L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 28 ottobre 2017

Giulio Sapelli - il Quantitative easing ha salvato le banche ma l'economia reale è rimasta al palo in quanto gli Stati non hanno investito, la Germania non ha voluto

FINANZA E POLITICA/ Draghi e il "successo a metà" a cui dobbiamo la ripresa

Sfidando i dogmi della Germania, appoggiato dagli Usa, Draghi ha ottenuto un successo a metà con il suo Qe. Ora ha davanti un'altra sfida. GIULIO SAPELLI

28 OTTOBRE 2017 GIULIO SAPELLI

Mario Draghi (Lapresse)

Tutto il mondo dell'economia e della politica attende le conseguenze che avrà la progressiva riduzione della politica monetaria perseguita in questi anni dalla Banca centrale europea, ossia l'acquisto sui mercati dei capitali di quantità ingenti di titoli di stato delle nazioni aderenti all'euro. L'origine di questa politica è in quello strappo regolamentare perseguito dalla Bce che sotto la presidenza di Mario Draghi ha messo in discussione se stessa, ossia ha agito contro la volontà della Germania in forma sempre più esplicita via via dopo la crisi del 2007, così da superare i limiti d'espansione della base monetaria dettati dallo statuto della banca stessa. Con la sua presidenza fortemente voluta dagli Usa, Mario Draghi da subito si mosse per arginare la crisi da sottoconsumo e da deflazione che si abbatté come un macigno sulle nazioni europee e su tutta l'economia mondiale.

L'eccesso di rischio finanziario iniziò a distruggere quote sempre più ingenti di profitto capitalistico infliggendo alle banche un doppio gravame: l'inesigibilità dei crediti che avevano concesso alle imprese e l'eccesso di rischio da derivati originata dalle loro stesse politiche di debito collateralizato e di vendita di strumenti che distruggevano e distruggono valore capitalistico.

La scelta del capitalismo anglosassone fu quella neokeynesiana della mossa del cavallo: da un lato nazionalizzare o sostenere le banche insolventi o a rischio d'insolvenza, dall'altro sostenere l'economia tutta con bassissimi tassi di interesse così da non bloccare per sempre la propensione all'investimento. Combattere la deflazione era l'obbiettivo che si concretò con l'ipotesi di poter raggiungere il 2% di crescita dei prezzi su scala europea.

Questa la sostanza di una politica che ha diviso l'Europa con la frattura tra Usa (favorevole a tale politica) e Germania (a essa invece contraria) con le note conseguenze a livello internazionale che con la Presidenza Trump si sono vieppiù esacerbate con gravi conseguenze internazionali. Ora la Bce annuncia il lento rientro da questa politica che ha certo salvato le banche consentendo di non interrompere il credito alle imprese e ha consentito alle imprese di non essere vittime di un blocco del credito all'industria. Certo una massa enorme di liquidità si è rovesciata sui mercati con pericolose bolle di liquidità e di fatto senza aver raggiunto l'obiettivo tanto agognato del 2%.

Non si è trattato di un fallimento, ma solo di un successo a metà. E questo perché la tanto bistrattata economia reale, frutto di quelle imprese sostenute dalla politica monetaria delle banche centrali, Federal reserve e Bce in testa, quell'economia reale si è rimessa in moto grazie alla demografia mondiale e all'emersione di sempre nuovi "paesi emergenti" che hanno trascinato in avanti l'accumulazione globale del capitale con iniziali ricadute positive sui livelli di consumo e di occupazione.

La politica di Quantative easing ha certo raggiunto dei risultati positivi, anche se dimidiati. Ha seguito insegnamento di Hyman Minsky, il grande economista italo-nordamericano: dividere il bilancio degli stati dal credito all'economia. Un'eresia per la tecnica economica oggi imperante a matrice tedesca. Ma quell'insegnamento che Mario Draghi conosceva e conosce bene ha salvato per ora l'economia europea. I cosiddetti mercati lo sanno molto bene, più di molti economisti e allora la preoccupazione dev'essere lieve: le borse sconteranno in positivo anche la lenta fuoriuscita dal Quantative easing che Mario Draghi con perizia di nocchiero guiderà.

