L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 14 ottobre 2017

La tecnologia Blockchain fa avanzare il Bitcoin

ECONOMIA
Svezia, le tasse si pagano in Bitcoin

La criptovaluta ha ripreso a correre, frantumando un altro record e sfondando il muro dei 5mila dollari

di ALESSIA GOZZI
Pubblicato il 12 ottobre 2017 

Pagamenti in Bitcoin in un negozio di Hong Kong (Afp)

Roma, 12 ottobre 2017 - Sarà che l'interesse dei fondi di investimento è stata superiore a ogni aspettative, sarà sempre più aziende accettano pagamenti in criptovaluta, sarà la speculazione. Fatto sta che i Bitcoinhanno ricominciato a galoppare furiosamente, frantumando un altro record e sfondando il muro dei 5mila dollari. Con prezzi sui 5.300 dollari la capitalizzazione complessiva della regina delle criptovalute arriva a sfiorare il 90 miliardi di dollari. (quotazione in tempo reale https://www.coindesk.com/price/). La moneta virtuale rappresenta per molti investitori un 'bene rifugio' ed è utilizzata dai trader come strumento di hedging quando la valuta del Paese di appartenenza è in calo.

Ma l'interesse si sta allargando anche agli stati. Se c'è chi la combatte, come la Cina e la Russia, per arginare la fuga di capitali all'estero. Altri paesi stanno immaginando di creare una propria valuta virtuale di stato. E c'è chi ha iniziato a farsi pagare le tasse in Bitcoin. Si tratta della Svezia, dove il fisco ha riscosso in criptovaluta l'ammontare dovuto da un'azienda. Nello specifico, la Swedish Enforcement Authority ha ricevuto 0,6 bitcoin, pari a circa 2600 euro. Il gettito virtuale riscosso dal fisco verrà ora venduta al migliore offerente tramite asta online. 

Questa operazione potrebbe aprire la strada sia a privati che ad aziende per pagare le tasse in criptovalute, una rivoluzione epocale. Tra l'altro, proprio il Paese scandinavo sta conducendo test per mettere il sistema del catasto in una blockchain, la tecnologia di Bitcoin. Il piano è quello di mettere le operazioni immobiliari sul blockchain una volta che l’acquirente e il venditore si accordano su un affare, e il contratto è fatto. Da qui tutte le parti coinvolte nelle operazioni – le banche, il governo, intermediari, acquirenti e venditori – sono in grado di monitorare lo stato di avanzamento della transazione una volta completato. Con enormi risparmi di tempo.

La Fratellanza Musulmana ben presente in Europa ha come paesi la Turchia e il Qatar come parte integrante del Movimento islamista

Ankara aumenta le spese militari del 40%

13 ottobre 2017 


Le spese militari in Turchia sono salite quest’anno a 41,3 miliardi di lire turche (circa 11, 5 mld di dollari) contro i 28,7 miliardi di lire (7,9 mld di dollari) del 2016 facendo registrare un aumento di curca il 50% secondo quanto riferuto dalla Gazzetta Uffuciale turca. A questo incremento farà seguito nel 2018 un ulteriore aumento di curca il 40% (17.19 miliardi di lire, poco meno di 5 miliardi di dollari) secondo quanto riferito dal vice primo ministro Mehmet Simsek.

Nelle scorse settimane alcuni ministri avevano indicato la necessità di alzare le tasse per reperire nuovi fondi da stanziare per la sicurezza e la difesa tenuto conto che entro il 2023 il presidente Recep Rayyp Erdogan vorrebbe poter contare sulla piena indipendenza strategica del Paese dalle importazioni dall’estero di tecnologia ed equipaggiamenti militari’.

Nei giorni scorsi, all’indomani dell’incontro fra Vladimir Putin e Recep Tayyp Erdogan ad Ankara, il consigliere del Cremlino per la cooperazione militare, Vladimir Kozhin, ha reso noto che la Turchia ha già versato alla Russia l’anticipo per l’acquisto dei sistemi missilistici da difesa aerea S-400 (che potrebbero venire acquistati anche dall’Arabia Saudita).

Attualmente la Turchia è impegnata dal punto di vista militare nel nord della Siria, contro l’Isis ma soprattutto contro le milizie curde del PYD e, sul fronte interno, del Pkk che viene colpito dai turchi anche nei suoi “santuari” nel nord dell’Iraq.


L’esercito turco è già penetrato in questi giorni nel nord della Siria, nel settore di Idlib dove ha già sostenuto sciontri con i miliziani qaedisti dell’ex Fronte al-Nusra nell’ambito delle operazioni di de-escalation nel nord ovest della Siria, decise ai negoziati di Astana insieme a Russia e Iran.

In base agli accordi gli eserciti dei tre Paesi registreranno eventuali violazioni alla tregua e fungeranno da peace- keeper, prevenendo scontri tra fazioni rivali, con i russi a garantire per i lealisti del regime Damasco e i turchi per l’Esercito Libero Siriano.

Un’anticipazione di quanto accadrà è stata anticipata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan: “Abbiamo stabilito una road map durante l’incontro con Putin. Vedrete le nostre prossime mosse.


La Turchia agirà all’interno di Idlib, la Russia fuori dai confini della città”. Secondo il presidente turco l’obiettivo, come per Jarablus e ar-Rai, sottratte all’Isis dall’esercito turco un anno fa, è favorire il “ritorno in Siria di 100 mila persone”, profughi oggi ospitati in Turchia.

La Turchia sta inoltre costruendo 21 torri di guardia blindate e semoventi al confine con la Siria, dove è già stata costruita una parte del muro che separa i due paesi. Le strutture di sorveglianza saranno messe ad un certo intervallo sulla linea di confine. Saranno a cinque piani e dotate di tutti gli optional necessari che potrebbero richiedere.

Le finestre saranno protette contro le proiettili e le loro pareti saranno fortificate per sostenere esplosioni. Un tratto del muro di 454 miglia è già stato edificato. La sua costruzione dovrebbe essere completata entro ottobre per una lunghezza totale di 515 miglia lungo tutto il confine siriano-turco.


I militari turchi sono inoltre impegnati in Somalia (una base a nord di Mogadiscio) e in Qatar dove è stata inaugurata una base militare di Ankara che ospiterà fino a 1.500 militari.

Un asse, quello con Doha che contribuisce ad acutizzare le tensioni con sauditi e altre monarchie del Golfo schieratisi contro il Qatar ma anche con gli Stati Uniti

Il Pentagono del resto ha interrotto alcune esercitazioni miliari con i suoi alleati nel Golfo Persico a causa della crisi diplomatica con il Qatar: lo hanno rivelato autorità del Comando Centrale militare Usa all’agenzia di stampa Ap. Le fonti non hanno fornito dettagli sulla decisione, ma la mossa indica le preoccupazioni del Pentagono sulla situazione nel Golfo, dove si trovano alcune basi chiave della Marina Usa per la campagna contro l’Isis in Iraq, Siria e Afghanistan.


La linea di Washington è oggi più che mai ostile a Iran e Mosca, paesi con cui la Turchia sta negoziando la gestione comune della soluzione alla crisi siriana.

Senza dimenticare che Ankara pretende dagli USA lo stop agli aiuti militari ai curdi siriani delle Syrian Deoicratic Forces e l’estradizione di Fethullah Gulen, l’oppositore del regime di Recep Tayyp Erdogan esule negli Stati Uniti e accusato da Ankara di aver pianificato il fallito golpe del luglio 2016.

L’ambasciatore americano ad Ankara, John Bass, ha sottolineato in una conferenza stampa che “c’è una grande differenza tra perseguire la giustizia e perseguire la vendetta” riferendosi all’arresto da parte delle autorità turche di un cittadino turco che lavora al consolato Usa a Istanbul perchè sospettato di legami con la rete golpista di Gulen. “Continuo a ritenere che queste accuse siano senza fondamento”, ha detto Bass, prossimo a lasciare la Turchia per un nuovo incarico come ambasciatore in Afghanistan.


Dall’incontro con i giornalisti sono stati esclusi alcuni reporter di media molto vicini al governo turco, perché, ha detto Bass, “non seguono il modello di base dell’etica giornalistica”.

Per la Turchia il potenziamento delle spese militari appare quindi marciare di pari passo con il deterioramento dei rapporti con i suoi ormai ex alleati occidentali.

Le tensioni sviluppatesi negli ultimi mesi anche con la Germania hanno indotto Berlino a ritirare a luglio il suo contingente aereo dalla base aerea di Incirlik. Le forze tedesche verranno aggregate alla Coalizione anti-Isis a guida Usa presso una base aerea in Giordania.

Foto: Anadolu, Forze Armate Turche, Askanews, Reuters, AFP e AP

Alternanza scuola-lavoro - Il tirocinio è anche un lavoro e ha bisogno di un corrispettivo piccolo e adeguato

Scuola, migliaia di studenti in sciopero in tutt'Italia contro le criticità dell'Alternanza scuola-lavoro

"Siamo alunni, non operai" gli slogan di Milano, Roma, Genova e altre città dove va in scena la protesta

13/10/2017 12:45 CEST | Aggiornato 21 ore fa

ANSA

"Siamo studenti, non operai. No alle criticità Alternanza scuola-lavoro". Oggi migliaia di studenti in tutta Italia sono scesi in piazza per protestare contro le falle della Buona Scuola, dell'Alternanza scuola-lavoro e contro una gestione insoddisfacente "perché - spiegano Rete degli studenti e Unione degli universitari - stanchi di una politica che non ascolta e per riscrivere i paradigmi di una scuola diversa più equa e giusta". "Vogliamo - dichiara Giammarco Manfreda, coordinatore nazionale Rete degli Studenti Medi - una scuola gratuita, accessibile a tutti, che ci stimoli nel nostro percorso di crescita e non siamo più disposti a scendere a compromessi".

"Come la scuola anche l'università pubblica - prosegue Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale Udu - è stata frustrata nel suo ruolo: svuotata di docenti e studenti in modo drammatico. Ormai è il luogo dove riemergono le disuguaglianze in modo più netto. Come abbiamo denunciato con forza anche nelle ultime settimane, quello del numero chiuso è sicuramente il primo ostacolo che nega il diritto allo studio, togliendo ogni anno a migliaia di studenti la possibilità di iscriversi alla facoltà scelta".

