L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 22 aprile 2017

22 aprile 2017 - L'INSURREZIONE DELLA NUOVA UMANITÀ - 24-30 Luglio 2017, Trevi (PG) - Mar...

22 aprile 2017 - Mario Albanesi - Apocalisse ora

Ecuator - la staffettà tra Correa e Moreno riesce. La lotta per ridurre il tasso di povertà può continuare



Moreno vince elezioni in Ecuador, sarà il nuovo Correa?

Claudia Patricolo 18 aprile 2017 

Tempo di elezioni nel Paese; Lenín Moreno è il vincitore delle presidenziali ecuadoriane del 2017 con soli due punti a distanziarlo dall’oppositore Guillermo Lasso

RICONTEGGIO DEI VOTI – I dati ufficiali rilasciati dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) confermano Moreno vincitore di queste elezioni presidenziali con il 51,1% dei voti, mentre Lasso lo segue con il 48,8%. Considerata la vicinanza delle due percentuali, l’opposizione ha richiesto un nuovo conteggio dei voti. Lasso si è rivolto al segretario generale dell’OEA (Organizaciòn de los Estados Americanos), Luis Almagro, il quale si è già congratulato con il nuovo presidente eletto, confermandone quindi la legittimità. Movimento Creo, il partito guidato da Lasso, non ritiene però attendibili le cifre. Rispetto alla partecipazione popolare, non sembrano infatti coincidere. Moreno, dal canto suo, ha già parlato al popolo in veste di nuovo presidente del Paese, confermando di voler proseguire il progetto politico iniziato da Rafael Correa nel 2007.

SOCIALISMO DEL XXI SECOLO – Mentre quasi tutta l’America Latina sta assistendo a un ritorno dei partiti conservatori di centro – destra, l’Ecuador sembra per ora aver scampato questo “pericolo”, come definito dall’ormai ex presidente Correa. Dopo l’impeachment di Dilma Roussef in Brasile e la vittoria dei conservatori in Argentina e in Perù, con la salita al potere rispettivamente di Mauricio Macri e Pedro Pablo Kuczynski, l’Ecuador dimostra di voler continuare con la politica correista, nonostante le recenti proteste contro il governo dell’economista formatosi in Europa.

MORENO, IL NUOVO CORREA? – A Correa dobbiamo riconoscere il merito di aver quasi dimezzato il tasso di povertà nel Paese creando un tenore di vita migliore per i cittadini. Ma adesso la paura maggiore degli ecuadoriani è quella che il Paese possa seguire le orme del Venezuela, dove l’inflazione avanza inesorabile e la crisi economica sta facendo vedere sempre di più i suoi effetti. Proprio il presidente venezuelano Nicolas Maduro è stato il primo a congratularsi con Moreno, inneggiando all’ennesimo trionfo della Revoluciòn Ciudadana.
Nonostante l’opposizione tema che il nuovo Capo di Stato possa essere manovrato da Correa, l’opinione pubblica ecuadoriana è di un parere diverso: Moreno rappresenterà una tappa distinta da quella che è stata la politica correista degli ultimi 10 anni, ma il primo passo da compiere è quello di riconquistare la fiducia della classe media. Il crescente tasso di disoccupazione e l’alto debito pubblico, infatti, hanno fatto perdere le speranze a tutti coloro che avevano votato Correa in prima istanza. Ma Moreno ci sta già lavorando. La sua immagine è già di per sé esplicativa: un Presidente sulla sedia a rotelle che cammina fra i cittadini, ponendosi non solo al loro stesso livello, ma addirittura facendo sentire il popolo più importante. Un’immagine che vale più di mille proclami. Inoltre, come dichiarato dallo stesso Moreno durante la campagna elettorale, un’altra sfida è rappresentata dai media. Correa aveva allontanato e soppresso diverse voci dell’opposizione. Per Moreno, invece, i media sembrano rappresentare un tassello importante della popolazione e si è ripromesso di instaurare migliori rapporti, garantendo una maggiore libertà di espressione.

PROBLEMI ECONOMICI – L’economia dell’Ecuador non è al momento così rosea. Sebbene Correa abbia portato a casa diversi successi, Moreno si trova ora fra le mani un Paese il cui Prodotto Interno Lordo è sceso dell’1,7% nell’ultimo anno e la Banca Mondiale prevede un’ulteriore recessione del 2,9% per il 2017. Il debito pubblico è alle stelle e solo un’impennata dei prezzi del petrolio potrebbe risanare i conti del Paese, cosa che al momento appare poco probabile. I programmi sociali di Correa hanno appesantito le casse dello Stato in maniera significativa e la politica economica non è ancora riuscita a diversificare le entrate.

IN POLITICA ESTERA – E non è solo dell’opposizione che deve tenere in conto il nuovo leader, né dell’economia instabile. Il maggior partner commerciale dell’Ecuador è costituito dagli Stati Uniti, con cui i quali i rapporti sono stati un po’ tesi durante l’amministrazione Correa. Nel 2011 l’ex Presidente aveva espulso l’ambasciatore statunitense e l’anno successivo aveva invece concesso asilo politico nella sua ambasciata di Londra al fondatore di WikiLeaks Julian Assange, schierandosi con la sinistra sudamericana che vede ancora gli Stati Uniti come dei capitalisti oppressori. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, apre poi un ulteriore capitolo di novità su quali potranno essere d’ora in avanti i rapporti fra i due Paesi.

Comune di San Lazzaro - l'Arroganza dei corrotti non finisce mai. Dopo che il Partito dei Giudici archivia con sentenza, i corrotti rilanciano, si sentono intoccabili

POLITICA
Colata di Idice, Sermenghi porta Conti e Pd in tribunale

Il sindaco dem di Castenaso all’attacco dopo l’archiviazione: "Faccio causa alla Conti e al Pd. E voglio anche le scuse di Renzi"

di GILBERTO DONDI
Ultimo aggiornamento: 21 aprile 2017

Il sindaco Isabella Conti (foto Schicchi)


Bologna, 21 aprile 2017 - Il sindaco di Castenaso del Pd Stefano Sermenghi passa al contrattacco e fa causa al primo cittadino dem di San Lazzaro Isabella Conti. La vicenda è quella della ‘Colata’ di Idice, nell’ambito della quale la Conti aveva denunciato pressioni e minacce dopo lo stop al maxi-insediamento edilizio da parte di sindaci, imprenditori e vertici delle cooperative. Fra loro, anche Sermenghi, indagato dalla Procura nell’inchiesta che però nei mesi scorsi è finita, come noto, con un’archiviazione generale, già disposta dal gip. Alla luce dell’archiviazione, Sermenghi ora ha deciso di fare causa alla Conti per chiedere il risarcimento danni fisici e d’immagine subiti.

Ieri ha depositato l’istanza di mediazione civile, primo passo obbligatorio prima di arrivare alla causa vera e propria in tribunale. Non solo, la stessa richiesta è rivolta a un ex assessore della Conti, al Pd di San Lazzaro e a due dirigenti locali del partito, oltre che ai giornali che riportarono le notizie del caso Colata. Oltre ai danni, Sermenghi chiede anche le scuse pubbliche da parte di tutto il Pd e, soprattutto, del suo ex segretario (ed ex premier) Matteo Renzi, che all’epoca si schierò con la Conti. Da sottolineare che in giunta con Sermenghi siede la sorella di Renzi, Benedetta, assessore al Welfare. 

Sindaco Stefano Sermenghi, farà causa a Isabella Conti?

«Sì, domani (oggi per chi legge; ndr) verrà depositata l’istanza di mediazione civile, cioè l’atto che obbligatoriamente precede la causa civile vera e propria. È una richiesta di risarcimento danni che rivolgerò a Isabella Conti, non come sindaco di San Lazzaro ma in proprio, e ad altri soggetti».

Chi?

«L’ex assessore Andrea Monteguti, per aver riferito che io gli dissi di darsi malato e stare casa nella votazione fondamentale per lo stop alla Colata, e il Pd di San Lazzaro per un comunicato in cui si ‘censurava politicamente il comportamento degli indagati’ e si definivano ‘riprovevoli le condotte pressorie emerse’. Un comunicato a firma di Michele Cavallaro e Alessandro Battilana, dirigenti locali del Pd, anche loro destinatari della mia istanza. Per dovere d’ufficio, infine, chiederò i danni anche ai giornali».

Perché ha deciso di fare causa?

«Perché ho subito danni enormi, sia sul lavoro che nel privato. Parlo dei danni patrimoniali, per lesione dell’immagine, anche politica, e perdita di chance, e dei danni fisici e familiari».

Ha già quantificato il danno?

«No, per il momento no».

Cosa le ha dato più fastidio?

«Premesso che la magistratura ha doverosamente indagato e ha dimostrato che era tutta una montatura basata sul nulla, ci sono due piani. Le responsabilità personali, su cui si pronuncerà il tribunale, e quelle politiche, su cui invece serve una riflessione profonda».

In che senso?

«C’è stato un attacco inusitato e ingiustificato al mondo bolognese, perché dire che le coop avevano costruito un sistema simil-mafioso era una falsità. Ci dev’essere finalmente un tribunale che dica che non è così, la questione non deve cadere nel dimenticatoio. Noi siamo stati per due anni in balìa dei giornali, mentre la notizia dell’archiviazione in due giorni è scomparsa. Va data voce a quelli che finora non l’hanno avuta».