Allo zombi Renzi non è bastato il 4 dicembre 2016 ora sarà massacrato dai siciliani il 5 novembre 2017

Renzi sull’orlo di una crisi di nervi (e i congiurati affilano i coltelli)

I sondaggi nefasti sul Rosatellum, Grasso che esce dal Pd, Gentiloni che “tradisce” sulla nomina di Visco: di buone notizie, sul treno di Renzi, ne arrivano ben poche. E tra i banchi più d'uno mormora che le prossime elezioni siciliane saranno una resa dei conti

27 Ottobre 2017 - 07:30

Il treno del Pd è partito da una settimana ed è già uscito dai radar dei media nazionali. Se non da quelli che lo usano come clava per criticare le ultime mosse di Matteo Renzi. I fedelissimi si chiedono perché del viaggio in treno escano solo le notizie delle contestazioni: il riferimento, in particolare è al cattivissimo articolo delFatto Quotidiano che ha già bollato l'iniziativa come un fallimento. Tanto da obbligare gli organizzatori - viene affermato nel pezzo - a stravolgere il percorso e comunicare le tappe all'ultimo minuto per evitare le contestazioni. Tutto molto forzato, in realtà: le contestazioni, dove ci sono state finora, sono state limitate a qualche decina di esagitati. E sì, è vero, le tappe vengono decise all'ultimo. Ma non per timore di incorrere in qualche fischio, bensì perché è lo stesso Renzi a decidere tutto all'ultimo minuto, in funzione dell'umore del momento. Un modus operandi che ormai è diventato la regola al Nazareno e nel ristretto staff del leader dem.

Un sintomo, però, anche questo, dello stato di agitazione, se non di panico, che ha scalato il Pd nelle ultime settimane fino ad arrivare all’ufficio - pardon, vagone - del Capo. Gli ultimi sondaggi pubblicati da vari organi di informazione - e in quelli riservati alla segreteria - fotografano una situazione preoccupante. La legge elettorale voluta da Renzi, approvata con una forzatura istituzionale che ha portato il governo a chiedere due voti di fiducia in quindici giorni - cosa mai successa nella storia della Repubblica, con buona pace di De Gasperi -, rischia di trasformarsi in un drammatico boomerang. In questo senso, proprio qui, mentre altri parlavano di Fascistellum,parlammo di Suicidellum: «Siete riusciti nel miracolo di approvare due leggi in una - è il leit motiv nella parte destra dell'emiciclo a Palazzo Madama nelle ore delle cinque fiducie - la legge elettorale e la legge sul fine vita della sinistra». È opinione quasi unanime, infatti, che il Rosatellum bis favorirà nettamente il centrodestra, che rischia addirittura di vincere le elezioni, se continuerà a crescere come nelle ultime settimane. Il nuovo sistema potrebbe insomma trasformarsi in un "regalo" in grado di trasformare in maggioranza parlamentare il vento che spira nel Paese. Un vento che si è manifestato in maniera impetuosa prima con il voto alle amministrative e poi con il referendum sull'autonomia in Lombardia e Veneto.

La geografia politica disegnata dai sondaggi è impietosa: il Nord tutto, o quasi, nelle mani della destra, il Sud sempre più in balìa di pulsioni ribelliste e attratto dal voto di protesta rappresentato dai 5 Stelle, il Pd arroccato in quel che rimane delle regioni rosse, anch'esse tutt'altro che immuni da "cattive tentazioni". Con una destra così forte e un MoVimento assolutamente in partita - e non tagliato fuori dal sistema dei collegi, come sperava Renzi - l'incubo che aleggia tra il Nazareno, il treno e Pontassieve è quello di perdere la sfida delle coalizioni e, al tempo stesso, quella delle liste. Con l'asse forzaleghista a vincere le elezioni e Grillo, Di Maio e company a primeggiare nel voto ai partiti.

Anche perché, mentre nel sentimento comune il centrodestra - nonostante le divisioni tutt'altro che sopite - si muove come un tutt'uno, il centrosinistra al momento non esiste. Pisapia e gli altri possibili alleati sono effimeri. La frattura con Mdp, dopo il voto in Senato sul Rosatellum, sembra ormai insanabile e la notizia dell'abbandono di Pietro Grasso - da molti indicato come possibile leader di una nuova, allargata, formazione di sinistra - è solo l'ultima “mazzata” che potrebbe costare caro anche in termini elettorali.

