesco.

In altri termini il “successo” della politica mercantilista tedesca è fondato sull’egemonia germanica a danno degli altri partner europei in uno scenario asimmetrico che è stupido – e stupidi sono i liberisti anche di casa nostra che propongono cose del genere – pensare di correggere costringendo, come si sta facendo, anche i Paesi euro-mediterranei a politiche di precarizzazione del lavoro. Questo perché così facendo, alla lunga, la stessa Germania non avrà più mercati di sbocco a causa della contrazione della domanda nei Paesi del sud Europa, che sono per l’appunto il mercato di destinazione delle merci tedesche. A meno di non continuare a drogare le economie dei Paesi euro-mediterranei mediante il credito facile onde consentire, dal lato della domanda, la liquidità necessaria all’acquisto dei prodotti tedeschi. Esattamente quel che hanno fatto per quindici anni le banche tedesche, salvo poi, sopraggiunta la crisi e rivelatosi inesigibile il debito privato contratto con i cittadini del sud Europa, farsi salvare con i soldi pubblici di tutti gli europei dal fondo appositamente istituito dall’Unione e fintamente denominato “salva Stati”. Insomma, la politica neo-mercantilista tedesca può funzionare solo in una situazione di asimmetria, come quella consentita da una moneta unica senza compensazioni nei flussi finanziari e commerciali secondo la logica liberista del mercato libero.

Mediante l’introduzione della moneta unica in assenza di meccanismi di compensazione tra le bilance dei pagamenti, la Germania ed i suoi satelliti hanno accumulato un surplus finanziario e commerciale, delle partite correnti, a tutto discapito dei partner europei, innescando per reazione le insorgenze populiste e nazionaliste che, quindi, nascono, come detto, da esigenze difensive, e non aggressive. La vera ed effettiva aggressione è, casomai, quella dei Paesi nord-europei ai danni di quelli sud-europei. Nello scenario vigente i populismi hanno ampie ragioni, nazionali e sociali.

Lo squilibrio tra export e domanda interna della Germania non è mai stato così ampio come in questi ultimi anni quando, pur nel contesto di una drammatica recessione continentale, il surplus tedesco della bilancia delle partite correnti (ossia l’avanzo negli scambi di beni e servizi, più partite finanziarie) è addirittura cresciuto, caso unico in Europa, da 189 a 214 miliardi di dollari. Questo significa che la Germania consuma e compra dall’estero molto meno di quanto potrebbe in base al suo accumulo di risparmio e molto meno di quanto dovrebbe in un sistema finanziario intra-europeo equilibrato. E non si tratta di una evidenza della sola Germania, perché il surplus delle partite correnti dei paesi di lingua tedesca, più gli scandinavi e l’Olanda, ha oggi raggiunto la colossale cifra di 500 miliardi di dollari l’anno.

In una Unione degna di tal nome, dove la Confederazione di Stati godesse di una forte Autorità Politica “imperiale” ossia sovranazionale (ma non trans-nazionale o accentratrice come nello Stato federale) capace di imporre anche ai Paesi forti regole eque del gioco, gli Stati con un notevole surplus commerciale e finanziario come la Germania – cioè quelli che esportano molto più di quanto importano – sarebbero costretti a praticare politiche finalizzate alla riduzione di questo squilibrio. L’Autorità politica confederale costringerebbe detti Paesi, facendo anche leva sul fatto che essi hanno i conti in ordine e il debito pubblico sotto controllo, ad aumentare la domanda interna onde aiutare così i “periferici” a esportare di più. Anche l’attuale politica monetaria espansiva della Bce ne sarebbe avvantaggiata nell’intento di mantenere un buon e salutare tasso di inflazione (5).

Soluzioni di tal genere, doverose in una autentica Confederazione, necessitano di una Autorità politica attiva non solo nella regolazione ma anche nell’intervento sul e nel mercato.

