L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 10 giugno 2017

Mauro Bottarelli - fine della protezione della Bce per l'Italia

SPY FINANZA/ Il guaio estivo pronto per l'Italia

L'Italia non conti troppo sullo scudo della Banca centrale europea: la sua tenuta, massima, dice MAURO BOTTARELLI, è entro fine anno, poi le crepe si faranno vedere

10 GIUGNO 2017 MAURO BOTTARELLI

Mario Draghi (Lapresse)

Il voto britannico ha un solo vincitore: chi vuole rallentare la Brexit, al fine di sabotarla del tutto. E non escludo  che questo qualcuno, inteso come gruppo di interesse, sia stato il pifferaio magico che lo scorso aprile ha suggerito a Theresa May, certamente non un fulmine di guerra a livello politico, di indire elezioni anticipate, forte di sondaggi che vedevano i Conservatori vincere in carrozza. Detto fatto, i 22 punti percentuali che i Tories avevano sul Labour il 19 aprile, quando la prima ministro indisse le elezioni, si sono ridotti a due, 42% a 40%. Ma, soprattutto, ora Theresa May è sotto quota 326 seggi, quella necessaria per governare: non c'è una maggioranza, siamo al cosiddetto hung Parliament, il Parlamento impiccato alla corda dell'inazione. Alla fine, la primo ministro cederà alle pressioni dentro e fuori il Partito conservatore e si dimetterà? 

Per ora, sembra intenzionata a resistere e tentare un governo con gli unionisti nordirlandesi o, addirittura, una sorta di grosse koalition alla tedesca: la probabilità di un nuovo voto entro, al massimo, un anno è praticamente certa. Peccato che il 19 giugno sia previsto il primo incontro preliminare tra governo britannico e Ue sulle procedure di attivazione del Brexit: chi ci andrà? E con quale mandato? Di più, il quasi dimezzamento dei voti dei nazionalisti scozzesi dell'Snp crea ulteriore confusione attorno all'addio da Bruxelles, mentre il buon dato degli euroentusiasti LibDem parla la lingua di un Paese che sta rigettando, quasi certamente per l'effetto del terrorismo, ogni tipo di avventurismo e si rifugia nelle certezze dell'establishment e dei partiti tradizionali. Non a caso, l'Ukip che fu motore del referendum sul Brexit è letteralmente sparito, non solo da Westminster (doveva aveva un solo seggio), ma dai collegi a livello percentuale: svanito, evaporato. 

A Bruxelles nessuno può ammetterlo ufficialmente, ma hanno stappato champagne. Si aprono le porte al Regrexit, ovvero al dietrofront rispetto al risultato del referendum e all'addio all'Ue? Non mi sento affatto di escluderlo, visto che Danske Bank nel suo report parlava di questa opportunità come probabile in caso di vittoria del Labour: e, se si tornerà a votare, state certi che Jeremy Corbyn stavolta vincerà. In effetti, non dover gestire una patata bollente di quel genere rappresenta un sospiro di sollievo per l'eurocrazia. La quale deve fare i conti, prima che con i Trattati, con quanto la Bce impone come agenda. E veniamo al punto. Nell'articolo di ieri dicevo chiaro e tondo che Draghi aveva salvato un'altra volta l'Italia, quando ha reso noto che il Qe, di fatto, andrà certamente avanti oltre il limite temporale imposto: rivedere al ribasso le prospettive inflazionistiche per il 2018, in discesa dall'1,6% all'1,3%, equivale a dire che gli acquisti andranno avanti per tutto il prossimo anno, perché non solo ci si allontana dal target del 2%, ma, oltrettuto, si cala e non poco su base annua, quindi riattivando rischi di traiettoria downside. Non vorrete mica mettere a repentaglio la strepitosa ripresa in atto? Eh no, quindi - nell'idea di Draghi - anche la Bundesbank dovrà stare buona e rimettere nel fodero l'arma del tapering, ovvero la riduzione degli acquisti di bond già dalla fine di quest'anno. 

Fino a ieri ero abbastanza persuaso anch'io di questa strategia, poi sono usciti certi numeri riguardanti proprio l'acquisto di assets da parte della Bce nell'ambito del Pspp e allora le cose cambiano: in primis, per l'arco temporale di "copertura" di cui l'Italia potrà godere, a livello di spread sotto controllo. Partiamo dal principio. Un mese fa, alcuni analisti osservarono un cambiamento nei pattern di acquisto dell'Eurotower, specialmente riguardo ai Bund tedeschi: stando a calcoli di Abn Amro, in aprile la Bce aveva comprato 400 milioni di controvalore in meno di Bund rispetto a quanto concesso dal regolamento del Pspp. Di fatto, dimostrandoci cosa? Che fosse già in atto una severa scarsità di bond eligibili all'acquisto, tanto che si azzardò anche un arco temporale: entro 4 mesi, la Bce avrebbe terminato il suo tempo per quanto riguardava le obbligazioni tedesche, erano troppo poche. Per Frederik Ducrozet, economista senior di Pictet, «è stata la più grande deviazione di sempre, almeno per quanto riguarda la Germania. Questo mi suggerisce, al netto dello stress politico e dell'ammorbidimento degli acquisti, una scarsità legata alla Bundesbank. E questo significa che la Bce deve essere molto cauta con la sua uscita di scena e che, se non opera un tapering entro meno di sei mesi dalla fine del programma di Qe, qualche prezzo dovrà essere pagato». 

Ma non basta, perché i dati oltre a mostrare un netto calo negli acquisti nominali, presentavano anche un'altra criticità: la maturity media del debito pubblico acquistato dall'Eurotower, in soli sei mesi, era calata da oltre 10 anni a meno di 5 anni. E questo cosa implica? Una carenza di debito eligibile a lunga scadenza che costringe la Bundesbank, la quale compra su mandato della Bce, ad acquistare sempre più bond a breve scadenza. E nonostante questo scostamento sulla curva della durata fosse prevedibile, dopo che lo scorso settembre la Bce ha cambiato le regole e ammesso l'acquisto di bond con rendimento inferiore a -0,40%, il tasso di deposito, molti analisti sono rimasti sorpresi dalla velocità con cui la Bundesbank ha utilizzato questa nuova finestra. 

Insomma, c'è puzza di emergenza. Non molta ma sufficiente da fare storcere qualche naso, tanto che l'altro giorno Pimco ha annunciato una riduzione sull'esposizione obbligazionaria sovrana Ue, Italia in testa. Ovviamente, il dibattito che scaturì da questi dati andò velocemente a toccare il punto nodale: quanto in fretta la Bce sta avvicinandosi al tetto limite di acquisti in Germania, l'emittente benchmark europeo e, almeno finora, la più grande e profonda fonte di obbligazioni per l'intero programma di Qe, il cui termine ad oggi rimane prefissato alla fine di quest'anno? Stando a calcoli di Barclays, se la Bce mantenesse il suo programma di acquisti inalterato, il suo tetto massimo mandatario per l'acquisto di Bund, 33% del totale, sarebbe raggiunto il prossimo ottobre, di fatto quattro mesi da oggi. 

Ed ecco il nuovo changer entrato in gioco, proprio ieri. La Bce ha infatti reso noti i dati di acquisto mensile per il mese di maggio e il trend si è rivelato ancora più problematico: come mostrano i grafici, la scadenza media ponderata degli acquisti in seno al Pspp ha visto il trend salire per quanto riguarda il debito francese, italiano e spagnolo, ma è drammaticamente calato per quanto riguarda la Germania. A maggio, la media della maturity per il debito tedesco acquistato è scesa per la prima volta in assoluto sotto i 4 anni, per l'esattezza 3,98 anni, mai così bassa. 



Ancora più interessante quanto ci fa notare questo grafico di Jefferies, il quale ci dice che da quando il Qe è stato ridotto in volume lo scorso aprile, passando da 80 a 60 miliardi di acquisti mensili, si è registrata una riduzione sproporzionata nell'acquisto di assets in base alla nazione: per esempio, per Germania e l'Olanda (oltre alla Spagna, in maniera minore), i controvalori nel Pspp sono calati di circa il 30% negli ultimi due mesi, mentre in Francia e Italia la stessa figura ha visto un calo solo di circa il 21%. E questo cosa ci conferma? Semplicemente che per restare il più a lungo possibile in carreggiata con il Qe, la Bce sta attivamente riducendo l'ammontare di Bund tedeschi che acquista ogni mese, oltretutto concentrando sempre di più gli acquisti sulla parte breve della curva dei rendimenti, sintomo che i bond a più lunga scadenza eligibili stanno per finire o sono già terminati. 


Il problema è che con ancora almeno sei mesi di Qe davanti a noi e con la prospettiva, avanzata giovedì da Draghi, di una prosecuzione nel 2018, questo trend di scarsità di bond elibigili in alcuni mercati potrebbe diventare un problema serio per la tenuta temporale del programma Pspp. Ovviamente, come ha già fatto, la Bce può cambiare i suoi criteri di acquisto, ampliando ancora la platea dell'eligibilità d'acquisto, ma vi faccio una domanda: come reagirebbero i mercati a una mossa come quella, magari già alla riunione di settembre, dopo tanta retorica sulla ripresa? Certo, ora avremo un roboante dato di acquisto di giugno, per il semplice fatto che nei mesi estivi calano i volumi e la Bce anticipa gli acquisti, ma agosto potrebbe presentarci qualche spiacevole sorpresa. Magari in Spagna, fonte immediata di contagio per il Portogallo, visto che, mentre il mondo guardava alll'impasse nel Regno Unito, il presidente catalano, Carles Puigdemont, ha avuto l'alzata di ingegno di lanciare ieri mattina l'ultima sfida allo stato spagnolo, annunciando che il referendum sull'indipendenza della Catalogna sarà convocato il primo ottobre prossimo, malgrado il veto del governo di Madrid. «Ai catalani sarà chiesto - ha detto -, se vogliono che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica». Pesando la Catalogna per il 20% abbondante del Pil spagnolo, se questa non si rivelerà in fretta una sparata propagandistica, che fine farà lo spread dei Bonos? 