"Esigiamo che tutti gli studenti idonei alla borsa di studio la ricevano e che tutti gli idonei a un alloggio possano effettivamente usufruirne" chiede Marchetti aggiungendo che "nei tirocini curriculari non sono garantiti i diritti essenziali, così come nei praticantati". "In tutto questo - osserva -l'alternanza scuola lavoro continua a presentare le criticità che denunciamo da ormai due anni alle quali il Ministero tarda a dare risposte concrete. Vogliamo un'alternanza scuola lavoro che sia una vera forma di didattica alternativa, di qualità per tutti". "Siamo in piazza - concludono le due associazioni - perché tocca a noi cambiare la scuola e l'università per cambiare questo paese"

MILANO - Oltre un migliaio di studenti sta manifestando a Milano contro la riforma della Buona Scuola. I collettivi studenteschi sono partiti questa mattina da largo Cairoli. L'obiettivo è ribadire la contrarietà al progetto di alternanza scuola-lavoro.

GENOVA - "Questa alternanza non la vogliamo. Il tempo è nostro e ce lo riprendiamo". E' questo lo slogan con cui sono scesi in piazza anche a Genova circa un migliaio distudenti nell'ambito dello sciopero nazionale contro l'alternanza scuola-lavoro, per il diritto allo studio e per la sicurezza degli edifici.

ROMA - "Contro la scuola dei padroni 10, 100, mille occupazione". Scandendo questo slogan gli studenti delle scuole superiori romane sono scesi in piazza per protestare contro la "buona scuola" e "l'alternanza scuola-lavoro". Il corteo è partito da pochi minuti dalla Piramide Cestia, all'Ostiense e procede molto lentamente. Tra i primi striscioni quelli dei licei Virgilio e Mamiani "in lotta", storici istituti della Capitale. Al grido di "con la lotta cambierà" e "lo studente non va sfruttato il nostro lavoro deve essere pagato", i liceali romani contestano le misure del governo. "Siamo in piazza perché stanchi - spiega la Rete degli studenti - di una politica che non ci ascolta e per riscrivere i paradigmi di una scuola diversa più equa e giusta"

Debito Pubblico - quando gli Stati avevano bisogno di finanziare il proprio debito pubblico era sufficiente che le Banche Centrali acquistassero Titoli di Stato e Obbligazioni immettendo nuova liquidità. Grazie ai traditori Andreatta e Ciampi, nel 1981 affidarono il debito pubblico ai mercati e da lì sono iniziati i nostri dolori



Il falso mito del debito pubblico

Il debito pubblico italiano è arrivato a toccare i 2200 miliardi. I governi si affannano per tagliare quanto più possibile dalla spesa pubblica e ridurre così il debito. Ma tutti questi sacrifici sono davvero necessari?

DI MAURO BOMBA SU 12 OTTOBRE 2017 

Si sa, la crisi porta a mettere in discussione anche le certezze più granitiche. E persino quelle frasi che ascoltiamo sistematicamente ogni giorno, quelle che ci ripetono liturgicamente le fonti di informazione, la politica, gli esperti, i tecnici, perdono presa e lasciano spazio ai dubbi. Da vent’anni a questa parte, ben prima della crisi economica, la questione dell’enorme debito pubblico italiano è tra le priorità dell’agenda dei vari governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Bisogna contenere e ridurre il debito pubblico per stimolare la crescita economica. Questo ci hanno ripetuto le fonti di informazione, la politica, gli esperti ed i tecnici. E noi da bravi cittadini ci abbiamo creduto.

Specialmente in un periodo così difficile il taglio alla spesa pubblica può effettivamente sembrare una misura efficace e credibile per risanare l’economia. Ma è davvero questa la soluzione migliore?

Partiamo dalle basi: il debito pubblico è derivato dall’insieme dei debiti maturati dallo Stato nei confronti dei suoi creditori. In spiccioli, quando lo Stato ha bisogno di liquidità, emette dei Titoli di Stato che rivende sul mercato in cambio di moneta. Questi titoli hanno un tasso d’interesse, che si stabilisce in base all’affidabilità dello Stato, ed un tempo di “vita media” (che incide, ovviamente, anche sul tasso). Devono cioè essere restituiti dallo Stato ai creditori entro un lasso di tempo prestabilito, e al totale del credito vanno aggiunti gli interessi maturati.

Ora, il debito pubblico italiano, al Maggio del 2017, si attesta intorno ai 2200 miliardi di euro, con un’incidenza rispetto al PIL del 132%. Dati che se considerati nel semplice valore numerico mettono non poca agitazione. L’Italia è il Paese con il terzo debito pubblico più alto al mondo dopo Stati Uniti e Giappone.

Fino a pochi anni fa quando gli Stati avevano bisogno di finanziare il proprio debito pubblico era sufficiente che le Banche Centrali acquistassero Titoli di Stato e Obbligazioni immettendo nuova liquidità. Questa strada però è stata abbandonata nella convinzione che favorisse l’inflazione. Con l’avvento dell’Euro la questione ha perso il suo carattere statale ed è passata nelle mani degli organi economici comunitari.

Il problema del debito pubblico ha assunto negli anni della crisi una centralità rilevante in tutti i paesi considerati a rischio dell’eurozona. Basti pensare alla Grecia, nel 2015 vicina al default per insolvenza del debito e salvata con un prestito dal Fondo Monetario Internazionale a costo di un piano decennale di rientro del debito. Oppure alla stessa Italia del 2011, quella dell’ultimatum della BCE al governo Berlusconi, dello spread alle stelle, della manovra “lacrime e sangue” di Monti e delle lacrime della Fornero. Anche in quel caso il problema era l’andazzo del debito pubblico e la credibilità economica, e di conseguenza la rivendibilità dei Titoli di Stato, del Paese.

In entrambi i casi la linea dura dell’UE non ha lasciato scampo. Servivano manovre che avessero come obiettivo la riduzione di un’enorme debito pubblico. Seguendo la convinzione che un minore debito significasse una maggiore crescita economica, i governi dei Paesi, Italia in testa, hanno iniziato così un drastico taglio alla spesa pubblica per ridurre il rapporto deficit/PIL e rientrare nei paletti del pareggio di bilancio. Ridurre il ruolo dello Stato nell’economia ed impedire la monetizzazione pubblica del debito. Questo è il mantra.

Eppure, nonostante anni di austerità e qualche debole segnale di ripresa, l’economia degli Stati a rischio stenta a decollare. E così la convinzione che l’austerity, i tagli ed il rigore possano favorire la crescita ha iniziato a sembrare meno condivisibile.

Sono in molti oggi gli economisti che vedrebbero di buon’occhio un rovesciamento di prospettiva, in cui gli Stati, anzichè tagliare, investono nella spesa pubblica e nei servizi al cittadino contribuendo da protagonisti a dare nuovo vigore all’economia reale (Lettera degli economisti, giugno 2010)

Qual è quindi, alla fine di questo breve riassunto, la strada da seguire per uscire dalla crisi?
Ne abbiamo parlato con Stefano Di Bucchianico, dottorando in Economia Politica all’Università Roma3, attualmente in visiting di ricerca presso l’University of Massachussetts Amhrest.

Debito pubblico e Crescita economica sono due concetti profondamente legati. Negli ultimi anni si è affermata la convinzione che per stimolare la crescita occorra ridurre il debito pubblico. Sei d’accordo con questa idea?

Direi che in linea generale che l’idea è stata piuttosto smentita. Nel 2013, in un articolo che è stato preso come punto di riferimento teorico per la letteratura economia, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart (mentitori seriali) sostengono che un elevato livello di debito pubblico sia dannoso per la crescita. Questa tesi è stata presto confutata da uno studio di Robert Pollin, dell’Università di Amhrest, che ha evidenziato diversi errori nello studio di Rogoff e Reinhart. Anche alcuni ultimi studi del FMI hanno ammesso errori nella stima degli effetti della spesa pubblica nell’economia, in particolare nel caso greco. Sostanzialmente è stato invertito il nesso causale. Prima si pensava che ad un elevato debito corrispondesse una minore crescita economica, ora invece si guarda con interesse all’ipotesi opposta, ossia che l’aumento del debito possa essere derivato dalla mancanza di crescita economica.

Fino ai primi anni ’80 il debito pubblico italiano si è mantenuto intorno al 60% del PIL. Da quel momento in poi è stata una costante ascesa, con il rapporto che è salito fino al 130%. Quali credi possano essere le cause strutturali di questo aumento?

In sostanza ci sono due grandi scuole di pensiero. La prima è forse più scandalistica e riduce tutto al malgoverno ed alla corruzione dilagante nella macchina Statale. Mi sembra un’idea che veicola un messaggio troppo semplicistico per un’analisi economica. L’altra ipotesi invece trova nel divorzio tra Banca d’Italia ed il Ministero del Tesoro l’origine del debito pubblico italiano. In sostanza, persa la copertura della Banca Centrale come acquirente certo del debito, il tasso di interesse dei Titoli di Stato sul mercato è considerevolmente aumentato. C’è anche da considerare l’evasione fiscale. La spesa pubblica italiana è sempre andata in crescendo, ma non ha mai superato la media degli altri Paesi. Ha dovuto fare i conti però con entrate fiscali che mancavano di miliardi evasi dal fisco. Negli anni queste cifre hanno assunto un carattere sicuramente rilevante.

L’attuale crisi economica viene spesso imputata a questa smisurata crescita del debito pubblico. E’ una chiave di lettura veritiera?

In economia non esiste solo il debito pubblico, vanno considerati anche il debito privato (quello delle famiglie) e quello maturato con l’estero. Negli Stati Uniti, ad esempio, è stato proprio il debito privato a far scoppiare la crisi. Le famiglie americane si sono indebitate più di quanto potessero spendere. Con lo scoppio della bolla immobiliare e gli aumenti dei tassi d’interesse della Federal Reserve la crisi è esplosa. Nell’eurozona in molti hanno sostenuto che la crisi derivasse dagli squilibri nella ́bilancia dei pagamenti ̀. Che fosse legata, quindi, al maturare del debito con l’estero. La Germania ha accumulato surplus consistenti mentre i paesi periferici si sono trovati sempre più indebitati. Complice la crisi negli States la bolla è scoppiata anche in Europa.