Questo modello economico di tipo confederale fu, a suo tempo, proposto da John Maynard Keynes durante la conferenza di Bretton Woods, nel 1944, dalla quale uscì l’ordine politico e monetario che regolò l’economia occidentale per i vent’anni successivi al secondo conflitto mondiale, benché realizzato nella forma imposta dagli Stati Uniti ossia con il dollaro quale moneta internazionale di riserva. Keynes aveva proposto, invece, una moneta internazionale di conto, il “bancor”, cui ancorare le monete nazionali secondo un cambio semi-flessibile, ossia all’interno di una fascia di oscillazione, in modo da consentire le necessarie compensazioni, commerciali e finanziarie, tra le bilance dei pagamenti degli Stati aderenti e quindi rettificare non solo le situazioni di deficit ma anche quelle di surplus, senza perciò “punizioni” unilaterali verso i soli Stati deficitari praticate mediante assurde austerità come quelle attualmente imposte nell’eurozona dalla Germania ai Paesi euro-mediterranei.

La soluzione keynesiana applicata all’Unione europea di oggi significherebbe, come proposto tra gli altri da Jean Paul Fitoussi, trasformare l’euro in una moneta di conto, per le compensazioni tra bilance dei pagamenti, alla quale legare, secondo un cambio semi-flessibile non troppo rigido e che quindi lasci ampi margini di manovra ai bilanci nazionali, le monete nazionali (euro-lira, euro-peseta, euro-marco, euro-franco, etc.) e conferire ad un’Autorità confederale il potere di attivare meccanismi di riequilibrio mediante sanzioni anche verso i Paesi in surplus, costringendoli a politiche di aumento della domanda interna attraverso l’innalzamento del livello salariale e l’uso della spesa pubblica di investimento.

Una soluzione del genere, viste le passate esperienze come quella del 1992, dovrebbe essere attuata, onde bloccare tentativi speculativi, mediante il conferimento all’Autorità confederale, mediante la Bce, di abbia ampi poteri di coordinamento delle Banche centrali nazionali in modo che, a fronte di eventuali operazioni di speculazioni a danno di una delle monete della Confederazione, siano immediatamente attivate politiche monetarie atte a sostenere la moneta nazionale sotto attacco.

Così si impedirebbe la ripetizione di quanto accadde, vigente lo Sme (Sistema Monetario Europeo), nel 1992 quando il fondo speculativo di George Soros pose sotto attacco lira e sterlina, costringendolo entrambe ad uscire dagli accordi.

Nell’estate del 1992, infatti, Soros iniziò una massiccia operazione di vendita di lire sul mercato monetario allo scopo di svalutarne il cambio per renderlo insostenibile all’interno della fascia di flessibilità prevista dallo Sme. Lo speculatore anglo-ungherese offriva in abbondanza lire contro marchi tedeschi. La Banca d’Italia, nel tentativo di sostenere il valore della lira e quindi di impedirne l’uscita dallo Sme, mise fondo a tutte le riserve di marchi in suo possesso ma, dal momento che non era essa ad emettere marchi ma la Bundesbank, arrivò quasi immediatamente il momento nel quale Bankitalia esaurì le proprie riserve in marchi perdendo la battaglia contro la speculazione. Quella di Soros, l’allievo principale di Karl Popper e fautore della “open society” più anticristica immaginabile, fu – bisogna riconoscerlo – una operazione magistrale ma, viste le sue radici culturali, senza dubbio alcuno malignamente luciferina.

La Bundesbank, nonostante i legami che univano le monete europee nello Sme, si guardò bene dall’emettere marchi a sostegno della lira sotto attacco. Del resto, nessuna norma la obbliga in tal senso. Inoltre la cultura finanziaria egemone nella Bundesbank ha quale ossessione, per via dell’esperienza tedesca del 1920, esclusivamente il pericolo dell’inflazione, direttamente attribuito, secondo una concezione basata sulla erronea ed arcaica teoria quantitativa della moneta, all’eccesso di emissione di moneta legale. Se ci fosse stata un’Autorità confederale con ampi poteri di coordinazione delle Banche centrali nazionali, la Bundesbank sarebbe stata costretta ad emettere marchi per sostenere la lira in modo da sconfiggere la speculazione. Per quanto i fondi speculativi, come quello di Soros, dispongano di ingenti masse di liquidità non potranno mai avere la potenza di fuoco di una Banca centrale che può stampare tutta la moneta occorrente e, quindi, non potrebbero mai vincere la partita se il gioco speculativo sui differenziali di cambio fosse bloccato da politiche di reciproco aiuto coordinate tra le Banche centrali.