Il "Renzi contro tutti, tutti contro Renzi", tratteggiato nei giorni scorsi da alcuni retroscenisti molto accreditati, si sta rivelando una lotta impari, troppo sbilanciata per essere portata avanti con successo. Tanto più che le sponde che sembravano più solide stanno cominciando a vacillare, a cominciare da Paolo Gentiloni

Se non è sindrome di accerchiamento poco ci manca. A livello comunicativo non riesce a passare nulla di ciò che viene pianificato. Le crescenti buone notizie che arrivano dai dati economici finiscono nel calderone senza lasciare il segno. Quella del treno doveva essere una grande campagna d'ascolto ma, nonostante l'accoglienza tutt'altro che fredda riservata a Renzi e compagni sui territori, per i giornali è già un flop. Il tentativo di demonizzazione dei Cinque Stelle portato avanti sui canali ufficiali (e non) del partito non sta facendo altro che rinvigorire gli avversari e i loro agguerriti sostenitori. L'operazione condotta contro Ignazio Visco e Bankitalia ha per ora prodotto solo danni, riportando in cima all'agenda politica un tema, quello della banche, foriero di problemi e criticità per il leader dem, Maria Elena Boschi e tutto il Giglio Magico. La fiducia sul Rosatellum ha fatto tornare al centro della scena il nome di Denis Verdini, che gli avversari strumentalizzano senza pietà.

Il "Renzi contro tutti, tutti contro Renzi", tratteggiato nei giorni scorsi da alcuni retroscenisti molto accreditati, si sta rivelando una lotta impari, troppo sbilanciata per essere portata avanti con successo. Tanto più che le sponde che sembravano più solide stanno cominciando a vacillare, a cominciare da quel Paolo Gentiloni che non si è assolutamente scomposto davanti all'attacco a Visco, riconfermandogli la fiducia e facendo il suo nome per un nuovo mandato a Palazzo Koch.

È in questo contesto che il Pd si avvicina con sempre maggiore apprensione al voto siciliano che potrebbe segnare un punto di non ritorno. Se il 5 novembre si rivelerà, come si teme, un disastro, non è da escludere il ritorno in auge dell'ipotesi commissariamento nei confronti di Renzi. Un'operazione delicata, sicuramente non priva di controindicazioni, ma che registra un sostegno crescente dentro e fuori il partito. «Renzi ci porta a sbattere e se in Sicilia crolliamo sarà l'unica occasione per cambiare rotta prima della collisione finale», dice un parlamentare di lungo corso chiacchierando con alcuni amici all'uscita dal Senato. Nella testa dei congiurati i nomi da spendere ci sono già. E siedono tutti al tavolo del Consiglio dei ministri.

26 ottobre 2017 - Diego Fusaro: "Perché occorre avere valori di destra, idee di sinistra"

27 ottobre 2017 - borghi_sovranità_monetaria

Anche l'Onu sorgente di fake news, siamo sommersi dalle menzogne, dobbiamo evidenziare le incongruenze, le discrepanze

Siria: Mosca attacca rapporto gas sarin

'E' pieno di incongruenze logiche e prove infondate'

© ANSA
Redazione ANSAMOSCA

27 ottobre 201711:50NEWS

(ANSA) - MOSCA, 27 OTT - E' "pieno di discrepanze" e "incongruenze logiche" il rapporto del Comitato investigativo congiunto (Jim) delle Nazioni Unite e dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) in cui il governo di Damasco è indicato come responsabile dell'attacco con il gas sarin dell'aprile scorso a Khan Sheikhun, in Siria: lo sostiene Serghiei Riabkov, vice ministro degli Esteri della Russia, alleata di Damasco nel conflitto in Siria.
"Anche a uno sguardo veloce - ha detto Riabkov - si vede che il rapporto è pieno di discrepanze, incongruenze logiche, testimonianze di dubbio valore e prove infondate che la Russia ha menzionato decine di volte negli ultimi mesi lontano dai microfoni e dietro le quinte".

