L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 19 agosto 2017

Siria - Tal Afar, Isis in rotta

Isis in fuga da Tal Afar

19 agosto 2017 


La prima fase dell’offensiva anti-Isis a Tal Afar, la campagna aerea, comincia già a dare i suoi frutti in attesa dell’attacco terrestre il cui inizio è previsto a quanto sembra per il 21 agosto. Molti miliziani dello Stato Islamico si stanno dando alla fuga.

Lo conferma l’arresto di 30 jihadisti da parte dei peshmerga curdi ai margini della zona. I militari iracheni, invece, hanno ucciso il “sindaco” e il capo della polizia Daesh della città. Si chiamavano Abu Fatema al-Jaafari e Zahed Khedr. Hanno perso la vita insieme a 6 loro uomini, mentre cercavano di lasciare l’area senza essere rilevati. Non solo. Anche lo Stato Islamico ha giustiziato 20 suoi elementi con l’accusa di tradimento.

Questi si erano dati alla macchia, ma sono stati bloccati e arrestati. Inoltre, Isil ha istituito delle pattuglie speciali, il cui compito è quello di rintracciare e uccidere i fuggitivi della formazione. Intanto, i caccia di Baghdad e della Coalizione internazionale hanno distrutto due basi dei terroristi e hanno danneggiato un ponte.


A Tal Afar Isis ha un anche un altro problema: un’epidemia di scabbia dovuta da due motivi. Il primo sono le scarse condizioni igieniche e il secondo è la bassa esposizione al sole da parte dei miliziani Daesh nell’area. Questi, infatti, vivono per lo più sotto terra nella rete di tunnel scavata dai jihadisti per sfuggire ai bombardamenti aerei delle forze irachene. A seguito di ciò, c’è stata una rapida diffusione della malattia. Per curarla i vertici dello Stato Islamico in città hanno ordinato ai jihadisti di usare permetrina, un farmaco usato anche come insetticida.

Il medicinale, però, ha cominciato a scarseggiare. Di conseguenza, si è resa obbligatoria una soluzione alternativa, con tutti i rischi del caso. Gli estremisti a turno hanno dovuto esporre vestiti e tessuti per periodi prolungati alla luce solare diretta. Questa prassi li ha resi infatti più identificabili dai dispositivi ISR della componente aerea nemica.


Nel frattempo, Isis sia a Tal Afar sia nelle altre zone dell’Iraq, ha imposto la coscrizione ai civili. Proprio come aveva fatto recentemente in Siria a sud di Deir ez-Zor. Lo riporta l’editoriale di questa settimana di al-Naba, la newsletter del Daesh. In previsione dell’invasione di terra nella zona e in prospettiva di quella imminente ad Hawija, allo Stato Islamico servono tutte le forze disponibili per cercare di resistere al nemico.

Perciò, chiunque sia in grado di maneggiare un’arma è una risorsa preziosa. Soprattutto a seguito del fatto che molte di quelle ufficiali della formazione sono fuggite o pensano di farlo alla prima occasione. Di conseguenza, si rischia che i numeri siano diversi rispetto a quelli pianificati. La decisione è comunque un azzardo, in quanto non c’è garanzia che i coscritti non facciano altrettanto. (Difesa&Sicurezza)

Foto: South Front, al-Jazeera e Esercito Iracheno

Giulio Sapelli - Si ricorra alla mano pubblica per investire. Lo Stato ritorni imprenditore

GEO-FINANZA/ Sapelli: la ripresa è una balla, sfidiamo la Germania

L’Italia ha visto crescere ancora il Pil nel secondo trimestre. Tuttavia per GIULIO SAPELLI, anche per quel che avviene in Germania, non si può parlare di ripresa

19 AGOSTO 2017 GIULIO SAPELLI

Lapresse

Nel secondo trimestre del 2016 il Pil faceva registrare un +0,8% di crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nel secondo semestre del 2017, dato appena comunicato dall’Istat, lo stesso indice statistico - che è sempre una media - fa registrare il +1,5% (tendenziale). Questo dato deriva dalla crescita iniziata a partire dal secondo trimestre dell’anno scorso, quando è stata (a livello congiunturale) dello 0,1%, e poi dello 0,3% nel terzo e dello 0,4% nel quarto e ancora nel primo trimestre del 2017 dello 0,4%, sino a giungere a un altro +0,4% del secondo. Il tutto - composto e destagionalizzato - crea la cifra dello sbandierato +1,5%.

Teniamo i nervi saldi. Non c’è bisogno della laurea, soprattutto di quelle di oggi, per capire ciò che dal buon senso si ricava, ossia che la ripresa tecnicamente esiste, ma è debolissima e non ci fa affatto superare i punti di Pil che abbiamo perso dalla crisi del 2007 e in generale dal rallentamento che è iniziato nella sostanza nella seconda meta degli anni Novanta del Novecento. È questo che ci deve preoccupare, non l’ennesima filastrocca del distacco dalla Germania e dalla Francia.

Le divergenze sono in atto tra le nazioni europee già da una ventina d’anni e l’avvento del sistema a cambi fissi con moneta unica non ha fatto che farle aumentare sempre più. Il tutto in una spirale deflattiva (non a caso si discute tra persone colte di deflazione secolare, rifacendosi al grande e poco noto Hansen, il quale già prevedeva ciò che sarebbe successo in tempi non sospetti, ossia gli anni Trenta sempre del Novecento, nella Sua America del Nord). È la deflazione il problema: se i prezzi scendono e non si alzano che impercettibilmente non può esserci crescita perché i profitti non crescono abbastanza da giustificare gli investimenti. Sono i profitti, ossia la loro prevedibile attesa, a creare gli investimenti e non il contrario.

La teoria giusta non è in Keynes, ma in Kalecki, in Kaldor e in Minsky. Ma questi economisti nelle università della statistica di Shangai non li legge più nessuno. Fa eccezione Cambridge che è più tuttavia e per fortuna terza nella suddetta statistica seguita di lì a poco da Oxford. Ma in Italia si legge non l’inglese, ma il nordamericano di Chicago e allora si cade nell’abisso di oggi, quando si parla di inflazione con prezzi e crescita attorno all’1%.

A proposito: Draghi ha bruciato per sostenere le banche europee, e ha fatto benissimo, miliardi di euro perché doveva raggiungere un famoso 2% (o mi sbaglio?). Ma questo 2% non lo si raggiungerà mai solo per via monetaria. Si salverà solo il credito creandolo artificialmente. Meglio di nulla direte, ma è una strada pericolosissima e veramente rischiosa. Capiamoci: se l’ascensore si ferma e rimbalza e non precipita più siamo tutti contenti, ma la ripresa è un’altra cosa. Tanto più se guardiamo al dato tendenziale. Qui c’è il particolare pascaliano che cela il diavolo. Una serie di rimbalzi cosi duraturi ma sempre piccoli dimostra che gli investimenti che si determinano sono incrementali e modestissimi e trainati non tanto dall’attesa del profitto, quanto invece da uno stillicidio di incentivi e dalle manovre per assumere un pugno di giovani e con il marchio 4.0 fare un qualche innovazione non paradigmatica.

Coloro che mi leggono sanno poi che il marcio risiede a parer mio nell’applicazione da parte della Germania delle teoricamente deboli ma dannosissime prediche dell’ordoliberismo, che attraverso il Fiscal compact sono state imposte a tutta l’Europa trascinandola nella deflazione. Essa non fa paura ai tedeschi ordoliberisti perché sono un’economia export lead grazie alla competitività idiosincratica dei prodotti. Ma per sistemi a bassa innovazione compensata da svalutazioni competitive è disastrosa quando queste ultime sono impossibili con moneta unica. Si ricorre - e l’Italia è ormai maestra in questo - alle svalutazioni interne, ossia ai bassi salari grazie alla liberalizzazione del mercato del lavoro e all’esercito industriale di riserva che veniva un tempo dal Sud Italia e ora dal Sud del mondo in spregio a ogni ragionevolezza.

Quindi mi domando: ma dove sta la crescita tendenziale? Mi si dice che stia nell’industria ed è pur vero che siamo ancora un grande sistema industriale secondo in Europa e quarto nel mondo. E di ciò oggi si gioisce. Ma nel contempo le esportazioni scendono e si importa sempre più proporzionalmente all’export.

Ci si metta d’accordo. Bisognerebbe iniziare a chiamare le cose con il loro nome. A cominciare dal dire che l’1% non è inflazione ma deflazione. E poi cominciando a ripensare agli investimenti: che essi scaturiscano dal profitto e non dai sussidi. Senno si ricorra alla mano pubblica. Qualche miliardo di debito in più, se serve a stimolare la crescita, con il ritorno allo Stato imprenditore: si agisca contravvenendo alle tecnocrazia oligarchica europea. Lo si faccia! È l’ora giusta. Guardate ciò che succede in Germania. La signora Merkel e il signor Schauble, pur in clima elettorale, difendono Draghi dalle staffilate della Corte Costituzionale di Karlsruhe che s’era mossa su richiesta dell’ex fondatore di Afd e del leader dalla Csu e del professor Kremer, distinto giurista ordoliberista a oltranza. Eppure il signor Draghi era un arcinemico. Ci sarà una ragione per l’improvviso amore!