Insomma, l'Italia non conti troppo sullo scudo della Bce: la sua tenuta, massima, è entro fine anno, poi le crepe si faranno vedere. Quindi, meglio evitare avventurismi ulteriori e blindare da subito i conti. L'estate sarà torrida, posso garantirvelo senza bisogno di consultare un meteorologo.

Mauro Bottarelli - le coincidenze non esistono

SPY FINANZA/ L'Italia è salva, ma il conto lo pagano banche e risparmiatori

La legge elettorale ha subito una frenata, mentre Draghi sembra voler garantire il proseguimento del Qe. L'Italia è salva, dice MAURO BOTTARELLI, ma c'è un prezzo da pagare

09 GIUGNO 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Quella di ieri è stata la giornata delle coincidenze. Sempre che vogliate credere al fatto che le cose capitino senza un'agenda precisa e un'altrettanto precisa regia. Prima coincidenza: mentre era in corso un voto a scrutinio segreto sulla legge elettorale, il che presupponeva un tabellone con tutti puntini blu, per un guasto tecnico magicamente abbiamo visto chi sono stati i franchi tiratori che hanno mandato sotto il "gruppo dei 4" su un emendamento relativo ai criteri di voto in Trentino-Alto Adige, presentato dalla deputata di Forza Italia, Micaela Biancofiore. Risultato? il caos più totale, feroce scambio di accuse tra Pd e M5S e, di fatto, il forte rischio che l'accordo sul modello tedesco, il quale avrebbe dovuto portarci al voto in autunno, salti. Di fatto, dibattito sulla nuova legge rimandato a dopo la pausa estiva e legislatura che andrà a scadenza naturale, ovvero febbraio 2018. Chi ha reso possibile tutto questo, nell'arco di 36 ore? Le parole dell'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e la disattenzione di Mario Draghi, il quale mercoledì mattina si è scordato di schiacciare il bottone della pressa per Bankitalia, facendo salire il nostro spread oltre la soglia psicologica dei 200 punti base sul Bund. Detto fatto, ieri all'ora di pranzo, quando alla Camera la seduta era stata sospesa per permettere alle segreterie dei partiti di confrontarsi sul da fare, lo stesso spread era in calo del 3,4% a quota 194: urne allontanate, differenziale in calo. 

Non a caso, prima ancora che qualcuno provasse a rianimarla, l'esponente del Pd, Emanuele Fiano, relatore della legge, recitava il de profundis: «La legge elettorale è morta». Solo Matteo Salvini, nel suo tipico stile, tentava il blitz: «Dimissioni di Gentiloni, decreto per la nuova legge elettorale uguale per Camera e Senato e subito al voto». Vana speranza, dovrà girare con ruspe e felpe per tutta Italia ancora per un po'. Quasi certamente, fino a primavera. E la Borsa di Milano? Guardate il grafico: apertura negativa, poi andamento piatto. Ma alle 11:12 comincia lo psicodramma alla Camera e, magicamente, alle 11:33 comincia la risalita dell'indice Ftse Mib, il quale a metà giornata di contrattazioni si assestava addirittura a +1,4%. Il traino? Le banche. E cosa significa questo? Che il sistema brindava al combinato disposto di eliminazione del rischio di voto anticipato e prospettive inflazionistiche meno rosee dl previsto da parte della Bce, quindi stimolo monetario che può e deve andare avanti. Insomma, un serie infinita di coincidenze. 


Cosa significa, forse che Giorgio Napolitano muove i poteri forti? No, solo che li conosce. E il suo aver parlato ha avuto un timing preciso, quello che può creare lo spartiacque tra un'estate torrida e una da incendio. Vedremo se, adesso, prevarrà il buonsenso o la pars destruens del Paese. Il tutto, poi, a corredo e come carico da novanta di quella che sui mercati era già stata denominata come la giornata della "tripla T", ovvero Triple Threat Thursday, il giovedì della tripla minaccia: audizione del capo dell'FBI, James Comey, sul Russigate, riunione del board della Bce ed elezioni legislative nel Regno Unito. 

Ah già, la tanto attesa riunione del board dell'Eurotower, cosa ha partorito? In prima istanza, l'ennesimo compromesso perfetto, basti notare (nel grafico più in basso) il movimento flip-flop dell'euro, prima su e subito dopo in grado di rimangiarsi tutti i guadagni, una volta reso noto il comunicato stampa. Cosa c'era di tanto confuso da innescare una reazione simile? Una questione apparentemente nominalistica e di lana caprina, ma che, nel perverso mondo dei traders, ha invece un'importanza sostanziale: si tratta della frase del comunicato relativa ai tassi di interesse. Quella contenuta nel comunicato di ieri era identica a quella del 27 aprile scorso, salvo una differenza: è stata eliminata la dizione "o inferiori" con riferimento alla politica sul costo del denaro. Insomma, ieri la frase era questa: «La politica chiave dei tassi di interesse Bce resterà ai livelli presenti per un periodo esteso di tempo, ben oltre l'orizzonte del programma di acquisto netto di assets". Non c'è più livelli presenti o inferiori: indi Draghi dice chiaro e tondo che più in basso di così non si va, non si può andare. Quindi, chi sognava il paradiso del tasso negativo, se non il nirvana dell'helicopter money, si metta l'animo in pace. 


Messaggio da falco, quindi. No, perché la cosa può essere letta anche in altro modo: ovvero, non si scende, ma tranquilli che nemmeno si sale, perché la politica attuale resterà ben oltre l'orizzonte di durata del Qe. Già, il Qe. Lo si cambia? Eccome! Cosa vi avevo detto la scorsa settimana che dalla riunione di ieri a Tallin c'era obbligatoriamente da aspettarsi qualcosa di importante? E, infatti, nel corso della conferenza stampa, Mario Draghi ha messo a tacere il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che vorrebbe l'inizio del tapering con l'arrivo del 2018: «Il Qe dovrebbe durare per tutto il 2018 e anche per l'intero 2019». Di certo, quindi, le elezioni italiane si terranno con i titoli di Stato sotto la protezione della Bce e non ci sarà quindi l'impennata dello spread alla vigilia del voto: il quale, al netto del caos di ieri alla Camera, potrà svolgersi la prossima primavera in condizioni normali, almeno sul fronte finanziario. 

«Non abbiamo votato, ma non ho sentito voci dissenzienti», ha risposto beffardo e con tono di sfida Draghi a chi gli chiedeva se il direttivo Bce avesse approvato all'unanimità le misure. E cos'ha consentito questa svolta epocale, questo schiaffo alla Germania? Un'altra combinazione. Guarda caso, dopo mesi di inflazione in continuo aumento e dopo che lo stesso Draghi, un mese fa all'università di Tel Aviv, aveva detto che «la crisi dell'eurozona era ormai alle spalle» e che «la ripresa era solida», le stime di inflazione sono state riviste al ribasso! Quest'anno è vista all'1,5% dal precedente 1,7%, nel 2018 sarà solo dell'1,3% invece dell'1,6%, nel 2019 dell'1,6% invece dell'1,7%. Et voilà, Qe salvo e prolungato, banche che festeggiano e mercati che stappano champagne. E, somma delle coincidenza, questo cortocircuito causa-effetto che ha permesso di comunicare la lieta novella del Qe in eterno è servito anche ad altro. Ovvero, a nascondere e depotenziare il salvataggio di Banco Popular da parte del governo spagnolo, il quale ha convinto Santander a salvare la banca, di cui vi avevo parlato l'altro giorno. Un successo, insomma. Ma, allo stesso tempo, un fatto che ha mostrato la pericolosità delle risoluzioni Ue e ha rappresentato il più rilevante malfunzionamento della supervisione Bce dalla sua nascita nel novembre 2014. 

Banco Popular ha infatti superato indenne tutti gli appuntamenti di vigilanza: l'asset quality review e lo stress test del 2014, i requisiti Srep degli anni successivi, le ispezioni ordinarie e da ultimo lo stress test del luglio 2016. Peccato che a meno di un anno di distanza dall'ultima prova, la banca sia entrata in crisi di liquidità e sia stata messa in risoluzione, con svalutazioni totali per 300mila azionisti e per i creditori subordinati. Una gran bella tosata, roba da mal di testa. E soltanto la presenza di Santander ha evitato perdite ancora maggiori per i risparmiatori. Coincidenza, tutto questo accade mentre il fantasma del bail-in aleggia su Mps e sulle due banche venete in crisi. 

Signori, bando alle coincidenze: quanto accaduto alla Camera e quanto accaduto a Francoforte sono legati: il reset europeo può aspettare, col voto anticipato l'Italia probabilmente non sarebbe sopravvissuta all'estate e Mario Draghi ieri l'ha letteralmente salvata. Ma non gratuitamente, a pagare il prezzo di quel favore sarà il nostro sistema bancario. Leggi, obbligazionisti e creditori. Ancora una volta. Spero che questo serva a farvi capire quale sia il reale stato del nostro Paese a livello di conti pubblici, sostenibilità del debito, sistemicità del sistema bancario e rischio Paese. Magari, ora, è giunto il momento di dire basta ad avventurismi, fughe in avanti e lotte di potere per ego troppo ipertrofici. Ripeto, ieri Mario Draghi ha di nuovo salvato l'Italia. Non potrà farlo per sempre, però.