Yemen - anche in questo paese gli statunitensi e gli ebrei sionisti non riescono a imporre il dominio delle armi

YEMEN: L’INCUBO DI UN VIETNAM SAUDITA


28/10/17 

La situazione geostrategica del Medio Oriente vede da tempo una crescente sfida per l’egemonia nella regione tra le tre medie potenze dell’area: Arabia Saudita, Turchia ed Iran. Il braccio di ferro si inserisce da un lato nella secolare rivalità tra sunniti (Arabia Saudita e Turchia) e sciiti (Iran), dall’altro nel quadro del confronto ormai globale tra Stati Uniti e asse russo-cinese.

L’esplosione di tutte queste rivalità ha trovato dal 2011 il suo principale campo di battaglia in Siria, dove la guerra civile si è poi trasformata in una proxy-war. Ma questi attori mediorientali si trovano oggi, proprio per la volontà di espandere la loro supremazia e controllare il “cortile di casa”, a dover affrontare altre guerre asimmetriche, dove il loro potente apparato militare viene spesso tenuto in scacco da avversari irriducibili e tutt’altro che post-eroici.

In particolare l’Arabia Saudita, grande madre del fronte sunnita a guida di un’ampia coalizione di stati arabi, nel corso dell’ultimo biennio si è sempre più impantanata in Yemen nel conflitto tra il governo yemenita e i ribelli sciiti Houti, affiancati dai fedeli al vecchio presidente Saleh e dalle milizie Hezbollah.

La coalizione saudita appoggiata dagli americani - mentre gli Houti sono sostenuti dall’Iran e dalla Russia - mira a rinnovare la sua rilevante presenza nel Mar Rosso, pur se gli Stati Uniti da lungo tempo appaiono sempre più distaccati dalle aree del Mediterraneo e del Golfo non riescono a definire insieme al partner una strategia realmente vincente. Ma non avendo gli USA alternative valide all’Arabia Saudita come alleato di punta per la politica mediorientale, anche la guerra civile yemenita è ormai diventata una proxy-war a tutto campo.


Così, le possenti forze armate di Ryadh non riescono ad avere ragione dei ribelli, nonostante migliaia di bombardamenti degli Eurofighter Typhoon, F-15C/D Eagle, F-15E(S) Strike Eagle e Tornado IDS sauditi. Né appaiono risolutivi gli MBT M1 Abrams, i lanciarazzi MLRS e gli AH-64 Apache messi in prima linea dall’esercito. Il problema è il solito: si continuano a colpire le posizioni fisse con il conseguente risultato di massacrare civili, mentre i guerriglieri continuano a muoversi altrove.

Gli Houti, appoggiati dalle forze armate yemenite rimaste fedeli al precedente presidente Ali Abdullah Saleh, hanno comunque forze stimate oltre i 150.000 uomini, ma molto meno armati dei sauditi, che sono affiancati anche da contractors e da truppe della coalizione araba sempre meno disponibili e combattive.

L’operazione “Decisive Storm”, ossia l’offensiva aerea in Yemen per impedire agli Houti di raggiungere Aden, coinvolge infatti aerei non solo sauditi (più di 100), ma anche di Egitto, Marocco, Giordania, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar (fino a maggio) e Bahrain, per un totale di altri 80 caccia e bombardieri. L’ultima perdita è del 13 settembre scorso, quando un Eurofighter saudita è precipitato per cause tecniche durante una missione CAS, uccidendo il pilota.

La risposta degli Houti non è mancata, attraverso lanci di missili superficie-superficie, Scud e Tochka che sembrerebbero provenire dagli arsenali dei precedenti governi yemeniti.

L’intervento diretto americano è invece concentrato contro i circa 4.000 guerriglieri di al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), con l’intervento dei Navy SEAL e con l’uso di droni e missili cruise, e contro l’ISIS che peraltro conta più di qualche centinaio di guerriglieri e sulle cui postazioni si sta scatenando proprio in questi giorni il duro attacco americano.


La guerra civile è già costata la vita a più di 10.000 civili.

La spietatezza dell’intervento saudita non ha prodotto però il risultato sperato dal giovane erede al trono Mohammed bin Salman, a capo delle forze armate. I ribelli non sono stati schiacciati e il rischio di stallo si sta sempre più facendo strada, nonostante l’abbondanza di uomini e mezzi impiegati e le perdite crescenti nascoste all’opinione pubblica araba e mediorientale.