Flavio Felice, docente di storia delle dottrine economiche, di indirizzo ordoliberale, ritiene che soluzioni come quella di Bretton Woods abbiano la pretesa autoritaria di imporre il bene attraverso l’azione politica svelando, così, di essere espressione della tentazione atavica del serpente biblico (6).

Affascinato dall’esoterica “mano invisibile” – il nostro dovrebbe approfondire un po’ di più le connessioni esistenti tra l’esoterismo panteista di matrice massonica e la filosofia umanitaria di Adam Smith – Flavio Felice dimentica proprio un punto forte della sua cultura ordoliberale ossia il ruolo che, a differenza del liberalismo tout court, essa assegna allo Stato. Un ruolo variamente disegnato dai rappresentanti della scuola di Friburgo, con accenti più o meno marcati, da quelli molto tenui di un Walter Eucken a quelli molto più “interventisti” di un Alfred Müller-Armack. Non a caso gli ordoliberali presentano se stessi come “interventisti liberali”. Dimentica, inoltre, il Felice che lo stesso Keynes era un liberale, il cui fine dichiarato era quello di conservare il sistema di mercato a fronte dell’ipotesi totalitaria che lo contestava. Solo che a differenza degli ordoliberali, i quali, sbilanciati, troppo guardano le cose solo o prevalentemente dal lato dell’offerta, ossia del capitale, l’economista inglese pone al centro l’inevitabile prioritario ruolo che in una economia di mercato assume la domanda, ossia il lavoro.

Forse Keynes potrà essersi sbilanciato, a sua volta, troppo dal lato della domanda, perché è giusto tener conto anche del punto di vista dell’offerta, ma la priorità della domanda sull’offerta è un dato ineludibile, sperimentalmente comprovato dalla storia, non avendo, al contrario, trovato alcun riscontro scientifico la Legge del Say. L’offerta non è autonomamente capace di creare la domanda per il semplice fatto che il profitto tende inevitabilmente a comprimere i costi, ad iniziare da quello del lavoro, e quindi a ridurre il reddito, il potere d’acquisto, dei consumatori che sono gli stessi lavoratori. Alla lunga il risultato è la deflazione, a meno che non intervengano opportuni correttivi della “mano visibile”, pubblica e sindacale, a colmare le inefficienze naturali della “mano invisibile”.

La Dottrina Sociale Cattolica auspica l’equilibrio della prospettiva sociale alla luce dell’equilibrio antropologico della natura umana, creata nell’Amore di Dio, né buona né cattiva, o meglio ferita, ma non corrotta, dal peccato originale. Non si può, quindi, prescindere, anche nelle scienze sociali ed economiche, dalla quella ferita, che ha parzialmente offuscato l’ontologica originaria bontà della natura umana, ora redenta dal Sacrificio della Croce. Questo significa che, essendo la Comunità politica non frutto del peccato, come pensano i protestanti, ma di natura, come pensano i cattolici, anche l’Autorità politica, in origine buona, è ora, a causa della ferita del peccato, imperfetta e tuttavia ad essa deve essere riconosciuto, proprio all’interno dell’Ordine di natura riflesso di quello Trascendente, un suo ruolo, in confini delimitati, ma cogente ed irrinunciabile. In questo ruolo c’è innanzitutto il dovere di comporre nell’equità distanze e conflitti tra le membra del corpo politico, secondo quanto da sempre sostenuto dal pensiero politico tradizionale, ebraico, ellenista e cristiano.

Adam Smith, lungi dal ritenere centrale il problema delle conseguenze anintenzionali delle azioni umane, ha invece elaborato l’idea della “mano invisibile” influenzato dalla concezione non cristiana, non cattolica, della circolarità immanentista, olista, panteista, “magica”, che le Logge, proprio in Inghilterra a partire dal 1717, coltivavano, per eredità rosacruciana, nell’avversione all’Autorità Teologica della Chiesa Cattolica ed a quella Politica. L’a-statualismo smithiano fa il paio con l’anti-statualismo marxista, nell’immaginare una società auto-gestita, poco importa se dalla mano invisibile del mercato o dalla spontanea contribuzione-redistribuzione del socialismo compiuto che, nell’utopia marxiana, non abbisogna, se non provvisoriamente, dello Stato.