Mauro Bottarelli - Punire il Qatar e l'Iran è l'ingordigia prepotente di dimostrare la propria forza che limita una strategia politica chiara e coerente

SPY FINANZA/ Gas, petrolio e soldi dietro il caos del Golfo

L'Iran subisce un attentato, mentre il Qatar è stato isolato da altri paesi confinanti. Dietro a questi fatti ci sono anche interessi economici, spiega MAURO BOTTARELLI

08 GIUGNO 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Che il bersaglio dei sommovimenti geopolitici innescati dal Deep State dopo l'elezione di Donald Trump alla Casa Bianca fosse l'Iran, ve lo dico da tempo. Come con largo anticipo vi ho detto che il confronto tra Usa e Corea del Nord era niente più che una solenne pagliacciata, di fatto un gioco di fumo e specchi, per dirla all'americana, al fine di consentire a Washington e Pechino di accordarsi su ciò che davvero conta, ovvero commercio e valuta. Guarda caso, ieri la Cina è saltata fuori a freddo, dicendo che è pronta a ricominciare con l'acquisto di titoli di Stato Usa, facendo schiantare i rendimenti. Ormai, bollite come sono dal debito e dalle bolle, le due potenze sono obbligate a reggersi l'un l'altra, come ubriachi che si attaccano ai lampioni per arrivare a casa. 

Ora, però, la questione si fa seria. Perché l'apertura del vaso di Pandora operata da Donald Trump nel suo viaggio in Arabia Saudita e Israele sta accelerando in maniera tale da rendere un'uscita di pista più che probabile. Prima la rottura delle relazioni diplomatiche tra Paesi del Golfo, Egitto e Libia nei confronti del Qatar e ora l'attacco terroristico a Teheran, oltretutto portato verso obiettivi sensibili e super-protetti, parlano la lingua di un'operazione su vasta scala in atto, qualcosa che non si limita al mero approccio terroristico di destabilizzazione. Qui sembra sempre di più che qualcuno stia cercando un vero e proprio casus belli su scala globale. Il tutto, con l'Europa in piena psicosi da terrorismo e con tre Paesi di fondamentale importanza che, tra oggi e domenica, sono attesi da appuntamenti elettorali. 

E attenzione, perché in Iran non si registravano attentati dall'inizio degli anni Ottanta, quando la frattura fra khomeinisti e comunisti, vide i mukaheddin entrare in campo a sancire la fine di un equilibrio interno. Oggi, questo equilibrio è quello sempre più fragile tra sunniti e sciiti in Medio Oriente, con Iran e Arabia Saudita come capofila: fino a ieri la guerra si combatteva attraverso i proxy siriano e yemenita, oggi pare che il confronto sia diretto. Dio ce ne scampi. E per capire qualcosa di più di queste dinamiche, occorre capire qualcosa di più dell'affaire Qatar: ovvero, il fatto che la disputa non dipende affatto dal finanziamento presunto di Doha a gruppi estremisti, soprattutto Hamas e Fratelli Musulmani, visto che Ryad è la capofila del settore nell'area, bensì dallo status del Qatar di monopolista assoluto nel mercato regionale del gas naturale, il quale ha un mercato enorme verso Giappone ed Europa. Se infatti la pipeline petrolifera Qatar-Turchia è la ragione principale per cui in Siria ci si massacra da cinque anni, visti gli interessi contrapposti di Doha e Mosca, questa mappa ci mostra come dietro la scelta di Ryad di isolare il Qatar con la crisi diplomatica altro non ci sia, infatti, che la questione del gas naturale. 


La questione non è di oggi e risale infatti al 1995, quando la piccola penisola desertica stava per dar vita alla sua prima spedizione di gas naturale con partenza del North Field, la più grande riserva offshore del mondo, la quale fornisce virtualmente tutto il gas qatariota. Qual era il problema? Semplice, quella piattaforma il Qatar la condivideva con l'Iran, nemico giurato dell'Arabia Saudita. Quel business, però, garantì al Qatar non solo di diventare una delle nazioni più ricche al mondo, avendo un reddito pro-capite di 130mila dollari l'anno, ma anche il più grande esportatore di gas naturale liquefatto (Lng) al mondo. Questo grafico di Bloomberg mette la questione in prospettiva: il gas sta alle casse statali di Doha come il petrolio a quelle di Ryad, di fatto è il driver primario e assoluto dell'economia. In parole povere, negli ultimi venti anni il Qatar si è tramutato in un player globale del settore che ha un unico competitor che può reggere la sua concorrenza, la russa Gazprom. Per gli altri, non c'è gara. 


E proprio l'incrocio Qatar-Russia spiega molte cose dell'attuale status. A partire dal 2013, infatti, Doha è stata uno dei maggiori finanziatori dei ribelli anti-Assad: soltanto nel biennio 2013-2015 ha garantito fondi per 3 miliardi di dollari, superando ogni altro governo. L'intento era chiaro: piegare Assad, farlo cadere e riuscire finalmente a far passare il progetto della pipeline petrolifera Qatar-Turchia, di cui la Siria è snodo principale, come ci mostra la mappa. 


Il problema è che, con il passare del tempo, due variabili sono entrate in gioco. Primo, l'Arabia Saudita - fiutata l'aria di possibile guadagno geopolitico - ha cominciato a finanziare massicciamente i ribelli siriani, superando in fretta il contributo di Doha e, secondo, quella che doveva essere una guerra civile si è tramutata in un conflitto proxy che vede in campo le maggiori superpotenze, Russia e Usa in testa. Visto il crescente rischio di malaparata, il Qatar ha cominciato ad abbozzare e a mettere in preventivo che Mosca, nel frattempo dislocatasi militarmente in Siria, non avrebbe mai accettato la caduta di Assad e la nascita della pipeline: detto fatto, lo scorso anno il fondo sovrano di Doha ha investito 2,7 miliardi di dollari nell'azienda petrolifera di Stato russa, Rosneft. Questo nonostante il Qatar sia sede della più grande base aerea statunitense nell'area, il quartier generale Centcom con oltre 10mila uomini impiegati nella struttura che sorge a pochi chilometri da Doha. 

Immediatamente, a Washington come a Ryad, si è accesa una lampadina rossa di allarme: nei fatti, il Qatar stava diventando uno sponsor dell'asse Russia-Iran-Siria. Intervistato da Bloomberg, Jim Krane, ricercatore nel ramo energia alla Rice University del Baker Institute, non ha usato giri di parole: era la crescente indipendenza politica e finanziaria del Qatar a spaventare gli altri Stati del Golfo. «Il Qatar è sempre stato visto come uno Stato vassallo dell'Arabia Saudita, ma, col tempo, ha usato l'autonomia garantitagli dal suo ruolo egemone nel campo del gas per costruirsi un status di nazione indipendente. Il resto della regione, a quel, punto ha cominciato a cercare ogni opportunità che si presentasse per tarpare le ali a Doha», ha dichiarato Krane. E qual è stata l'occasione che Ryad ha colto immediatamente? Il viaggio di Trump. Come sottolinea Bloomberg, infatti, «la recente visita del presidente Usa, durante la quale ha invitato tutte le nazioni coscienziose a isolare l'Iran, ha rappresentato l'opportunità perfetta per l'Arabia a tal fine. Quando il Qatar ha protestato ufficialmente per questa agenda smaccatamente anti-Teheran, pur cercando di negare subito dopo e chiamando in causa gli hacker per la pubblicazione delle dichiarazioni, Ryad ha immediatamente colto la palla al balzo per metterlo nel mirino». E, infatti, nemmeno due settimane dopo la visita di Trump, la quale sancì tra l'altro la nascita della cosiddetta "Nato araba" per combattere contro l'Isis, ecco la fulminea crisi diplomatica tra Paesi del Golfo e Qatar, con l'Egitto di Al-Sisi schierati con Ryad in chiave anti-Fratelli Musulmani. 

E ora, cosa succede? L'Arabia martedì sera aveva emanato un ultimatum verso Doha, scaduto ieri sera alle 9 ora italiana: 10 condizioni da onorare, prima delle quali tagliare tutti i collegamenti con Hamas e i Fratelli Musulmani. Stamattina, quando starete leggendo questo articolo, forse sarà partita una ritorsione o, forse, si starà ancora trattando, vista la mediazione messa in campo dal Kuwait. Ma resta un nodo, anzi due. Primo, i Paesi del Golfo possono alzare la voce, ma dipendono totalmente dal gas naturale del Qatar, in primis gli Emirati Arabi Uniti ma anche lo stesso Egitto. E si comincia già, sul mercato futures, a prezzare ogni tipo di sviluppo, soprattutto quello di possibili interruzioni o danneggiamenti alla strategica pipeline denominata Dolphin, come ci mostra la mappa, un gigante da 1,8 milioni di piedi cubi al giorno: in caso di blocco anche solo parziale di quell'arteria, la regione potrebbe vivere giorni di serio caos, soprattutto perché gli Emirati Arabi dovrebbero trovare immediatamente un fonte alternativa di approvvigionamento per i suoi picchi di domanda interna. Se Ryad forzasse la mano, Doha potrebbe quindi rispondere chiudendo i rubinetti e mettendo con le spalle al muro gli alleati dei sauditi in seno al Consiglio di Cooperazione del Golfo e alla "Nato araba". 