Per capire bisogna guardare a ciò succede nel sistema bancario, infrastrutturale e industriale tedesco e ci si accorgerà che suona l’allarme anche per la Germania (Air Berlin insegni con il prestito ponte statale). Pensate un po’ che cambiamento. Forse allora il pericolo si avvicina, altro che crescita, altro che far salti gioia! Il Primo ministro Gentiloni è pensoso e mi pare il più saggio. Sconsolato, isolato e confuso tuttavia.

Maurizio Blondet - la Strategia della Paura inocula il terrore piano piano con preveggenza poi ci peneranno gli ebrei della Katz a cesellare e finire di modellare il quadro

JIHAD IN SPAGNA. LA COSTRUZIONE DELLA NARRATIVA.

Maurizio Blondet 18 agosto 2017 

Notate la data: il 19 settembre 2016. Titolo: “Stan preparando un attentato a bandiera falsa in Barcellona?”. Lo prospettava un sito spagnolo, El Robot Pescador. Quasi un anno prima, gli estensori del sito si sono allarmati per come “l’idea viene inoculata nell’immaginario pubblico” attraverso gli articoli di grandi giornali iberici.


El Mundo, il 31 gennaio 2016: “IS avverte che la Spagna pagherà molto cara l’espulsione dei musulmani da El Andalus”. Da cui sono stati cacciati nel 1492.


Voz Populi, 28 aprile 2016: “I Jihadisti lanciano altre minacce alla Spagna – Il numero 9 di Dar Al Islam, la rivista francese dello Stato Islamico, torna a riferirsi a Al Andalus – elevato il numero di menzioni del nostro paese scoperte nei comunicati e materiale propagandistico”..


24 luglio 2016, El Espanol “Lo Stato Islamico comincia a diffondere messaggi in spagnolo – Aumenta la minaccia”.


Improvvisamente i jihadisti mettono ad esprimersi in castigliano.

Ma già da anni El Pais (equivalente ideologico di Repubblica) informava i suoi lettori che “Gli Stati Uniti considerano la Catalogna il maggior centro mediterraneo del Jihadismo”;


ABC: “ Catalogna è la comunità con maggior rischio di radicalizzazione di musulmani”


Anzi, “Catalogna è l’epicentro del radicalismo jihadista in Spagna”, comunicava il governo Rajoi e riportava El Pais nel maggio 2016.


Seguivano vari articoli di allarme: “I jihadisti di Catalogna volevano decapitare una persona e diffondere il video”


“Lo Stato Islamico punta alla Sagrada Familia”, informava La Vanguardia il 10 agosto 2016;


e qualche falso allarme: Allerta terrorista al porto di Barcellona”, strillava il 13 settembre 2016 La Vanguardia. Un bambino pakistano di anni 12 aveva puntato una pistola (giocattolo) contro “i crocieristi che scendevano da una nave”. Grande intervento di polizia, servizi, truppe speciali.


Naturalmente, i giornali contrari al secessionismo catalano notano “i punti deboli della Catalogna davanti a un attacco terrorista”, spiegando che l’autonomia è molto carente sul piano della sicurezza:


Ragion per cui El Robot Pescador tenderebbe ad attribuire questo crescendo di allarme, inteso ad inoculare nella gente un “seme di preoccupazione” e di “lo si sapeva”, quando l’attentato poi si verifica, al governo di Madrid. Si posta una frase di Vincenzo Vinciguerra, terrorista “nero” italiano ma in realtà uomo di Gladio, delle organizzazioni NATO clandestine, Stay Behind:


Un lettore mi ricorda: “In Catalonia il 1° ottobre si vota il referendum per l’indipendenza della Catalonia dalla Spagna. Queste sono decisamente operazioni compiute dalla CIA per conto dei servizi spagnoli allo scopo di militarizzare la regione e impedire o influenzare l’esito del referendum. Inoltre ricordo che l’11 settembre in Catalonia si ricorda la DIADA ( il giorno della caduta di Barcellona circondata dalle truppe castigliane e della perdita della indipendenza nel 1700) e da 4 o 5 anni ogni anno l’11 settembre scendono in pazza a Barcellona ca. 1,5 o 2 milioni di catalani per chiedere l’indipendenza dalla Spagna. E probabile che quest’anno venga proibita con la scusa dei fake terroristi”.

Vedremo. Chissà. La cosa interessante è che tutte le informazioni, foto e video relativi alla feroce nostalgia dello Stato Islamico per Al Andalus, vengono dal SITE di Rita Katz.

La “narrativa” degli attentati in Finlandia e Dortmund

La preveggenza del sito spagnolo ci consente di “leggere” gli altri due attentati avvenuti poche ore dopo, uno a Turki in Finlandia e un altro a Dortmund, come un’altra seminagione dell’immaginario pubblico.

Posto che una tale coordinazione e simultaneità di attentati islamisti farebbe dell’IS una potenza mostruosamente efficiente con cellule sincronizzate, cosa non molto probabile – certo, le ambasciate di un qualche stato estero potrebbero essere di ausilio – a noi sembra che ciò serva a confermare la “narrativa”; di per sé assurda, che viene da Washington: per il fatto che lo Stato Islamico è stato debellato in Irak e sconfitto in Siria, proprio per questo farà una quantità di attentati contro voi europei. Non crediate di vivere tranquilli in Europa: i jihadisti stanno tornando, incattiviti. E’ una “narrativa” demenziale: non s’è mai visto, poniamo, un esercito disfatto – il Terzo Reich per esempio – che si fa vivo organizzando la guerriglia e attentati. Nemmeno i confederati, debellati, hanno avuto questa capacità vitale. L’ISIS invece ce l’ha. Può colpire a Bercellona e in Finlandia e in Germania lo stesso giorno. Ancorché i terroristi coinvolti non abbiano alcuna colleganza con lo stato islamico.

Oubakir

Anche l’attentatore di Nizza si fece un selfie. Era bisessuale ed alcolista. Di colpo, wahabita.

Anzi. Mussa Oubakir, il 17enne che forse è morto ammazzato e forse no (allo stato attuale la polizia non lo precisa), che “sicuramente” ha noleggiato il furgone rubando i documenti del fratello maggiore Idriss, e che “forse è il guidatore del furgone con cui ha investito a morte decine di persone”, scritto sui social frasi del tipo:

“Soy un pirata, no quiero ni tu oro ni tu plata, lo que quiero es lo que tienes entre pata y pata”. Sono un pirata, non voglio il tuo oro e il tuo denaro, voglio quello che tieni fra le gambe. Poi, improvvisamente, si è radicalizzato. Si attendono chiarimenti dal SITE di Katz.

18 agosto 2017 - Gigi Proietti recita NINNANANNA DELLA GUERRA di Trilussa

19 agosto 2017 - Mario Albanesi: Luna calante

venerdì 18 agosto 2017

1981 divorzio della Banca d'Italia dal ministero del Tesoro, da dove sono iniziati i guai del debito pubblico dell'Italia. Mario Monti come anima dannata che ci ha inflitto pene e sperequazioni

Mario Monti: 35 anni di piani eversivi

Arthur FraynAugust 18, 2017

Mario Monti per molti è un tecnico prestato alla politica per qualche tempo, al pari di quanto si soleva fare nella Roma degli albori. Potremmo quindi ben crederlo un Cincinnato dei nostri giorni - Il novello Cincinnato, tuttavia, trama per la distruzione dello Stato che era stato chiamato a salvare, da moltissimi anni, come lui stesso ci ricorda in questo intervento di cui di seguito riporto anche la trascrizione - 


Buona visione e lettura -

Intervento del 13-02-2008 in occasione del convegno “Andreatta Economista” presso la Banca D'Italia

“Ricordo i due primi incontri che ebbi con il professor Andreatta, entrambi determinarono in me emozione gratitudine e una punta di terrore. Tenni nell'istituto di Andreatta a Bologna il mio primo seminario, malgrado la presenza rassicurante di Carlo D’Adda, che conoscevo già, la presenza, le domande, i movimenti pendolari del professor Andreatta, che non sapevo ancora essergli consueti, mi causarono qualche brivido. L'altro incontro mi aprì, proprio come avvenne a Mario Draghi, le porte del primo incarico di insegnamento a Trento: politica economica, facoltà di sociologia. Perché terrore in questo caso? E' il primo giorno a Trento, ed era Mario (si rivolge a Draghi ndr) ottobre ’69, non ottobre ’76 come per te, dovetti partecipare non già allora consiglio di facoltà, ma al plenum dei docenti, come si chiamava. Il leader del movimento studentesco locale Marco Boato dava del tu ai docenti e ci informò che il giorno dopo ognuno di noi sarebbe stato naturalmente sottoposto ad un esame politico (risate dal pubblico ndr). Per un attimo mi chiesi dove mi avesse mandato Andreatta, ma poi gli fui doppiamente grato, anche per questa esperienza temprante. (risate dal pubblico ndr)