Ovvero?

«Tutti i soggetti accusati ingiustamente, a partire dalla cooperative. Le coop hanno ricostruito la nostra regione e il Paese dopo la guerra e che hanno reso il nostro uno dei migliori posti in cui vivere.Ci può essere stato anche qualcosa che non ha funzionato, ma dire che il mondo cooperativo è come la mafia è molto sbagliato».

I magistrati parlano di opacità nei rapporti fra coop e politica.

«Io ho la visione complessiva dei 12 faldoni d’indagine. Questa immagine di opacità e mondo colluso uscita sui giornali non è corretta, perché un sindaco con le realtà economiche si deve confrontare. Il sindaco deve confrontarsi con tutti, poi scegliere per il bene comune. Se un amministratore scambia le telefonate per pressioni non è un problema delle coop».

E il Pd?

«Ha completamente sbagliato approccio. Nella migliore delle ipotesi è stato silente e nella peggiore ha dato solidarietà affrettata (alla Conti; ndr) e quando è scoppiato il bubbone è scomparso. Io pretendo delle scuse».

Da chi?

«Dall’ex premier ed ex segretario del partito Matteo Renzi, per cominciare. Poi da tutto il Pd. Devono scusarsi con la città e con me».

Perché Renzi?

«Si presentò in maniera affrettata a dare solidarietà per pressioni e minacce inesistenti».

E gli altri big del partito?

«L’unico che si è espresso in modo corretto è stato Stefano Bonaccini. Gli altri sono stati poco coraggiosi o incoerenti».

Anche don Luigi Ciotti?

«Sì, a lui ho anche scritto una lettera. Ma non mi ha risposto».

E le scuse della Conti?

«No, con lei non ho proprio nulla di cui parlare. Parleremo in aula».

La Strategia della Paura non ha, almeno per il momento, altri strumenti che la ripetizione meccanica di gesti già vissuti, farà un salto di qualità e come sempre i governati moriranno, i governanti non saranno toccati, sono loro i mandanti

Terrorismo e voto in Francia, Chiesa: "Troppo strano: tutti schedati, identificati, interrogati?"

21 aprile 2017 ore 13:26, Americo Mascarucci

Voto e terrorismo, un binomio esplosivo. La Francia ancora bersaglio del terrorismo, dopo l'attacco di ieri sera agli Champs Elysées (LEGGI) in cui ha perso la vita un poliziotto, ucciso da un terrorista morto nello scontro a fuoco con gli altri agenti. Tutto questo mentre la Francia si appresta ad andare al voto per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.Ora cosa accadrà? Ci saranno ripercussioni sul voto? Giocherà un ruolo decisivo la paura e con essa il sentimento anti-islamico che potrebbe favorire ancora di più il successo dell'estrema destra? E ancora una volta è polemica per il fatto che il terrorista fosse ben noto alle forze dell'ordine. E allora, perché nessuno lo ha fermato?
IntelligoNews lo ha chiesto al giornalista, esperto di scenari geopolitici, Giulietto Chiesa. 


Che idea si è fatto dell'attentato di ieri a Parigi?

"Lo scenario è sempre lo stesso, si tratta di suicidi, veri e propri kamikaze che si fanno uccidere istantaneamente. Negli attentati fin qui avvenuti gli attentatori sono stati sempre uccisi, immediatamente o subito dopo. Kamikaze chiaramente guidati da qualcuno. Lo scopo è sempre lo stesso. Più si comportano così più fanno venire in mente l'esistenza di una centrale del terrore il cui obiettivo principale è quello di destabilizzare l'Europa, la Francia e la Germania in primo luogo che sono i paesi più importanti. Per ora noi siamo rimasti fuori da questa strategia, ma non è detto che continueremo a restarvi anche in futuro. Speriamo. Sono uno o più gruppi che puntano unicamente a terrorizzare, non a far vincere uno o l'altro dei candidati in corsa. Fino a quando non disarmeremo queste centrali saremo sottoposti a questo tipo di attacchi". 

Si discute molto sul fatto che l'attentatore fosse stato già segnalato e attenzionato, però nonostante ciò nessuno lo ha fermato. Esiste un problema legato allo stato di diritto? Non c'è l'esigenza di modificare le norme e magari consentire agli investigatori di poter arrestare un sospettato anche a scopo preventivo?

"Modificare le norme significa soltanto una cosa, ridurre le libertà democratiche ed è ciò che questi signori vorrebbero. Questo mi induce a ritenere che vi siano delle forze politiche occidentali interessate a raggiungere questo scopo. Non credo che i fondamentalisti islamici possano avere interesse a limitare le libertà democratiche nostre e loro. C'è qualcuno in Europa che vorrebbe questo. Magari potrebbe esistere una centrale europea occidentale che lavora contro gli occidentali utilizzando i terroristi islamici come manovalanza. Questa è una mia tesi, confermata dal fatto che tutti questi fondamentalisti che hanno compiuto o partecipato ad attentati, erano noti alle forze dell'ordine. Troppo strano! Tutti erano schedati, identificati, interrogati, magari erano pure diventati confidenti, poi di colpo ecco che si mettono a compiere atti terroristici. Qualcosa non funziona. Non bisogna ridurre la libertà dei cittadini ma fare piazza pulita nelle polizie e nei servizi segreti occidentali.Il marcio sta lì". 

Che effetto avrà sul voto in Francia questo attacco? Ci guadagnerà Marine Le Pen come molti ritengono?

"E' difficile dirlo, è chiaro che la prima impressione è che favorirà l'odio anti-islamico, e quello contro gli immigrati. E' evidente che qualche effetto lo avrà, ma sarà un effetto minore rispetto al fatto che la gente andrà al voto impaurita e fortemente condizionata dalle emozioni. Questo renderà il voto meno libero". 

Il direttore di Intelligonews Fabio Torriero scrive oggi nel suo editoriale che vada come vada, primo e secondo turno, comunque crescerà il consenso anti-Ue. E' così anche per lei?

"Certamente, sarà un voto profondamente anti-UE ma non solo. Sono convinto che crescerà la diffidenza nei confronti della Nato come dimostrano le dichiarazioni di Melenchon che è un candidato importante e ha chiesto l'uscita della Nato. Da destra e da sinistra sta montando un sentimento anti-Nato. L'Europa ne uscirà seriamente indebolita e con essa tutto il sistema delle alleanze finora in piedi".

Mare Nostrum - incapaci, una classe politica italiana da mandare via a calci nel sedere, sono traditori e non difendono gli interessi delle nostre comunità, dello Stato, della Nazione

GENTILONI-TRUMP: IL NULLA, RIVESTITO DI CORTESIA (E L’ITALIA RIMANE ITALIETTA)

(di Giampiero Venturi)
21/04/17 

Il primo incontro bilaterale tra il Presidente del Consiglio italiano e il Presidente Trump finisce zero a zero. C’era da aspettarselo; in fondo quanto detto da Gentiloni a Washington è parte di un discorso buono per ogni tempo e per ogni presidente. Una chiacchierata all’insegna del “poco tengo, poco dongo” che con ogni probabilità entrambi si sarebbero risparmiati. Le dichiarazioni finali di Gentiloni lasciano intendere che l’asse atlantico fra USA ed Europa si sia rafforzato.
Sulla questione il dibattito è aperto. Il raffreddamento dei rapporti con l’Europa e l’abbandono di quella linea atlantica che gli USA hanno calcato dal 1945 in poi, era la spada di Damocle imposta al mondo dalla campagna elettorale di Trump. Le sferzate di zio Donald all’Unione e alla NATO si sono susseguite per un anno, fino a sfociare nel dubbio e nell’ossessione dei circoli più legati ai vecchi equilibri atlantici. In meno di tre mesi il neopresidente ha dovuto rassicurare America e non solo dall’ombra del Russiagate, sostituendo le figure più esposte (Flynn e Bannon su tutti) e facendo pubblicamente marcia indietro rispetto ai nuovi orizzonti che sembrava puntare. In sostanza, in poche settimane, lo staff di Trump ha provveduto a ricollocare il presidente su una posizione “antirussa”, decisamente più corretta politicamente per le lobbies politiche transatlantiche di cui Washington è il perno. Ciò che è vero però, non sempre corrisponde a ciò che si vede.
Che gli USA se la intendano con la Russia più di quanto faccia comodo far credere, è evidente. Basti pensare che la Exxon, tramite il Segretario di Stato Tillerson (suo ex manager) ha chiesto espressamente di poter aggirare le sanzioni a Mosca per stringere con la russa Rosneft. Le dichiarazioni di Gentiloni quindi, sono un ritornello già ascoltato, che lasciano l’Italia nel ruolo di cucciolo dell’Alleanza, sempre pronto a correre e ad adeguarsi. La sensazione è che ancora una volta i giochi importanti si facciamo altrove.
Pur nell’abulia del meeting, ci si aspettava però una qualche rassicurazione sugli scenari che ci sono più cari e che coinvolgono direttamente il nostro quotidiano. Proprio l’affaire Exxon-Rosneft ci catapulta sul quadro libico: Trump, per la gioia del nostro premier, ha detto che gli USA non s’impegneranno direttamente. Come dire: “adesso tocca a voi risolvere il pastrocchio”. Roma, che sulla questione immigrazione tiene molto al rango di più buona del reame, rimane col cerino in mano: le rogne del Mediterraneo e della sponda africana sono roba nostra. L’occasione sarebbe anche ghiotta se non fosse che i vincoli di bilancio menzionati da Gentiloni ci impediranno nei prossimi anni di andare oltre alla presenza simbolica in Africa e al perfezionamento del servizio traghetti a cui è stata obbligata la nostra Marina. Per essere protagonisti nella forma che la delega e il disimpegno trumpiano ci consentono avremmo bisogno di peso e di una continuità geopolitica che con ogni evidenza non abbiamo.
Voci di corridoio parlano del progetto di Trump per organizzare un vertice fra Haftar e Al Serraj, i due protagonisti della crisi libica già intercettati da Mosca. Il disimpegno americano in Libia sarebbe quindi militare ma non politico ed economico. Alla prossima cerimonia della campanella, il mite Gentiloni passerà il testimone, ma la sostanza sarà identica.
Siamo parte di un sistema che non prevede progetti nemmeno di breve durata. Cureremo i nostri interessi ancora una volta sulla scorta di quelli degli altri.