Secondo nodo, il fatto che da una crisi del genere il principale e pressoché unico beneficiario sarebbe la Grazprom, ovvero Mosca, la quale diverrebbe di colpo leader mondiale, senza colpo ferire e senza dire una sola parola riguardo al conflitto nel Golfo. Gli Usa lo permetteranno? Insomma, siamo nel caos geopolitico totale. I fronti si ampliano e adesso pare aprirsi quello diretto fra Isis e Iran, ovvero tra Arabia Saudita sunnita e Teheran sciita. E se il Deep State americano, incoronando Ryad nuova regina del Medio Oriente sunnita, avesse voluto spingere il Regno a un confronto diretto con Teheran, evitando a Washington di dover giocare un ruolo da protagonista? Sarà guerra a bassa intensità, conflitto ibrido tramite il terrorismo eterodiretto dello Stato islamico oppure qualcosa di più, magari usando l'affaire Qatar come alibi e arrivando all'azzardo di mettere mano allo Stretto di Hormuz per creare panico, anche sui mercati? Controllerei con attenzione l'open interest sui contratti long sul petrolio, tanto per capire cosa potrebbe succedere. A meno che, la risposta ce la dia un'altra volta un precedente storico. Ovvero, lo scandalo Irangate del 1985-'86, quando un traffico illegale di armi tra Usa e Iran (all'epoca sotto embargo), al fine di facilitare il rilascio di prigionieri americani rapiti da Hezbollah e di armare, con i proventi, la controguerriglia dei Contras contro i sandinisti in Nicaragua, stava per costare la presidenza a Ronald Reagan. Il quale, però, salvo se stesso, la sua immagine e la poltrona, siglando subito dopo l'accordo Inf con la Russia di Gorbaciov: la fine della corsa verso la Terza guerra mondiale deve passare ancora una volta dal caos in Iran? Solo il tempo ci darà risposta. Una cosa, però, mi fa pensare: perché colpire proprio ora l'Iran, garantendogli così il ruolo di vittima e non di sponsor del terrorismo?

Scopo primario del corrotto Pd è quella di servire su un piatto d'argento agli stranieri i risparmi degli italiani

SPILLO/ La ricetta per consegnare i risparmi italiani alle banche tedesche

Quanto accaduto a Banco Popular viene citato come un modello da seguire anche per l’Italia. In realtà comporterebbe seri rischi. PAOLO ANNONI ci spiega perché

10 GIUGNO 2017 PAOLO ANNONI

Wolfgang Schaeuble (LaPresse)

Le difficoltà del Banco Popular in Spagna sono state risolte questa settimana a tempo record con l’acquisto da parte del Banco Santander per la cifra simbolica di un euro; lunedì la banca spagnola chiedeva una linea di liquidità da due miliardi di euro per far fronte all’emorragia dei depositi della clientela. I fondi venivano bruciati in un giorno. La successiva richiesta di altri 1,6 miliardi bastava per appena una mattina. La soluzione veniva trovata il giorno successivo con l’acquisto da parte del Banco Santander. L’uscita dal mercato con annesso accorpamento nel gigante bancario spagnolo ha evitato un possibile lungo periodo di incertezza e le sue conseguenze: sul resto del sistema bancario, sui clienti del Banco Popular e sulla fiducia dei consumatori spagnoli. I mercati finanziari hanno ovviamente apprezzato la rapidità con cui è stata risolta l’incertezza e l’esito che ha permesso l’eliminazione del problema.

La “felice” conclusione è diventata da subito il termine di paragone per le vicissitudine del sistema bancario italiano, in particolare per Montepaschi e le due banche regionali venete. Il salvataggio che passa per il sacrificio degli obbligazionisti subordinati evidentemente funziona e può e deve essere replicato. Ieri un editoriale del Financial Times suggeriva apertamente la via spagnola anche all’Italia per la soluzione dei casi bancari più spinosi: “È giusto che gli investitori piuttosto che i contribuenti paghino per il fallimento di una banca. È incoraggiante che le strutture europee si siano dimostrate adatte.” Per mantenere la credibilità occorre applicare il processo sui diversi mercati. “Le due banche venete in difficoltà saranno il prossimo test”.

La questione però non è lineare. Il salvataggio del Banco Popular è passato sia per l’azzeramento del valore delle azioni che per i due miliardi di euro delle obbligazioni subordinate. La differenza è che in Italia, a differenza della Spagna, le obbligazioni sono in mano anche ai risparmiatori che da sempre sottoscrivevano le “sicure” obbligazioni bancarie. Se l’Italia applicasse la ricetta Banco Popular bisognerebbe pensare ai problemi e alle proteste successive al fallimento dell’Etruria come a un venticello rispetto a una tempesta.

I risparmiatori hanno sottoscritto obbligazioni bancarie prima delle norme europee sul bail-in in un contesto in cui non solo era impossibile ipotizzare il fallimento della banca, ma era pacifico che lo Stato sarebbe intervenuto. Come accaduto in tutti i fallimenti post Lehman. Il piccolo risparmiatore avrebbe non solo dovuto accorgersi del cambio della norma, ma anche leggere i bilanci per capire lo stato di salute della sua banca. Un compito arduo anche per il più navigato degli investitori come dimostra la storia di Lehman Brothers. La tutela del risparmio, piccolo dettaglio in tempi di cessione di sovranità all’Europa senza elezioni, sarebbe garantita dalla Costituzione italiana; in questo senso un’obbligazione bancaria è tutto tranne che un investimento speculativo. L’impressione fortissima è che applicare certe prassi in Italia porterebbe a risultati molto diversi non perché gli italiani sono cattivi, ma semplicemente perché le caratteristiche del mercato finanziario sono diverse. Le conseguenze politiche e sociali di certe decisioni già adesso sembrano molto preoccupanti.

Poi ci sarebbero le questioni di lungo periodo. Facciamo finta che non sia un problema per il sistema bancario italiano e per le imprese che finanzia eliminare una fonte di raccolta consolidata come la vendita di obbligazioni alla clientela. Facciamo finta, ma è chiaro che le conseguenze sono materiali e negative. La vera questione è che un risparmiatore italiano dovrebbe, prima di depositare i soldi in una banca, fare un’analisi della solidità patrimoniale della sua banca. Un compito impossibile dato che la fallita Banco Popular aveva passato per due volte gli stress test europei. Al risparmiatore italiano non basterebbe scegliere la più solida banca italiana; perché anche quella sarebbe messa in serissima difficoltà da una crisi economica o da una recessione in Italia.

Oggi quindi il risparmiatore italiano dovrebbe mettere i suoi soldi in una solida banca di un solida economia europea. Ma questa è pura teoria, perché la garanzia ultima di una banca è lo stato di salute dell’economia in cui è inserita e in ultima analisi dalla sua nazionalità; com’è sempre accaduto anche in Italia. L’Italia che costretta all’austerity è a tempo zero un’economia in recessione nel 2011 come nel 2017 e il suo sistema bancario subito dopo. Deutsche Bank non entra in crisi nemmeno dopo anni di rumour inquietanti perché tutti sanno e scommettono che la garanzia vera è finale è lo Stato tedesco e la sua banca centrale con i suoi canali apertissimi al suo sistema bancario. Se ci fosse una corsa agli sportelli nel sistema bancario tedesco ci sarebbe il bail-in, con sacrificio dei risparmiatori, oppure cambierebbero per tempo le regole europee? All’economia tedesca verrà mai imposta una riduzione del surplus via aumento dei salari con “recessione” per le sue imprese?

Imporre il bail-in ai risparmiatori italiani significa nel medio lungo periodo generare un esodo di risparmio dall’Italia all’”Europa del nord” con l’implicita assunzione che l’approdo è più sicuro perché lo Stato tedesco è di serie A rispetto allo Stato italiano. Più l’economia italiana va male, più le sue banche anche quelle meglio gestite diventano pericolose e meno prestano al sistema; il circolo vizioso è chiarissimo e può essere rotto solo da una garanzia europea che l’Europa, quella che comanda, non concederà mai perché in ultima analisi implicherebbe una solidarietà del contribuente tedesco verso quello italiano o spagnolo.

In Italia, quindi, si farà raccolta per prestare alle aziende tedesche; le grandi imprese potranno sempre accedere ai mercati internazionali, ma, come noto, la nostra è una economia di piccole e medie imprese. Questo ovviamente all’Ft non interessa, ma a noi dovrebbe.

“in una famiglia in cui il padre lavora e la donna sta a casa, il bambino viene condizionato a credere che i due sessi siano diversi”.

“Gender” come arma della nuova oppressione libertaria

Maurizio Blondet 9 giugno 2017 

“Nessuno ci obbligherà a tornare indietro al concetto di “la biologia è destino”, che cerca di confinare e ridurre le donne alle loro caratteristiche fisiche. La definizione di genere è già entrata nell’attuale discorso pubblico”, come “differenziata dalla parola sesso”, […] ”l’inclusione della prospettiva di genere in tutti gli aspetti delle attività dell’Onu è un impegno fondamentale approvato già nelle precedenti conferenze e pertanto deve essere rafforzato nella quarta conferenza internazionale sulle donne”. Così gli organizzatori della Conferenza di Pechino sulla donna del 1995: un momento cruciale dell’imposizione del “gender” in Occidente, ma, come si vede, lungamente preparato da “precedenti conferenze” tutte sotto l’egida dell’Onu.