Io non ho vissuto dall'interno come Maria Teresa Salvemini il capitolo divorzio, e quindi anche per me è stato molto interessante leggere la tua relazione Maria Teresa. Io ero in prossimità del ministro Andreatta a quell'epoca, com'è stato ricordato era stata istituita pochi mesi prima del divorzio nel gennaio ‘81 quella commissione di cui facevo parte con i professori Cesarini e Scognamiglio, che consegnò al ministro un rapporto sul sistema creditizio e finanziario nel gennaio del ’82; quindi io vorrei fare brevissime annotazioni su come vidi, come mi parve d'essere il ruolo di Andreatta a monte e a valle del “divorzio”. A monte cioè nel clima di cultura economica in cui il divorzio si collocò e a valle, cioè come si dipanò poi, come si sviluppò il nesso tra divorzio e una più ampia riforma strutturale della politica monetaria e creditizia Italiana. Lo sfondo culturale: ci sono tre righe che Maria Teresa (Salvemini ndr) ci ha letto, che sono significative: nessuno aveva interesse a contrastare la crescita del disavanzo il cui finanziamento appariva tranquillamente affidato alla Banca D'Italia e i cui costi in termini di interessi da pagare erano assai contenuti. Era proprio questo il nesso tra assetto della politica monetaria-finanziaria da un lato e generazione del disavanzo pubblico dall'altro il tema su cui avevo avuto occasioni di discutere con Nino Andreatta nella seconda metà degli anni ’70. E credo che sia per questa impostazione che un po' per volta, anche per il suo eclettismo, trovò forse meritevole di attenzione, che mi chiese di partecipare a quel lavoro di riforma sul sistema creditizio. 

Nel dialogo con Andreatta esposi in quei tempi la mia convinzione: la politica monetaria e finanziaria, in quanto determina le modalità di finanziamento del disavanzo, influenza i costi politici a essa collegati e perciò a lungo termine influisce sulla dimensione stessa della spesa e del disavanzo, anche del disavanzo primario cioè al netto degli interessi sul debito pubblico, se la politica finanziaria come avvenuto in Italia negli anni ‘70 si caratterizza per l'accondiscendenza finanziaria verso lo Stato e per l'imposizione di vincoli sulla banca centrale, sulle banche e sul pubblico, essa favorisce il formarsi e il persistere di un disavanzo pubblico elevato. 

La cultura economica prevalente in Italia a quell'epoca prediligeva, è stato anche oggi ricordato, orientamenti keynesiani del resto arrivati in Italia e proficuamente, ma con un qualche ritardo rispetto ad altri paesi, e l'orientamento relativo la scuola di Cambridge l'impostazione sraffiana. 

La Banca D'Italia era come fu prima, come sarebbe stata poi, scuola di rigore e di stile e aveva a quell'epoca un'eccellenza senza pari nell'analisi economica rispetto al Tesoro, rispetto alle università e rispetto alle consorelle banche centrali straniere, ma aveva anche la caratteristica di prestare relativamente scarsa attenzione alla politica monetaria e all'analisi monetaria, leggermente paradossale per una banca centrale. Ogni 31 maggio in questa sala (salone della Banca D’Italia ndr) si ascoltavano, come per esempio il professor Spaventa più volte notò, analisi molto approfondite sul comportamento di tutti gli operatori dell’economia nazionale ed internazionale, un po' meno su quello della politica monetaria, non credo affatto per reticenza, ma per visione culturale che collocava relativamente sullo sfondo questi aspetti. Del resto ricordo come artigianalmente negli uffici della banca commerciale italiana all'inizio degli anni '70 si prese a calcolare aggregati monetari e tassi d'interesse reali, che non venivano rilevati e pubblicati a quell'epoca dalla Banca D’Italia. Questo, secondo me, rende molto significativo il passo culturale del professor Andreatta e naturalmente del Governatore Ciampi che si movettero parecchio in avanti rispetto all’humus culturale del tempo e ogni riferimento al monetarismo era così sospetto e visto con tale ostilità nella cultura economica prevalente in Italia, che Andreatta e Ciampi furono anche accusati per l'atto del divorzio di essere vagamente monetaristi.

Vengo al mio secondo punto, cioè a valle del divorzio. Già nel novembre-dicembre 1982, quel periodo quale adesso Maria Teresa ha fatto riferimento a proposito credo di un trafelato commercialista di Bari (Rino Formica ndr), in quel periodo il divorzio(tra Banca D’Italia e Ministero dl Tesoro) veniva rimesso in discussione. Era il periodo della formazione di un nuovo governo Fanfani e in quel momento, in quei giorni, esponenti politici, esponenti sindacali, esponenti imprenditoriali si chiedevano, uso un eufemismo, se fosse stata tanto una buona idea fare il divorzio. Avrebbero preferito tornare ad un assetto che distendesse maggiormente i tassi d'interesse e ricreasse un clima più abituale e confortevole. Naturalmente Andreatta, e immagino certamente il governatore Ciampi e coloro che erano gli autori o i fautori del divorzio erano preoccupati. Intervenni anch'io nel dibattito di politica economica cercando di legare la difesa del divorzio ai passi ulteriori da compiere sulla linea del rapporto che era stato consegnato pochi mesi prima al ministro del tesoro. 

Mi ricordo che utilizzai anche nell’occasione una presa di posizione di quei giorni molto interessante di Guido Carli, sembra ancora di sentirlo qui il 31 maggio 1974 usare la famosa frase dell'atto sedizioso [1], che anche i più giovani ricordano perché l’hanno studiata, quindi non la cito, ma in un articolo del 30 novembre 1982 quindi in questo momento in cui il neonato divorzio era già sotto attacco Carli scrisse che era ormai convinto che il rifiuto delle autorità monetarie di agevolare il finanziamento del tesoro a scapito del finanziamento della produzione avrebbe indotto più tempestivamente la classe politica a provvedere al contenimento dei disavanzi,

ma naturalmente occorreva non solo tutelare il divorzio, ma andare oltre, andare oltre e venne sviluppata l'analisi secondo la quale molto bene che un coniuge coatto del Tesoro cioè la Banca D'Italia fosse stata appena affrancata dai suoi vincoli, ma coniugi coatti del Tesoro erano in diverse misure le banche, i risparmiatori, le imprese. Vincoli quali il massimale sui prestiti bancari e il divieto di impiegare all'estero del risparmio, si traducono, si traducevano in ultima analisi da un lato in un finanziamento più facile per lo stato dall'altro in tassi di interesse più bassi sui risparmi e più alti sui prestiti alle imprese (come affossare un paese). Una graduale attenuazione di quei vincoli avrebbe corrisposto non solo all'esigenza di incoraggiare il risparmio e di gravare di minori oneri il settore produttivo, ma anche a quella di accrescere il costo politico della spesa pubblica in disavanzo. Fu necessario un po’ di tempo è stato ricordato anche questa mattina perché questi principi di riforma del sistema creditizio e finanziario, in accompagnamento logico al divorzio e naturalmente alla fine ancora molto più importanti del divorzio, venissero tradotti in atto. Io ricordo discussioni in quell'epoca con il ministro Andreatta e anche con lui sull'atteggiamento delle banche, anche questo è l'aspetto che ci permette di misurare l'enorme miglioramento che si è verificato nel frattempo (?!?!) I colleghi Cesarini e Scognamiglio ricorderanno un pomeriggio del 1982 quando venimmo invitati e ammessi ad una riunione ad hoc del comitato esecutivo dell’ABI, in cui presentammo le proposte che avevamo appena presentato al ministro del tesoro sulle banche. I banchieri più eminenti colà riuniti furono presi, alcuni di loro da una vaga simpatia intellettuale, ma anche da qualche sgomento, perché naturalmente è molto più difficile gestirsi in condizioni di libertà, che lamentarsi per vincoli che esistono e molti di loro mettendosi nei panni del ministro del tesoro più di quanto il ministro del tesoro fosse nei suoi panni dicevano “ma cari ragazzi, ma come osate proporre queste cose: sarebbe il sistema politico che verrebbe rimesso in discussione”. Quindi è naturale che sia stato necessario un po' di tempo.

Vorrei dedicare gli ultimi due minuti se li ho ancora a una riflessione che mi è stata provocata dall'intervento di Alberto Giovannini. Credo anch'io, quello che mi pare d'aver capito in parte implicito in parte esplicito nelle parole di Alberto, che dall' inflazione, la più iniqua delle imposte, siamo oggi passati, in molti nei nostri paesi, ad imposte ancora più inique della più iniqua delle imposte, cioè le imposte che non il potere pubblico, ma titolari di rendite di protezione di connivenze impongono ai loro concittadini, certo a volte spesso perché c'è dietro un atto del potere pubblico che limita la concorrenza o di altra natura, tasse,ecco io credo che parlando di indipendenza della banca centrale, parlando di politica monetaria, parlando di cultura della stabilità, la quale questa mattina si è richiamato il presidente Ciampi identificandone giustamente nel divorzio il punto di partenza in Italia, occorra tenere presente che forse il futuro rischio per la stabilità, per la cultura della stabilità è proprio questo, perché più una società di protezione di rendite e di connivenze frena il tasso di crescita del paese esclude soprattutto i giovani più si alimenta il risentimento contro le leve delle politiche economiche ortodosse che attuano la cultura della stabilità.