21 aprile 2017 - PAOLO BECCHI SULL' ELEZIONI FRANCESI E MARINE LE PEN

21 aprile 2017 - GIULIETTO CHIESA: COME CI RIPRENDEREMO LA LIBERTÀ DI PAROLA!

PTV news 20 Aprile 2017 - Tillerson: Pyongyang e Teheran sono sullo stes...

21 aprile 2017 - Ptv News Speciale - Dove va la Francia

PTV news 21 Aprile 2017 - Un terrore mirato contro i cittadini europei

20 aprile 2017 - PTV News Speciale - Elezioni in Gran Bretagna: In arrivo "lo schiaffo" d...

Rita Katz - portavoce ufficiale della Strategia della Paura. Non si conosce l'identità dell'aggressore mentre si perquisisce la sua casa

Spari sugli Champs-Élysées. L'Isis rivendica

Colpi d'arma da fuoco nel centro di Parigi. Un agente è morto e due sono stati gravemente feriti, l'assalitore è stato ucciso. Hollande: "La pista più probabile è quella del terrorismo" – 


20 Aprile 2017 alle 21:33

Foto LaPresse

Alle nove di sera di giovedì c'è stata una sparatoria sugli Champs-Élysées a Parigi. Un poliziotto è stato ucciso e due sono rimasti gravemente feriti, ha confermato la polizia. L'assalitore è stato ammazzato, ma secondo le forze dell'ordine potrebbe aver avuto un complice che si è dato alla fuga. Reuters rende noto che il terrorista fosse conosciuto alla polizia. Il presidente François Hollande, al termine della riunione straordinaria all'Eliseo, ha dichiarato che anche un passante è stato ferito, indicando che la pista più probabile sia quella del terrorismo. Poche decine di minuti dopo la fine del discorso pubblico di Hollande lo Stato islamico ha rivendicato l'attentato. "L'attacco è stato compiuto da un combattente dell'Isis, Abu Yusuf al-Beljiki".

Una rivendicazione che, sottolinea Rita Katz di Site, è differente dalla maggior parte delle rivendicazioni lanciate attraverso l'agenzia Amaq. E questo, spiega, mostrerebbe una "familiarità" con l'attentatore e il fatto che, probabilmente, l'attacco era pianificato e atteso. Lo stesso testo è stato lanciato anche in altre lingue tra cui il francese e l'inglese.

Pierre Henry Brandet, portavoce del Ministero dell’Interno, ha chiarito la dinamica di quanto accaduto: un uomo è sceso da un veicolo e ha aperto il fuoco contro gli agenti di una pattuglia in sosta ed è stato ucciso mentre cercava di fuggire. Brandet ha smentito le notizie su altre sparatorie in luoghi diversa della città. Ha inoltre riferito che la polizia sta effettuando accertamenti sull'automobile del killer, nel caso ci fossero cariche esplosive.


Non si conosce ancora l'identità dell'aggressore. La polizia non esclude che sia legato a gruppi estremisti islamici, anche perché la modalità e l’arma usata, un Kalashnikov, fanno ipotizzare anche la matrice del terrorismo. Perquisizioni sono scattate nella sua abitazione a Seine-et-Marne, a est della capitale francese.

Burundi - ogni tipo di libera manifestazione del pensiero è vietata, soprattutto quella in dissenso con il potere



Perché aspettare che in Burundi si consumi un genocidio?

Non c’è pace per il Burundi. Il clima di terrore, voluto dal regime per impedire ogni sorta di dialogo democratico con l’opposizione, ha raggiunto ogni angolo dal Paese. E un’efficace strumento di repressione del regime sono gli Imbonerakure, i membri appartenenti alla lega dei giovani del partito al potere, già passati al rango di milizia armata. Questi giovani invitano allo “stupro” sistematico delle donne “oppositrici”. L’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti dell’uomo ha denunciato la realtà di terrore che si sta registrando nel Paese e, in particolare, gli appelli degli Imbonerakure allo stupro delle donne appartenenti all’opposizione. Situazione che si sta registrando in tutte le province del Paese.

Una campagna di terrore pianificata

Per l’Alto commissariato dell’Onu “questi slogan scioccanti” sono una prova supplementare della “campagna di terrore” pianificata dal regime di Bujumbura. Di recente, inoltre, è stato diffuso un video che mostra centinaia di giovani Imbonerakure, che marciano inquadrati e che cantano in kirundi – la lingua nazionale: “Mettete incinta le oppositrici”. Slogan agghiaccianti. Il partito al potere, il Cndd-Fdd, ha preso le distanze, formalmente, da queste manifestazioni, sottolineando che “questi slogan non corrispondono all’ideologia del partito”, promettendo sanzioni. Una presa di distanza formale visto che in tutto il paese si stanno moltiplicando le manifestazioni senza che il regime intervenga, in un Paese dove ogni tipo di libera manifestazione del pensiero è vietata, soprattutto quella in dissenso con il potere. L’Alto Commissariato per i diritti dell’uomo denuncia con forza queste manifestazioni e invita il governo “burundese a riconoscere che questi non sono episodi isolati, ma la parte emersa di un iceberg. Le manifestazioni che incitano alla violenza non devono essere né tollerate né incoraggiate”.


Gli Imbonerakure bloccano chi tenta di fuggire dal Paese 

Gli Imbonerakure, secondo numerose testimonianze arrivate anche da ambienti diplomatici, sembrano essere sotto il controllo di cinque o sei generali che dirigono il Paese – con a capo il presidente - e sono responsabili di uccisioni e torture. Giovani che agiscono in un clima di impunità e forti della loro prossimità con il temuto Snr, i servizi segreti burundesi. Le giovani milizie, ben armate, inoltre, controllano le strade che portano in Ruanda (nord) e in Tanzania (est) per frenare la fuga massiccia che, tuttavia, non ha impedito a 400mila persone di scappare dal Burundi.

Appelli che ricordano quelli del genocidio in Ruanda

A parte le denunce dell’Onu, non vi sono segnali da parte della comunità internazionale per un intervento più deciso nei confronti del governo burundese. Appelli come quelli lanciati dai giovani miliziani burundesi, purtroppo, ricordano un passato di sangue, quello che ha vissuto lo stato gemello del Burundi, il Ruanda con il genocidio dei tutsi. Gli inviti a “mettere incinta le oppositrici”, ricordano gli appelli lanciati da Radio Mille Colline, la famigerata emittente di Kigali, che invitava a schiacciare “gli scarafaggi”, cioè i tutsi. E le milizie burundesi assomigliano molto a quelle ruandesi degli Interahamwe, addestrate dai soldati francesi, composte solo da hutu, che incitavano all’odio e allo sterminio dei tutsi.


Quando l'Onu non intervenne in Ruanda

Nel 1994 quegli appelli “folli” furono tollerati, l’Onu non intervenne, la comunità internazionale non ha voluto pronunciare la parola “genocidio” per evitare un intervento armato nel paese. Cioè stette a guardare. Risultato: un milione di morti e oltre 2 milioni di rifugiati. Oggi il silenzio sul Burundi sembra ricordare quei tragici giorni. In Burundi il progetto genocidario se non è ancora pronto per essere eseguito, per lo meno è stato concepito. E le manifestazioni dei giovani Imbonerakure, ne sono l’avvisaglia. Sembra proprio che la comunità internazionale non abbia imparato nulla dei tragici eventi del Ruanda nel 1994. Non vorremmo che la storia si ripeta in Burundi.
Per le Ong dal 2015 sono morte 2.000 persone

Gli Imbonerakure sono attivi dall’inizio della crisi politica che ha investito il Paese a partire dall’aprile del 2015, quando il presidente Pierre Nkurunziza ha annunciato la sua terza candidatura alla guida del Paese e la sua elezione, controversa, nel luglio dello stesso anno. Questo gruppo è accusato dalle Ong locali, internazionali, dall’Onu, di essere responsabile, a fianco della polizia, dei servizi segreti e dell’esercito delle gravi violazioni dei diritti umani, oltre che di numerosi casi di stupro. Le violenze nel paese, dal 2015 ad oggi, hanno provocato 500 morti secondo l’Onu, 2000 secondo le ong, oltre a centinaia di casi di torture e sparizioni. Cosa intende fare la comunità internazionale? Aspettare che anche in Burundi si consumi un genocidio?