Il rifiuto del “sesso come destino” nasce come una istanza di certo femminismo estremo statunitense, come programma “di liberazione” della donna. Uno dei meriti del saggio di Elisabetta Frezza Malascuola, è mostrare come il programma “libertario” venga fin dall’inizio concepito come coercitivo. A cominciare da Simone De Beauvoir,la compagna di Sartre, capostipite dell’ideologia femminista:

“A nessuna donna dovrebbe essere consentito di stare a casa a badare ai figli […] per il semplice fatto che se esistesse una tale opzione sarebbero in troppe a sceglierlo”.

Così cominciamo a capire come mai nella Italia povera dei nostri nonni, le madri avevano il lusso di stare a casa, mentre oggi nel ricco Occidente devono lavorare fuori: non è stata la crisi economica, ma un programma attuato deliberatamente. Perché, come scrive l’esponente femminista Nanchy Chadorow, “in una famiglia in cui il padre lavora e la donna sta a casa, il bambino viene condizionato a credere che i due sessi siano diversi”.

Liberticide festeggiano

Ma già nel 1969 Frederick Jaffe, vicepresidente della International Planned Parenthood Federation (la grande entità promotrice dell’aborto legale, oggi diventata in Usa l’abortoio di massa che rivende le parti corporee di feti) redige un memorandum – attenzione, richiestogli dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità dell’Onu – indica i fini: “Ristrutturare la famiglia, posticipando o evitando il matrimonio; alterare l’immagine della famiglia ideale; educare obbligatoriamente i bambini alla sessualità; incrementare percentualmente l’omosessualità”

Avrete notato la parola “obbligatoriamente”. Di fatto, è impressionante con quanta frequenza tali termini che invocano coazione, ricorrano nei testi dell’ideologia del “gender” e delle loro promotrici. Bisogna fare violenza alle donne e alle famiglie, per liberarle.

Propaganda del regime.

Judith Butler, alta esponente della filosofia lesbica, sostiene che è necessario “il controllo assoluto sulle famiglie, sull’educazione, sui media e sulle conversazioni private”. Capito? “Controllo assoluto”. Persino sulle “conversazioni private”: bel programma libertario. Stalin non avrebbe potuto dir meglio. Quanto ai media, le dichiarazioni di intenti dei gruppi femministi avviati a Pechino intimano agli autori televisivi, di cartoni animati e di testi scolastici quanto segue: “Non bisogna mai mostrare le donne come madri a tempo pieno o casalinghe, a meno che non si raffigurino come vittime di violenze, sociopatiche, o nelle vesti di fanatici religiosi”.

Notate il tono imperativo: “Non bisogna”. “Mai”. Per contro, secondo Shulamit Firestone (notissima esponente femminista, fino al giorno in cui si suicidò nel 2012) bisogna promuovere il “pansessualismo senza ostacoli. In cui la perversità polimorfa sostituirà l’etero, l’omo, la bi-sessualità”: da cui si vede con quanta naturalezza il programma totalitario femminista si colleghi alle”battaglie omosessuali”, alle “lotte di liberazione” sodomitiche, LGBT, che stanno chiudendoci nella loro gabbia totalitaria. Ciò serve, per la Firestone, a annullare “il tabù dell’incesto”.

“Il tabù dell’incesto serve solo a preservare la famiglia. […] Una volta eliminato il tabù dell’incesto, non ci sarebbe niente di male se un bambino avesse rapporti sessuali con la madre”: naturalmente, bisognerà forzare i bambini, condizionarli ad accettare questa liberazione dal tabù. A ciò mirano tutti i testi ONU, i programmi UE, le “riforme educative” mondialiste, e i progetti sovrannazionali che passano sotto la dizione (in neo-lingua orwelliana) di “diritti del bambino” . I “diritti del bambino alla sessualità” erano già invocati fra i “diritti umani” in una conferenza ONU del Cairo, nel 1994, sulla popolazione.

Abbiamo già visto la direttiva del Planned Parenthood, l’abortoio: “educare obbligatoriamente i bambini alla sessualità”, per convincerli che “gli esseri umani alla nascita sono psicosessualmente plastici”; così sono escogitate le nuove pedagogie che insegnano ai maschietti all’asilo a comportarsi da bambine, a recitare di “sposare” altri maschietti, gli Standards per l’Educazione Sessuale in Europa, emanati nel 2010 dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) raccomandano d’ insegnare ai bambini di 4 anni “il piacere di toccare il proprio corpo”. Si punta al condizionamento dei bambini come cani di Pavlov. E’ violenza, come dimostrano le innumerevoli reazioni di bambini di questo tipo: “Mio figlio è tornato a casa e mi ha detto: il sesso fa schifo; parlandoci ho capito che era rimasto disgustato dalla spiegazione data in aula del sesso orale”.

Ma è ovvio che un regime totalitario così inaudito da imporre ogni perversione, patologia e vizio sessuale come “valore pubblico”, debba trattare l’innocenza infantile come uno spregevole residuo del passato, da stroncare corrompendo le piccole anime: nel che mostra la sua natura metafisicamente satanica . Il governo quindi insiste nel compito educativo di far superare il disgusto ai giovani: “Per le scuole superiori il MIUR e l’UNAR promuovono la visione di film di amore omosessuale guidati da kit didattici”. Tra i film ce n’è uno che insegna questo: “nel mondo gay funziona così, cioè prima si scopa e poi ci si conosce”.

Notate l’uso orwelliano delle sigle: MIUR sta per Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, UNAR è il noto istituto della presidenza del Consiglio il cui compito è segnalare e denunciare alla nuova psico- polizia, all’OSCAD (Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) , il corpo di polizia Ps e CC, i “reati” di omofobia o discriminazione.

Ricordiamo che quando lo Stato si mette ad applicare misure “contro la discriminazione”, si deve intendere “misure contro la libertà”, di opinione, di critica, di espressione: scopo repressivo pure e semplice. Ora, già il ministro berlusconiano Frattini ratificò nel 2010 la direttiva di repressione dei Ministri degli Esteri Europei “misure volte a combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” che contiene già un invito a legalizzare la pedofilia (finalmente abbiamo capito a cosa serviva il “ministro” Frattini). La Fornero, del governo golpista-tecnocratico Monti, in qualità di Ministra delle Pari Opportunità, a Monti dimissionario, varò la “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere” [così avete capito a cosa serve il ministero Pari Opportunità] . Un progetto POLITE (Pari Opportunità nei Libri di Testo, sic) della Presidenza del Consiglio esige dalla Associazione Italiana Editori “la garanzia che nella realizzazione dei libri di testo e materiali didattici destinati alla scuola vi sia attenzione allo sviluppo dell’identità di genere , come fattore decisivo dell’educazione dei soggetti in via di formazione”

Esperta in totalitarismo.

..Una successione di normative e decreti, spesso atti amministrativi (sottratti dunque alle “garanzie previste dal sistema giuridico per le fonti di diritto” ) che dobbiamo per forza accorciare. Arriviamo al ddl Fedeli, 2014, quando la allora vicepresidente del senato Valeria Fedeli dà le istruzioni per la “lotta ai pregiudizi”; il “disegno di legge Fedeli è assorbito in toto dalla legge di riforma della legge chiamata La Buona Scuola”, scrive la Frezza; e la Fedeli, fanatica ideologica del “gender”, è la ministra della Istruzione, senza titolo di studio, ma assolutamente titolata per attuare il programma totalitario di sovversione dei giovani nella scuola. Cosa si propone il ddl Fedeli? Lo dice la relazione preliminare:

“Eliminare stereotipi, pregiudizi, costumi, tradizioni ed altre pratiche socio-culturali fondati sulla differenziazione delle persone in base al sesso di appartenenza”.

Ancora il tono imperativo: “Eliminare”. E non solo “stereotipi e pregiudizi”, ma soprattutto “costumi e tradizioni”: la volontà totalitaria di sradicare la struttura storica e culturale, i fondamenti della stessa identità di un popolo. Allo stesso modo, i bolscevichi hanno provato per 70 anni di sradicare la cultura e le tradizioni russe a forza di pistolettate alla nuca e di GuLag. Decisamente i comunisti restano affezionati ai loro sistemi e progetti di creazione coattiva dell’Uomo Nuovo; pur essendosi messi al servizio del capitale internazionale, restano, si può dire, Fedeli ai vecchi metodi.

Non a caso in alcuni libretti destinati alle scuole, e commissionati dall’UNAR (di Spano, il cappottino arancio) il fatto di professare la religione cattolica “è enunciato in sé come grave sintomo di omofobia, da cui diffidare e a cui porre rimedio”. Prodromi di una stretta persecutoria che ha già la benedizione di El Papa “Francesco”: il quale nel documento Amoris Laetitia ha inserito un disprezzo della famiglia (definita “tradizionale” e spesso teatro di autoritarismo, in piena sintonia con la dittatura sodomita) e un elogio alle nuove “famiglie” nate “dall’amore”: chiarendo che la neo-Chiesa “non rimane” attaccata “a uno stereotipo della famiglia ideale bensì”, bensì si rallegra di “ un interpellante mosaico di realtà diverse” (AL, n.57). Lo sdoganamento clericale della perversione totalitaria.