Pensare, come fa il Felice, che, per riequilibrare posizioni di anacronistico dominio (prendiamo atto con soddisfazione che, perlomeno, il nostro riconosce implicitamente che quello della Germania ordoliberale è attualmente un dominio), sia sufficiente istituzionalizzare la poliarchia, senza una efficace anche se ben ponderata presenza della mano visibile dell’Autorità politica, è quanto meno ingenuo.

Infatti se è vero che il problema sociale ed economico, in quanto problema antropologico, è indubbiamente in primo luogo problema etico, ossia di dis-eticità, è altrettanto vero che, senza alcun cedimento alla tentazione dello Stato etico fagocitatore dei corpi intermedi nel tentativo di imporre forzatamente il bene, compito dello Stato, anche di quello liberale, è realizzare, mediante mirati interventi della mano pubblica e non solo mediante la moral suasion, le condizioni affinché il bene comune sia operativo ossia concretamente reso possibile dall’azione dei gruppi sociali concertata e coordinata, autoritativamente, dall’Autorità politica. Ruolo principale dello Stato è coordinare verso scenari di equità, e quindi di eticità secondo natura, le membra del corpo sociale.

Deplorando, quale effetto dello spirito individualistico nella vita sociale, l’abbassamento della dignità dell’Autorità politica a strumento di passioni ed ambizioni impolitiche, ossia economiche, Pio XI, nella già citata “Quadragesimo Anno” (paragrafo n. 109), ricorda che, in un retto ordine politico e giuridico, lo Stato deve «… assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento al solo bene comune e alla giustizia».

Pensare, quindi, che tutto possa essere lasciato alla sola buona volontà dei singoli operatori o dei gruppi sociali, che non sempre sussiste prevalendo piuttosto frequentemente l’egoismo individuale o di gruppo, oppure che tutto sia risolto dal laissez faire, è non solo ingenuo ma irrealistico e perfino deficitario rispetto agli insegnamenti di quel ramo della teologia morale che è la Dottrina Sociale Cattolica. Certamente, promuovere il bene comune, non significa che lo Stato deve assorbire i corpi intermedi o sostituirsi ad essi, laddove non necessario o opportuno, ma è indubbio che senza l’Autorità politica non esiste neanche la possibilità del bene comune mancando chi porta a tendenzialmente pacifico incontro aspettative, diritti, interessi e doveri delle diverse membra della Comunità politica.

Un assetto organicista nel quale all’Autorità politica sia riconosciuto il suo giusto ruolo, e la cui presenza, dunque, non sia né deficitaria né eccessiva, non è del tutto ignoto neanche all’ordoliberalismo.

Secondo la lettura dominante della “economia sociale di mercato” oggi prevalente, quella che ispira la politica tedesca e che è stata imposta all’Unione Europea dalla Germania, soluzioni tipo Bretton Woods, per un riequilibrio tra le partite correnti delle bilance dei pagamenti dei Paesi dell’eurozona, sono assolutamente da evitare perché troppo politiche, troppo “stataliste”. Eppure quel tipo di soluzioni non erano, un tempo, affatto escluse proprio dalla migliore intelligenza ordoliberale tedesca.

La Germania della Merkel si oppone all’attuazione di misure intra-europee “compensative” perché esse, facendo leva su politiche espansive, nonché sul ricalibramento dell’equilibrio tra export e import, andrebbero contro i princìpi di stabilità fiscale e monetaria, che sono i soli attualmente accettati della “Soziale Marktwirtschaft”. Qualsiasi misura compensativa di riequilibrio del mercato – secondo la Bundesbank – sarebbe, da parte della Germania, un segnale sbagliato ai Paesi sulla via del risanamento. Come si vede, la Germania si erge, all’interno dell’Unione Europea, a prima della classe, anzi a maestrina con la bacchetta in mano, incentivando con questa politica miope populismi e nazionalismi. E’ essa, con il suo nazionalismo mercantilista, la miglior alleata dei populisti.

In realtà, come si è accennato, una diversa interpretazione dell’economia sociale di mercato, meno succube dei dogmi liberisti rispetto ad altre sue esegesi, consente di contestare la Germania proprio sullo stesso suo terreno dottrinario.