Sicilia - gli amministratori corrotti del Pd guardano solo al proprio ombelico mentre il paese crolla senza direzione














LA MANOVRA
“Vigliacchi, cialtroni, barbari” 
E la Finanziaria resta al palo

Venerdì 21 Aprile 2017


Insulti durante l'esame della legge di stabilità. E dopo otto ore i deputati non approvano nemmeno un articolo.

PALERMO - Insulti e voti segreti. Accuse e guerre “territoriali”. E la Finanziaria resta al palo. Dopo la bellezza di otto ore di seduta, ieri l'Ars non è riuscita ad approvare nemmeno il primo articolo della legge di stabilità che dovrà ricevere il via libera definitivo entro il 30 aprile prossimo. Un andamento lento frutto del solito assenteismo di buona parte dell'Assemblea, ma soprattutto del disinteresse e delle divisioni di una maggioranza che ormai non risponde a nessuna logica politica.

E che ha, non a caso, ripetutamente fatto mancare il numero legale in Aula, costringendo, come impone il regolamento, a più di una sospensione della seduta. Così, in assenza di “sostanza”, la discussione è stata condita dagli aromi delle polemiche, sfociate spesso negli insulti.

Ad accendere la miccia, in particolare, è stata la scelta dell'Aula di bocciare una norma che destinava dei contributi specifici per i centri di Ortigia e di Agrigento. In quel caso, a far soccombere le norme, è stato il voto segreto, chiesto dal Movimento cinque stelle e da Forza Italia. E così, ecco la “pacata” reazione dei deputati originari della zona interessata dal contributo e che ovviamente, avevano caldeggiato l'approvazione di quello stanziamento. Il presidente della commissione bilancio, il siracusano Vincenzo Vinciullo, ad esempio, ha parlato di “vigliacchi che si nascondono dietro il voto segreto”. L'agrigentino Michele Cimino, invece, ha scelto la definizione di “barbari”, rivolgendosi direttamente ai colleghi grillini.

Ma le polemiche dovevano ancora raggiungere l'apice. Stavolta ad accendere gli animi è stato il vicepresidente dell'Ars Antonio Venturino, che ha sarcasticamente fatto notare come il Movimento cinque stelle, il partito dal quale si è separato a metà legislatura, avesse deciso di bocciare il finanziamento per Siracusa e Agrigento, e si preparava a cassare anche il contributo destinato a Ragusa Ibla. E così, ecco la reazione veemente del leader siciliano dei Cinquestelle, Giancarlo Cancelleri, che ha bollato come vergognosa l'abitudine di cambiare casacca dopo essere stato eletto con una forza politica. Cancelleri, poi, decideva di chiudere ricordando allo stesso Venturino che “il mimo e l'attore bisogna farlo fuori da questo parlamento”. Un parlamento, aggiungeva Cancelleri, “nel quale assistiamo a comportamenti schifosi. E al fuggi fuggi di deputati che fanno mancare continuamente il numero legale”.

Apriti cielo. A dare man forte a Cancelleri, è intervenuto il deputato Mpa Giovanni Greco, il più anziano tra i parlamentari di Sala d'Ercole. “Venturino – ha detto – è l'ultimo qui ad avere il diritto di parlare. Anzi, quando in quest'aula manca lui o Crocetta, riusciamo a lavorare molto meglio”. Dichiarazioni che hanno scatenato la reazione dai banchi del vicepresidente dell'Ars, che ha urlato: “Tu non capisci niente, vai in pensione”. Concetti ribaditi poi al microfono: “Greco ha evidentemente qualche problema, ma poverino va compreso, vista l'età: le do un consiglio, compia i suoi 70 anni e vada in pensione, invece di dire cialtronate”. “Io in pensione? - la risposta di Greco – lei semmai torni a Londra a fare l'attore”. Animi caldi, caldissimi. E del resto già Greco poche ore prima aveva lamentato le eccessive discussioni attorno a “sto fottuto emendamento”.

Urla, strepiti e accuse, quindi. Ma risultati zero. L'Aula non è riuscita ad approvare infatti nemmeno il primo articolo della legge di stabilità. Anche a causa delle ore trascorse a discutere sul comma che prevedeva una porzione dei finanziamenti per i disabili. Contributi che saranno garantiti dai Comuni, ma solo dopo una riscrittura della norma inizialmente presentata dal governo. Norma che non piace però ai diretti interessati, che ieri hanno chiesto a gran voce a governo e deputati di dimettersi in massa. Una protesta che è anche una provocazione. Alla quale governo e deputati hanno risposto nel peggiore dei modi: trascorrendo cioè una intera giornata a insultarsi. Senza riuscire ad approvare, dopo otto ore di urla, lo straccio di un articolo.

Sicilia - il corrotto Pd non vuole vedere la realtà, caos amministrativo, soldi buttati, privilegi assurdi, nessuna idea, niente di niente solo soldi per mantenere potere e continuare a distruggere imperterriti un popolo

Il ministro De Vincenti a Palermo: "Per il Patto per la Sicilia ci sono 300 milioni"

21/04/2017 - 21:32

di Redazione

L'esponente del Governo Gentiloni ha fatto il punto nel corso di un incontro con il governatore Rosario Crocetta


«Sul fronte dell’attuazione del Patto per il Sud con la Regione siciliana sono già stati attuati interventi per oltre 300 milioni di euro. Presto ne saranno attivati altri. Puntiamo a raddoppiare questo impegno di risorse entro giugno, continuando con un’accelerazione costante».

L’ha detto il ministro per la Coesione territoriale Claudio De Vincenti, a Palermo, a margine di un incontro con il governatore della Sicilia Rosario Crocetta, per fare il punto sullo stato di attuazione del Patto per il Sud nell’Isola.

«Molti progetti sono ormai definiti - ha aggiunto - per esempio quelli che riguardano il dissesto idrogeologico, che partiranno nelle prossime settimane. In questi giorni sono state firmate le convenzioni tra le Regione e le Città metropolitane di Messina e Catania sul dissesto idrogeologico e sono partiti una serie di interventi di politica industriale. Il Patto ha ripreso a marciare, dobbiamo fare un’accelerazione ma le capacità dimostrate dalla Regione ci rendono fiduciosi».

Parlando della spesa dei fondi strutturali della programmazione 2007-2013, De Vincenti ha detto: «Il risultato raggiunto dalla Regione siciliana è molto importante. Su 4,3 miliardi di euro siamo arrivati al pieno assorbimento. E’ un risultato importantissimo, vista l’eredità precedente. E’ un segnale di ritrovata capacità amministrativa da parte della Regione».

Repubblica Democratica del Congo - alle multinazionali fa comodo il caos, l'anarchia, la mancanza di Stato, l'unica Istituzione che può mettere ordine e proteggere i deboli