Ma non cominci il lettore a dire che qui siamo mossi da moralismo e bigottismo cattolico. La nostra opposizione è morale e metastorica, ma anzitutto civile e politica; una lotta per la libertà contro l’oppressione. Perché sappiamo, con la Frezza, che il nuovo totalitarismo, con la “Buona Scuola” mira a formare, “ad uso e consumo dei padroni del vapore, torme di individui incolti e svirilizzati, privi del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, disabituati al dissenso e incapaci di affrontare il conflitto, esenti per mandato da ogni velleità speculativa e identitaria, concentrati sulla soddisfazione delle proprie pulsioni, […] senza finestre su quel patrimonio di esperienza e di pensiero che ha sempre legato le generazioni lasciando uno spiraglio aperto sull’uomo e la sua natura spirituale”:

Per ordine internazionale.

10 giugno 2017 - Kosovo force. Intervista al Colonnello Stefano Imperia

Genova - Marco Mori


A Genova un candidato sindaco rifiuta i limiti alla spesa in deficit

9 giugno 2017



Non tutte le elezioni comunali rappresentano l’occasione per avviare una seria discussione sulla politiche economiche improntate alla riduzione della spesa pubblica e alla conseguente compressione dei diritti. A Genova, dove si svolgeranno le elezioni comunali domani 11 giugno, questo è avvenuto grazie ad un candidato che ha posto in primo piano la questione: Marco Mori.

Al di là delle convinzioni e degli orientamenti di ciascuno, è un segnale importante che il dibattito sul futuro di una città sia legato al dibattito contro le politiche di austerità. Di rado durante le elezioni comunali si sente parlare di questi temi e violare determinati tabù. È urgente rimettere in primo piano ciò che diamo per scontato e a cui non siamo più abituati: il rispetto dei principi fondamentali della Costituzione Italiana da parte dello Stato Centrale.

Il Comune di Genova non può dare attuazione agli ingenti investimenti pubblici oggi necessari per garantire i diritti sociali, in primis il diritto al lavoro, rispettando il patto di stabilità interno. Il futuro sindaco dovendo rispettare i vincoli di riduzione del deficit imposti dallo Stato e dalla UE, non sarà altro che “un commissario liquidatore”; come tale potrà arrivare in alcuni casi, come già succede in altri territori, a dover scegliere se aumentare le tasse (e quindi la disoccupazione), tagliare i servizi o svendere ai privati una fetta sempre più grande delle quote delle aziende partecipate dal comune.[1]

Questo è il cuore del problema: che fare di fronte ai vincoli alla spesa pubblica che impediscono oggi alle amministrazioni di dare attuazione alla Costituzione Italiana, di aumentare gli investimenti pubblici in deficit per garantire a tutti lavoro e risparmi e ridurre le diseguaglianze sociali? Per investire nella sicurezza e nella cura del territorio, nella sanità o nell’istruzione?

Un sindaco che rispetti i vincoli alla spesa a deficit non può che spostare risorse da un ambito ad un altro, non può aumentarle, ed in ogni caso non può complessivamente ridurre la piaga della disoccupazione.

Occorre tornare a interrogarsi se il modello di democrazia e di società scritta in Costituzione sia la meta ideale cui la nostra comunità crede ancora e a cui tende oppure no. se la risposta è sì bisogna chiedersi che cosa possono fare i comuni cittadini per cambiare lo stato delle cose.

Concretamente il primo dei metodi tecnici che Riscossa Italiana Genova si propone di adoperare consiste nel portare in giudizio il Governo centrale chiedendo l’erogazione dei trasferimenti di risorse necessari a garantire i servizi fondamentali.

Tale proposta viene indicata al punto 1 del programma:

“1. Piena attuazione dei principi fondamentali della Costituzione. In conformità alla sentenza della Corte Costituzionale n. 275/16 l’erogazione dei diritti incomprimibili non può essere limitata da qualsivoglia esigenza di bilancio, il patto di stabilità interno verrà dunque rifiutato con forza e sarà violato opponendo ogni sanzione davanti alle autorità giudiziarie preposte;”[2][3]

In tutte le città e in ogni confronto elettorale il dibattito dovrebbe essere centrato su questi temi. Nelle elezioni comunali di Genova questo è avvenuto. La discussione ha coinvolto anche gli altri candidati, contribuendo ad arricchire il confronto democratico e mettendo sul tavolo la questione fondamentale che tutti i partiti sono chiamati ad affrontare, e che non si può non toccare nell’approcciarsi ai cittadini.

Buona fortuna a Genova e a tutti!


Note


1.^ Il deficit pubblico è la differenza tra i soldi che in un anno lo Stato immette nel settore privato attraverso la spesa e quelli che rimuove con la tassazione, perciò contabilmente corrisponde al risparmio privato. Le politiche di riduzione del deficit pubblico, sancite nel Patto di Stabilità e Crescita (PSC), vengono oggi attuate dallo Stato attraverso una combinazione di riduzione della spesa pubblica ed aumento della tassazione. Come dà attuazione a tali politiche lo Stato? In parte, vincolando la spesa di alcuni enti facenti parte della pubblica amministrazione come sancito dal Patto di Stabilità Interno (PSI).

Gli enti soggetti al PSI sono in particolare quelli locali: Regioni, Province autonome, Province, Unioni di Comuni e Comuni. Il PSI impone a tali enti una serie di vincoli quantitativi ed operativi molto stringenti – costringendoli sostanzialmente a conseguire un pareggio o, meglio ancora, un surplus di bilancio – che spesso impediscono loro di riuscire a spendere nonostante, spesso, abbiano disponibilità finanziaria sufficiente. Vengono insomma costretti a tassare più di quanto spendono sia per limitare il deficit aggregato del settore pubblico, sia per garantire una maggiore possibilità di spendere a deficit ad altri enti facenti parte dello stesso settore.

Per ulteriori approfondimenti su deficit e livello di occupazione si consiglia la lettura dei seguenti articoli:



2. ^ Nella Regione Abruzzo avevano una legge regionale che stabiliva che il trasporto dei disabili si dovesse interrompere una volta finite le risorse del bilancio. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 275/16 ha stabilito che è il bilancio a doversi adattare all’erogazione dei servizi fondamentali, non il contrario.

3.^ Il programma elettorale completo di Riscossa Italiana si può trovare qui.

Gran Bretagna - forse la Strategia della Paura è stata neutralizzata dagli errori della May

La May non è la nuova Thatcher

LEGGI IL COMMENTO DI MARCELLO FOA

Theresa May ha commesso degli errori che un politico non dovrebbe mai compiere, talmente sono macroscopici.
© Keystone

09 giugno 2017 12:45
di MARCELLO FOA - 

Marcello Foa

Come fai a perdere le elezioni, guadagnando 5,5 punti percentuali e ottenendo il 42,4% dei consensi? In Gran Bretagna è possibile. Qualunque leader politico sarebbe euforico davanti a queste cifre, mentre per Theresa May questo è un giorno cupo. La sua vittoria in realtà è una sconfitta per le ragioni che sappiamo tutti: prima aveva la maggioranza assoluta dei seggi, ora non più.

Bizzarrie del sistema elettorale britannico dove il risultato nella singola circoscrizione pesa più del voto generale complessivo. Perdere seggi pur guadagnando consensi popolari significa una sola cosa: il partito conservatore ha stravinto in alcune zone ma è andato male in altre. Tecnicamente questo significa che la mappatura elettorale da parte degli strateghi è stata sbagliata, ma questo sbaglio ne nasconde altri ben più importanti. Theresa May ha commesso degli errori che un politico non dovrebbe mai compiere, talmente sono macroscopici.

Ha indetto elezioni anticipate al fine di ottenere un forte consenso popolare con cui iniziare i negoziati con la Ue sulla Brexit ma poi lo ha fatto sparire dall'agenda politica. Durante la campagna elettorale di Brexit e delle future relazioni con la Ue si è parlato pochissimo. E questo ha spostato il focus sulla sua personalità e su altri temi, a lei sconvenienti. Ha da sempre un problema: non è empatica. E per questo aveva bisogno di una campagna elettorale che avesse una carica emotiva e simbolica tale da compensare questo suo limite. Ci voleva un messaggio forte, coinvolgente, colmo di speranza. E invece i suoi strateghi hanno preso la strada opposta, puntando su un slogan "una leadership forte e stabile", che non ha colpito né la mente né il cuore degli inglesi e ha formulato un programma elettorale quasi suicidario. Ha prospettato un aumento delle imposte e uno smantellamento dell'assistenza per i più anziani a cui non verrebbe più garantito il pagamento delle cure mediche. Una proposta che è stata subito bollata come "dementia tax" dai suoi rivali.

Cosî facendo la May ha accentuato i limiti della sua personalità e ha legittimato l'accusa di chi la vede come la rappresentante delle élite e non del popolo. Che differenza con la Thatcher, che era figlia di un droghiere: sapeva istintivamente come ragiona l'inglese medio, che in lei si riconosceva. La May pur essendo figlia di un pastore anglicano ha studiato ad Oxford, ha lavorato alla Banca d'Inghilterra è stata cooptata da giovanissima nella Upper Class e in quanto tale percepita dal pubblico.

La May è così riuscita ad offrire nella forma e nel merito un assist fenomenale al leader dei laburisti Corbyn che invece ha impostato la campagna su uno slogan di grandissima efficacia: "For the many not the few" ovvero "Per i tanti non per i pochi". E ha parlato ai giovani che non trovano lavoro o che, quando lo trovano, non vengono pagati abbastanza, alla classe media tartassata dalle tasse, al popolo che non vuole rinunciare allo stato sociale. Ha parlato a una parte importante della società britannica, che analogamente a quanto accade in gran parte dei Paesi occidentali, non crede più nel futuro, nell'ascensore sociale e vede il proprio benessere minacciato. Come gli americani che hanno votato Sanders a sinistra e Trump a destra, i francesi che hanno scelto Mélénchon o la Le Pen. Il risultato in Gran Bretagna è spettacolare: i laburisti sono passati dal 30,4% al 40,1%. Quasi dieci punti e 29 parlamentari in più.