Il settore pubblico piuttosto ha contribuito alla crisi applicando misure di austerità sin dalle prime battute della recessione. Queste misure hanno contribuito, anche a lungo termine, a peggiorare la situazione.

Negli ultimi anni sembra che la ricetta per uscire dalla crisi sia quella di ridurre il debito pubblico attraverso misure come il contenimento della spesa pubblica, aumento delle tasse, i paletti del pareggio di bilancio, Austerity e parsimonia insomma. Dopo anni a tirare la cinghia, l’economia italiana pare dare deboli segni di ripresa. Credi che sia questa la strada sa seguire?

La tradizione keynesiana da sempre sostiene il contrario. E’ la domanda aggregata il motore delle economia. Quindi quello che ci vorrebbe in periodi di recessione sarebbe in realtà uno stimolo alla domanda. Se questo stimolo proviene dal Settore Pubblico ben venga. Buona parte delle teorie economiche dell’ultimo periodo vanno in questa direzione. Un articolo del 2015 di Sebastian Gechert partendo dall’ analisi della letteratura accademica trae delle conclusioni sull’effetto della spesa pubblica sulla crescita economica. I moltiplicatori ricavati hanno valori superiori all’unità. Questo significa che per un euro investito spesa pubblica si ha una rendita finale superiore a quell’euro investito. Questo, ovviamente, non vuol dire che tutta la spesa pubblica sia buona. Costruire ospedali o strade, oppure investire nella ricerca, ha un effetto differente rispetto alla distribuzione di sussidi a pioggia o alle decontribuzioni fiscali (i classici tagli delle tasse).

Per molti economisti quindi, è necessario un cambiamento di rotta. Va implementato il ruolo dello Stato nell’economia e vanno aumentati gli investimenti del settore pubblico. In che modo tale visione sarebbe applicabile? 

Vanno colpiti alcuni capisaldi teorici e alcune scelte politiche degli ultimi trent’anni. Occorre sicuramente aumentare la spesa pubblica, ma occorrono anche buone politiche che sappiano indirizzare la spesa. A quel punto gli investimenti pubblici potrebbero diventare davvero il motore della crescita economica. Vanno riviste anche le politiche di finanziamento del debito. E’ necessario che le Banche Centrali possano finanziare i debiti degli Stati laddove i privati non riescono ad arrivare. La BCE, ad esempio ha delle sue caratteristiche peculiari per le quali non può finanziare la spesa pubblica se il Paese si trova in ́deficit̀. Questo può essere un limite alla crescita dei Paesi. Non credo neanche alla tesi che la monetizzazione del debito da parte delle Banche Centrali favorisca l’inflazione. E’ un’idea smentita dai fatti. Pensiamo alle immissioni pazzesche di liquidità effettuate dalle Banche Centrali dei paesi fuori dall’eurozona. La Federal Reserve, ad esempio, ha potuto tranquillamente aumentare i suoi bilanci e l’inflazione americana non è cresciuta.

Altro nodo fondamentale sarebbe la redistribuzione del reddito. Le politiche attuate finora hanno distribuito, anche quote considerevoli del PIL, verso categorie che hanno già possibilità di spesa. Chiaramente in questo caso il reddito addizionale delle famiglie finisce in risparmi. Rimane inutilizzato perchè non alimenta i consumi. Se invece fosse indirizzato verso famiglie a basso reddito, le spese aumenterebbero di certo. A questo va sommato una riforma del mercato del lavoro a ribasso, che impedisce alle famiglie di avere reddito addizionale da spendere in consumi che spingerebbero la domanda aggregata. Questo però è un problema che tocca alla politica risolvere.

Immigrazione di Rimpiazzo - sono talmente intrisi di servilismo del Politicamente Corretto che svalvolano


Arci e Ong si scrivono le leggi da sole. Favorire i clandestini “non è un crimine”
-12 ottobre 2017
Eugenio Palazzini

Roma, 12 ott – Un “reato di solidarietà”, così lo chiamano Ong e Arci, non può essere considerato un reato. E’ questo il senso, che neanche in una parodia kafkiana sarebbe contemplabile, della Carta di Milano, un documento presentato il 20 maggio 2017durante la manifestazione pro migranti “Insieme senza muri” da una serie di associazioni e organizzazioni umanitarie, tra cui appunto l‘Arci, Amnesty International e Medici senza frontiere. Oggi quel documento, già di per sé grottesco, si arricchisce di un nuovo strumento: l’Osservatorio sulla criminalizzazione della società civile. Il solito nome di stampo vetero terzomondista che indica il tutto e al contempo il niente, fuffa insomma.

Peccato che poi nel contenuto sia decisamente più significativo e preoccupante, perché punta a legittimare qualunque azione di cosiddetta “disobbedienza civile” compiuta a vantaggio di migranti e rifugiati, considerata dalla legge italiana un atto di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Certo, perché ovviamente di questo si parla, di azioni illegali perseguibili penalmente. Eppure no, per i buoni samaritani di tutto il Mediterraneo uniti, il loro modus operandi non deve essere considerato criminalizzabile. Perché loro le leggi se le fanno da soli e nessuno provi a contraddirli, pena essere relegati nell’emisfero boreale dei malvagi aguzzini dei poveri immigrati.

Obiettivo di questo inappuntabile Osservatorio è impedire che le attività delle Ong nel salvataggio in mare, finite negli ultimi mesi nel mirino della magistratura, vengano di fatto considerate per quello che, stando sempre alla legge italiana, sono realmente: dei crimini appunto. I promotori dell’Osservatorio vogliono, a loro dire, tutelare l’onorabilità, la libertà e i diritti della società civile in tutte le sue espressioni umanitarie. Certamente, perché violare una legge significa tutelare i diritti della società civile. Il vizio poi di parlare a nome di tutti: la società civile. “Ci proponiamo di dare sostegno legale, individuando pratiche di auto-aiuto, a chi viene colpito da provvedimenti vessatori, infamanti e discriminatori, e di articolare una contro-narrativa mediatica che mostri quanto di straordinario producono le Ong e i cittadini solidali, spesso riparando alle mancanze, quando non agli abusi, delle istituzioni” sottolineano i promotori. In pratica un vero e proprio j’accuse allo Stato, messo in discussione perché secondo loro non è abbastanza come loro.

Ma il delirio non finisce qua. “Siamo testimoni di un passaggio di soglia di portata storica, in cui ci è dato vedere quanto sia fragile la tenuta dello stato di diritto – dichiarano dall’Osservatorio – a chi cerca di attraversare una frontiera, per ricongiungersi alla famiglia o cercare una possibilità di esistenza, non è concesso dare aiuto cibo, informazioni, un passaggio in macchina pena l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la violazione di ordinanze che non molto tempo fa sarebbero apparse intollerabili alla grande maggioranza degli italiani”. Capito? Loro sono i testimoni dello stato di diritto che intendono di fatto violare per riscrivere a loro piacimento, perché altrimenti vengono considerati dalla maggioranza degli italiani dei criminali che favoriscono l’immigrazione clandestina, quando invece dovrebbero essere adorati come dei santi. Fraus legis facta, e non osate contraddire i buoni.

Legge elettorale - il fine giustifica i mezzi? per i fautori del si Salvini ha fatto un capolavoro, per i fautori del no Salvini è un voltagabana. Da un altro punto di vista, la tattica al servizio della strategia, e di nuovo un capolavoro, un'acquisizione di maggior potere contrattuale e di continuare a dettare l'agenda, come ha fatto in questi anni

Non solo Rosatellum, Matteo Salvini vi ha già fregati tutti

In quattro anni la Lega è arrivata ai suoi massimi storici nei sondaggi, e raccoglie consensi anche a Sud. Salvini, sottovalutato da tutti, rischia seriamente di mettere tutti gli altri (i geni della politica) nel sacco

13 Ottobre 2017 - 10:40

Alzi la mano chi pensava che Matteo Salvini avrebbe salvato la Lega Nord, nel dicembre 2013, quando il giovane europarlamentare, allora segretario della Lega Lombarda, aveva vinto le primarie del partito, raccogliendo il testimone di partito moribondo, schiantato dalle inchieste su Umberto Bossi e il tesoriere Belsito, i diamanti in Tanzania e la laurea albanese di Renzo “Il Trota”. Un partito che dieci mesi prima, alle elezioni politiche, aveva raccolto il 4% e portato a casa la miseria di 19 deputati e 12 senatori.

Tempo quattro anni scarsi e stiamo parlando di una Lega Nord ai suoi massimi storici, stabilmente attorno al 14-15% dei consensi. Un consenso figlio di una tranquilla tenuta al Nord, dove la sinistra-moderna-che-parla-al-ceto-produttivo di Matteo Renzi gli ha fatto il solletico, e dove anzi la Lega stessa ha fatto da forza motrice alle due storiche vittorie della regione Liguria e della città di Genova. Soprattutto, un consenso figlio di uno sfondamento al Sud su cui chiunque aveva ironizzato - «Ma chi, Salvini? Quello di senti che puzza, scappano anche i cani…» - che invece pare cominci a dare i suoi frutti: ci sono alcuni sondaggi, uno di Demos in particolare, che accordano al movimento di Salvini il 10% dei voti nel Mezzogiorno.

Fosse anche la metà, sarebbe un risultato da celebrare nei libri di scienze politiche:come se gli indipendentisti catalani sfondassero in Andalusia. E in questo, in effetti, sta la ricetta vincente di Salvini: quella di essere riuscito a mantenere forti le radici nordiste - in questo senso il referendum sull’autonomia rappresenta, anche se perdente, un importante segno identitario - ampliando la sua offerta politica con il nazionalismo e l’anti-europeismo.

A questo, si unisce la capacità di lettura degli umori dell’opinione pubblica. C’è chi usa gli algoritmi, chi ai sondaggi, chi si affida al fiuto del leader. Salvini e la Lega Nord hanno mantenuto intatta la solita ricetta, mutuata dal partito comunista di un tempo: radicamento territoriale e ascolto della base. Cui hanno aggiunto una strategia social che fa mangiare la polvere a tutti gli altri partiti e il talento situazionista del “Capitano” che né Bossi, né Maroni hanno mai avuto: Salvini è uno che ha avuto il coraggio di andare ai cancelli dell’Ilva, più di una volta, a manifestare con gli operai, a prendersi gli insulti a Napoli, a visitare i centri di richiedenti asilo in rigorosa diretta Facebook. I luoghi ostili lo esaltano, ed esaltano la sua capacità di sfondare la bolla, di andarsi a prendere il consenso in luoghi che, in teoria, non sarebbero i suoi.