RD CONGO. DOVE LE RISORSE MINERARIE FANNO PASSARE IN SECONDO PIANO LA STRAGE DI INNOCENTI



di C. Alessandro Mauceri –
21 aprile 2017

Di alcune guerre si parla continuamente, di altre invece la maggior parte dei media dicono poco o niente. Come della guerra che da anni sta sterminando la popolazione della Repubblica Democratica del Congo: un vero e proprio genocidio che ha già causato più di 6 milioni di morti (la metà delle quali bambini di meno di 5 anni) ai quali si aggiungono le centinaia di migliaia di ragazze violentate e mutilate.
Come sempre la causa di questi scontri è il denaro. In questo caso sotto forma di controllo delle risorse minerarie del Paese. Come ha confermato padre Loris Cattani, missionario saveriano, membro della Rete “Pace per il Congo”, in una recente intervista: “Si lotta per il controllo di un territorio ricco di risorse naturali”, e ha aggiunto “queste risorse naturali vanno gestite dall’amministrazione. C’è un codice minerario che regola l’attività mineraria”, ma dato che manca un reale controllo da parte del governo “si lascia libero spazio alle rivalità dei vari gruppi armati per impossessarsi, appunto, di un territorio in vista dello sfruttamento delle risorse naturali che si trovano in quel territorio”.
Il Congo è un paese ricchissimo di materie prime (diamanti, oro, stagno, gas, petrolio, uranio, coltan), ma anche di foreste (e quindi di legno pregiato) e di risorse idriche che, a volte, sono più preziose dell’oro. Eppure la sua popolazione ha un reddito medio tra i più bassi al mondo. Una povertà che non è solo economica ma anche sociale: le condizioni di vita sono terrificanti, malattie curabili stanno decimando quelli che non muoiono massacrati dagli scontri tribali (nelle Province dell’Est il tasso di malati di AIDS ha raggiunto il 20% della popolazione). Ma di tutto questo nessuno parla.
La popolazione civile si trova tra due fuochi: i gruppi armati e l’esercito congolese. Quindi praticamente è proprio la popolazione civile che ne fa le spese, in quanto si vede poi costretta a fuggire, per evitare di essere vittima di uno scontro tra esercito e gruppo armato”, aggiunge padre Cattani. La gente vive in uno stato di povertà estrema, mentre ad arricchirsi sono le multinazionali che sfruttano le ricchezze naturali del paese. Materie prime fondamentali per molte grandi industrie automobilistiche, per l’industria hitech e la gioielleria. Il Congo dispone del 60% delle risorse mondiali di coltan che è essenziale per la fabbricazione delle batterie di computer e smartphone.
I governi dei paesi “sviluppati” sembrano non accorgersi di ciò che avviene in Congo: anche gli americani, paladini dei diritti civili e della democrazia, sembrano aver dimenticato le loro stesse leggi. Anche Donald Trump, presidente degli Usa, così sensibile per i bambini morti dopo i bombardamenti in Siria e in Afganistan, non sembra provare lo stesso sentimento per i milioni di bambini uccisi in Congo. Nel 2010, l’allora presidente Obama aveva fatto approvare il Dodd Frank Act, che obbligava le aziende a garantire che nessuno dei propri prodotti contenga minerali provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo e dai Paesi vicini. Ora, dopo il cambiamento ai vertici della Casa Bianca, pare che Trump voglia abrogare il “Dodd Frank Act” e riaprendo l’importazione di alcune materie prime, “liberalizzando” il mercato dei cosiddetti minerali insanguinati la cui vendita alimenta di fatto il sistema economico di numerosi gruppi ribelli.
Per Raffaello Zordan, della rivista comboniana Nigrizia, “Trump evidentemente non tiene conto del fatto che sul terreno, come ad esempio, nelle Repubblica Democratica del Congo, nel Nord Est in particolare, ci sono situazioni molto difficili dal punto di vista del lavoro e della qualità della vita su cui questa abrogazione potrebbe avere degli effetti ancor più devastanti”. “Nessuno è mai riuscito a controllare i vari focolai di ribellione che ci sono nel Nord-Est della Repubblica democratica del Congo. Sono situazioni alimentate, provate da documenti Onu e non da fantasie. Ci sono state delle guerre negli ultimi venti anni per questa ragione”, ha detto Zordan.
Il fatto è che le pressioni delle multinazionali, affamate di materie prime di cui il Congo è ricchissimo, sugli Usa e su molti altri paesi sono fortissime. A conferma di ciò, la Cina avrebbe appena acquistato per 2,65 miliardi di dollari, la miniera di Tenke nel sud-est della Repubblica democratica del Congo, una delle zone “calde” del paese. Un affare che secondo il Financial Times, darebbe a Pechino il controllo dei due terzi del mercato mondiale del cobalto, ponendo la Cina in condizioni di quasi monopolio nella produzione di batterie elettriche, indispensabili per la produzione di auto elettriche di oggi e di domani.
Poco efficaci anche gli interventi dell’ONU. Neanche l’uccisione dei delegati delle Nazioni Unite è servita a richiamare l’attenzione dei media sul paese: il 12 marzo scorso, sono stati rapiti e uccisi due funzionari delle Nazioni Unite inviati per investigare sulle fosse comuni nel Kasai. I corpi di Michael Sharp, statunitense, e Zaida Catalan, svedese, sono stati ritrovati insieme a quello del loro interprete congolese Bete Tshintela. La Catalan era stata decapitata. Il 2 aprile anche il viceministro degli esteri italiano, Mario Giro, ha diffuso un comunicato molto preoccupato sull’aggravarsi della situazione in Congo. Ma a questo non è seguita alcuna azione.
Il Congo è sull’orlo del caos. Una situazione che fa comodo a chi governa: il secondo e ultimo mandato del presidente Joseph Kabila è già scaduto da tempo, ma nessuno ha indetto nuove elezioni. Anche l’“accordo di San Silvestro” siglato fra maggioranza e opposizione (che prevedeva un anno di transizione e nuove elezioni nel 2017) pare essere stato cancellato (con la scusa che non ci sarebbero i fondi per indire le elezioni). In Congo, essere al potere significa gestire affari miliardari con le multinazionali e i paesi affamati di materie prime.
Sebbene sia uno dei paesi più ricchi d’Africa e, forse, del mondo, tra scontri tribali, governi dispotici, epidemie di febbre gialla, esondazioni e sfruttamento delle materie prime il Congo è diventato una terra maledetta dove il confine tra la vita e la è sempre più esile e dove strazio e dolore sono ormai l’ordinario. E tutto questo nel silenzio imbarazzante del resto del mondo.

venerdì 21 aprile 2017

Ebrei, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sono i mandanti politici e finanziatori dei tagliagola in Siria

SIRIA. SILENZIO SULLA STRAGE VERA DI BAMBINI. PERCHE’ IL MANDANTE …

Maurizio Blondet 17 aprile 2017 

Sono 95 bambini sui 127 civili uccisi dall’attentato con il camioncino-trappola contro i bus dove i civili aspettavano di giungere in zona sicura, ossia sotto il governo Assad, nel governatorato di Idlib. Non sono abbastanza per far piangere Ivanka, e ancor meno i media occidentali: erano “sfollati pro-regime”, ha detto CNN. Non hanno nemmeno chiarito, i media, chi sono gli autori di questa strage satanica, di palese intento genocida. Non si tratta nemmeno di “danni collaterali” per bombardamento come quelli che produce così generosa l’aviazione Usa. Si è trattato di una strage mirata, premeditata e ben organizzata, che aveva di mira proprio i bambini sciiti.

Raccontiamo per sommi capo la storia che i media hanno taciuto.

Gli uccisi venivano da due villaggi, Foua e Kefraya, nella zona nord di Idlib dove dominano terroristi jihadisti; due villaggi sciiti assediati dai terroristi da due anni, continuamente bombardati da razzi e mortai, che il povero esercito di Assad non riesce a liberare, che rifornisce dal cielo con elicotteri di cibo e di munizioni per i locali difensori sciiti. In situazione speculare, vicino a Damasco, nel sud, sono assediate da mesi due cittadine con dentro sunniti wahabiti ribelli ad Assad, Al-Zabadani e Madaya; assediate da truppe governative, e rifornite a tratti da convogli delle Nazioni Unite e Croce Rossa (notate la differenza). Nell’uno e nell’altro stallo, si trovano bloccate 20-30 mila persone.

A dicembre si era raggiunto un accordo per uno scambio reciproco, l’evacuazione di civili feriti da una parte e all’altra; i bus che portavano via vecchi e feriti dalle cittadine sciite erano stati incendiati da gruppi terroristi dissidenti; erano stati mandati altri bus, alla fine l’evacuazione è riuscita.


Una settimana fa era stato concluso l’altro accordo: un completo scambio di popolazione fra i quattro villaggi. Tutti gli abitanti dei due paesi presso Idlib sarebbero stati evacuati in zone sotto il controllo governativo, quelli (sunniti) delle due cittadine del Sud sarebbero stati evacuati in zone sotto il controllo ribelle.

Chi ha condotto la trattativa? “L’Iran per contro del governo di Damasco, il Katar come protettore dei ‘ribelli’”: chiaro? Il Katar è quello che finanzia i Fratelli Musulmani dovunque, e in Siria arma le sue proprie milizie terroriste. Infatti il complicato accordo concluso dai due stati-intermediari, comprendeva anche la restituzione di ostaggi del Katar che sono in mano di gruppi sciiti in Irak, grossi stanziamenti del Katar per i “ribelli” che si ritiravano (Al Qaeda), ed altri codicilli non rivelati.

I gruppi terroristi wahabiti (pardon, “ribelli”) che assediavano i due villaggi sciiti, sono essenzialmente due milizie distinte; AL Qaeda (sic), e un Ahrar al Sham, quello pagato dal Katar; quest’ultima milizia era responsabile dell’esecuzione dello scambio di popolazioni; frange dissidenti “Al Qaeda” si sono pubblicamente dichiarate contrarie all’accordo raggiunto.

Dunque, è accaduto che, il 15 aprile, circa 5 mila abitanti sciiti delle cittadine del Nord stavano per essere trasportati sui pullman nella città di Aleppo, ormai sotto il controllo del governo; tuttavia i bus sono stati fermati mentre erano ancora nelle aree sotto controllo dei “ribelli”, apparentemente perché erano nate altre contraddizioni su particolari minori dell’accordo. Nel frattempo, i sunniti anti-Assad erano stati regolarmente evacuati dalle due cittadine del Sud e si trovavano ad Aleppo, sotto la sorveglianza del governo.

I bus dei civili in attesa, prima dell’esplosione.

I civili sciiti fermati in territorio ribelle erano sotto la sorveglianza di Ahrar al Sham.

Passano le ore. I civili sui bus, per lo più vecchi e bambini, hanno fame e sete. Qualcuno appare e distribuisce dei falafel, frittini di ceci; i bambini scendono e si affollano attorno a chi distribuisce il cibo. Su quella piccola folla piomba, alla massima velocità, il pick-up venuto dal nulla; l’esplosione è enorme; vengono totalmente distrutti quattro pullman con dentro i profughi, e diversi altri veicoli. Oltre i 95 bambini uccisi, decine di altri sono orrendamente feriti e mutilati. Anche alcuni miliziani di Ahrara al Sham sembra siano morti.

Dopo l’attentato. I bambini uccisi sono 95. Sciiti, quindi niente lacrime. 

Chi è stato a compiere il massacro? Evidentemente Al Qaeda in Siria, di cui certe frange s’erano dissociate dall’accordo; qualunque cosa significhi Al Qaeda, sono gruppi sunniti-wahabiti oggi finanziati dai sauditi, dagli americani e da Sion; Al Qaeda sta inglobando da qualche mese e riorganizzando ribelli dell’Is debellati ed altre milizie in rotta, o rimasti senza finanziamenti Cia nell’interregno fra Obama e Trump.
BBC: “forse è stato Assad”

Il punto è che i media anglo e occidentali non dicono chi è stato.