La May non può pertanto che biasimare se stessa, anche nella scelta di affidarsi a un guru americano, l'ex spin doctor di Obama, Jim Messina, lo stesso che aiutò Renzi al referendum, per intenderci. Qualcuno dirà: ma gli attentati? Penso che l'effetto sia stato neutrale: da un lato hanno rafforzato le istituzioni e dunque il premier uscente, dall'altro portato alle luce gli errori commessi dalla stessa May quando era ministro degli Interni. La Gran Bretagna cercava certezze e si ritrova senza un chiaro governo. Su Theresa May, invece, una certezza l'abbiamo: ora tutti sanno che non è la nuova Thatcher.

Energia pulita - eolico off shore, se il 25% sembrano pochi

Eolico offshore, l’Europa potrebbe istallare oltre 80 GW

Il vento marino potrebbe soddisfare fino al 25% della domanda di elettricità dell’Unione europea. Tre nazioni UE e 25 aziende si impegnano per renderlo possibile


(Rinnovabili.it) – Due scenari: il primo basato sulle attuali politiche europee, il secondo su quello che l’industria potrebbe fare se supportata adeguatamente dai governi dei ventotto. Così WindEurope, l’associazione che rappresenta i produttori di energia dal vento, disegna il potenziale 2030 dell’eolico offshore nelle acque del Vecchio Continente. Potenziale che, per ora, è ancora tutto sommerso.

L’Europa possiede attualmente 12,6 GW di eolico offshore istallato. Il settore si aspetta di crescere nei prossimi anni fino ad arrivare a coprire una quota dei consumi elettrici variabile tra il 7 per cento all’11 per cento al 2030. Ma “questa è solo una frazione delle risorse potenzialmente sfruttabili”, spiega l’associazione.


I recenti risultati nelle aste di Germania, Olanda e Danimarca mostrano che il comparto ha raggiunto livelli di competitività senza precedenti, merito dei rapidi progressi tecnologici, della crescita industriale e della riduzione del costo del capitale. Aumentando il supporto al settore, nell’ipotesi più ambiziosa (upside scenario), Wind Europe calcola sia possibile raggiungere entro il 2030 una potenza cumulata tra gli 80 e i 90 GW. Nello scenario di base la meta da raggiungere si aggira intorno ai 64 GW. “L’eolico offshore potrebbe in teoria generare tra 2.600 TWh e 6.000 TWh all’anno ad un costo competitivo di 65 euro il MWh o meno, compreso il collegamento alla rete elettrica”.


Con costi medi più bassi (54 euro il MWh) il vento marino potrebbe soddisfare fino al 25 per cento della domanda di elettricità dell’Unione europea. L’attenzione ovviamente è tutta riservata alle acque del Mar Baltico, del Mare del Nord e dell’Atlantico.

Le nazioni sono ben consapevoli del tesoro energetico che hanno fra le mani come dimostra, da ultimo, l’intesa stretta tra Germania, Danimarca e Belgio e 25 aziende del settore eolico. In una dichiarazione congiunta, firmata dai ministri dell’energia de tre paesi e i ceo di imprese come Dong Energy e Siemens Gamesa, si legge dell’impegno ad aumentare la capacità eolica offhsore in Europa di cinque volte nel prossimo decennio. Nazioni e aziende lavoreranno assieme per istallare 60 GW (o almeno 4 GW all’anno) nelle acque comunitarie.


Il Partito dei Giudici che protegge Matteo Renzi, lo zombi che cammina

SPESE FOLLI E SESSO A PALAZZO VECCHIO

L'avvocato Taormina contro Renzi: "Prima o poi lo porterò in tribunale"

Inviato da pescara1 il 9 Giugno, 2017 - 18:04
di GIANFRANCO MARROCCHI

Matteo Renzi

Il prof. Taormina non demorde e aspetta Renzi per metterlo spalle al muro ed avere delle risposte che aspetta da troppo tempo.
La Cassazione, a suo tempo, disse "NO" alla richiesta dell’avvocato Carlo Taormina di trasferire da Firenze a Genova, per ovvi motivi di opportunità, il processo relativo ai presunti sprechi di denaro pubblico denunciati mesi addietro da Alessandro Maiorano, ex dipendente del Comune di Firenze, che, carte alla mano, accusò l'allora Premier Matteo Renzi di aver usato denaro pubblico per fini personali, ai tempi in cui era stato, in tempi diversi, sia Presidente della Provincia di Firenze sia Sindaco di Firenze. E proprio per queste accuse, poi archiviate dai magistrati competenti, perchè ritenute infondate, Alessandro Maiorano avrebbe dovuto e dovrebbe difendersi nelle aule dei tribunali, ma fino ad ora tutte le udienze, fissate a tal proposito, sono saltate per molteplici motivi, non ultimo l'assenza in aula proprio di Matteo Renzi, che molti giudicavano e giudicano opportuna, in quanto denunciante. Ma Matteo Renzi, a detta di Alessandro Maiorano, "fugge per non dover rispondere, nelle aule di giustizia, alle opportune domande che l'avvocato Carlo Taormina si ripromette da tempo di fargli, ed alle quali Renzi dovrebbe, per dovere morale, dare risposta, visto che io l'ho accusato, con documenti da me e da Taormina ritenuti inoppugnabili, di aver dilapidato denaro pubblico per oltre 31 milioni di euro". "Accuse", prosegue Maiorano, "da lui però mai sconfessate ufficialmente, se non con varie azioni legali scatenate nei miei confronti, che però, nelle aule di giustizia dove si dovrà per forza di cose dibattere, aprono alla possibilità, da parte dell'avvocato Taormina, di poter controbattere a Renzi con una serie di domande più che pertinenti, che meriterebbero da parte dell'ex Premier, leader del PD, una risposta seria, quella che i tutti cittadini onesti si attendono da tempo". E delle accuse formulate da Maiorano a Renzi, se ne occuparono mesi addietro, oltre che i maggiori mass-media nazionali ed internazionali, anche "Le Iene", che avrebbero dovuto mandare in onda un sevizio in merito alle presunte "spese folli" di Renzi, che però venne inspiegabilmente bloccato, tanto da sollevare il risentimento anche di Giuseppe Cruciani, noto conduttore de "La Zanzara", seguitissima trasmissione radiofonica di "Radio 24", che, indignato, chiese conto in diretta della mancata messa in onda, su Mediaset, del servizio sugli "scontrini" di Renzi, forniti proprio da Maiorano ai magistrati per documentare le sue pesanti accuse nei confronti dell'allora Premier. Una richiesta indignata, quella di Giuseppe Cruciani, che però non ebbe risposta ne' da parte dei vertici di Mediaset ne' da parte dei responsabili della trasmissione televisiva "Le Iene". Molte sono le domande che l'avvocato Carlo Taormina ha in previsione di formulare all'ex Premier Matteo Renzi, se mai questi si presenterà in una delle numerose udienze previste per i vari processi intentati nei confronti di Alessandro Maiorano, che non riguardano solo il presunto spreco di denaro pubblico per fini personali, ma anche un presunto giro di escorts a "Palazzo Vecchio", sede del Comune di Firenze, che pare sia venuto alla luce grazie a delle intercettazioni effettuate dalla Guardia di Finanza, su varie linee telefoniche della sede del municipio fiorentino, mirate ad accertare presunti casi di assenteismo dei dipendenti comunali, rivelatesi poi, per i risvolti che sembra abbiano avuto, una vera bomba atomica, sia a livello giudiziario sia a livello mediatico. Indagini ed intercettazioni che sembra abbiano rivelato che un funzionario del Comune faceva sesso in ufficio in orario di lavoro, ed anche che un assessore dell'allora Giunta Renzi aveva concesso una casa di una cooperativa ad una nota escort, tanto che di tale presunto scandalo se ne occupò a suo tempo anche la giornalista Barbara Laurenzi, che scrisse vari articoli riguardanti il presunto giro di escorts a Palazzo Vecchio, a dimostrazione che le voci a tal proposito giravano insistentemente. Noi non sappiamo quanto ci sia di vero e documentato in tali voci e nelle vicende giudiziarie che vedono contrapposti Alessandro Maiorano e Matteo Renzi, ma l'avvocato Carlo Taormina vuole vedere a tutti i costi la verità e non demorde, così come non demorde anche il duro e scontroso Alessandro Maiorano (che molte voci indicano come un collaboratore dei "servizi"), balzato più volte alle cronache per le sue battaglie contro il malcostume ed il malaffare della politica, ed anche, in questi ultimi mesi, per aver denunciato presunte illegalità della senatrice del PD Stefania Pezzopane e del suo fidanzato Simone Coccia Colaiuta, che secondo le pesanti accuse rivoltegli dalla Procura della Repubblica di L'Aquila (supportate da intercettazioni della Digos effettuate nell'ambito di una indagine per presunti tentativi d'estorsione in ambito politico), stava per mettere in atto, in complicità con il suo agente Ivan Giampietro e con una per ora ignota "STEFANIA", un tentativo di truffa proprio ai danni di Alessandro Maiorano.