Tutte cose, queste, che gli hanno permesso di dettare l’agenda per quattro anni filati e di portare molti dei suoi avversari ad avvicinarsi alle sue posizioni. Due su tutte: le critiche all’Unione Europea e alle politiche di accoglienza dei migranti. Di esempi ce ne sono quanti ne volete: l’Europeismo critico di Renzi, l’“aiutiamoli a casa loro” (perché “non possiamo accogliere tutti”) contenuto nel suo libro, le critiche alle Ong di Luigi di Maio, il piano Minniti. Tutte battaglie leghiste cui gli altri partiti si sono progressivamente accodati.

Il bello, poi, è che lo sottovalutano tutti. Prendete la nuova legge elettorale, il Rosatellum Bis. Mentre Pd, Cinque Stelle e i partitini di sinistra baruffano su preferenze, fiducia, listini bloccati e sospensioni di democrazia, Salvini si frega le mani. Già oggi, con la sola quota proporzionale, si porterebbe a casa una sessantina abbondante di deputati.
Gli riuscisse il colpo gobbo di prendersi buona parte dei collegi uninominali al nord rischierebbe di arrivare a quota cento, soglia che è stata superata solo nel 1994, quando un inesperto Berlusconi consegnò a Bossi quasi tutto il nord Italia. Dovesse succedere, ci sarebbe solo da alzarsi e applaudire. E poi girarsi verso tutti gli altri, i geni della politica che non hanno mai visto nella Lega una minaccia, e che hanno sprecato tutto il loro tempo e la loro energia a fare battaglie identitarie e fratricide a sinistra, e chiedergli il conto del capolavoro.

venerdì 13 ottobre 2017

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13 ottobre 2017 - Cina ed Italia s'incontrano per discutere di comunismo e mondializzazione

Banca Etruria - il Sistema massonico mafioso politico è un covo di serpi, tutte aggrovigliate fra di loro inestricabilmente

Da Mps a Etruria, il groviglio bancario intorno a Bonifazi del Pd

Il tesoriere dem fa parte della commissione d'inchiesta sugli istituti di credito. Ma tra il fratello della Boschi suo socio, lo zio ex Monte dei Paschi e Bassilichi, è molto legato a Siena e Arezzo. Su cui dovrà indagare.

ALESSANDRO DA ROLDTwitter
LUCA RINALDITwitter
12 ottobre 2017

Il Csm indaga su Woodcock ma si dimentica del pm di Etruria

Banche, Bivona scrive a Casini: «Visco sapeva dei bilanci falsi di Mps»

Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito democratico e da poco componente della commissione d'inchiesta sul sistema bancario italiano, minaccia querele contro l'Associazione vittime del salvabanche che ha appeso cartelli sotto il suo studio legale a Firenze per protestare in nome dei truffati di Banca Etruria. “Il Giglio magico in commissione inchiesta banche. Vergogna”, o anche “Babbo, amico e fratello, Banca Etruria al macello”, è stato scritto su un lenzuolo bianco.

UNA NOMINA INOPPORTUNA? Tutto per sottolineare l'inopportunità di nominare Bonifazi in una commissione che dovrebbe verificare con imparzialità la gestione degli istituti in crisi o quelli in risoluzione, come appunto Etruria, Banca Marche, Carichieti e Carife. Come ha detto l'onorevole toscanissimo Maurizio Bianconi, ex tesoriere di Forza Italia e ora nel Gruppo misto, «far presiedere la Commissione sulle banche a Casini e avere come vice Brunetta e un parlamentare del Pd è come formare il tribunale giudicante con gli avvocati degli imputati».

CONTROLLORI VICINI AI CONTROLLATI. Il rischio infatti è che si mischino con troppa facilità controllori e controllati, dal momento che Bonifazi ha una lista molto lunga di rapporti con il sistema bancario italiano, non solo su Banca Etruria ma anche su Monte dei Paschi di Siena, salvata dallo Stato con un investimento di 5,4 miliardi di euro e tornata sotto i riflettori grazie a un servizio de Le Iene e a un libro del giornalista Davide Vecchi sulla morte di David Rossi, l'ex capo ufficio stampa di Rocca Salimbeni.


Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi.

Ma andiamo con ordine. Il primo conflitto di interessi riguarda un socio dello studio legale di Bonifazi. Si tratta di Emanuele Boschi, fratello dell'ex ministro delle Riforme e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Maria Elena, figlio di Pier Luigi, ex vice presidente di Banca Etruria. Papà Boschi ha ricevuto una multa dalla Consob proprio per la mancanza di prospetti informativi corretti sul livello di rischio delle obbligazioni poi vendute ai piccoli risparmiatori.

EMANUELE BOSCHI 7 ANNI IN ETRURIA. Non solo. Lo stesso Pier Luigi Boschi era già stato sanzionato dalla Banca d’Italia nel 2014 per «violazioni di disposizioni sulla governance, carenze nell’organizzazione dei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito e omesse e inesatte segnalazioni alla vigilanza». A questo si aggiunge che Emanuele Boschi, socio dello studio Bl con uffici a Firenze, Milano e Roma, ha lavorato dentro Etruria per 7 anni, come program and cost manager.

Le società che partecipano al capitale di Bassilichi

Emanuele Boschi è anche legato a Mps, perché siede come sindaco in due controllate (Consorzio Triveneto e Moneynet) del gruppo Bassilichi, società di back office bancario che ha nell'istituto senese uno dei suoi principali azionisti (11,74%) come risulta da visura camerale, aggiornata al 31 luglio 2017.

IN BASSILICHI ANCHE MARCO CARRAI. Bassilichi è un avamposto del Giglio magico. Nel consiglio di amministrazione c'è Marco Carrai, storico braccio destro del segretario del Pd Matteo Renzi. Non solo. Leonardo Bassilichi è stato uno dei principali finanziatori della Fondazione Open e, secondo quanto riportato da Camilla Conti su il Giornale, potrebbe essere uno dei candidati al Comune di Firenze nel 2019, quando scade il mandato di Dario Nardella.

LO ZIO DI BONIFAZI ERA IN MPS. Di più. Consorzio Triveneto è controllata sempre da Mps al 10,13%. Moneynet invece da Bassilichi al 69,9% e la restante parte dallo stesso Consorzio Triveneto. Ma profondi sono anche i rapporti di Bonifazi. Suo zio, Alberto Bruschini, è stato membro della deputazione generale del Monte dei Paschi di Siena, mentre il cugino Gianni è anche lui nel consiglio di amministrazione di Bassilichi. Il legame con Mps è ulteriormente testimoniato da un altro azionista: Finanziaria Senese Sviluppo Spa (11%), che tra i soci vede di nuovo Fondazione Monte dei Paschi con il 58,66%.


Schaeuble detta legge egemoniche sugli euroimbecilli e tutti chinano la testa. Soprattutto quelli italiani servi dei servi

SCENARIO/ Gli algoritmi e le crepe pronte a sfasciare l'Europa

In Europa sembra regnare il caos, con una situazione difficile tra Spagna e Catalogna e il progetto di riforma di governance dell'Ue di Schaeuble. Il commento di GIULIO SAPELLI

13 OTTOBRE 2017 GIULIO SAPELLI


Wolfgang Schaeuble e Jens Weidmann (Lapresse)

La follia si è impossessata del mondo, come diceva Shakespeare. La Spagna sta implodendo, come si è già scritto su queste pagine. Un movimento nato più di un secolo fa allorché la Spagna sconfitta dagli Usa doveva abbandonare Cuba con la fine dell'Impero più grande del mondo, la Spagna che nel 1898 vedeva nascere il nazionalismo catalano come parte di un movimento di reazione e di rigenerazione della coscienza delle nazionalità più modernizzatrici (e le elites catalane erano le sole a esserlo in una Spagna dolentissima su cui Ortega y Gasset e Unamuno scrissero pagine bellissime e attualissime), quella Spagna ora è scossa da capo e piedi da un terremoto fortissimo. 

La Catalogna è sempre stata il legame che la penisola iberica sino al confine portoghese ha avuto con l' Europa. In Portogallo è stata la stessa storia sul fronte atlantico grazie al legame secolare con il dominio inglese e britannico in primis, dividendo - in tal modo - tanto la penisola iberica quanto l'Europa e rendendo evidenti le faglie che solcavano e solcano il vecchissimo volto europeo. Ora queste ferite si riaprono e si disvelano e solo gli stolti pensano che si possa non riconoscerle.

La riapertura di quelle ferite appare con un segno positivo in Portogallo, dove una sinistra rinata resiste all'ordoliberismo teutonico travestito da destino europeo grazie anche al legame secolare con il Regno Unito che non a caso ora si allontana da un'Europa che ha disgraziatamente incontrato nel suo destino politico dopo gli anni Settanta del Novecento. Non è tempo qui di spiegarne le ragioni che una persona colta e non colpita dal virus del pensiero unico liberista-eurocratico dovrebbe già conoscere.

La Catalogna ha visto mutare profondamente quel movimento di rigenerazione di una delle nazionalità spagnole riconosciute - del resto - dalla Costituzione del 1978. La spinta nazionale si è tradotta in spinta nazionalista e di fatto insurrezionale. Ebbene in tutti le occasioni storiche in cui questo è avvenuto per inverarsi in secessione statutale, queste spinte hanno avuto bisogno di un riconoscimento internazionale. Ricordo la Croazia riconosciuta dalla Germania nella crisi da dissoluzione della Jugoslavia, riconoscimento che pose le basi delle guerre balcaniche e dei massacri che ne seguirono. E ancor più recentemente ricordo il Kosovo e il riconoscimento Usa in funzione anti-russa e anti-serba con tutto ciò che ne seguì sino ai nostri giorni. E ricordo l' Ucraina e il riconoscimento russo in funzione anti-Usa e anti-Ue con tutto ciò che ancor oggi ne consegue con la guerra a-simmetrica. Diverso ancora il caso del Quebec, dove gli indipendentisti nelle ultime elezioni politiche hanno subito una pesante sconfitta.