Concludo con un riferimento alla Francia di queste settimane. Parigi è il punto in cui in questo momento da un lato sì sono avviate riflessioni operative per la liberazione della crescita, dall'altro è il punto dal quale nel sistema europeo con frequenza e anche con un certo vigore promanano rimesse in discussione dei criteri del patto di stabilità a volte della stessa indipendenza della banca centrale, questa volta europea. Io vedo una relazione tra la capacità che il sistema politico francese che il presidente della repubblica potrà avere, anche avvalendosi delle proposte che un’altra commissione che la istituita, ha messo sul suo tavolo, la capacità di liberare la crescita riducendo essenzialmente, perché queste sono le cose proposte: protezione rendite e connivenze e il quietarsi in futuro di questi periodici sussulti polemici nei confronti dell’ordinamento europeo fondato sulla cultura della stabilità.

Mi rimane una curiosità personale che voglio confessare: quando venne consegnato al ministro Andreatta il libro verde sul sistema creditizio finanziario, ci fu una molto ponderata prefazione anonima e quindi attribuibile al ministero del tesoro che un quotidiano sintetizzò un po' brutalmente “il rapporto sul credito Andreatta: grazie dei consigli ma non li seguirò”. A distanza di relativamente pochi anni quasi tutto è stato attuato. Il presidente della repubblica francese nell'accogliere nelle sue mani il rapporto della commissione da lui istituita, dopo aver detto al momento di insediarla quello che vuoi proporrete io farò, al momento di accogliere il rapporto ha detto: condivido l'essenziale mi appresto a tradurlo in atto. 

Rimango con la curiosità di sapere in quale dei due casi la percentuale di attuazione sarà stata più alta, grazie”

NOTA FINALE: nel 2013 in un'intervista alla CNN Monti dichiarava: 

"Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna tramite il consolidamento fiscale"

Mario Monti alla CNN spiega come sta distruggendo l'Italia esasperando la pressione fiscale 

Era dunque questo il piano eversivo di lungo respiro che stava dietro le operazioni di divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia del 1981 e che ha segnato l'inizio della demolizione dello Stato Italiano, repubblicano, così come formatosi con la Costituzione del 1948. Un piano eversivo che portò il debito pubblico a raddoppiare nel successivo decennio e ad esplodere poi definitivamente, con grande soddisfazione dei banchieri nazionali e non -

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PTV News, 18 agosto 2017 - La Cina abbraccia il blockchain e copia Bitcoin

17 agosto 2017 - Giulietto Chiesa: "Come di prammatica: dagli al russo!"

Maurizio Blondet - Strategia della Paura si dispiega ogni volta che serve per cambiare gli avvenimenti. Inglesi e statunitensi non vogliono far crescere il Mare Nostrum

Toh le medesime conclusioni sulla Cia e gli ebrei, evidentemente ci sono segni evidenti
martelun

I cinque terroristi uccisi a Cambrils dalla polizia avevano cinture esplosive – finte

Maurizio Blondet 18 agosto 2017

Peccato che siano stati tutti ammazzati: sarebbe interessante sapere per quale stortura mentale degli islamisti si erano rivestiti di cinture esplosive innocue. O qualcuno gliele aveva fornite facendo loro credere che erano vere?

Anche i tre terroristi dell’attentato al ponte di Londra il giugno scorso indossavano cinture esplosive finte, fatte da bottigliette d’acqua ricoperte di nastro opaco argenteo. Peccato che i tre, Khuram Butt, Rachid Redouane and Youssef Zaghba, siano morti anche loro.

Le false cinture esplosive dei terroristi del ponte di Londra, luglio scorso.

Non resterebbe che chiedere alla CIA, che “ due mesi fa la aveva segnalato all’intelligence catalana, i Mossos d’Esquadra, il rischio, altissimo, di un attacco terroristico a Barcellona, che avrebbe avuto come obiettivo Las Ramblas. Un obiettivo simbolico, perfettamente in linea con gli altri che hanno insanguinato l’Europa “. Se non lo sa la CIA, che ha solo da qualche giorno – la notizia è del 19 luglio – ha cessato di fornire armi, addestramento e salari al “ribelli” di Al Qaeda perché rovesciassero il governo di Damasco….

https://article.wn.com/view-lemonde/2017/07/20/Trump_ends_Syria_arms_link/#/related_news

se non lo sa la Cia che ha strette, fruttuose ed amichevoli relazioni con l’ISIS, a cui per mesi ha paracadutato armamento ed altre forniture allo Stato Islamico, il cui Califfo compare nelle note foto col senatore McCain ….



Quella CIA che , il giorno in cui il governo italiano riprende le relazioni diplomatiche con l’Egitto, rimandando l’ambasciatore al Cairo, fa uscire un gigantesco articolo in cui rivela che “Obama diede a Renzi prove esplosive s sulla responsabilità del regime egiziano nell’omicidio di Regeni”.

Prove solidissime. Infatti, eccole come riferite dal NYT Magazine: “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo Usa. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».

Naturalmente tutti sono in grado di capire che 1) quest’ultima è una operazione di intossicazione e disinformazione della Cia (la Cia di Obama, il Deep State) per sabotare il ritrovato accordo di Roma con l’Egitto; e 2) una tardiva vendetta contro al Sissi, che ha mandato a monte il piano di Obama di consegnare l’Egitto ai Muslim Brothers. Con il sospetto che 3) nessun servizio segreto egiziano è così cretino da catturare, torturare ed uccidere uno straniero e poi farne ritrovare il corpo. A meno che lo scopo degli autori e dei mandanti fosse proprio quello di far incolpare i servizi egiziani.

Tutti sono in grado di capire, tranne i genitori di Regeni (che capire non vogliono) (PERCHE' ?), e tranne – ovviamente – la Boldrini: la quale ha ingiunto al governo di “riferire” perché a suo dire “un Paese intero ha il diritto di sapere che la ricerca della verità sull’uccisione di un giovane cittadino italiano rimarrà imperativo fondamentale per le nostre istituzioni e non sarà piegata a nessun’altra ragione».

Se fosse davvero un imperativo da non piegare a nessun altra ragione, i genitori di Regeni, invece che Al Cairo, dovrebbero andare a Cambridge, e la Boldrini dovrebbe pagare loro il viaggio.

O almeno dovrebbe leggere – se è in buona fede – l’intervista al generale Leonardo Tricarico, ora presidente della Fondazione ICSA (Intelligence, Culture and Strategic Analysis) http://www.fondazioneicsa.it/ ed è stato consigliere del presidente del Consiglio quando questo era D’Alema. 

Il generale Tricarico “punta il dito contro “il Regno Unito e quelle manine che muovono i fili per alzare la tensione tra Roma e il Cairo. io punterei il dito contro i mandanti più che contro gli esecutori”.

E come mandanti, indica esplicitamente “L’università di Cambridge che ha mandato al Cairo un giovane ricercatore come Giulio senza chiarire confini e rischi del suo mandato. Tutta la parte della storia relativa a Cambridge, ai professori, all’incarico di Giulio è ancora molto opaca. E questo non aiuta a trovare la verità”.

Il generale dà poi questa informazione in più, per me inedita:

“Nel 2016, pochi mesi dopo la tragedia di Regeni, l’università di Cambridge ha provato ad ingaggiare un altro studente italiano e a mandarlo al Cairo per svolgere inchieste analoghe a quelle di cui si occupava Giulio (i modelli organizzativi dei sindacati, ndr). Cioè, gli inglesi ci hanno provato di nuovo. Perché? Qual è il vero obiettivo di quell’università?”.

Quel ragazzo è partito?

“No, il ricercatore ha messo alcune condizioni alla sua partenza, cose del tipo ‘vado solo se le autorità egiziane sono informate della mia presenza e del mio ruolo’. Cambridge ha lasciato perdere”.

Perché Cambridge “ha lasciato perdere”? Voleva dei ricercatori clandestini in Egitto? E perché italiani?

Questo devono andare a chiedere i genitori del Regeni. Ai magistrati italiani, “Cambridge” non ha voluto rispondere nulla. Le rivelazioni di Tricarico sono state publicate qui: fa caldo, è ferragosto, la Boldrini non li avrà letti. Li legga, se è in buona fede.