Iran - il terrorismo di servizio

CI HANNO MESSO LA FIRMA

Maurizio Blondet 8 giugno 2017

Il segretario di Stato Tillerson esulta per l’attentato ISIS a Teheran:


Teheran, il primo stato sostenitore del terrorismo, colpito da un attacco terroristico. Ossia: quando di trovi faccia a faccia col mostro che hai creato tu”.


Trump aveva appena esultato per l’isolamento del Qatar.

Diego Fusaro - Pisapia, un falso ideologico, sovrastruttura del capitale finanziario liberista

L. elettorale, Fusaro: "Renzi ha risorse come il Duca Valentino. Cosa penso di Pisapia"

09 giugno 2017 ore 13:07, Stefano Ursi

Il naufragio del 'patto a 4' sulla legge elettorale, le accuse reciproche fra i partiti su chi l'abbia fatto cadere, la difficoltà di rimettere in piedi un accordo: la polemica sulla giornata di ieri alla Camera è tuttora accesa e come prevedibile porterà ancora strascichi. Soprattutto in relazione a quella che poteva essere l'evoluzione relativa alle elezioni anticipate. Il tunnel è complesso da attraversare e superare. IntelligoNews ha chiesto al filosofo Diego Fusaro di commentare la vicenda, puntando su personaggi e scenario politico globale. ''Renzismo al capolinea dopo ieri? Difficile dirlo. Le risorse del soggetto sono molteplici, abbiamo capito che è scrupoloso e ambizioso quasi quanto il Duca Valentino di cui diceva Machiavelli''. 


Dopo la giornata di ieri, con il naufragio fra franchi tiratori e accuse reciproche del cosiddetto 'patto a 4' sulla legge elettorale, in molti dicono che il renzismo è al capolinea: è d'accordo? Oppure è uno scenario che il segretario aveva previsto?
''Con tutte le puntualizzazioni del caso, penso sia difficile dire che il renzismo sia al capolinea, da archiviare. Le risorse del soggetto sono molteplici, abbiamo capito che è scrupoloso e ambizioso quasi quanto il Duca Valentino di cui diceva Machiavelli''.

Si legge stamane su La Stampa che Renzi avrebbe detto di non controllare più i suoi: ci crede?

''Non so se controlli più i suoi oppure no. Di sicuro ha perso appeal e controllo, questo mi pare evidente. Che non li controlli più è difficile dire, lo scopriremo molto presto''.

Dall'altra parte c'è Pisapia, che non riesce a dare forma a quella formazione di sinistra alternativa di cui molto si è parlato: lei lo voterebbe?

''Pisapia a mio giudizio è difficilmente votabile, perché rappresenta la sinistra radical-chic che fa da sovrastruttura al capitale finanziario liberista della destra del denaro, quindi è esattamente il contrario di ciò che dovrebbe tutelare gli interessi delle classi sociali più deboli e del ceto imprenditoriale in fase di decomposizione. Del resto si è visto a Milano quali erano le politiche di Pisapia, non certo a sostegno degli ultimi''.

Non sono in pochi quelli che evidenziano come la 'giostra del potere' vada avanti comunque, nonostante all'orizzonte ci siano misure economiche come, pare, l'aumento del bollo per le auto più vecchie e le difficoltà dei cittadini aumentino.

''Sicuramente a pagare le spese di tutto sono quelle che io chiamo, con Hegel, le nuove plebi variopinte e moltitudinarie, gli sconfitti della mondializzazione, che vengono sempre più tassati e attaccati, tanto i lavoratori quanto il ceto medio-imprenditoriale, che con la scusa della lotta all'evasione fiscale vengono tartassati quotidianamente da quella elite finanziaria che, dall'altra parte, non ha alcuna tassazione''.

Se si andasse a votare con la legge elettorale non riformata, a chi guarderebbe?

''Se si andasse a votare guarderei a tutte le forze antisistema, e segnatamente a quelle contro la mondializzazione in tutte le sue declinazioni; anche se, a dire il vero, non vedo forze politiche credibili nello scenario e dunque credo si debba lavorare sulla cultura, per creare una egemonia culturale alternativa e organica''.

Ungheria - Gli euroimbecilli schiumano rabbia contro Orban che tutela gli interessi del suo paese

ESTERI

08/06/2017 19:44
Soros e l'Europa contro Orban

L'Ungheria ancora al centro di polemiche



L'Ungheria di Viktor Orban si è trovata, negli ultimi mesi, al centro di più o meno motivate polemiche, in primis per quanto riguarda i diversi aspetti di un argomento che, in tutta Europa (e non solo) è o dovrebbe essere tra i primi posti nell'elenco delle priorità dei governi quanto a pianificazione di programmi e soluzioni. Si tratta dell'immigrazione, che il battagliero politico magiaro ha affrontato e sta affrontando a modo suo, con una politica prevalentemente centrata su quelli che ritiene essere interessi del suo Paese. Ovvero la limitazione degli ingressi di rifugiati dalla frontiera con la Serbia, attuata mediante il rafforzamento delle barriere e dei controlli ai confini.

C'è poi la questione relativa all'approvazione, da parte del Parlamento magiaro, di una legge volta a limitare l'influenza in Ungheria delle Ong che ricevono finanziamenti dall'estero. Dello stesso tipo le regole relative al settore universitario, che colpiscono in particolare il Central European University, fondato e gestito da George Soros, il miliardario americano di origini ungheresi da più parti accusato di manipolare, proprio attraverso i giovani di varia nazionalità formati nei suoi centri accademici, le politiche interne di diversi Paesi. Oltretutto il "filantropo" è uno dei principali finanziatori delle organizzazioni che si occupano di migranti.

Leggi, queste volute da Orban, che porteranno molto probabilmente alla chiusura del Ceu. E che, unite alle sue politiche già piuttosto rigide quanto alla prevalenza degli interessi nazionali su quelli stranieri, hanno fruttato al leader di Budapest non solo l'antipatia di molti che hanno manifestato "per la libertà di insegnamento universitario" e contro "le politiche intimidatorie nei confronti delle organizzazioni non governative" ma anche le espresse critiche dell'Unione Europea (già dal 2014 in pessimi rapporti con l'Ungheria in seguito alla rigidità di Budapest nella gestione della crisi dei rifugiati).

Prima la Commissione e poi il Parlamento europeo si sono infatti recentemente pronunciati contro il governo ungherese. In particolare l’assemblea di Strasburgo ha espresso "crescenti inquietudini" riguardo al rispetto delle libertà civili in Ungheria, in forza delle quali ha deciso l'avvio di una procedura di sanzionamento del Paese magiaro (la relativa risoluzione è stata approvata nelle scorse settimane con 393 voti a favore, 221 contro e 64 astensioni) per "rischio chiaro di grave violazione” dei valori fondamentali dell’Ue ed un "un grave deterioramento dello stato di diritto, della democrazia e dei diritti fondamentali" in particolare per quanto concerne “la libertà d’espressione, l’indipendenza del potere giudiziario e i diritti fondamentali dei migranti”.

La risposta di Orban è stata molto decisa. Dopo aver definito "sbagliata" la strategia dell'Ue consistente nell'agitare lo spettro delle sanzioni (fatto questo che a suo dire è la prova che "tutta la politica europea è viziata"), il capo del governo ungherese ha sottolineato che "l'Europa non è Bruxelles, ma gli Stati nazionali. E se essi non sono rispettati dalle istituzioni, questo è scoraggiante. Loro (le istituzioni europee) dipendono da noi e non viceversa".

Viktor Orban e il suo governo non hanno quindi nessuna intenzione di fare passi indietro. Ed il fatto che abbiano rotto le uova nel paniere a più di qualcuno è dimostrato dalla reazione piuttosto scomposta di George Soros. Che – riferisce il New York Times - parlando giovedì scorso dal palco del Brusselles Economic Forum, ha citato "l'inganno e la corruzione dello stato mafioso instaurato dal regime di Orban, che mantiene una facciata di democrazia ma in realtà controlla mezzi di comunicazione e magistratura. E li usa per arricchirsi e mantenere il potere", aggiungendo che a suo dire il premier di Budapest "ha impostato la sua politica come un conflitto personale", ritagliandosi "il ruolo di difensore della sovranità ungherese" e riservando al suo avversario, bersaglio della sua campagna di propaganda, quello di "speculatore che con i suoi soldi tenta di inondare l'Europa – ed in particolare l'Ungheria – con immigrati clandestini, come parte di un vago ma nefasto complotto". Parole queste che Orban ha detto di considerare come una "dichiarazione di guerra", definendo Soros come “uno speculatore che ha distrutto le vite di milioni di persone”.

Da registrare, infine, un ulteriore recente argomento di discussione, che pone Viktor Orban di nuovo al centro di polemiche e critiche. Ovvero il piano da lui proposto per risolvere il problema del calo delle nascite (e tutto ciò che tale dato comporta). Una questione, quella della crisi demografica, che qualcuno – non solo in Ungheria - vorrebbe affrontare aumentando il numero di immigrati. L'idea del premier magiaro è però un'altra. E consiste in un piano per incrementare la natalità, consistente nell'adozione di una serie di misure di sostegno alle famiglie (sgravi fiscali, riduzione del costo dei mutui per nuclei con tre o più figli, investimenti in asili nido e taglio degli interessi per i prestiti studenteschi dovuti da donne con due o più bambini). Un programma questo attraverso il quale il Paese magiaro si pone l'obiettivo, entro il 2030, di aumentare la media del numero di nati per donna dall'1,5 odierno al 2,1%.