Stiamo parlando della “Soziale Marktwirtschaft” secondo le linee ideali, più interventiste, tracciate da Alfred Müller-Armack, al quale si deve l’uso stesso dell’espressione “economia sociale di mercato”. Müller-Armack fu braccio destro di Erhard ai tempi del “miracolo economico” tedesco del secondo dopoguerra e tra gli ordoliberali è il più “statualista”, quello che più degli altri ha marcato la necessaria presenza dello Stato benché, in ossequio agli indirizzi della sua scuola, indicava questa presenza secondo una linea di “intervento conforme al mercato”. Rispetto agli altri ordoliberali, nel pensiero di Alfred Müller-Armack il “sociale” conserva una certa, benché relativa, trascendenza e non si identifica del tutto con il “mercato”.

Sebbene questo si possa dire per Müller-Armack solo in modo molto tenue, perché egli rimane pur sempre un ordoliberale, tuttavia nel suo pensiero, che subì evidenti modifiche proprio a seguito delle concrete esperienze di governo attraverso le quali i nodi della realtà vennero al pettine della teoria costringendola ad un chiaro adattamento pratico e quindi storico, la relativa trascendenza del “sociale” sul “mercato” invoca necessariamente una maggior presenza dello Stato che, pur non esulando del tutto dal ruolo principale che l’indirizzo teoretico ordoliberale ad esso assegna ossia di essere “cornice istituzionale della concorrenza”, è chiamato ad intervenire benché – sempre in ossequio agli astratti principi dottrinari di riferimento – in modo “conforme al mercato”.

Per questo, in pratica, le politiche messe in atto sotto la gestione di Müller-Armack si dimostrarono più statualmente incisive – si pensi solo alla rete di protezione sociale dalla disoccupazione che fu impiantata sotto sua indicazione e che tuttora è efficacemente operativa in Germania – di quanto la dottrina ordoliberale originaria auspicasse. Sicché si ha l’impressione che la specificazione “conforme al mercato” sia, in Müller-Armack, una sorta di tributo ideologico a nascondimento dell’implicito riconoscimento – certo sempre molto pudico anche nella sua visione – che lo Stato non è solo il “garante della concorrenza e della stabilità del bilancio pubblico”.

Inviso a Friedrich von Hayek, proprio a causa di questo suo “statualismo” ritenuto, dal dottrinario viennese, eccessivo, Müller-Armack ha per l’appunto: «… crea(to) – scrive lo storico dell’economia Giulio Sapelli – un sistema di sicurezza sociale che affianc(a) … la competizione di mercato. L’effetto controintuitivo dell’ordoliberismo fu quindi, nel secondo dopoguerra di una Germania che si ricostruiva trionfalmente con il denaro americano e la disciplina eroica del suo popolo, l’enfatizzazione del principio di sussidiarietà, desunto dalla Dottrina Sociale Cattolica. Un’etica più che un ordine, quindi, che doveva coordinare le iniziative non solo degli individui e dello Stato, ma anche dei gruppi comunitari. Non è un caso che i fanatici alla Hayek levarono alte grida contro il corrompimento dell’ordoliberismo, sconfessandone la versione economica e sociologica (ossia quella di Müller-Armack, nda)» (7).

A conforto dei rilievi del Sapelli, va ricordato che è stato proprio Müller-Armack a porre, tra i primi, il problema delle politiche compensative all’interno di una auspicata Unione Europea.

«Già nel 1960 – egli scriveva nel 1978, nel saggio “I cinque grandi temi della futura politica economica”, riedito recentemente proprio da Flavio Felice – ho proposto per l’Ocse, e negli anni successivi anche per la Comunità europea, un coordinamento delle politiche congiunturali attraverso la creazione di un sistema di regole secondo cui costruire la politica congiunturale dei vari paesi, nonché attraverso la costituzione di un Consiglio per la congiuntura dotato anche di mezzi finanziari».

L’economista tedesco riconosceva, dunque, quale misura politica coerente con la sua interpretazione interventista della “Soziale Marktwirtschaft”, che in una situazione di mercato comune, ed a maggior ragione in una Unione tendente alla Confederazione di Stati, è assolutamente necessario un meccanismo di compensazione, un coordinamento, delle bilance dei pagamenti, onde regolare ed equilibrare la posizione di deficit e di surplus verso un bilanciamento equitativo.