Ebbene: in questa Europa che disvela le sue fratture storiche dinanzi alle quali sarebbe assai utile aprire un dibattito sia storiografico che politico, universalistico, riemerge la tentazione funzionalista federativa surrettizia ben esplicitata dal piano Schaeuble sul nuovo Fondo monetario europeo, che spiega da sé per il solo suo porsi, come l'ideologia, la cultura, le leggi dello spirito, siano la forza più potente della storia: è inutile spendere parole sulle ragioni che fanno sì che disgraziatamente la patria degli eccessi dell'ideologia trasformi l'arcangelo dello spirito in arcangelo del male. Oggi il male è la proceduralizzazione matematica dell'essere in una sorta di strutturalismo che da teorico si fa politico mentre uccide la politica. Una logica assai simile allo stermino scientifico di massa che si fonda su una amoralità consustanziale alle pratiche del dominio. 

Esagero? Non mi pare. Che cosa dovrebbe fare il nuovo Fme secondo lo Schaeuble? Ecco qui: dovrà dotarsi di strumenti più potenti dell'attuale formula che unisce il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), la Bce (tramite le Omt), il Fmi, la Commissione e la Troika. Il Mes potrebbe divenire il Fondo monetario europeo, con potere di supervisione e controllo delle politiche fiscali nazionali che la Commissione europea perderebbe tramite una modifica dei Trattati. Oltre a decidere dei prestiti, delle linee di credito precauzionali e degli aiuti per ricapitalizzare le banche dovrebbe in futuro finanziare gli investimenti per le infrastrutture, diminuendo la spesa pubblica delle nazioni sul modello della Banca mondiale. La Commissione perderebbe così il potere di controllo e supervisione delle politiche fiscali nazionali e ciò si combinerebbe con l'eliminazione dell'azione oggi possibile dei parlamenti nazionali che possono approvarne oppure no l'operato ex-ante e significherebbe l'assunzione da parte del Med di vasti poteri oggi della Bce e della stessa Troika. 

La governance del Mes, basata sull'unanimità dei voti e sui ministri delle Finanze nazionali, andrebbe modificata, riscrivendo i Trattati. Com'ha autorevolmente affermato Isabella Buffacchi, "se si utilizzasse per il Fme il modello Fmi, lo Stato membro più forte economicamente (nel Fondo gli Usa) prevarrebbe sugli altri e si rischierebbe che in Europa avrebbe la meglio su tutti la Germania. E questo molti temono sia il vero obiettivo, non dichiarato, della proposta Schaeuble di Fme… Un obiettivo ultimo che … accomuna le proposte per il potenziamento del Mes fino alla creazione del Fme è quello di alleviare la Bce dal suo ruolo - ancora oggi fondamentale per tenere assieme Stati membri dell'euro con affidabilità creditizie diverse - di prestatore di ultima istanza nel caso di crisi del debito sovrano temporanee di Paesi solventi e sotto programma di aiuto esterno".

Insomma, mentre l'Europa è scossa dalla crisi di una delle sue nazioni imperiali storicamente più importanti dal punto di vista umanistico e culturale, un anziano ministro tedesco piagato dal dolore di un destino ingiusto sogna di ridurre tutta la società a un gioco algoritmico senza nessuna traccia di quella pur debole e illusoria - ma pur tuttavia presente - aurea di legittimazione che gli attuali meccanismi di tentata risoluzione della crisi da deflazione europea ancora posseggono.

È un delirio della ragione, non vi è dubbio alcuno. Ora ne siamo più che mai certi. Dove ci porterà tutto ciò?

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2017/10/13/SCENARIO-Gli-algoritmi-e-le-crepe-pronte-a-sfasciare-l-Europa/787064/

Bitcoin - bando totale della moneta virtuale in Russia

Bitcoin, la Russia dice no

giovedì 12 ottobre 2017
di Alfonso Maruccia

L'autorità monetaria di Mosca si prepara alla messa al bando totale di Bitcoin e delle altre criptomonete, considerate tecnologie che prestano il fianco all'abuso e all'infrazione della legge. E destinate al collasso secondo gli esperti

Roma - Arriva dalla Banca Centrale della Russia una delle notizie peggiori per il business delle criptomonete nel Paese, un business che stando ai pezzi grossi dell'autorità monetaria verrà presto limitato in maniera sensibile con la messa al bando dei servizi di (s)cambio on-line.

Sergey Shvetsov, First Deputy Chairman della Banca Centrale russa, si è infatti espresso con parole di fuoco contro Bitcoin e tecnologie similari: le criptomonete rappresentano uno "sviluppo negativo" per il mercato russo, uno sviluppo che l'istituzione non può supportare e che dovrà essere impedito con misure restrittive.

In concreto, a partire dal prossimo anno la Banca Centrale potrebbe mettere al bando i servizi Web utili alla compravendita di Bitcoin e delle altre monete virtuali, un'iniziativa che affosserebbe la crescita di un mercato che, sempre nelle parole di Shvetsov, rappresenta uno strumento di investimento equivoco con caratteristica da autentica truffa piramidale ad alto rischio.
La Russia si prepara quindi a imporre forti limiti legali all'uso delle monete virtuali al pari di quanto sta già facendo la Cina, un sentimento anti-criptovaluta che sembra concordare con quello che pensano i grandi istituti finanziari americani (e JP Morgan in particolare) sulla questione.

Il futuro delle monete virtuali non promette benissimo, e mentre Bitcoin continua a sfondare nuovi record di valore (ora siamo intorno ai $5.000) un economista di Harvard (Kenneth Rogoff) avverte: sul lungo periodo, la crescente pressione dei governi porterà a un collasso del valore dei Bitcoin.

Bitcoin, la sua forza è la Blockchain. Rogoff ha perso credibilità, è palese la sua malafede

Dopo l’excel sbagliato sulla spesa pubblica, Rogoff predica la fine di Bitcoin


Kenneth Rogoff

“Il prezzo dei bitcoin crollerà. La tecnologia fiorirà, ma la valuta è destinata al collasso”. Parole e musica di Kenneth Rogoff, economista autore di un recente libro sulle valute. Insomma a prima vista pare le previsione di un esperto anche perché il professore di Harvard, ex capo economista del Fmi, fornisce spiegazioni razionali al suo ragionamento: “Cosa accadrà dipenderà molto dalla reazione dei governi. Tollereranno un sistema di pagamenti anonimi che facilitano l’evasione fiscale e il crimine? Creeranno valute digitali loro stessi?”.

Se la seconda domanda è assolutamente pertinente, così come il punto interrogativo che riguarda la nascita di altre monete costruite sulla blockchain (come per esempio Ethereum, ndr); la prima è quanto meno scivolosa: Bitcoin si basa su un sistema di pagamenti tracciato che può avvenire attraverso uno pseudonimo, ma seguirne il flusso è molto più facile rispetto alle banconote in circolazione. A dimostrazione della trasparenza di Bitcoin ci sono le decine di arresti che hanno seguito la chiusura di Silk Road, la piattaforma dove si potevano comprare armi e droga proprio in Bitcoin.

Bitcoin. iStock


Rogoff, comunque, non è nuovo a errori grossolani. E’ a lui e alla sua collega Carmen Reinhart che si devono gli anni di austerity che hanno messo in ginocchio l’Europa e soprattutto la Grecia: il Fondo monetario internazionale si è scusato pubblicamente per aver imposto pesanti tagli alla spesa pubblica a tutti gli Stati in crisi. D’altra parte il calcolo che secondo Rogoff mostrava come i paesi con elevati debiti pubblici (oltre il 90% del Pil) avessero avuto storicamente tassi di crescita negativi, ha subito una secca smentita.


Lo studio, intitolato Growth in a time of debt, pubblicato nel 2010 su American Economic Review, però, non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma molto più semplicemente da uno studente di Amherst, un’università del Massachusetts, che, utilizzando i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti: semplicemente i risultati erano sbagliati perché falsati da una serie di omissioni di dati ed errori di calcolo.


Il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. NICHOLAS KAMM/AFP/Getty Images

Abbastanza perché i tassi di crescita medi dei paesi ad elevato debito non fossero del -0,1%, come indicato da Reinhart e Rogoff, ma del +2,2%. Insomma senza un errore così marchiano forse l’Europa si sarebbe risparmiata anni di austerity uscendo più rapidamente della crisi e dalla spirale deflattiva. Il premio Nobel Paul Krugman ha attaccato diverse volte i due economisti di Harvard spiegando che “c’è un’enorme differenza fra l’affermazione secondo cui “Paesi con un debito superiore al 90% del Pil tendono ad avere una crescita più lenta rispetto ad altri Paesi con un debito al di sotto del 90% del Pil” e la dichiarazione “la crescita crolla drasticamente quando il debito eccede il 90% del Pil”. La prima affermazione è vera, la seconda no. Ma nonostante tutto R&R hanno continuato a giocare in modo ambiguo su questa distinzione”.


Chissà se questa volta l’errore si ripeterà sui Bitcoin: “Non ho idea di quale sarà il prezzo dei Bitcoin nel prossimo paio di anni, ma – conclude Rogoff – ma non c’è ragione per pensare che possa sfuggire al suo destino” di collassare. Gli addetti ai lavori però sono convinti che la corsa della criptovaluta continuerà a crescere prima di stabilizzarsi e evolversi in nuova applicazioni di stampo industriale.

Kossovo - uno stato costruito a tavolino dove dopo 18 anni sono ancora necessarie le forze d'occupazione militari

La situazione in Kosovo: intervista al comandante di K-FOR

12 ottobre 2017 


Il Kosovo è tornato al centro dell’interesse della Ue e della Nato non solo per la mai risolta crisi balcanica ma soprattutto per il fenomeno della radicalizzazione islamica. Analisi Difesa ha fatto il punto della situazione con il comandante della K-FOR, lo strumento dell’Alleanza Atlantica schierato nella ex provincia serba dal 1999, guidato da poco più di un anno dal generale di divisione Giovanni Fungo.

Quale bilancio dopo un anno di comando alla guida di K-FOR XXI?

“Trust and Commitment”, il motto che ha contraddistinto il mio periodo alla guida della missione riassume l’approccio operativo che ho voluto intraprendere, basato sulla vicinanza e sul dialogo con la popolazione locale e con tutte le istituzioni regionali che, a qualsiasi titolo, hanno delle competenze legate alla sicurezza e alla libertà di movimento delle comunità.