Mauro Bottarelli - 2017 crisi economica - il Quatitative Easing ha regalato alle grandi aziende miliardi, se queste regalie finiscono vanno tutte a zampe all'aria

SPY FINANZA/ I segni della vera crisi in arrivo

Il dato positivo sul Pil del secondo trimestre ci sta facendo credere, dice MAURO BOTTARELLI, che il peggio sia alle spalle. Ma non è affatto così: la vera crisi deve arrivare

18 AGOSTO 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Ha ragione Giorgio Vittadini, siamo come Rocky 3 e dobbiamo riconquistare tutto. C'è un problema, però: la maggior parte del mondo politico, pensa che gli anni dal 2008 a oggi siano stati il nostro purgatorio per tornare sul ring e vincere, magari ritenendo quello 0,4% di crescita del Pil un anticipo della cintura da campione. Ma non è così e se non si dissolve una volta per tutto questo colpevole fraintendimento rischiamo solo di precipitare in una crisi ancora peggiore. Nel film, Rocky si gode gli allori di una vita da campione ormai fatta di incontri su misura, ma quando incontra Clubber Lang, affamato e rabbioso, subisce la peggior lezione della sua vita. Umiliato. Distrutto. Bene, ciò che noi abbiamo vissuto finora è stata la stagione degli incontri su misura e il sarto che ce lo ha permesso non è stato l'allenatore Mickey del lungometraggio, bensì la Bce con il suo programma di espansione monetaria. Di fatto, monetizzando il debito Ue. La crisi vera, l'incontro con Clubber Lang, arriva solo ora. Quindi, leviamoci dalla testa di essere usciti, rinati e in forma smagliante, dalla palestra puzzolente e cenciosa di Los Angeles dove Apollo Creed ci ha portati per ritrovare noi stessi e i nostri "occhi delle tigre". 

Lo dico per una serie di ragioni, le stesse che immagino troveranno spazio di discussione al Meeting che si apre dopodomani a Rimini. E partiamo proprio da dato del Pil, leggibile ovviamente in maniera diametralmente opposta se lo si guardi dalla maggioranza o dall'opposizione, ma incontrovertibile in un dato: un pochino di ripresa c'è, ma non per tutti. E non lo dice il sottoscritto: «Finalmente il peggio è definitivamente alle nostre spalle, tuttavia è una ripresa che non coinvolge ancora tutto il Paese; basti pensare al piccolo commercio le cui vendite erano in calo dello 0,6% nei primi 6 mesi dell'anno o all'artigianato dove le imprese attive, a fine giugno 2017, risultavano in calo dell'1,2% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno». È stato questo il commento del coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo, dopo aver letto i dati pubblicati mercoledì dall'Istat sull'andamento del Pil nazionale nel secondo trimestre del 2017. 

«Se si può affermare che la domanda interna è ripartita - conclude Zabeo - questa ripresa sta interessando prevalentemente le medie e grandi imprese manifatturiere, attive sui mercati internazionali che stanno beneficiando delle misure agevolative introdotte dal governo per chi investe (Calenda). Gli artigiani, i piccoli commercianti e tutto il popolo delle partite Iva che, invece, vivono quasi esclusivamente dei consumi delle famiglie, ancora lontani dai livelli pre-crisi, rischiano di non cogliere questo risveglio della nostra economia». Ed ecco che tornano i miei mantra, stucchevoli quanto volete, ma non più ignorabili: l'euro ieri è sceso di poco sotto 1,17 ma rimane forte, troppo forte per una ripresa che abbia nell'export il suo traino. Quindi, se si resterà in questo ordine di cross o si andrà in rialzo delle quotazioni, saranno proprio quelle industrie medie e grandi che operano sul settore internazionale a pagare lo scotto e, quindi, potenzialmente a perdere il ruolo di driver della crescita. 

Secondo, la Bce. Ieri vi ho parlato della decisione di Mario Draghi di non toccare argomenti monetari nel suo discorso del 25 agosto a Jackson Hole, il simposio annuale della Fed e di quanto questo pesi psicologicamente sui mercati: i giornali di ieri hanno pressoché ignorato la notizia, ma non i mercati. Direte voi, l'euro però è calato? Già, ma perché, furbescamente, dalle minute dell'ultimo incontro del board Bce è stato estrapolato un concetto molto mirato: ovvero, i timori espressi in sede Eurotower per un tasso di cambio in overshooting in futuro. Insomma, timore per l'euro forte. Non sono stato quindi un visionario, nelle ultime tre settimane? Ovviamente, un concetto simile non può che portare a un deprezzamento, perché solo un board di pazzi penserebbe ad alzare i tassi con un cambio in crescita penalizzante. Quindi, tapering rimandato e ancora Qe: detto fatto, l'euro scende sotto 1,17 sul dollaro. Ma sono solo mosse tampone, tanto più che la Fed non resterà certo a guardare. Anzi. Proprio mercoledì sera, infatti, sono state pubblicate anche le minute dell'ultima riunione del Fomc e il quadro appare abbastanza chiaro, nel suo attendismo tattico. 

La Federal Reserve mantiene infatti aperta la porta «in una delle prossime riunioni» a una riduzione del proprio bilancio - al momento stabile a 4.500 miliardi di dollari - ma mostra anche qualche segno di preoccupazione per una inflazione, la quale «potrebbe rimanere al di sotto del 2% per più di quanto attualmente previsto». Timori che impattano anche sulla tempistica relativa al prossimo rialzo dei tassi e che emergono con chiarezza dalle minute della riunione: il mese scorso il costo del denaro era rimasto invariato tra l'1 e l'1,25%, ma la Fed aveva dichiarato di aver intenzione di procedere con la terza stretta del 2017 entro la fine dell'anno. Il deludente andamento dell'inflazione in luglio (+0,1%) aveva però convinto il mercato che l'opzione di un giro di vite in settembre sarebbe stata accantonata. Anche perché il mese prossimo dovrebbe essere avviato il processo di normalizzazione del bilancio, gonfiato negli anni della crisi dall'acquisto di Treasury e bond ipotecari. D'altra parte, sostengono le colombe della Fed nelle minute dell'ultimo summit, con i prezzi al consumo al palo, la banca centrale «può permettersi il lusso di essere paziente in materia di tassi». 

William Dudley, presidente della Fed di New York, aveva già sottolineato qualche giorno fa come il dato sull'inflazione potrebbe non raggiungere l'obiettivo di crescita annua del 2% (non centrato da anni) per 6-10 mesi alla luce dei deboli dati recenti. A suo modo di vedere, un mercato del lavoro dove per i datori di lavoro diventa più difficile trovare personale specializzato e un dollaro debole aiuteranno a spingere l'inflazione verso l'alto. Per i falchi c'è invece il rischio che - a fronte di un mercato del lavoro in forte crescita e di prezzi dell'azionario vicini ai record - l'inflazione balzi improvvisamente sopra il target di crescita annua del 2%: «Costerebbe molto invertire un tale trend», si legge nel documento. Insomma, tutto e il contrario di tutto

D'altronde, Washington attendeva indicazioni al riguardo da Mario Draghi. Il quale, però, si è sfilato. Facendo sorgere non pochi dubbi. Perché anni di incontri su misura con pugili a fine carriera garantiti dalla Bce ci hanno regalato quanto rappresentato nei grafici più in basso: ovvero, un mondo che non può esistere in una realtà di mercato. E non parlo di liberismo, bensì anche di economia sociale di mercato, dove spread ai minimi come quello raggiunto dal biennale spagnolo non possono convivere con tassi di disoccupazione giovanile simili, in calo ma ancora sideralmente alti e vicini ai massimi record. 




È distorsione pura. Ed è quella distorsione che ha reso possibile il +0,4% che dall'altro giorno occupa le prime pagine dei giornali: ma se Draghi stesso non osa svelare le carte a Jackson Hole, come possiamo dare per ipotecato quel risultato e l'ambiente monetario che lo ha reso possibile? Non sarà che l'ingresso nella palestra del dolore, della sofferenza e del sacrificio sia davanti a noi, in autunno e non dietro le spalle come troppi ottimisti pensano? Tanto più che il vero mezzo miracolo compiuto da Draghi è stato quello di andare all-in come un pokerista nell'azzardo del Qe, ovvero aprendo all'acquisto di bond corporate che hanno liberato miliardi e miliardi di euro di finanziamento a costo zero per le grandi imprese Ue, le stesse che la Cgia di Mestre vede come beneficiarie della ripresa - in parte anche per le politiche di governo - e quindi traino del Pil positivo del secondo trimestre. Ma se Draghi blocca, cosa succede? Finanziarsi sul mercato costerà di più, tanto che ieri a Piazza Affari il listino è stato zavorrato proprio da nuove tensioni sul settore bancario. 

È vero, abbiamo perso tutto e occorre ricominciare daccapo, ma guardando in faccia la realtà vera, non quella modellata e confezionata: la ricreazione è finita adesso, ci aspettano lunghe ore di lezione. Qualcuno, invece, pensava che fosse suonata la campanella delle vacanze estive. Attenti a guardare agli Stati e non alle Banche centrali, si rischia un ko.