L’emergenza umanitaria si sta facendo drammatica, tanto che nel luglio scorso la World Health Organisation ha confermato che oltre 500.000 persone sono colpite da un’epidemia di colera in atto. La situazione alimentare è certamente critica, con oltre tre milioni di denutriti. Ma nonostante queste distruzioni e le risorse profuse, domare gli Houti si sta rivelando un esercizio molto difficile e la vittoria di Ryadh appare ben lontana. L’incubo di un Vietnam saudita si fa sempre più reale.

Prof. Arduino Paniccia

Presidente ASCE – Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia e Docente di studi Strategici

La Casa Bianca sparge fake news sulla Persia

IRAN - STATI UNITI

Studio Ucla sconfessa Trump: l’Iran non Stato canaglia, ma una società in evoluzione

La Repubblica islamica non una democrazia “falsa”, ma una nazione “attiva” pur a fronte di “vincoli”. Non è uno Stato assistenziale come le monarchie del Golfo. E vi è un’alta partecipazione popolare in occasione degli appuntamenti elettorali. Fondamentale “istituzionalizzare” il passaggio di potere dall’ala radicale alle aree moderate e riformiste.


Teheran (AsiaNews) - L’Iran non è una democrazia “falsa in tutto”, quanto piuttosto una nazione dinamica, con un apparato politico e una società civile che presentano “vincoli” ma sono pur sempre “attivi” e vitali in un contesto in evoluzione. È quanto emerge da un recente studio dell’Università della California di Los Angeles (Ucla), che contraddice in larga parte l’opinione che viene diffusa dai circoli di potere di Washington e dal presidente Usa Donald Trump - che lo ha definito “Stato canaglia” - sulla Repubblica islamica.

In un periodo in cui la Casa Bianca è impegnata a formulare una nuova politica verso l’Iran, sconfessando i passi compiuti dal predecessore Barack Obama a partire dall’accordo sul nucleare (il Jcpoa), è importante compiere analisi serie e approfondite sul Paese, le istituzioni, il popolo. Da qui la decisione di un gruppo di studiosi dell’ateneo di Los Angeles, che hanno voluto elaborare una ricerca accurata su una società giudicata “in rapido cambiamento”.

Intitolato “Iran Social Survey”, lo studio elaborato nel dicembre 2016 su un campione di oltre 5mila cittadini iraniani, rappresenta la prima inchiesta su scala nazionale negli Usa della società che anima la Repubblica islamica dal 1979, anno della Rivoluzione. Essa contiene dati sulla storia familiare, sul comportamento dell’elettorato, l’identità etnica e le relazioni contemporanee che caratterizzano la società e lo Stato.

Il presidente Usa Trump e parte dell’establishment considerano l’Iran uno Stato di polizia, con una popolazione oppressa e desiderosa di rivoltarsi contro la classe al potere e i suoi rappresentanti, bollati come leader tiranni. Certo, lo studio non vuole portare la Repubblica islamica come modello di democrazia e di virtù, ma chiarisce che lo Stato e le istituzioni non sono quel sistema monolitico che non si può scalfire, né scalare, come dipinto a Washington. “Non voglio negare il consolidamento brutale dello Stato nato dalla rivoluzione” afferma il curatore dello studio Kevan Harris, quanto piuttosto mettere in mostra “i diversi modi in cui il governo si rapporta con la società”. La visione di un regime che sceglie tre o quattro candidati da sottoporre al popolo è sbagliata, così come l’idea di uno Stato assistenziale che sfrutta i proventi del petrolio per pagare salari e tenere nella morsa la gente. Questo, piuttosto, corrisponde al modello del Venezuela di Hugo Chávez ai tempi d’oro o le attuali monarchie del Golfo (tanto care agli Usa). 