Müller-Armack, come è evidente, si limitava a parlare di coordinamento delle politiche congiunturali, senza accennare al ruolo di una ipotetica Autorità confederale non limitato alla sola costituzione di un sistema di regole. Ma è altrettanto evidente che qualsiasi sistema di regole ha necessità anche di sanzioni e quindi di un’Autorità politica interventista che induca – preferibilmente con le buone, altrimenti con le cattive – sia gli Stati in deficit sia gli Stati in surplus (e non solo, come attualmente, quelli in deficit, con il risultato di massacri nazionali e sociali quali il caso greco, con l’effetto di creare odi tra nazioni!) alle necessarie politiche di correzione dei rispettivi squilibri.

Non ci si può, infatti, aspettare dal libero gioco di mercato – nonostante la sua istituzionalizzazione in una eventuale “Costituzione europea” – il riequilibrio spontaneo di deficit e di surplus, che al contrario lasciati a sé tendono a cristallizzarsi e ad aumentare. Nessuno, in altri termini, potrebbe aspettarsi oggi che, mentre essa usa le leve del potere eurocratico essendo l’economia più forte e quindi potendo, per mancanza di un’Autorità Politica Confederale, imporsi sugli altri, la Germania si decida autonomamente e spontaneamente, in “spirito di solidarietà”, a cambiare politica economica per favorire i suoi partner/concorrenti europei.

Müller-Armack, infatti, si limitò a proporre un mero coordinamento volontario all’interno di un’unione monetaria. Come egli stesso ricorda: «Io ho allora proposto, per le singole situazioni tipiche delle politiche congiunturali, in riferimento alla politica monetaria, alla situazione del momento della bilancia dei pagamenti e al diverso grado di occupazione, un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli paesi (…) (sicché gli Stati in surplus) Amplino il loro import, se in posizione di eccedenza, e all’interno perseguano una politica espansiva per offrire così agli altri paesi, spinti alla contrazione dell’economia, un aiuto di mercato».

Tra gli estensori materiali del Trattato di Roma del 1957, che è alla base dell’UE, Alfred Müller-Armack, contrariamente a quel che oggi fa la sua Patria, guardava al necessario “coordinamento delle politiche congiunturali” che passa attraverso il riconoscimento di “un ruolo diversamente posizionato da parte dei singoli paesi”, perché non tutti in Europa siamo nella stessa identica situazione e non tutti possiamo applicare le stesse identiche politiche economiche.

Sembra che ora, dopo anni di assurda politica di austerità perseguita dalla Germania mediante la Troika e dopo la distruzione dell’economia dei Paesi euro-mediterranei, in primis quella della povera Grecia, madre storica dell’Europa, si sia iniziato a comprendere questa lapalissiana verità. L’Europa a più velocità della quale si sta iniziando a parlare – ma di cui finora non si è vista alcuna concretizzazione nonostante i rituali e le dichiarazioni di principio come quelle romane durante le recenti, fastidiose e retoriche celebrazioni del 60° anniversario dei Trattati del 1957, mentre invece continuano ad essere inesorabilmente applicate le ricette teutoniche di austerità, favorendo i populismi – potrà essere, forse, l’inizio del riassetto economico “confederale” dell’Unione Europea, anche se ciò non basterà senza una indipendente Autorità “imperiale” sovranazionale che si ponga a garanzia di tutti e di ciascuno all’interno dell’Unione.

Pur scrivendo nel 1978, ossia quando il Trattato di Maastricht e l’effettiva unione monetaria neanche erano in elaborazione e quando il Muro di Berlino non era ancora caduto, Müller-Armack aveva già capito, all’epoca, che una eventuale futura Unione non avrebbe impedito a priori la formazione di livelli differenti nei ritmi di crescita e raccomandava, nel caso di una futura unione monetaria che avrebbe reso impossibile la svalutare competitiva della moneta, quale unica strada possibile quella di una maggiore, ma reciprocamente leale, cooperazione. Tuttavia questo richiede, che piaccia o meno agli ordoliberali in genere ed alla Merkel o a Schaūble, la forte presenza di un’Autorità Politica “imperiale”, ossia indipendente dagli Stati confederati, con ampi poteri di intervento economico con il compito di coordinare le politiche nazionali al fine di riequilibrare le asimmetrie che il mercato, per sua natura, non è capace di superare.