La BBC, citando la sua corrispondente in Medio Oriente Lina Sinjab, ha avuto il coraggio di scrivere: “Secondo lei, non è chiaro in che modo il veicolo [con l’esplosivo] possa essere arrivato sul posto senza il permesso del governo”: senza naturalmente specificare che i bus si trovavano ancora in attesa nella zona controllata dai terroristi, non dal governo Assad; una zona, si noti, a ridosso della Turchia, con la frontiera aperta, da cui giungono regolarmente armi ed armati per i terroristi.


E ancora: “Non ci sono nemmeno prove – ha detto BBC – che i ribelli siano coinvolti nell’attentato, come sostiene e il governo; non sarebbe nell’interesse dei ribelli, sottolinea la nostra corrispondente, dato che stavano aspettando l’evacuazione dei loro sostenitori dalle altre due cittadine”. Insomma, la BBC ha insinuato che è stato il governo Assad; non è chiaro in cosa lui, contrariamente ai ribelli, avesse “interesse” a massacrare i suoi sostenitori, i civili sciiti che era riuscito a far evacuare, e che si trovavano a meno di due chilometri dalla salvezza sotto le ali del governo. Ma qui è inutile esigere logica nella propaganda bellica britannica: perché è chiaro che Londra è alleata di Al Qaeda e dei sauditi in tutto lo scacchiere; i suoi aerei stanno massacrando migliaia di bambini in Yemen.

Tanto era sciita. Poco male.

E’ utile aggiungere che, subito dopo la strage, la polizia militare russa ha preso la guardia della colonna di bus pieni di sunniti evacuati dalle cittadine a sud di Damasco, per proteggerli e scongiurare ritorsioni violente da parte dei civili siriani.

Infatti, “Damasco ha deciso che l’evacuazione e scambio dovesse continuare nonostante la tragedia. Le due cittadine di Idlib [sciite] sono troppo esposte e indifendibili; nessuna operazione importante del governo verso Idlib può aver luogo, finché i due villaggi erano tenuti ostaggio”.

Giornali come Le Monde hanno ripetuto la vile insinuazione: Assad il mostro ha mandato ad ammazzare i suoi concittadini – tra l’altro, con un terrorista suicida? Mai avvenuto. Sono i wahabiti che usano i terroristi suicidi. La stessa Al Qaeda che compie attentati-strage a Damasco.

Un tale falsificazione dei media non si può spiegare, ovviamente, che con l’opera dei Padroni del Discorso. I mandanti generali di tutta la destabilizzazione che da 16 anni l’America e l’Occidente sparge attorno ad Israele, per volontà della lobby ebraica.

Dite pure che esagero, che sono il solito antisemita. Ma probabilmente non sapete che sul New York Times, un columnist famoso, chiamato Thomas Friedman, con la mente fissa al bene di Sion, ha consigliato Trump non di debellare l’Is, ma di armarlo ancora di più.

L’articolo è qui, pubblicato il 14 aprile (un giorno prima della strage in Siria):


Si spazientisce, Friedman, divorato dallo zelo per Sion: “Ma perché Trump combatte l’ISIS in Siria?”. Non deve! “Lasci che l’ISIS sia il rompicapo di Assad, dell’Iran, di Hezbollah e della Russia – allo stesso modo in cui noi abbiamo mobilitato i mujaheddin a dissanguare le truppe sovietiche in Afghanistan” [negli anni ‘80]. Friedman raccomanda al nuovo presidente di mandare ai militanti dello Stato Islamico “abbastanza missili anticarro e anti-aerei da minacciare gli aerei ed elicotteri usati dalla Russia, dall’Iran, Hezbollah e Siria e salassare le loro forze almeno fino a quando accettano di aprire negoziati. Questo mi conviene totalmente”.

Dove si trova la testa del serpente

Friedman era ancora preoccupato che Trump cambiasse la linea sullo Stato Islamico tenuta dall’amministrazione Obama, per la quale Daesh è sempre stato “un attivo strategico indiretto contro Assad”, infatti finanziato e addestrato dalla Cia, come ha ammesso John Kerry ancora il 10 gennaio scorso.


Thomas Friedman, per Sion.

Adesso Friedman sarà rassicurato, almeno in parte: Trump su suggerimento di Ivanka e Jared tiene la linea. Ma no, deve fare ancora di più, ancor meglio di Obama; fare come i sauditi, così amici di Sion:


Fare quel che l’ex capo della Cia Michael Morell propose, schiumante di rabbia contro Mosca, parlando alla CBS lo scorso agosto: “Bisogna far pagare un prezzo a russi e iraniani, ucciderli di nascosto, minacciare direttamente di morte Assad” bombardando la sua residenza a Damasco. Prezzo di sangue, “far arrivare alle famiglie russe delle bare”, insomma dissanguare, salassare.


Cinque anni non bastano, non basta mezzo milione di morti ammazzati. La guerra di Siria – sotto forma di genocidio, come vogliono loro – continuerà, continuerà lo strazio delle popolazioni, non basterà l’aiuto russo e iraniano a liberare il disgraziato paese dal mostro satanico wahabita. Perché se il corpo dell’orrendo serpente soffoca la Siria, tra le sue spire, la sua testa sta altrove. Fuori dalla portata.

Francia - Marine le Pen ha vinto e tutti ne sono consapevoli, gli euroimbecilli tentano la resistenza senza nessuna strategia a volte con Fillon, a volte con Macron, qua là non so forse ma si

Interviste aprile 20, 2017

“La possibilità che Marine Le Pen sia eletta esiste” secondo il politologo Eric Neveu

A breve il primo turno delle elezioni presidenziali francesi

Sociologo e professore presso l’Istituto di studi politici di Rennes, al momento visiting professor all’Università di Torino, Eric Neveu ha descritto lo scenario delle imminenti elezioni presidenziali francesi.

Come sarà il voto dei francesi?

Moltissimi elettori, nell’ambiente popolare ma non solo, sono stanchi di questa alternanza destra sinistra, sinistra destra, con politici in fondo tutti simili. La politica appare come un mondo fermo, abitato da chi ha ne fatto un mestiere ben retribuito e non un servizio. Si cerca un voto di cambiamento, un voto di idee nuove. La sola cosa che oggi sembra sicura è che Marine Le Pen arriverà al secondo turno. Da 20 anni il suo consenso aumenta: costantemente i giornalisti dicono che è gravissimo e che si tratta di un messaggio di insoddisfazione dei francesi; ma poi nulla cambia e Marine Le Pen guadagna il 5%. 

Quanti francesi andranno a votare?

Credo ci sarà un tasso di astensione abbastanza alto: per i sondaggi il 40% dei francesi, se servisse ad annullare le elezioni e proibire a questi candidati di presentarsi alle prossime, voterebbe in bianco. L’astensione al secondo turno apre uno spazio di incertezza enorme: credo che stavolta la scelta di votare pur di sbarrare la strada alla famiglia Le Pen (com’era stato per Chirac contro Le Pen padre) potrebbe non avvenire; ma parteciperanno i suoi sostenitori, dunque la possibilità che Marine Le Pen sia eletta esiste.

Quale può essere il candidato preferito dai giovani?

Marine Le Pen ha un largo seguito nella gioventù popolare, disoccupata e poco scolarizzata. I fondatori di start up o che sognano di aprire un’attività, invece, apprezzano Macron che parla di economia innovativa e creatività. Nei giovani più intellettuali c’è un sentimento di simpatia per Mélanchon: presente sui social, è capace di toccare il lato emotivo, ma anche di discutere di argomenti tecnici. E quelli di famiglie cattoliche e tradizionaliste probabilmente voteranno Fillon.

Perché i due turni?

Si dice che al primo turno si scelga, al secondo si elimini. Credo sia una tradizione risalente alla terza repubblica che vede una larga rosa di candidati in cui riconoscersi all’inizio, mentre in seconda battuta si cerca di dare una legittimità forte al Presidente. Il problema è che in tutte le ultime elezioni, guardando a chi è eletto presidente, si vede come la percentuale di persone che avevano votato per lui al primo turno diminuisca nel secondo.

Lo stato di emergenza che sospende alcuni diritti e libertà può influenzare le elezioni?

Direttamente le elezioni no, ma il suo prolungamento indefinito è allarmante e antidemocratico: poteva aver senso subito dopo gli attentati di Parigi, dopodiché la polizia aveva già i mezzi necessari. Resta un simbolo, ma pericoloso. A Parigi ha fornito i pretesti per impedire le manifestazioni in difesa del pianeta e la polizia ne ha fatto un uso molto generoso, per non dire abusivo, per perquisizioni che non hanno nulla a che fare con il terrorismo. Tuttavia, chiunque vinca probabilmente lo prolungherà per il terrore che 48 ore dopo averlo tolto ci sia un attentato e si sia considerati responsabili di non aver protetto i francesi.

Eric Neveu, sociologo e professore di scienze politiche

Quali sono i sentimenti verso l’Unione europea?