I medesimi ebrei sanno che fanno azioni illegali nei confronti dei palestinesi

Corte Israele congela sanatoria case avamposti ebraici

Legge di scorso febbraio, 2 mesi tempo a Stato per risposta

17 AGOSTO, 14:00



TEL AVIV - La Corte Suprema israeliana ha congelato provvisoriamente la legge, passata alla Knesset lo scorso febbraio, di sanatoria delle case negli insediamenti e avamposti ebraici in Cisgiordania, costruiti illegalmente su terra privata palestinese. Lo riferiscono i media.
La Corte ha dato due mesi di tempo allo Stato per intervenire sulla materia. Sia ong sia organizzazioni palestinesi ricorsero alla Corte all'epoca della legge e lo stesso Avvocato Generale dello stato Avichai Mandelblit fece sapere che non avrebbe difeso la norma. Secondo dati forniti all'epoca la legge dava sanatoria a quasi 4mila case costruite nelle colonie ebraiche su proprietà privata palestinese in cambio di compensazioni economiche per i proprietari. Di queste, secondo 'Paece Now', 797 sono in avamposti ebraici giudicati illegali anche dallo Stato.

La Persia denuncia gli Stati Uniti una controparte in malafede che non mantiene gli impegni presi

Iran: Rouhani riaccende il contrasto con gli Stati Uniti

Si riaccende il contrasto tra Stati Uniti e Iran. Fin dove potrà spingersi Donald Trump? E fino a che punto potrà resistere il moderato Rouhani?

di EMANUELE CUDA 17 agosto 2017 18:00


Neanche due settimane fa il rieletto Presidente Hassan Rouhani, dopo che la Guida suprema, l’ Ayatollah Alì Khameneine aveva ratificato l’ elezione, aveva pronunciato il suo discorso di insediamento di fronte a più di duecento dignitari politici e diplomatici internazionali. In quell’ occasione, buona parte delle sue parole era stata incentrata su quello che, secondo Rouhani, era stato un successo del suo precedente mandato, ossia l’ accordo sul nucleare.

L’ accordo di Ginevra detto 5+1 in quanto aveva coinvolto i 5 paesi del Consiglio di Sicurezza ONU e la Germania, era stato uno dei momenti fondamentali dell’ Amministrazione Obama.Questi aveva intavolato una trattativa durata diversi anni, cui ha lavorato, peraltro, oltre al segretario di Stato John Kerry, in modo attivo, anche l’ Alta Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza europea, Federica Mogherini: in cambio del rispetto dell’ accordo, sarebbero state eliminate le sanzioni che da diversi anni gravavano sull’ economia iraniana. Accordo che certamente non aveva entusiasmato gli storici alleati degli USA, Arabia Saudita e Israele.

«Nei mesi scorsi il mondo è stato testimone del fatto che gli USA, in aggiunta ad un costante e ripetitivo tradimento delle loro promesse sull’ accordo nucleare, hanno ignorato alcuni altri accordi globali e hanno dimostrato ai loro alleati di non essere un buon partner o un negoziatore affidabile». Con queste parole Rouhani ha accusato due giorni fa gli Stati Uniti e il loro atteggiamento, considerando la recente approvazione da parte del Congresso americano, di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica (oltre che contro Russia e Corea del Nord, nonostante, come certificato nel mese di luglio da Trump stesso, l’ Iran non sia mai venuto meno all’ accordo.

Rouhani ha poi lanciato un avvertimento a Washington: « L’ esperienza fallita delle sanzioni e della coercizione ha portato la precedente Amministrazione al tavolo dei negoziati. Se vogliono tornare a quella esperienza, in poco tempo – non mesi o settimane, ma entro giorni o ore – torneremo alla precedente situazione».

Proprio in occasione del primo viaggio all’ estero da Presidente, Donald Trump, in visita alla capitale saudita Ryad aveva sottoscritto un accordo di oltre 100 miliardi di dollari per la vendita di armi all’ alleato e successivamente a Gerusalemme aveva condannato, per l’ ennesima volta e senza mezzi termini, l’ attività destabilizzante dell’ Iran e di quegli attori che supportano, direttamente o meno, il terrorismo.

Il risultato delle elezioni presidenziali iraniane di maggio è stato netto: Rouhani, il candidato ‘moderato’, inviso, per l’ accordo sul nucleare del 2015, anche alla Guida Suprema Khamenei, è stato votato da circa il 60% degli aventi diritto, premiato, probabilmente, dagli elettori per quanto realizzato negli anni della sua presidenza. Diversi sono ancora i problemi da risolvere: la corruzione, l’ arretratezza nelle infrastrutture come Internet, l’ insufficienza idrica, ma, certamente, l’ uscita dall’ embargo è parso un segnale di speranza.

E’ anche vero, però, gli effetti della ripresa economica non sono immediati e le nuove sanzioni volute dagli Stati Uniti non fa altro che riaccendere nella popolazione iraniana, soprattutto nei giovani, negli esclusi, pericolosi rigurgiti nazionalisti. In ballo tra le due Nazioni rimane, tra le altre questioni, la Siria. Gli Stati Uniti hanno fatto sapere non più tardi di un mese fa, che la rimozione di Bashar al-Assad non è una conditio sine qua non per la risoluzione del conflitto. Assad, espressione degli sciiti alawiti che costituiscono il 12% della popolazione siriana contro il 74% sunnita, rimane uno storico alleato dell’ Iran, il cui obiettivo odierno sembra essere quello, man mano che l’ ISIS indietreggia, di acquisire terreno fino a creare una sorta di “mezzaluna sciita” che giunga fino al Libano. Si rafforza l’ asse con Ankara, si inasprisce il rapporto con Israele e il progetto di aumentare l’ egemonia nella regione sembra prendere corpo.

Trump, dal canto suo, vorrebbe controbilanciare questa tendenza, a cui, purtroppo, gli Stati Uniti hanno, seppur indirettamente, contribuito: prima con la guerra in Afghanistan e la caduta dei talebani, nemici di Teheran; con la guerra contro l’ Iraq di Saddam Hussein, anch’egli grande rivale della Repubblica islamica; infine con l’ accordo sul nucleare che, per certi versi, ha aumentato il potere negoziale iraniano e depotenziato quello americano.

La speranza che le Primavere arabe e il Movimento Verde del post-elezioni 2009 potessero mettere in moto un cambiamento nella società è forse definitivamente tramontata. Rouhani, nonostante voglia apparire un moderato, si sta adeguando al nuovo registro che Trump in questi mesi ha voluto impostare.

Di questo la Russia non può che avvantaggiarsi. Tant’è che il Ministro degli Esteri Lavrov ha auspicato che «per quanto riguarda le affermazioni del Presidente Rouhani secondo cui l’ Iran potrebbe uscire dal JCPOA, un risultato raggiunto per risolvere la situazione del nucleare iraniano, spero che ciò non accada. Spero anche che gli Stati Uniti non violino i loro obblighi nel piano d’azione comune globale». Senza dimenticare la crisi diplomatica tra Qatar e Arabia Saudita: proprio quest’ ultima accusa l’ Emirato di appoggiare il terrorismo e di destabilizzare la regione, oltre che di intrattenere rapporti troppo stretti con l’ Iran, il quale, secondo le autorità saudite, starebbe dietro anche alla guerra civile in corso in Yemen.

La politica estera di Trump è diversa da quella del suo predecessore. Ma fino a che punto potrà veramente spingersi? E fino a che punto Rouhani riuscirà a mantenere la situazione sotto controllo?

Siria - Una delle ultime roccaforti Isis, Tal Afar

Comincia dal cielo l’attacco iracheno a Tal Afar

18 agosto 2017 


L’artiglieria e le forze aeree irachene hanno dato il via il 16 agosto a un’intensa campagna di bombardamenti contro postazioni dello Stato Islamico nel nord-ovest dell’Iraq, nell’ambito dell’annunciata offensiva contro Tal Afar, ultimo bastione jihadista nella regione di Mosul. Lo hanno riferito media iracheni e panarabi.

Il governo di Baghdad aveva annunciato il giorno di Ferragosto l’avvio della campagna aerea (a quanto sembra con l’impiego di con cacciabombardieri F-16, aerei da attacco Sukhoi Su-25, ed elicotteri da attacco Mi-24/35 e Mi-28) 5per preparare il terreno all’avanzata di terra da parte delle forze federali e delle milizie di mobilitazione popolare filo-iraniane.


Le truppe di Baghdad sono attestate a circa 15 chilometri sud-ovest di Tal Afar. Due mesi fa era stata annunciata la riconquista di Mosul, capoluogo della regione di Ninive e principale roccaforte Isis in Iraq.

Tal Afar, conquistata dall’Isis nel giugno del 2014, è un nodo strategico sulla strada che collega Mosul con Raqqa, in Siria e costituisce l’ultima roccaforte urbana prima della frontiera siriana.

In quella zona si scontrano gli interessi dell’Iran e della Turchia. Entrambi i paesi rivendicano influenza a partire dalla presenza di comunità turcomanne sunnite, appoggiate dai curdi iracheni vicini ad Ankara, e una minoranza di turcomanni sciiti, sostenuti dalle milizie sciite irachene vicine all’Iran.