Difficile tracciare una linea e parlare di bilanci. I risultati sono legati alle percezioni che la gente prova in termini di maggiore sensazione di sicurezza e di stabilità. In tal senso abbiamo affrontato e vinto molte sfide, in piena sinergia con le altre organizzazioni internazionali presenti in Kosovo. Tuttavia, nonostante ciò, il Kosovo deve ancora affrontare e risolvere problemi importanti, che vanno dall’elevato tasso di disoccupazione alla crescente radicalizzazione religiosa, all’instabilità generalizzata dei Balcani Occidentali. K-FOR è stato protagonista più che mai e se vogliamo semplificare possiamo dire che ha contribuito da protagonista alla determinazione di una situazione stabile ma ancora fragile.

Come valuta l’evoluzione del Kosovo dal 1999 ad oggi?

Nel 1999, all’indomani del conflitto, il Kosovo era fortemente instabile. La situazione era tale da imporre una presenza capillare sul territorio, cosi come stabilito dalla risoluzione ONU 1244, con K-FOR che garantiva sicurezza e libertà di movimento per tutti, mentre la missione ONU (UNMIK) si sostituiva alla struttura amministrativa e sociale della regione.


K-FOR schierava all’epoca circa 55.000 militari. Dopo 18 anni di costante impegno della NATO e delle altre istituzioni internazionali, con l’Unione Europea in testa, ci troviamo di fronte a istituzioni che sono in grado di funzionare e di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico oltre alla libertà di movimento. Funzioni che all’inizio erano totalmente devolute alla Nato e che ora K-FOR, con circa 4.000 unità, continua a sostenere ancora nell’ambito nella cornice giuridica della Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, mai modificata.

Nel corso degli anni, gli incidenti inter-etnici sono diminuiti significativamente e, oggi, solo il sito del Monastero ortodosso di Decane continua ad essere vigilato direttamente dai militari di K-FOR, mentre gli altri siti religiosi della Chiesa Serbo-Ortodossa, che erano considerati a rischio, sono ora protetti della polizia kosovara. Anche la sicurezza delle aree a maggioranza serba è notevolmente migliorata. Parallelamente è aumentato il livello di integrazione dei serbi del Kosovo nelle organizzazioni di sicurezza locali. In ognuno di questi contesti, il ruolo svolto da K-FOR è stato e resta fondamentale, anche nella delicata attività di monitoraggio delle aree di confine.

Quanto è ancora attuale e necessaria la presenza di K-FOR?

Ambiente sicuro e libertà di movimento sono condizioni essenziali per offrire un futuro alle grandi sfide che il Kosovo sta affrontando. Mi riferisco ad esempio allo sviluppo economico del territorio che chiede stabilità per poter prosperare. Senza sviluppo economico continueranno ad esistere nel paese quelle sacche di disagio sulle quali proliferano le problematiche interetniche e di sicurezza che ancora affliggono la regione. Da qui l’essenziale attualità che ancora connota la missione.

Del resto i Balcani Occidentali rappresentano una cerniera fondamentale tra Ovest ed Est. Una eventuale profonda instabilità all’interno del Kosovo potrebbe favorire ulteriormente, ad esempio, il processo di radicalizzazione religiosa, che è già presente ma contenuto entro limiti per ora accettabili. Garantendo sicurezza alla regione si proietta stabilità non solo all’area balcanica ma anche resto dell’Europa. Ne deriva che il ruolo di K-FOR continua ad essere fondamentale per tutelare la sicurezza delle nazioni europee. A riprova della convinzione dell’attualità della missione il fatto che ben 29 nazioni, di cui 8 non NATO, contribuiscono con proprio personale alla struttura di K-FOR.

Quali percezioni emergono dal contatto con la popolazione?

Il modello che abbiamo strutturato è frutto della conoscenza ed esperienza acquisita direttamente sul terreno in termini di cultura e comprensione delle dinamiche amministrative e sociali locali, che in Kosovo sono spesso totalmente diverse da un comune all’altro.


La capacità degli LMT (Liason Monitoring Team), piccole pattuglie leggere in cui si articolano i JRD, i Joint Regional Detachment, è di riuscire, con la loro presenza, a garantire un flusso informativo costante sull’azione amministrativa delle municipalità e sulle condizioni di sicurezza e libertà di movimento delle comunità.

A me piace definirli come “assistenti sociali militari” in quanto si interfacciano ogni giorno sia con gli amministratori locali sia con la popolazione per tastare il polso della situazione, valutare le dinamiche socio-economiche e di sicurezza e rispondere alle esigenze reali della gente, facendo da tramite tra due mondi spesso purtroppo ancora distanti, i bisogni concreti degli abitanti e l’azione amministrativa sul territorio.La percezione che deriva da questi continui contatti è che la missione K-FOR sia ancora di estrema attualità e necessità, con l’aspetto sicurezza che funge da collante per lo sviluppo e la normalizzazione..

Qual’è la percezione della presenza di estremisti islamici ed elementi legati a gruppi terroristici ?

La cronaca ha dato, negli scorsi anni, ampio risalto all’elevato numero di foreign fighters provenienti dal Kosovo. Le Istituzioni locali tuttavia, con il sostegno delle organizzazioni internazionali, hanno rapidamente definito ed approvato una serie di leggi che consentono alle strutture kosovare di contrastare efficacemente il fenomeno.


Tutto ciò ha permesso, anche grazie al favorevole andamento delle operazioni della coalizione anti – ISIS, di azzerare il flusso di foreign fighters in uscita dalla regione.

L’attenzione è ora concentrata sui processi di de-radicalizzazione a cui vengono sottoposti coloro che tornano legalmente in Kosovo. Dalla fine del 2016, in particolare, sono stati sviluppati programmi specifici nell’ambito della società civile dedicati al reintegro degli ex combattenti. Il problema contingente, invece, riguarda i tentativi di radicalizzazione rivolti, attraverso offerte di denaro, alla popolazione di religione musulmana che storicamente non ha mai dato segni o mantenuto una condotta sociale estrema o radicale.

Il reddito pro capite medio che in Kosovo consente ad una famiglia di quattro persone di vivere si aggira sui 450 / 500 Euro al mese. Scendere al di sotto di questa soglia significa entrare in una situazione di disagio e povertà che agevola l’intervento di chi offre denaro in cambio di “comportamenti”, come imporre il velo a mogli e figlie o avviare i figli alla frequentazione di strutture religiose radicalizzate. Se questa azione viene ripetuta su grandi numeri, ad esempio, qualche migliaio di persone, è statisticamente inevitabile che almeno una minima quota ceda e si radicalizzi.

Foto K-FOR e NATO

5 novembre elezioni siciliane - e ti pareva

Regionali, Corte di Appello conferma esclusione di Busalacchi

12/10/2017 - 10:26
di Redazione

L'esponente di Noi Siciliani annuncia un ricorso al Tar e attacca i magistrati

Franco Busalacchi

La Corte d’Appello ha confermato la ricusazione della lista Noi siciliani con Busalacchi - Vox Populi- Sicilia libera e sovrana. Il movimento presenterà ricorso al Tar.

Lo schema di ricorso verrà presentato domani, venerdì 13 ottobre, alle ore 10.30, in una conferenza stampa che si terrà presso la sede del movimento, in via Archimede 161 a Palermo. Saranno presenti il candidato Presidente Franco Busalacchi; la squadra dei candidati assessori, a partire da Nino Galloni e Diego Fusaro; i candidati delle liste provinciali; il team di avvocati e giuristi siciliani e italiani ricorrenti. Saranno presenti, inoltre, due delegazioni esterne. Una italiana, a rappresentanza dei movimenti sovranisti costituzionali della CLN - Confederazione per la Liberazione Nazionale, e una delegazione internazionale, con leaders e speakers dei più valorosi movimenti sovranisti d’Europa (Spagna, Francia, Grecia, ecc...) che parteciperanno sabato 14 ottobre, al "Forum dei popoli mediterranei" a Palermo.

"Con grande solennità, l’articolo 1 della Costituzione italiana afferma che la sovranità appartiene al popolo. Ma non in Sicilia, aggiungo io, dove la sovranità appartiene a tre signori, componenti della Corte d’Appello di Palermo, i quali, avvitandosi attorno a un cavillo burocratico, hanno escluso la lista regionale del mio movimento politico dalla competizione regionale elettorale - dichiara Franco Busalacchi - Questi tre occhiuti e fiscali pedanti del diritto sono così entrati a gamba tesa su un terreno (ossia il procedimento elettorale che è un procedimento amministrativo), nel quale, in un paese veramente democratico, in cui i poteri fossero realmente separati, la magistratura non dovrebbe essere titolata ad intervenire, se non a richiesta di parte)".

"E' stato così speciosamente impedito ai miei potenziali elettori, pochi o molti che fossero - continua Busalacchi - di esercitare la propria sovranità costituzionalmente garantita. Eppure, un diverso giudice, il Tribunale di Palermo, non ha ritenuto di escludere la mia lista provinciale di Palermo, che pure presentava le stesse imperfezioni. Non mi resta da pensare, senza dietrologia, che per mia sfortuna mi sono semplicemente imbattuto in tre scribi senza un briciolo di umanità. Non ci fermiamo. Non abbiamo in cantiere l’opzione della resa". "La bocciatura della lista Busalacchi è un atto di criminalità politica. E lo dimostreremo - sottolinea Beppe De Santis, portavoce dei sovranisti siciliani di "Noi Mediterranei" - Non crediamo ai complotti. E’ una grande ed aspra battaglia politica quella da condurre. Nel corso della conferenza sarà presentato un dossier contenente: la documentazione sulla lista, le contestazioni errate formalistiche e strumentali degli Uffici istruttori, le controdeduzioni dei legali della Lista, la documentazione giurisprudenziale a favore della Lista del TAR del Lazio e del Consiglio di Stato, la contestazione gravissima della mancata integrazione nel dispositivo elettorale promulgato dalla Regione Siciliana della normativa della Legge Severino, per scelta chiaramente dolosa, omissione che comporta la decadenza dell’intero processo elettorale siciliano".

Roberto Pecchioli - Per Francesco Dio è morto, e per noi?

Come è triste il cristianesimo senza Dio!