Secondo Harris il corpo politico e istituzionale iraniano è molto più complesso di quanto non appaia, e non vi è alcuna correlazione fra benefici di Stato e partecipazione al voto o preferenza di partito, che rimangono elementi disgiunti. Un altro elemento sorprendente, aggiunge lo studioso, è il grado di partecipazione e impegno alle campagne elettorali. Ne è esempio l’impegno in prima persona dei candidati della circoscrizione elettorale di Tabriz, all’ultima campagna, intenti a distribuire biglietti da visita ai cittadini per la pubblica via, cercando quasi un sostegno porta a porta. “Sono cose - afferma - che non è facile osservare oggi al di fuori dell’Iran”.

Da ultimo vi è anche la questione della graduale transizione di potere, nel tentativo di sottrarlo al controllo dell’ala conservatrice e radicale che finora ha mantenuto la guida del Paese. Per l’autore della ricerca oggi vi è davvero lo spazio per una affermazione di riformisti e moderati, come testimoniato dalle affermazioni dell’attuale presidente Hassan Rouhani che, nel maggio scorso, è stato rieletto per il secondo mandato. “Un Iran con un sistema maggiormente democratico - conclude Harris - non è una nazione in cui è scomparsa l’ala destra” quanto piuttosto un Paese in cui la cessione del potere è avvenuta “istituzionalizzandone il passaggio”.

Pd euroimbecille globalista unipolare - sempre di più abbandonano la nave e l'abbraccio mortale dello zombi Renzi

Pd, Renzi trema: fuga dal partito dopo l'addio di Grasso. I nomi


Di Alberto Maggi (@AlbertoMaggi74)

"La fiducia è stata violata". Con queste parole il presidente del Senato Pietro Grasso ha motivato la sua decisione di lasciare il Partito Democratico in polemica con Matteo Renzi per l'approvazione a colpi di fiducia della nuova legge elettorale. Alla seconda carica dello Stato era stata offerta prima la candidatura alla guida della Sicilia, rifiutata, e poi in Zona Cesarini un seggio nel prossimo Parlamento, rifiutato. E lo strappo è molto doloroso soprattutto perché - dicono fonti qualificate - potrebbe non essere un caso isolato.

Il tam tam del Palazzo segnala che ci sarebbero almeno cinque senatori pronti a seguire Grasso e a lasciare i Dem e sono Vannino Chiti, Claudio Micheloni, Luigi Manconi, Walter Tocci e Massimo Mucchetti. Ma la vera slavina che potrebbe terremotare il Pd potrebbe arrivare dal 6 novembre in poi, ovvero dopo le elezioni regionali siciliani. Se davvero, come pare, Fabrizio Micari dovesse risultare solo terzo, se non quarto, e sotto il 20% le conseguenze nel Partito Democratico potrebbero essere devastanti e deleterie a pochi mesi dalle elezioni politiche.

Perfino il pacato Franco Monaco, prodiano della prima ora, usa parole durissime: "Essendo Grasso uomo delle istituzioni, lo capisco perfettamente: il Pd è irriconoscibile soprattutto per la sua deriva, già vistosa nel referendum costituzionale, verso l'antipolitica: da 'partito della Costituzione' (come sta scritto nella sua Carta fondativa) a partito che destabilizza le istituzioni". Praticamente un annuncio di addio e infatti i rumor dicono che anche i fedelissimi di Romano Prodi avrebbero ormai le valigie in mano. Così come i pochi parlamentari vicini a Enrico Letta. Occhi puntati anche sulle mosse di Gianni Cuperlo che aveva deciso di non seguire Bersani in Mdp che è sempre stato lontano dalla linea del segretario.

Anche nelle due minoranze ufficiali, quella di Andrea Orlando e quella di Michele Emiliano, ci sarebbero deputati e senatori che stanno pensando seriamente allo strappo. E perfino il Guardasigilli pare che non metterebbe la mano sul fuoco sulla sua permanenza nel Pd. In totale, da qui ai prossimi mesi e fino al voto, potrebbero perfino essere 30 o 40 i parlamentari in uscita. Se non di più. Ma anche diversi consiglieri regionali e comunali, da Nord a Sud, stanno valutando in questi giorni il da farsi senza escludere di seguire l'esempio di Grasso.