Migliaia di francesi si sentono attaccati: il settore dei trasporti su strada, ad esempio, impiega sempre più conducenti polacchi, ungheresi e rumeni perché sono meno cari. Questo fa salire una grande collera. Anche a livello agricolo le logiche del mercato han fatto sì che molti contadini che in passato hanno beneficiato delle politiche europee oggi ne soffrano; se prima erano il gruppo sociale più europeista, ora sono divenuti estremamente critici.

Come vengono viste le ondate migratorie in Francia?

Rispetto a quello tedesco, il governo francese sta tenendo un atteggiamento vergognoso. Sono pochi i migranti siriani o iracheni, eppure si sono costituiti come un problema pubblico che il Fronte Nazionale usa per fare campagna. In Francia c’è una maniera di intendere la laicità, da parte di alcune persone, veramente imbecille: dogmatica, o diciamo pure razzista. Il livello d’isteria verso i Musulmani è spaventoso. Quello che stupisce sono i pregiudizi infondati: le persone che vivono a fianco dei migranti appoggiano il Fronte nazionale meno di ne chi vive lontano.

Marine Le Pen vince: cosa potrà realizzare davvero di quanto promette in campagna elettorale?

Per realizzare la Frexit serve un voto parlamentare e non penso possa avere la maggioranza all’assemblea nazionale. La Marine presidente potrebbe tentare un’alleanza col partito di destra, ma negoziando, mentre per far votare leggi razziste, o apertamente diseguali, dovrebbe fare un colpo di stato che mi è difficile immaginare. Il risvolto pericoloso sono le manifestazioni: il Front National è capace di mobilitare la gente in strada e in quel caso c’è un alto potenziale di pericolosità.

Decolonizzazione del lavoro, le chiacchiere stanno a zero si spostano le fabbriche dove chi produce costa di meno

Segui il filo, nuovo report di Abiti Puliti: chi produce davvero i nostri vestiti?

Bangladesh, 24 aprile 2013. Il crollo dell’edificio Rana Plaza uccide più di 1.100 lavoratori tessili e ne ferisce più di 2.000. Fu preceduto da due grossi incendi: uno divampato nella fabbrica Ali Enterprises in Pakistan e l’altro alla Tazreen Fashions in Bangladesh, che uccisero più di 350 persone e ne ferirono gravemente molte altre. Non potendo determinare quali aziende si rifornissero presso quelle fabbriche, i sostenitori dei diritti dei lavoratori dovettero andare alla ricerca di etichette tra le macerie ed intervistare i sopravvissuti per scoprire chi fossero i responsabili.A quattro anni di distanza da quella tragedia, sono ancora troppo poche le aziende del settore tessile, dell’abbigliamento e delle calzature che si sono unite alle iniziative per la trasparenza lanciata dalla coalizione di diversi gruppi di difesa dei diritti umani costituita da Campagna Abiti Puliti, Human Rights Watch, IndustriALL Global Union, International Corporate Accountability Roundtable, International Labor Rights Forum, International Trade Union Confederation, Maquila Solidarity Network, UNI Global Union e Worker Rights Consortium.
A metterlo in luce è il rapporto “Segui il filo: alla ricerca della trasparenza di filiera nell’industria dell’abbigliamento e delle calzature” che mostra come delle 72 aziende contattate dalla coalizione, solo 17 saranno perfettamente in linea con gli standard dell’iniziativa entro il 31 dicembre 2017.
Gli standard di molte altre aziende restano invece al di sotto: cinque hanno quasi raggiunto gli standard, 18 si stanno muovendo nella giusta direzione rivelando almeno i nomi e gli indirizzi delle fabbriche di confezionamento e sette stanno muovendo piccoli passi verso la pubblicazione di informazioni relative alla lor catena di fornitura – ad esempio, su una parte dei loro fornitori, o almeno i nomi in base ai Paesi, entro dicembre 2017.
Altre 25 aziende non pubblicano alcuna informazione sulla fabbriche che confezionano i loro prodotti. Queste aziende non hanno risposto oppure non si sono impegnate a pubblicare le informazioni richieste.
Il rapporto chiede nello specifico ai marchi di adottare l’”Iniziativa per la trasparenza nella catena di fornitura dell’abbigliamento e delle calzature”. Le aziende che vi aderiscono si impegnano a pubblicare informazioni che identifichino le fabbriche che realizzano i loro prodotti, rimuovendo un ostacolo fondamentale per sradicare pratiche di lavoro abusive e aiutando a prevenire disastri come quello del Rana Plaza.
Un livello minino di trasparenza nella catena di fornitura dell’industria tessile dovrebbe essere la norma nel 21° secolo” dichiara Aruna Kashyap, Senior Counsel della divisione diritti delle donne di Human Rights Watch. “Un atteggiamento di apertura rispetto ai propri fornitori è utile per i lavoratori, per i diritti umani e mostra la buona volontà delle aziende nel prevenire abusi lungo la catena di fornitura”.
Negli ultimi 10 anni il numero delle imprese del settore dell’abbigliamento che pubblicano sui loro siti internet informazioni riguardanti i fornitori è fortemente aumentato. Ad imboccare per primi la strada della trasparenza sono stati, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, alcuni grossi marchi di abbigliamento sportivo, Nike e Adidas, cha hanno reso noti i nomi e gli indirizzi delle fabbriche che producevano per le università americane. Successivamente, nel 2005, hanno reso noto l’elenco di tutte le aziende alle quali appaltavano la produzione dei loro prodotti.
Alla fine del 2016, almeno 29 marchi globali dell’abbigliamento avevano pubblicato alcune informazioni sulle fabbriche che confezionano i loro prodotti.
L’iniziativa per la trasparenza richiede ai marchi di pubblicare importanti informazioni sui fornitori e sui loro subfornitori autorizzati. Queste informazioni contribuiscono all’affermazione dei diritti dei lavoratori, allo sviluppo delle pratiche di business responsabile e di applicazione della due diligence sui diritti umani. Infine stimola la creazione di un clima di fiducia tra i vari attori così come previsto dai Principi Guida dell’ONU su imprese e diritti umani.
“Dopo il Rana Plaza e gli altri disastri, i gruppi in difesa dei diritti umani, i sindacati e alcune aziende e investitori hanno capito quanto la trasparenza sia importante per prevenire gli abusi ed assicurare responsabilità” dichiara Ben Vanpeperstraete, coordinatore delle attività di lobby e advocacy della Clean Clothes Campaign. “Le aziende devono mettere in pratica la trasparenza per dimostrare che rispettano i diritti umani e garantiscono condizioni di lavoro dignitose”.

Yemen. Stato Sovrano attaccato dall'Arabia Saudita per il controllo strategico del commercio attraverso il canale di Suez

porto di al Hodeida, nello Yemen
























SPECIALE DIFESA

Speciale difesa: Yemen, capo Pentagono a Riad rafforza sostegno Usa a coalizione militare araba

Riad, 20 apr 15:30 - (Agenzia Nova) - La visita del segretario alla Difesa statunitense, James Mattis, nella regione del Golfo e in particolare in Arabia Saudita è stata accolta positivamente dai media della regione, convinti che sia preliminare ad un rafforzamento del sostegno della nuova amministrazione Usa del presidente Donald Trump alla Coalizione araba impegnata nel conflitto in Yemen guidata da Riad. A sperare in un sostegno aperto da parte di Washington è il governo yemenita del presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, con sede provvisoria ad Aden ma di casa anche a Riad che lo ha sostenuto sin da quando due anni fa i ribelli sciiti dell’imam Abdel Malik al Houthi hanno messo a segno il loro golpe a Sana’a.

Nonostante i tentativi dei funzionari yemeniti però, nessun incontro è avvenuto ieri a Riad tra il presidente yemenita, Hadi, e il segretario alla Difesa Usa, Mattis. Fonti del governo yemenita hanno riferito ad "Agenzia Nova" che Mattis non ha potuto inserire nella sua agenda un incontro con Hadi. Nei giorni scorsi, il presidente Hadi ha incontrato a Riad il vice segretario di Stato per gli Affari dei paesi arabi del Golfo, Timothy Lenderking che ha promesso di rafforzare il sostegno logistico degli Stati Uniti al governo legittimo yemenita. Hadi ha discusso con Lenderking della battaglia in corso per la riconquista del porto di al Hodeida, nello Yemen, ora controllato dalle milizie filo iraniane Houthi.

“Le forze yemenite e la Coalizione araba a guida saudita sono in grado di riprendere il controllo di quel porto – ha detto la fonte del governo yemenita a "Nova" – ma stiamo lavorando per ottenere una copertura politica. Vogliamo in particolare che gli Stati Uniti facciano pressione per modificare la risoluzione dell’Onu 2216 e rimetterla al settimo capitolo della Carta delle Nazioni Unite che prevede come ultima ratio l’uso della forza in caso di minacce alla pace”. In questo modo le milizie Houthi dovranno essere disarmate e cacciate dalle zone che hanno occupato mentre la Coalizione araba dovrà garantire il disarmo delle milizie sciite. Il governo di Hadi si aspetta un sostegno maggiore da parte degli Stati Uniti con la nuova amministrazione guidata da Donald Trump rispetto a quello ottenuto dal predecessore Barack Obama.