Maurizio Blondet 13 ottobre 2017 
di Roberto PECCHIOLI

Non siamo teologi, la nostra preparazione religiosa è quella di tanti italiani formati da modeste famiglie cattoliche e da quella che una volta si chiamava dottrina, gli insegnamenti del catechismo appresi in parrocchia. Siamo vissuti con le semplici formule da mandare a memoria, chiare e prive di sfumature: Dio è l’essere perfettissimo creatore del cielo e della terra. Retaggi del passato, affermazioni nette, apodittiche, che destano orrore nell’uomo moderno e che la Chiesa nasconde, trascura, tutt’ al più confina nell’allusione e nella disprezzata fede popolare. Pensavamo queste cose assistendo, come è nostra abitudine mattutina, alle rassegne stampa televisive. Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, scrive di tutto, in particolare di immigrazione, ius soli, politica di governo e fatti internazionali, ma non nomina mai il nome di Dio, tanto meno parla di anima, del destino finale dell’uomo, di premio o castigo eterno. E’ un giornale, si potrebbe ribattere, il suo compito è fornire notizie. Vero, ma un foglio cattolico, espressione dei pastori di quello che un tempo avremmo chiamato popolo di Dio, dovrebbe diffondere e ribadire i fondamenti della fede e porli alla base del giudizio sui fatti.

Capiamo poco delle questioni poste da alcuni porporati a Francesco, dubia che ci sembrano ragionevoli; ancor meno sappiamo valutare il merito della “correzione filiale” contenuta nel manifesto di 62 sacerdoti, professori ed intellettuali cattolici, al di là dello sconcerto per encicliche che parlano del Creato ma tacciono sul Creatore. Prendiamo atto, con tristezza, di ciò che osserviamo. Alla messa domenicale, le omelie sono spesso sciatte, frettolose, o al contrario inutilmente prolisse, ma, al di là di fornire un’interpretazione perifrastica delle scritture, nulla più di buoni consigli per una vita onesta e rispettabile. Manca il quid, che, nella fattispecie, è il senso di tutto.

La grandezza di Gesù, il motivo profondo per cui quel giovanotto ebreo in tre anni di predicazione conclusa sulla croce ha cambiato la storia sta in un unico punto, la sua affermazione di essere il figlio di Dio. Senza di essa, tutto il resto, le parabole, il discorso della montagna, la sua stessa sofferenza durante il martirio che la Chiesa chiama Passione, non è che la vicenda ammirevole di un grande uomo, di un profeta, di un visionario o di un rivoluzionario propulsore di folle, ma non è religione, non è Verbo, non è Dio. Lo colse per primo Paolo di Tarso, nella lettera ai Corinzi: “Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede.” Ed aggiunse drammaticamente: “se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” .

Ecco, ci sembra che quello presente sia un triste cristianesimo senza Dio. Si esalta la figura di Gesù Cristo, la si considera un grande esempio da cui scaturisce un’etica, una serie di modelli comportamentali, ma ciò che resta ai margini, quello cui tutt’al più si allude senza troppa convinzione, è l’annuncio – l’evangelo o, con una parola difficile, il kérigma, ovvero la proclamazione della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Fuori da ciò, il cristianesimo non è che una narrazione suggestiva, la straordinaria avventura, umana ed esclusivamente umana, del figlio del falegname di Nazareth e della giovane Maria. Quando il “papa nero”, Sosa Abascal superiore dei Gesuiti – e gesuita fu lo stesso Bergoglio- afferma senza vergogna che dei fatti narrati dal Vangelo non vi è certezza, a partire dalla resurrezione, in quanto “non vi erano telecamere”, si è già fuori dalla religione cristiana, in un territorio desertico e inospitale in cui Gesù è attore protagonista, ma non più figlio di Dio. Forse semplifichiamo troppo, magari facciamo torto all’intelligenza del “nuovi cristiani” dubitando della loro stessa fede, ma quella è l’impressione che sgomenta.

Karl Rahner, teologo che ha dominato il Concilio Vaticano II e la sua applicazione successiva, parlò dei “cristiani anonimi”, ovvero di quegli uomini che, senza essere cristiani e senza possedere un’idea di Dio, ne hanno comunque, per natura, una conoscenza “trascendentale”, talché possono salvarsi anche fuori dall’adesione ai principi della fede ed alla Chiesa. A che serve dunque, l’imponente edificio cattolico? Aveva quindi ragione Lutero, non a caso rivalutato e quasi santificato nel quinto centenario delle tesi di Wittenberg: sola fide, sola gratia, sola scriptura. E comunque, l’ex agostiniano tedesco credeva nella vita eterna e nella salvezza o dannazione. L’argomento è diventato un tabù: silenzio impressionante. Ovvero, affermazioni del tipo che l’Inferno, se c’è, è vuoto, poiché tutti siamo destinati alla salvezza. In quel caso, sarebbe inutile ogni predicazione, ovvero, estremizzando, qualunque orizzonte morale avrebbe valore solo con riferimento alla vita terrena, giacché Dio sarebbe pura misericordia (concetto assai caro all’attuale vescovo di Roma). Ma se non c’è castigo, forse non c’è neppure delitto.

Probabilmente, nella nostra ignoranza, e magari accecati dal pregiudizio, diciamo cose assurde o ingiuste, ma il cristianesimo corrente ci sembra aver oltrepassato addirittura il confine che lo separa dall’ebraismo. La terra promessa al popolo eletto è ben materiale, è quella che calpestiamo ogni giorno. Gesù ha ribaltato la prospettiva (il mio regno non è di questo mondo) e se non è risorto, evento di cui manca la prova materiale o il filmato che tranquillizzerebbe il servo di Dio Sosa Abascal, il cristianesimo non è altro che il racconto di una vita illustre, una teoria sociale tra le altre, un ordito di regole morali e di prescrizioni pratiche da confrontare con tutte le altre. Forse esageriamo, ma in quest’ottica si comprende perché non siano più invocati e difesi quelli che Benedetto XVI chiamava principi non negoziabili. Nel mercato delle idee e delle morali, il sistema di valori cristiani è uno dei tanti, in concorrenza con gli altri, e, ammettiamolo, intrinsecamente perdente in quanto più esigente, meno aperto alla mediazione, più assertivo, per usare un vocabolo caro alla psicologia.

Allora, non resta che ricorrere ad una forma sofisticata di relativismo, cioè il situazionismo. Facciamo un esempio: per il cattolicesimo, l’adulterio è oggettivamente un grave peccato. Tuttavia, in base alle situazioni date ed alle condizioni soggettive o storiche (una sorta di torsione della “circostanza” cara a Ortega y Gasset, che era agnostico) può essere derubricato o giustificato. Basta intendersi sulla portata dei due vecchi pilastri che reggono l’impalcatura cristiana del male: piena vertenza e deliberato consenso.

Io ho commesso adulterio, ma non avevo coscienza che fosse male, anzi forse l’ha commesso solo la mia carne, che è debole, ma non la coscienza. Vi sono molti punti deboli nel situazionismo adattato al neo cristianesimo, la cui analisi lasciamo ai filosofi ed ai teologi. Ma almeno due saltano agli occhi dell’uomo comune: il primo è che se si rinuncia a distinguere il bene dal male, lasciandone il giudizio all’arbitrio individuale, nulla potrà essere considerato e vissuto come errore o come peccato, negando oltretutto la possibilità del pentimento, che è frutto della coscienza morale. L’altro è che la Chiesa ha l’obbligo di trasmettere il depositum fidei, di cui è parte integrante il giudizio immutabile posto da Dio – e per lui da suo figlio – sul bene e sul male. Sarà poi la sapienza divina a leggere nel cuore dell’uomo; la Chiesa può solo assolvere sulla base del pentimento, distinguendo tra la pena, rimessa, e la colpa, che resta.

Immaginiamo che quelli svolti alla buona nelle righe precedenti appaiano ai più futili questioni, simili alle dispute sul sesso degli angeli. In palio, però, c’è il cristianesimo come orizzonte di verità. La nostra opinione è che i cambiamenti di prospettiva, il ribaltamento di molte cose che la Chiesa ci proponeva a credere non soltanto generano confusione o perplessità, ma scavano un solco ben più profondo, quello della sfiducia e del sospetto. Abbiamo il diritto di pensare – magari a torto – che se comportamenti, idee, principi, valori, condotte proposte ed imposte per secoli non sono più valide, perché storicamente superate o semplicemente sgradite allo spirito dei tempi, uguale destino possa toccare alle nuove idee della Chiesa. Domani, o dopodomani, anch’esse saranno superate e sostituite. Ma la religione vive dell’eterno, del permanente, non può immaginare – e neppure permettersi- in materia di fede e di legge naturale, che ciò che è giusto oggi possa essere considerato assurdo domani. Non si può accettare che la verità sia posta ai voti, o che sia declinata con aggettivi possessivi e con articoli indeterminativi. O esiste, o non esiste: non ha senso la “mia” verità né tanto meno più verità, a scelta, come nello scaffale del supermercato.

Da qualche parte, si è ipotizzato che in un futuro non troppo lontano, la Chiesa cattolica possa fare a meno del Vaticano. E’ possibile, del resto Jorge Mario Bergoglio ha rinunciato a vivere tra le vecchie mura del potere temporale, ma salterebbe per aria un’altra delle prerogative, l’universalità simboleggiata da Roma e dal Papa. La vittoria di Lutero non potrebbe essere più schiacciante, ma sarebbe, in effetti, la vittoria di un cristianesimo spogliato di sé stesso, svuotato della sua essenza salvifica e veritativa, che è la salvezza ed il destino eterno della creatura uomo per mezzo della fede in Dio e dell’adesione in vita a quanto rivelato nelle scritture.

In questo senso, preoccupa anche il ruolo e l’insistenza dei biblisti, ovvero quegli studiosi membri del clero che interpretano scritture e Vangelo sulla base della loro adesione alla storia accertata. E’ chiaro che la conferma scientifica e storiografica di fatti ed avvenimenti ha un grande valore, ma Dio trascende ogni cosa e comunque il punto è sempre lo stesso: credere o meno che Gesù sia il figlio di Dio morto sulla croce e risorto. Si ha l’impressione che uomini di grande scienza, come il defunto cardinale Martini o il vivente Ravasi, insigni biblisti, abbiano subordinato la fede alla storia. La città dell’uomo europeo ed occidentale ha battuto, lasciato sullo sfondo, privatizzato o addirittura scacciato la città di Dio. Vince il progetto materialista, liberale e massonico, sbalordisce il silenzio di chi pare aver rinunciato alla battaglia, anzi sembra accogliere le tesi una volta nemiche.