La lettura nazionalista, che ha imposto la Germania, dell’economia sociale di mercato è la causa prima del disfacimento in atto dell’Unione Europea. I populismi sono solo una legittima, ed anche giusta nelle date condizioni attuali, reazione al nazionalismo mercantilista tedesco e in genere nord-europeo.

La soluzione all’attuale impasse europeo non è uno Stato Federale ma una Unione Europea, sul modello della Confederazione di Stati – un po’, se si vuole, la gollista “Europa delle Patrie” –, che rispetti le differenze nazionali ma che abbia ampi poteri di effettivo coordinamento riequilibratore delle politiche economiche degli Stati, costringendo agli aggiustamenti anche e soprattutto le posizioni di surplus, nella debita considerazione degli inevitabili differenziali fra le economie dei Paesi confederati e con il compito di riavvicinare solidaristicamente le posizioni forti alle deboli, anche a costo di imporre rinunce all’egemonia, in primo luogo, ai forti e non solo sacrifici ai deboli.

La Germania deve decidere se vuole restare la sola “economia sociale di mercato” tra le macerie del resto d’Europa, assistendo allo sfaldamento progressivo dell’Unione Europea, oppure se accettare, subordinandosi, in posizione paritetica con gli altri Paesi, ad un’Autorità Confederale, il riequilibrio delle asimmetrie europee attuali. Una terza via non c’è.

Luigi Copertino

FINE

venerdì 31 marzo 2017

30 marzo 2017 - Diego Fusaro: Globalizzazione come glebalizzazione: le nuove plebi

Il corrotto Pd, il nulla che si conta a cui Noi Italiani daremo un'altra sberla alle prossime amministrative

POLITICA
SCENARIO/ Renzi sempre più ostaggio di Giavazzi e "Bandiera rossa"

Gianluigi Da Rold
giovedì 30 marzo 2017

Lentamente il congresso del Partito democratico sta addirittura scivolando in secondo piano nella cronaca politica e si aspetta solo un conteggio dei voti delle cosiddette primarie che sembra scontato, con la riconferma di Matteo Renzi alla segreteria. 

Ma se si cerca solo di paragonare i toni di qualche settimana fa, che promettevano un grande dibattito interno, dopo la scissione, con la ricerca dei temi da discutere su una sinistra moderna, in un serrato confronto fra i tre candidati, si resta sconfortati. 

Cominciamo da una considerazione. Sul piano delle probabilità di conferma alla segreteria del partito non sembrano esserci dubbi. Matteo Renzi sarà riconfermato. 

Michele Emiliano, il presidente della Puglia, in pole-position per diventare scissionista e poi riconvertito a una battaglia interna, sembra quasi assumere, in qualche occasione, toni folkloristici e viene accreditato di una percentuale molto bassa nei primi congressi dei circoli e di quello che resta della struttura del partito. E' l'autentico outsider di una partita senza storia, un ottimo terzo (su tre concorrenti) che "partecipa", non si sa se con spirito decoubertiniano o per protagonismo narcisistico.

Il terzo candidato, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha tutta l'aria di un "bravo ragazzo" abbastanza spaesato, che è stato quasi catapultato, convinto e sospinto dai non renziani e non scissionisti, a partecipare, a battersi per salvare la faccia di un partito sempre più caratterizzato da una deriva centrista, neppure più di centrosinistra annacquato. L'endorsement dei Cuperlo e dei Letta per il giovane Orlando non sembra avere un peso determinante in questa corsa alla segreteria del partito. Al momento non sposta nulla, assegna solo una percentuale di "buon secondo" in questa corsa nata sul disastro del 4 dicembre 2016, con la sconfitta del referendum costituzionale e la voglia di rivincita rabbiosa di Matteo Renzi.

Conviene soffermarsi per un attimo su questa situazione per vedere quello che può accadere nei prossimi mesi, che avranno comunque una prevalente caratterizzazione di politica internazionale: tra le elezioni francesi, quelle tedesche, i sempre più complicati problemi europei e le acrobazie di Donald Trump, all'interno degli Stati Uniti e sul piano dei nuovi rapporti di forza globali. Tutto questo farà passare inevitabilmente ancora di più in secondo ordine il cosiddetto dibattito nel Pd.