Per andare dove? L'idea potrebbe essere quella di aderire direttamente ad Articolo 1 - Mdp oppure di dar vita ad un movimento nuovo, che poi in vista delle elezioni confluisca in un cartello elettorale con i bersaniani, Sinistra Italiana e Possibile di Pippo Civati. Da valutare la posizione di Giuliano Pisapia che si era riavvicinato al Pd in polemica con Speranza ma che dopo il passaggio parlamentare sulla legge elettorale è stato molto duro con Renzi.

Il ragionamento di alcuni deputati è che è meglio cercare casa altrove, in una formazione che potenzialmente potrebbe fare il 10%, ovvero 45-50 deputati, che restare in un Partito Democratico egemonizzato dai renziani, con un affollamento di candidati e con sempre meno voti. E c'è chi già preferigura Grasso come leader e candidato premier del rassemblement di sinistra. Ma il percorso è ancora lungo...


Mauro Bottarelli - la chiusura multipla e contemporanea delle mille e mille attività finanziarie e non produrrà una fase della crisi in cui siamo immersi dal 2007/8 inimmaginabile. Patrimoni e vite saranno spazzate via come fuscelli

SPY FINANZA/ Ecco l'intoppo che riavvicina la crisi

Siamo nel paradosso assoluto di un mondo che annega contemporaneamente nel debito e nel contante. E le cose non volgono al meglio, dice MAURO BOTTARELLI

28 OTTOBRE 2017 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Si comincia. «La Bce avrebbe dovuto fissare una data precisa per la conclusione del suo programma di acquisto titoli». Lo ha dichiarato il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, il giorno seguente la comunicazione della Banca centrale riguardo l'estensione del Quantitative easing, lasciando aperta la porta a un ulteriore proseguimento. «A mio avviso, sarebbe stata giustificata una fine chiara per gli acquisti netti - ha spiegato il banchiere tedesco -. Il principale impatto del programma di acquisto non sta tanto negli acquisti mensili, ma nel volume totale delle obbligazioni già nei nostri libri». 

C'era da aspettarselo: almeno, come da protocollo, Weidmann ha avuto il buongusto di aspettare un giorno prima di criticare Draghi, il quale giovedì in conferenza stampa aveva preventivamente voluto sottolineare come la decisione sul Qe non fosse stata presa all'unanimità. Ormai siamo in dirittura di arrivo, i nodi obbligatoriamente devono venire al pettine. Draghi ha comprato qualche altro mese di calma relativa alla disfunzionale eurozona, ma ora la Germania chiederà il conto a livello di bilanci statali, c'è poco da fare: la primavera dovrà, obbligatoriamente, sacrificare qualcuno sull'altare della presunta stabilità. Serve un capro espiatorio. E con l'economia americana che, nonostante gli uragani e l'inflazione sotto obiettivo, cresce del 3% nel terzo trimestre, la narrativa ormai parla la lingua di una Fed che difficilmente a dicembre potrà evitare un rialzo dei tassi. A meno che la Corea del Nord non giunga in aiuto di Janet Yellen. 

Siamo nel paradosso assoluto di un mondo che annega contemporaneamente nel debito e nel contante, flussi di denaro che si muovono freneticamente da una parte all'altra del globo alla ricerca di un minimo di extra-rendimento, poiché la prosecuzione delle politiche di stimolo sta esacerbando la dinamiche degli yields su tutte le asset classes. Basta guardare a cosa sta accadendo in Giappone, dove per la prima volta in assoluto gli attivi stranieri detenuti dagli investitori privati e istituzionali sono saliti oltre il milione di miliardi di yen. Stando alle stime calcolate dalla rivista Nikkei, l'ammontare è salito di circa il 50% negli ultimi cinque anni, attestandosi a 8.790 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra due volte superiore al Pil del Paese, la terza economia al mondo dopo Stati Uniti e Cina, ma, soprattutto, di un cambio di strategia epocale per il popolo del Sol Levante: sono sempre più numerosi i giapponesi che prendono i loro soldi e risparmi per spostarli dai mercati nazionali a quelli oltreoceano. 

I titoli azionari costituiscono quasi la metà del milione di miliardi di yen che sono in fuga, questo al netto di una situazione pregressa in base alla quale gli investitori nipponici detenevano 453mila miliardi di yen alla fine di giugno, una somma in crescita di 100mila miliardi negli ultimi tre anni. Circa la metà dei titoli sono diretti agli Stati Uniti, mentre il 30% circa in Europa: ad alimentare una fuga di tali proporzioni, ovviamente, sono le mosse molto aggressive della Banca del Giappone, che per più di quattro anni sta inondando i mercati e l'economia con talmente tanti soldi che è difficile trovare rendimenti decenti. 