I cristiani, lo disse il fondatore (chiamiamolo così, per brevità…) devono essere il sale della terra. Ma quanto è insapore e sciapo un cristianesimo ridotto ad umanesimo, organizzazione caritatevole, narrazione della vita e sofferenza di un grande uomo, memoria delle sue idee suggestive. Ciò che non crediamo più, e neppure la Chiesa sembra più credere, è che Gesù è Dio ed è risorto dalla morte. Mancano le prove, ed aveva ragione Paolo a ricordarlo ai primi fedeli, la nuova religione non è nulla senza quell'accadimento prodigioso.

Forse non è buon profeta un ateo assai colto, come il sociologo e antropologo francese Marc Augé, nel suo romanzo breve Le tre parole che cambiarono il mondo. Il giorno di Pasqua del 2018, durante il tradizionale discorso urbi et orbi, il papa, dopo un teso silenzio, esclama a gran voce: “Dio non esiste!” Tre parole che gettano nello sconcerto cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei, e scatenano una tempesta nel mondo intero. Non ci sarà alcun proclama o annuncio del genere, non ce n’è bisogno. Dio non è morto, semplicemente è assente, è un’ipotesi di cui non si tiene più alcun conto, con la complicità attiva di un cristianesimo stanco, indolente, incredulo. Per l’uomo Gesù omaggio e ammirazione, Dio non è pervenuto.

Mauro Bottarelli - 2017 crisi economica - si avvicina a passi veloci un'altra fase acuta della Grande Recessione

SPY FINANZA/ I derivati che scommettono contro le banche europee

Goldman Sachs e JP Morgan stanno offrendo agli investitori dei titoli derivati che scommettono contro la tenuta delle banche periferiche europee. MAURO BOTTARELLI

13 OTTOBRE 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Piovono cables. Con timing sospetto. Ieri La Stampa, il quotidiano più filo-statunitense d'Italia, ha aggiunto un interessante tassello alla ricostruzione dei fatti che nell'autunno 2011 portarono alla caduta del governo Berlusconi e all'arrivo in Italia della Troika, sotto le mentite spoglie del loden di Mario Monti. Ecco la ricostruzione: «Alla fine dell'estate del 2011, almeno due importanti membri del governo Berlusconi temono che l'Italia abbia bisogno di un salvataggio imposto e gestito dall'Europa, per evitare il collasso economico. In sostanza un bail-out sul modello di quelli varati per commissariare la Grecia, ma inevitabilmente più pesante. Ne parlano allarmati con l'ambasciatore statunitense David Thorne, che riporta le loro preoccupazioni a Washington attraverso i suoi rapporti. L'emergenza scatta proprio nei giorni in cui alcuni alti funzionari europei, secondo la testimonianza del segretario al Tesoro Geithner, propongono a Obama di evitare il disastro facendo cadere Berlusconi». Insomma, tra la famosa lettera della Bce dell'estate 2011 e il tracollo di novembre, con lo spread a 700 punti base, qualcuno già sapeva. 

E fin qui niente di strano. Ma sentiva anche il bisogno di avvertire l'ambasciata Usa del reale stato delle cose: membri del governo, non dell'opposizione. Perché quell'atto irrituale? Siamo forse sotto tutela formale di Washington, senza saperlo? Oppure Washington può contare su politici italiani, di ogni colore, che lavorano per suo conto all'interno delle istituzioni? Sarebbe interessante avere delle conferme in tal senso. E, magari, dei nomi. Ma stiamo scoprendo dell'altro riguardo il drammatico momento della crisi dei debiti sovrani Ue. Non che la cosa stupisca, ma avere conferma spalanca porte e finestre di un qualcosa che, come vedrete, rischiamo di rivivere a breve. La Bce, infatti, fa il pieno di utili grazie ai suoi investimenti in bond greci, ma Atene vede solo le briciole di questo tesoretto. 

La Banca centrale europea ha ammesso l'altro giorno di aver guadagnato 7,8 miliardi di euro sul suo programma di riacquisto titoli di stato varato tra il 2012 e il 2016, prima del lancio del Qe da cui la Grecia è esclusa. Di questa somma, però, sotto il Partenone sono arrivati solo gli spiccioli. La Bce è infatti tenuta a ridistribuire tra tutti i suoi membri (le singole banche centrali) i suoi proventi, mentre l'eventuale storno a un singolo Stato membro dei guadagni va concordato a livello politico. Di fatto, come è capitato nel 2013, quando fu versato nelle casse del Paese un assegno da 2 miliardi, i profitti accumulati fino a quel momento grazie alla lenta rivalutazione dei bond nazionali. Ma i versamenti alla Grecia sono sospesi dal 2014, quando la situazione è precipitata di nuovo, obbligando i creditori a un terzo memorandum che ha portato a 330 miliardi il totale dei prestiti garantiti al Paese. 

Pur non rappresentando nulla di particolarmente segreto, la pubblicazione dei profitti della Bce grazie ai bond ellenici è comunque destinata inevitabilmente a far surriscaldare di nuovo la polemica sulla gestione della crisi del Paese, tanto che l'ex ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, non ha perso tempo nel dichiarare come sia »un'oscenità che un'istituzione screditata come la Bce possa fare soldi grazie a una crisi che ha contribuito a creare». I tassi sul decennale sono schizzati al record del 26% nel 2012, hanno vissuto un'altra fiammata al 17% nel 2015 e ora viaggiano attorno al 5,4%. Un ottovolante di cui, stando a Varoufakis, hanno beneficiato «solo la Bce e i fondi speculativi». Tornano parole che pensavamo sparite, visto che i leader europei e i banchieri ci hanno detto che la crisi europea è alle spalle: rendimento, debito sovrano, speculazione. 

E c'è un motivo: perché il processo è ripartito, dieci anni dopo. Ricorderete infatti come prima del tonfo del 2008, l'indice Standard&Poor's fosse ai massimi di sempre esattamente come gli indici Usa attuali e la gente a Wall Street avesse un'unica idea in testa: incanalare i rendimenti in eccesso in investimenti ultra-rischiosi, visto che l'azzardo morale era la regola e tutti pensavano che i mercati sarebbero continuati a salire. Goldman Sachs ebbe un'intuizione: creare nuovi prodotti finanziari sintetici con alta convessità (ovvero, che garantivano solo pochi punti base di guadagno sui rendimenti) e porli in relazione a un trend ribassista illimitato, ovvero collegandoli agli assets più rischiosi possibili e vendere il tutto agli idioti di turno che attendevano la chiamata del promotore finanziario nella speranza di diventare miliardari. Ovviamente, Goldman Sachs si posizionava contemporaneamente dalla parte opposta di quel trading suicida. Erano i fantomatici CDO, di cui Goldman vendette badilate prima che il sistema crollasse e necessitasse di un mega-salvataggio da triliardi. Salvataggio che, alla luce dei fatti, non pare aver ancora funzionato del tutto. 

Bene, dieci anni dopo ecco che Goldman è intenta nello stesso giochino da alcune settimane, questa volta non contro i mutui subprime. ma, indovinate cosa? Le banche europee, quelle che vengono definite semi-insolventi. Ovvero, quelle del Club Med. Con l'agitata Spagna di questi giorni, casualmente, in prima fila. E non si tratta di chissà quale complotto, visto che l'altro giorno Bloomberg presentava la notizia in maniera molto blanda: «Meno di un decennio dopo l'ultima grande crisi bancaria, Goldman Sachs e JP Morgan stanno offrendo agli investitori un nuovo modo per scommettere sulla prossima». Chiaro e tondo. Il trade in questione è un total return swap, un prodotto ad alta esposizione di leva che è simile a un credit default swap, ma con alcune differenze sostanziali, il quale mette nel mirino della propria scommessa i cosiddetti bond Tier1 o AT1 o buffer notes emessi dalle banche europee, normalmente i primi che vengono spazzati via in caso anche di un modesto evento di insolvenza (vedi Banco Popular). L'AT1 (Additional Tier 1) è infatti la sigla che individua obbligazioni che hanno la caratteristica di partecipare all'assorbimento delle perdite della banca, nel caso in cui gli indici patrimoniali dell'istituto scendessero sotto un certo livello (da qui il riferimento al Tier 1, uno degli indici di patrimonializzazione più importanti per gli istituti bancari). 

I bond in questione sono di tipo "perpetuo", perché non vengono mai rimborsati se non - eventualmente - dopo un certo numero di anni prestabiliti a discrezione dall'emittente e non pagano alcuna cedola in caso di perdita. Insomma, roba con cui ci si scotta le dita molto facilmente. Ma che promette mosse da genio della Borsa e lauti guadagni. Bene, guardate questi due grafici: stando a dati di BofA-Merrill Lynch, il rendimento medio sul debito AT1 è oggi al 4,8% circa, dieci volte tanto quello di un bond bancario senior. Miracoli delle Banche centrali e dei tassi a zero. Di più, da praticamente nulla, questo mercato vale oggi attualmente circa 150 miliardi dollari: e come ci mostra il primo grafico, non si tratta di un trade per esperti o grandi finanzieri, ma è già diventato uno mezza mania di massa, esattamente come i CDO. 



Insomma, non solo è tornato l'azzardo morale, non solo sono tornati i derivati, ma l'oggetto della scommessa (al ribasso) sono bond a rischio delle banche europee: vi sentite tranquilli, al netto della strana mossa della Bce sulla regolamentazione delle sofferenze bancarie, proprio la prima ragione di debolezza degli istituti di credito del Vecchio Continente? E poi, la crisi non ci aveva insegnato la lezione? La straordinaria riforma della finanza voluta da Barack Obama non aveva tolto di mezzo l'azzardo morale? Balle. Sesquipedali. In dieci anni non è cambiato niente. Anzi, no: il debito pubblico e privato del mondo è cresciuto a dismisura rispetto al 2008. Immaginate che effetto moltiplicatore avrà questa criticità su una nuova, eventuale crisi. Anzi, levate l'eventuale. Goldman Sachs, come il mitico Gordon Gekko di Wall Street, non tira freccette. Scommette solo sul sicuro.