Sono ancora 2,9 milioni gli iracheni sfollati a causa della guerra all’Isis che non hanno ancora potuto fare ritorno nelle loro case. Lo ha sottolineato ieri il ministro delle migrazioni e degli sfollati, Jassem Mohammad, aggiungendo che il governo si sta preparando ad affrontare una nuova emergenza quando le truppe lealiste attaccheranno Tal Afar.

Mohammad ha precisato che dal giugno del 2014 circa 5 milioni di iracheni hanno dovuto lasciare le loro case. Di queste, solo 2,1 milioni hanno potuto finora tornare. L’offensiva per strappare all’Isis Mosul, cominciata nell’ottobre 2016 e conclusasi nel luglio di quest’anno, ha provocato 968.000 sfollati. Di questi, 791.000 provenienti dalla parte ovest di Mosul non hanno ancora potuto fare ritorno a causa delle distruzioni provocate dai combattimenti e dai bombardamenti.

(con fonte Ansa)

Foto US DoD, RT e Reuters

17 agosto 2017 - Quello che succederà dopo Berlino, Nizza e Barcellona

giovedì 17 agosto 2017

17 agosto 2017 - Diego Fusaro: Il teorema di Trasimaco. La legge dalla parte dei più forti

Ucraina - stallo


La battaglia di Donetsk
EUROPA,IN EVIDENZA,LA GUERRA CONGELATA DEL DONBASS

ANDREA SCERESINI E ALFREDO BOSCO
16 agosto

La città di Adveevka è saldamente in mano all’esercito ucraino. Le trincee separatiste lambiscono il confine meridionale del centro abitato: è la cosiddetta “Promzona”, l’area industriale. Un piccolo triangolo di casette, ormai ridotte a cumuli di polvere e mattoni: poche centinaia di metri quadrati di terra – il cuore della guerra dimenticata del Donbass.

Siamo a una ventina di chilometri dal centro di Donetsk. Qui, ogni giorno, si combatte casa per casa, senza esclusione di colpi. “Qualche tempo fa i battaglioni di Kiev hanno attaccato in forze – ci ha raccontato un miliziano filorusso -. Sono riusciti a venire avanti qualche decina di metri, poi li abbiamo fermati. Arrivavano a ondate, correndo sotto le bombe. In tanti ci hanno lasciato la pelle”.

La base delle forze repubblicane si trova sotto un cavalcavia dell’autostrada che collegava Donetsk con Lugansk, le cui quattro corsie si inoltrano oggi, inutilmente, tra le distese di campi minati. “Quaggiù siamo protetti – ci assicura un soldato -. Finché non sparano con i grossi calibri, il ponte dovrebbe reggere”.

Abbiamo trascorso una notte in prima linea, dormendo accampati nel retro di un vecchio furgoncino militare dell’epoca sovietica. “Qui si fa sul serio – sorride il comandante della postazione -. Davanti a noi è pieno di sniper. Provati ad alzare la testa oltre il bordo della trincea: in tanti ci sono rimasti per molto meno”.


Un’altra grossa insidia è rappresentata dalle mine anti-uomo. Gli ordigni sono stati disseminati in modo disordinato da entrambi i contendenti. Non esiste una vera mappatura, perché i vari reparti, dopo aver piazzato le proprie trappole, il più delle volte si dimenticano di segnalarne l’esatta collocazione. Così, dopo qualche settimana, quando i vecchi battaglioni vengono rimpiazzati da quelli di rincalzo, i neo-arrivati devono vedersela sia con le mine nemiche che con quelle del proprio esercito.


Si prenda questo meccanismo e lo si moltiplichi per tre anni di conflitto: questa è la situazione odierna, nelle campagne del Donbass. In molti villaggi, anche a ridosso del fronte, sono rimasti sparuti gruppi di civili. Qui no: la “Pronzona” è completamente disabitata, fatta eccezione, ovviamente, per le divisioni che se la contendono. “Di fronte a noi, a poche centinaia di metri, ci sono i battaglioni nazionalisti ucraini – dicono i soldati, affacciandosi alle piccole feritorie scavate nel cemento grigio della carreggiata -. Pravy Sektor, il battaglione Dnipro e l’Azov. Qui non ci mandano l’esercito regolare: un soldato di leva non resisterebbe mai in questo inferno. Quanto a noi, combatteremo fino alla vittoria. Senza compromessi”.

È chiaro, considerate queste premesse, che l’avvento della pace non è proprio dietro l’angolo. Per sincerarsene, basta attendere il calar della sera. Verso le 18, quando gli osservatori dell’Osce sono ormai al sicuro nei loro hotel, entrano in azione le armi pesanti. Secondo quanto stabilito dagli accordi di pace di Minsk, siglati per la prima volta nell’autunno del 2014, cannoni, tank e bocche da fuoco di grosso calibro non potrebbero stazionare in prossimità del fronte. Eppure i protocolli vengono regolarmente violati. È il cosiddetto ping-pong: le artiglierie duellano a ritmi regolari, come in una partita di tennis tavolo. In genere va avanti tutta la notte, fino alle prime luci dell’alba, mietendo quotidianamente la sua triste dose di morti e feriti. Il senso di tutto questo? Si è perso tra le cannonate, nella “Promzona” di Adveevka.

Foto di Alfredo Bosco. Ha collaborato Luca Gennari

Maurizio Blondet - Decadentismo degli Stati Uniti - abbiamo l'obbligo di effettuare trasfusioni di ideali, valori, incanalare la protesta individuale in quella collettiva, dargli prospettive politiche

USA: LA NUOVA PESTE STERMINA L’UOMO BIANCO. ORMAI SUPERFLUO.

Maurizio Blondet 16 agosto 2017 

E’ ormai la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni, quindi in età produttiva. 91 americani muoiono ogni giorno per overdose da fentanyl, un oppioide sintetico, antidolorifico, che crea forte dipendenza. La chiamano “opioid epidemic”: 52 mila morti nel 2015, 59 mila nel 2016 (più 19%), già oltre 60 mila ad agosto 2017, saranno almeno 65 mila a fine anno. Aumenti spaventosi.

Gli Stati Uniti sono il paese con più morti per overdose del mondo per milione di abitante e lo sono per un differenziale enorme. 245.8 morti ogni milione all’anno contro i 26.4 per milione in Europa, dati del 2015, quindi 10 volte di più.

“Il 70 per cento dei corpi in questo obitorio dell’Ohio sono per overdose da oppioidi”

A morire per overdose non sono tanto i neri o gli ispanici, sono soprattutto i bianchi, e soprattutto i maschi bianchi.

Un coroner di Pennsylvania occidentale lamenta: ogni notte mi arrivano anche 13 corpi, non so più dove metterli; è come una peste. In vari stati i poliziotti sono stati forniti di naloxone, un farmaco d’emergenza: se trovano un morente per overdose, l’iniezione può salvarlo, ma ovviamente non fa nulla per ridurre il tasso di dipendenza.

Li prescrive il dottore.

Lo Stato dell’Ohio ha querelato cinque farmaceutiche che fabbricano e producono il fentanyl, per “favoreggiamento dell’epidemia” (E’ il libero mercato, ragazzi). Incredibilmente, il fentanyl viene prescritto dai medici, appunto come antidolorifico – almeno all’inizio. Poi i pazienti cominciano a comprarlo illegalmente. Ci sarebbe anzitutto da chiedere: per quali mai dolori gli americani si rivolgono al medico, se il medico trova normale prescrivere un “antidolorifico” oppioide sintetico “che è 50 volte più forte dell’eroina e 100 volte più potente della morfina”. Quali dolori – se non quelli incoercibili del cancro terminale – richiedono un tale palliativo? Oppure si tratta della necessità di “funzionare” sul lavoro anche se si soffre per un qualunque dolore perché non ci si può assentare? E poi: sono dolori fisici quelli che gli americani maschi bianchi vogliono soffocare con la prescrizione, o dolori spirituali a cui non sanno dare un nome?

Anche il male sociale è stato privatizzato. Te lo curi da te.

Il sito “Governing.com”, notiziario di tutti gli enti locali, osa un’altra diagnosi: “Non è come le passate crisi per droga, come quelle del crack o delle meta-anfetamine, non è la comparsa di una nuova classe di droghe che creano dipendenza a far morire ogni giorno 91 americani. Questa crisi degli oppiacei è una crisi del lavoro; è una crisi di affitti accessibili per le case. Le stesse forze che hanno rimodellato l’economia nel decennio scorso, hanno lasciato il vuoto riempito, in certe zone, dagli oppioidi”.

Ed aggiunge:

“Uno studio dell’Università di Pennsylvania dopo le elezioni presidenziali dello scorso novembre ha scoperto che il presidente Trump ha preso enormemente più voti del previsto in quelle province (contee) che registrano il più alto tasso di “morti da disperazione”, ossia suicidi, overdosi di droga o da alcolismo. Ciò mostra che molti americani si sentono lasciati indietro dall’economia che cambia, e non credono più che il quadro politico attuale li sta aiutando”.