L'impressione, per dirla tutta, è che con il disastro del 4 dicembre si sia conclusa un'altra fase storica italiana e ne sia cominciata una nuova. 

Nel momento in cui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha messo una sbarramento a nuove immediate (o comunque ravvicinate) elezioni il destino di Renzi è stato inevitabilmente segnato. E la cosiddetta rivincita è diventata una sfida impossibile. 

Precipitoso e anche un poco superficiale, Renzi ha dato le dimissioni per rilanciare, ma solo per una questione di immagine, non comprendendo che invece oggi la sinistra, che il Pd dovrebbe rappresentare, anche nella forma "edulcorata" che vuole lui, è ormai identificata con una sostanziale mancanza di politica economica che riesca a far uscire il Paese dalla crisi e con un impianto istituzionale pasticciato e limitato.

Una strategia più accorta e più meditata, meno dettata dalla voglia di vendetta e di superficiale protagonismo, avrebbe potuto spingere Renzi non a ripetere giaculatorie politiche o luoghi comuni stranoti, al Lingotto e in altri posti, ma a porre con forza tre o quattro temi decisivi per una sinistra moderna, sulla base del fallimento generale di questi anni di tutto quello che viene contrabbandato per sinistra nel mondo, in Europa e in Italia.

Il problema non è certamente semplice, nella confusione culturale di questo momento e dove probabilmente anche alcune vecchie ricette possono rivelarsi sbagliate, ma occorre avere il coraggio di ridiscutere tutto ispirandosi ai principi fondatori. 

Adagiarsi, invece, sostanzialmente sulla "linea del delirio" della coppia Alesina&Giavazzi (tanto per citare un esempio), che il liberismo è di sinistra, significa non solo azzerare la storia della sinistra, in quasi tutte le sue sfumature e contraddizioni anche dure, ma suscitare cadute nel folklore parallelo e opposto di chi si mette a cantare "Bandiera rossa". 

La realtà è che oggi bisognerebbe avere il coraggio di scegliere e di rischiare nell'interesse di ceti sociali che si è storicamente rappresentato e di usare nuove parole d'ordine per acquisire nuovi ceti che sono esclusi e mortificati dal grande potere che comanda a livello globale.

Per fare questo ci vuole non solo passione politica, non tanto filosofica o ideologica, ma anche immaginazione e capacità di realizzare un nuovo partito che sia erede della tradizione della sinistra, senza perdite di memoria storica, senza "maxiballe" e con grande realismo. 

Insomma significa fare i conti con la storia, almeno dal dopoguerra a oggi, passando poi dalla lezione del 1989 senza acrobazie della memoria. Ma, ripetiamo, senza balle e ambiguità, perché alla fine gli elettori, anche se appaiono sprovveduti, si accorgono dei raggiri e delle promesse che si perdono nel vento.

Al momento, l'impressione è che tutto questo a Renzi non interessi e non gli interessi nemmeno del partito. Quello che si intravvede è che l'ex presidente del Consiglio, piuttosto, si serva del partito per segnare solo la storia della politica complessiva italiana, seduto sulla poltrona di Palazzo Chigi. Alla fine, questa mancanza di passione politica autentica e di identificazione della politica con la gestione immediata del potere, ha portato Renzi alla clamorosa sconfitta del 4 dicembre e sta segnando il suo destino verso la "rivincita impossibile".

Che cosa ha in mano oggi Renzi? I voti del suo Pd in declino, che perde consensi e non arresta la corsa dei pentastellati, guidati o garantiti da un comico.

E' vero che i sondaggi non ci prendono da qualche anno a questa parte, ma non è impossibile immaginare un Pd che si attesta sul 25 per cento, che perde consenso anche alle prossime amministrative, che lascia sempre più lontani gli elettori dalle urne, che di fronte a un possibile centrodestra ricompattato diventi il "terzi polo" di un sistema ingovernabile.

Alla fine, in un Paese impoverito, che ha rinviato tutti i suoi reali problemi istituzionali (anche il rapporto tra i poteri dello Stato) dal 1992 a oggi e che si è limitato a svendere la sua impresa pubblica per fare cassa, il fenomeno di Rignano, la speranza della Leopolda, rischi diventare, pur essendo riconfermato segretario, il "becchino" della sinistra italiana.