Mattis a Riad ha però avuto l’occasione di trattare da vicino il tema della crisi yemenita sostenendo che “è necessario raggiungere una soluzione politica attraverso i negoziati patrocinati dall’Onu per risolvere il conflitto nello Yemen". I funzionari di Washington hanno fatto sapere che gli Stati Uniti stanno valutando di rafforzare il loro ruolo nel conflitto yemenita, sostenendo ulteriormente in modo diretto gli Stati alleati del Golfo. Il conflitto “è andato avanti per tanto tempo, vediamo i missili forniti dall’Iran lanciati dagli Houthi verso l’Arabia Saudita, ed è una cosa, insieme al numero di persone innocenti che muoiono nello Yemen, che deve semplicemente finire”, ha detto Mattis parlando ai giornalisti al seguito durante il suo viaggio in aereo verso Riad, prima tappa del tour regionale che lo vedrà in visita in Egitto, Israele, Qatar e Gibuti. Secondo il segretario alla Difesa Usa, sette tentativi di mantenere un cessate il fuoco tra ribelli e governo, con l’appoggio dell’Onu, sono falliti. “Lavoreremo con i nostri alleati e con i nostri partner per cercare di raggiungere una tregua al tavolo negoziale dell’Onu”, ha aggiunto Mattis.

Una volta arrivato a Riad, Mattis, ha affermato che “è necessario fermare l’arrivo degli aiuti militari iraniani ai ribelli yemeniti Houthi”. Parlando ieri con il re saudita Salman bin Abdul Aziz, il capo del Pentagono ha sottolineato la necessità di fermare il lancio di razzi da parte degli Houthi verso l'Arabia Saudita, paese definito come “uno dei più importanti alleati degli Stati Uniti”. L’esponente dell’amministrazione Usa ha quindi discusso della lotta al terrorismo e degli altri temi di carattere regionale, come la guerra in Siria. Per quanto riguarda il conflitto nel vicino Yemen, Mattis non ha risposto alle domande dei giornalisti arabi circa la possibilità di aumentare il sostegno alla Coalizione militare a guida saudita, ma ha affermato che “è necessario trovare una soluzione politica il più presto possibile" tramite la ripresa dei negoziati condotti dall’Onu. "Vediamo razzi iraniani lanciati dai ribelli sull'Arabia Saudita e questo va fermato”, ha dichiarato Mattis.

Il presidente yemenita Hadi, da parte sua, ha apprezzato “la posizione assunta dagli Stati Uniti di sostegno allo Yemen e al ripristino della legalità”, rimanendo in contatto e collaborando con le sue autorità. Parlando ieri a Riad il vice segretario di Stato per gli Affari dei paesi arabi del Golfo, Leanderking, Hadi ha ringraziato l’amministrazione di Washington per il suo sostegno al dialogo nazionale yemenita. Il presidente yemenita ha quindi lodato la politica adottata dal presidente Usa, Donald Trump, in materia di lotta al terrorismo “che si configura negli sforzi del governo yemenita e pone un limite alle ingerenze iraniane nella regione”.

Il tour di Mattis in Medio Oriente ha l’obbiettivo di rafforzare i legami con gli alleati storici della regione, soprattutto dopo le nuove tensioni con la Russia dopo il lancio di missili ordinato dal presidente Usa Donald Trump contro la base aerea dell’esercito siriano di Shayrat (provincia di Homs) per punire il presunto utilizzo di armi chimiche contro i ribelli da parte del presidente siriano Bashar al Assad. Il viaggio di Mattis, che durerà fino al 23 aprile, tocca alcuni dei paesi chiave per la politica estera e di difesa statunitense: Arabia Saudita, Egitto, Israele, Qatar e Gibuti. La prima tappa del tour è l’Arabia Saudita dove Mattis. Domani il responsabile della Difesa di Washington si recherà in Egitto per poi partire alla volta di Israele dove si tratterrà dal 20 al 22 aprile. Le ultime tappe del viaggio di Mattis saranno Qatar e Gibuti.

Secondo quanto sottolineato in un comunicato stampa diffuso nei giorni scorsi dal Pentagono l’obiettivo della visita, la prima del segretario alla Difesa in Medio Oriente e Nord Africa, è “riaffermare le alleanze militari chiave degli Stati Uniti” e discutere della cooperazione per contrastare le attività che destabilizzano lo scenario internazionale e sconfiggere le organizzazioni terroristiche. Il viaggio mira inoltre ad offrire agli alleati una maggiore chiarezza sulla strategia di politica estera di Trump e la volontà da parte di Washington di utilizzare la sua potenza militare più liberamente rispetto all’amministrazione di Barack Obama.

La scelta come prima tappa dell’Arabia Saudita conferma l’intenzione dell’amministrazione Trump di rafforzare i rapporti con lo storico alleato, divenuti particolarmente freddi negli ultimi anni di governo dell’amministrazione Obama in particolare a causa dell’accordo sul nucleare iraniano. La visita di Mattis a Riad, giunge a pochi mesi dal viaggio negli Emirati arabi uniti avvenuto nel mese di febbraio, il primo nel Golfo del responsabile della Difesa e comandante del Comandando centrale degli Stati Uniti (Centcom). Negli incontri di oggi a Riad, Mattis incontrerà il vice erede al trono e responsabile della Difesa saudita, Mohammed Bin Salman, con il quale ha avuto un colloquio alla Casa Bianca durante la recente visita del giovane principe negli Stati Uniti, avvenuta a metà marzo, e diverse conversazioni telefoniche incentrate soprattutto sull’ingerenza iraniana nella regione mediorientale e sulla guerra in Yemen.

Secondo quanto riferiscono i media statunitensi, i colloqui di Riad si concentreranno sia sulla nuova strategia degli Stati Uniti in Siria dopo il raid contro le forze aree siriane che sulla situazione in Yemen. Washington starebbe prendendo in considerazione il suo ruolo nel conflitto yemenita, dove l’Arabia Saudita guida la coalizione di paesi arabi a sostegno del governo del presidente Hadi contro i ribelli sciiti Houthi appoggiati indirettamente dall’Iran. Al vaglio dell’amministrazione Trump vi sarebbe l’avvio di un nuovo tipo di assistenza all’Arabia Saudita, che include il supporto dell’intelligence, oltre alla possibile vendita di missili di precisione all’Arabia Saudita.

Intanto sul terreno prosegue la guerra e le forze armate governative yemenite, fedeli al presidente Hadi, sono sul punto di conquistare la caserma Khaled Bin Walid, nella parte ovest della provincia di Taiz. Dopo una settimana di assedio da parte delle forze pro-Hadi, secondo quanto riferisce l’emittente televisiva “al Arabiya”, i ribelli sciiti Houthi hanno perso una importante postazione che si trova nei dintorni della base, rendendo la caserma vulnerabile. La caserma Khalid Bin Walid è strategicamente importante perché è la più grande tra quelle in mano ai ribelli filo-iraniani e perché difende la zona della città di al Hodeida. Le forze governative hanno conquistato un deposito di armi degli Houthi vicino alla caserma dove hanno trovato armi pesanti e leggere.

Nei giorni scorsi, le milizie Houthi hanno riempito di mine la zona intorno alla base militare per impedire ai loro uomini di fuggire dal campo di battaglia con l’avvicinarsi delle forze nemiche. Intanto i caccia della Coalizione araba, a guida saudita, hanno condotto solo oggi più di 20 raid aerei sulla base e nell’area circostante, mentre gli elicotteri Black Hawks sono intervenuti per dare manforte alle truppe di terra e per attaccare i rinforzi inviati dai ribelli sciiti a nord del porto di al Makha, conquistato nelle scorse settimane dalle truppe di Hadi, distruggendo diversi mezzi dei nemici. Nel tentativo di alleggerire la pressione sui loro uomini asserragliati nella caserma Khalid Bin Walid, le forze ribelli hanno lanciato 11 missili balistici contro il porto di al Makha che sono stati però intercettati dal sistema di difesa missilistico Patriot in uso dalle forze della Coalizione araba.

Intanto il Comando della Coalizione ha confermato la morte di quattro ufficiali e otto soldati dell’esercito saudita morti dopo che il loro elicottero militare è precipitato nella provincia di Mareb, nella parte nord-ovest dello Yemen. La Coalizione sostiene in una nota di non conoscere le cause che hanno provocato la caduta del Black Hawk e di aver aperto un’indagine in merito. L’elicottero era in missione nel nord dello Yemen dove la Coalizione araba combatte al fianco delle truppe del governo legittimo del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi contro i ribelli sciiti filo-iraniani Houthi.

La guerra in Yemen si sta sempre di più delineando come uno dei nodi fondamentali per il futuro della regione mediorientale, non solo per la lotta tra Arabia Saudita e Iran, ma anche per lo scontro tra Washington e Teheran. L’alleanza militare a guida saudita ha iniziato il suo intervento in Yemen nella primavera del 2015 a sostegno del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, la cui legittimità è riconosciuta dalla comunità internazionale, contro gli insorti zaiditi dell'imam Abdelmalik al Houthi. In base alle stime più recenti delle Nazioni Unite il numero dei morti dall’inizio del conflitto è di circa 10 mila persone, cifra che per stesse ammissione dell’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite è al ribasso. La guerra iniziata nel 2014 ha devastato lo Yemen, il più povero del mondo arabo. Secondo le Nazioni Unite circa 19 milioni di persone, l’80 per cento della popolazione, necessita di aiuti umanitari, mentre gli sfollati ammontano a circa 3 milioni. (Res)