Dunque sono i bianchi maschi, in età da lavoro, che devono “funzionare” anche se malati per non essere licenziati, gente che votava democratico, spesso, che invece hanno votato l’uomo nuovo che ha promesso, o anche solo dato l’impressione, di avere a cuore la loro tragedia? Forse i dolori che accusano questi bianchi non vengono dal corpo, né propriamente dallo spirito – ma vengono da una malattia sociale cui non sono più abituati a dare il senso giusto: ossia politico e collettivo, e che reinterpretano come un dolore privato, da “superare” e da “ingoiare”?

Ho già accennato – troppo in breve – a un altro studio di due università, la Boston University – Department of Political Science, e la University of Minnesota Law School, sul rovesciamento del voto in circoscrizioni tradizionalmente democratiche, che hanno rifiutato Hillary Clinton e votato invece per Trump: sono quelle dove un numero maggiore di soldati, giovani che avevano “servito la patria” nei 15 anni di guerre americane, sono tornati nelle bare, o vivi e mutilati, o invalidi psichici. Per lo studio, tre stati chiave per la vittoria di Donald, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, avrebbero dato la vittoria a Hillary se i vicini non avessero visto tante famiglie in lutto o con un invalido di guerra in casa. “Trump ha parlato a questa parte dimenticata dell’America”. L’America dimenticata che sta elevando una silenziosa protesta per il costo umano che sta subendo per sostenere i 15 anni di guerre insensate non solo politicamente, ma eticamente (sono infatti, sappiamo, “guerre per Israele”).

Il tasso immane di suicidi fra i soldati americani, da otto anni in crescita, è leggibile come l’estrema protesta silenziosa e impotente di un popolo per quello che lo costringono a fare?

Nella fanteria, la più colpita, si toccano il 29,9 suicidi per 100 mila persone, oltre il doppio della popolazione generale (12,6 per 100 mila). Punte di un suicidio ogni 2,2 giorni. Si uccidono molto gli appena arruolati, anche prima di essere dispiegati in territorio nemico; ma moltissimo i congedati: “Venti reduci ogni giorno muoiono per suicidio”, dice un rapporto ufficiale della Veteran Authority del 2016.


“I soldati si uccidono per la guerra perpetua”.

Sulle cause, silenzio. Jason Roncoroni, un tenente colonnello che ha fondato una associazione di prevenzione del suicidio, tocca l’argomento tabù: “attribuisce il tasso fra i militari al sentimento, fra loro, che le guerre americane non finiranno mai, e l’aspettazione di missioni future senza fine. Abbiamo sfumato la linea tra il tempo di guerra e il tempo di pace…”.

Già: il tasso di suicidi s’è alzato dai primi anni 2000, inizio delle guerre “al terrorismo” (11 Settembre 2001), e non è mai calato. Anche, qui, sono i maschi bianchi a suicidarsi di più: i bianchi compongono poco più della metà dei soldati in servizio, ma i suicidi fra loro sono 7 su 10. Si piega sotto il fardello dell’uomo bianco, l’americano qualunque; l’uomo bianco che deve “funzionare”, e proprio per questo l’hanno caricato con un fardello che ormai lo schiaccia. E lui, sotto, incapace di sollevarlo, ci si uccide. Fatto istruttivo, solo l’armata israeliana ha tassi di suicidi paragonabili.


Aggiungiamoci i 500 omicidi l’anno nella sola città di Chicago, in cui sono coinvolti soprattutto negri, quasi due al giorno, e in continuo aumento. Nell’insieme è l’immagine di una popolazione che si autodistrugge, che si devasta. O che viene devastata dalla “economia che cambia” e “li lascia indietro”, con paghe sempre minori ed affitti da pagare, e la coscienza della propria inutilità.

E’ il capitalismo terminale, quello che fa profitti non più producendo merci ma producendo bolle finanziarie, che nella sua perfezione ideologica applicata persegue la massima efficienza come la intende: pagare il meno possibile il lavoro, precarizzarlo, sostituirlo con robot a tappe forzate, per retribuire al massimo il capitale finanziario.

Tale “efficienza” porta l’effetto paradossale ed opposto, che le imprese industriali rimaste in Usa fanno fatica a trovare lavoratori qualificati che non siano resi inservibili dall’oppioide. L’allarme è stato lanciato non da organizzazioni sociali, ma dalla stessa Federal Reserve. Le Fed di St Louis ha denunciato l’introvabilità di lavoratori non drogati, e quindi improduttivi, in un “Libro Beige” diffuso il 12 luglio.

La stessa Janet Yellen, la governatrice della Federal Reserve, ha spiegato in un’audizione al Senato che “gli oppioidi erano una delle cause del crollo della forza-lavoro”, insieme beninteso ai robot e alle delocalizzazioni.

Un crollo inaudito dalla ”partecipazione alla forza lavoro”, ossia delle persone che si offrono di lavorare. “Oggi, il 15% degli uomini fra i 25 e i 54 sono inspiegabilmente spariti dalla forza-lavoro – ossia uno ogni sette – nonostante il tasso di disoccupazione sia calato”. Sono drogati che non riescono più a funzionare…

(Vedi qui: “La Fed crede che la ragione per cui gli uomini non lavorano sono gli oppioidi” http://www.zerohedge.com/news/2017-07-20/fed-says-opioid-crisis-reason-why-men-arent-working).

La Yellen ha aggiunto di non capire e non sapere se “un così diffuso abuso di oppiacei sia la causa, o invece il sintomo di “malattie di lunga durata” che questi lavoratori” . Ecco, appunto: malattie non curate, perché mica ci si può assentare dal lavoro, e mica si può pagare l’assicurazione sanitaria e represse con il farmaco da prescrizione. L’efficienza capitalista terminale ha costituito una società anti-umana, dove i deboli e i poveri sono spregiati e trattati da bocche inutili, abbandonati.

L’abolizione di ogni protezione sociale (un costo), di ogni educazione superiore per chi non se la può permettere – e quella superiore che produce snowflakes senza spina dorsale, incapaci di sopportare la minima frustrazione esistenziale, legati al potere dal politicamente corretto, inutili per una rivoluzione – , l’ideologia permissiva e trasgressiva funzionale ai consumi superflui, si rivelano un regno sotto cui gli uomini si devastano e si danno la morte. Una specie di estrema, inconscia e impotente protesta contro un sistema radicalmente inumano e nichilista, non riconosciuto per tale dalle stesse vittime, che le spinge ad eliminarsi. A tal punto l’uomo è un animale “politico”.

Ovviamente il Sistema impone le sue cure in più alte dosi: ancora più robot per sostituire i salariati inefficienti, ancora più licenziamenti nei servizi, meno commesse e commessi negli shopping centers – che del resto chiudono l’uno dopo l’altro, perché si compra su Amazon e si risparmia.

La finanza speculativa persegue la perfezione della sua utopia disumana: non lasciare niente alle masse, per prendersi tutto, letteralmente tutto per sé.

(l’1 per mille al vertice s’è preso tutto, agli altri non ha lasciato niente. E’ la massima efficienza nell’allocazione del capitale. Poi l’uomo muore). 

Uno degli effetti viene descritto così: “L’industria Usa della ristorazione è bloccata nel suo peggiore collasso dal 2009”. Sempre meno clienti. Si deve sapere che quando si parla di “industria della ristorazione” (ma non era un servizio?) non si intendono i ristoranti di lusso, ma i McDonalds e simili in cui mangia in fretta con 5 dollari un hamburger l’uomo comune. Quello che adesso è senza salario e si spende il poco che ha in oppioidi. Chi ci devono andare da McDonalds, secondo il capitalismo terminale? I robot con cui ha sostituito le persone?

E in questa spaventosa crisi e collasso di un intero popolo, cosa fanno le sinistre (alla Soros?) incitano i neri alla distruzione dei monumenti confederati; un’operazione sistematica cui si prestano i negri e gli snowflakes, e a cui i “suprematisti bianchi” di Charlottesville hanno reagito come sappiamo. Un modo molto astuto di deviare la rabbia popolare perché non si rivolga contro i loro veri oppressori.

Non si creda che queste cose in Europa non succederanno. Già stanno succedendo.

Chissà chi sono quegli italiani che spendono 14,5 miliardi l’anno in stupefacenti, la metà in cocaina.

“Il mercato del lavoro non si rivolge più a chiunque, ma cerca solo i più qualificati in alto e i non-qualificati affatto, in basso. Via la classe media! Le classi popolari non fanno più parte del progetto economico delle classi dirigenti, e non interessano il mondo intellettuale”: così il sociologo Christophe Guilluy in “La France Périphérique – Comment on a sacrifié les classes populaire”: dove dimostra come i veri poveri non stano nelle banlieues multirazziali tanto osservate dai media, che invece raccolgono almeno le briciole della nuova economia ultra—metropolitana, essendo vicine a Parigi (dove gli operai sono calati dal 25% all’8%, mentre i dirigenti sono passati dal 15 al 42%). No, i veri poveri sono i dimenticati del Nord ex industriale, dimenticati da tutti, che votano FN e affondano nell’alcolismo – vecchio segnale francese di disperazione. Ma per questo occorrerà un altro articolo.