Attenzione, però, a giocare con la logica di inflows e outflows valutari, perché quel denaro è talmente tanto e talmente instabile nelle sue allocazioni che un minimo evento inatteso a livello globale può scatenare uno tsunami: non tutti, infatti, sono così pazzi da operare come cassettisti in un mercato del genere e si tende a ballare vicino alla porta, pronti a fuggire al minimo segnale di rischio. Il problema è che quando si muovono quantità simili di denaro su allocazioni retail, ovvero denaro di gente che non opera professionalmente sui mercati, il rischio di ritrovarsi in una bolla come quella vissuta dalla Cina due estati fa sale esponenzialmente. 

E chi sarebbe pronto a tamponare, visto che non esiste Banca centrale che non sia già elefantiacamente occupata in operazioni di stimolo monetario? Le economie avanzate globali sono di fatto dei tossicodipendenti obesi, troppo lente e impacciate per poter reagire a stimoli inaspettati: finora la pianificazione de facto del mercato posta in essere dalle Banche centrali ha evitato scossoni di ogni genere, basta vedere gli scostamenti risibili degli indici azionari e degli indicatori di volatilità, ma non si potranno sopprimere per sempre le dinamiche sane, vedi quella di domanda e offerta che potrebbe mandare al tappeto in sei mesi il mercato automobilistico americano. E qualche segnale che un intoppo si stia avvicinando, ce lo danno proprio le stesse Banche centrali, visti i continui rinvii della chiusura dei programmi di stimolo causati dal mancato conseguimento degli obiettivi prefissati. 

Ad esempio, l'aumento dei costi energetici sostiene l'accelerazione dell'inflazione proprio in Giappone per il nono mese consecutivo, ma distante comunque dall'obiettivo del 2% della Banca centrale del Giappone (Boj). L'indice dei prezzi al consumo in settembre sale dello 0,7%, rendeva noto ieri il ministero degli Affari interni, mentre l'indicatore che esclude le componenti più volatili è risultato invariato rispetto al mese precedente. 

Signori, siamo in stallo, nonostante il mondo stia annegando nel contante e le politiche di stimolo dovrebbero vedere i Pil nazionali volare a oltre il 5%, l'inflazione ampiamente sopra il 3% e tutti gli indicatori macro in esuberanza. Invece non è così: abbiamo combattuto una crisi da azzardo morale e debito indiscriminato con altro azzardo morale e debito indiscriminato. Pensate che questa sia la soluzione? Pensate che qualche mese in più di Qe, seppur a importo dimezzato, cambi davvero qualcosa? Auguri. Il deleverage che verrà, sarà una valanga.

28 ottobre 2017 - MARCO SABA: VI RACCONTO EQUACOIN



Marco Saba, contabile forense noto alle assemblee degli azionisti dei più grandi istituti di credito, dopo una breve introduzione alle sue ormai storiche contestazioni circa la contabilità bancaria, presenta a tutti Equacoin, il progetto di criptovaluta specificamente tarato per sfruttare i principi democratici della Blockchain e realizzare un sistema di emissione della moneta in mano al popolo, secondo il principio "un gettone, un voto".

Il mondo unipolare degli Stati Uniti e dei sionisti ebrei si dispera per opporsi ad un mondo sempre più multipolare

Perché Tillerson intima ora ad Assad di andarsene

Dettaglio di questa carta di Laura Canali.

Le notizie geopolitiche del 27 ottobre.

TILLERSON SU ASSAD

Il segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha rispolverato un grande classico della diplomazia a stelle e strisce degli ultimi anni: l’invocazione dell’uscita di scena del presidente della Siria Bashar al-Asad. A fornire lo spunto è la pubblicazione delle conclusioni di una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite che attribuisce alle Forze armate del dittatore di Damasco la responsabilità della strage chimica dello scorso aprile.

Il motivo degli strali però è ben lontano dall’afflato umanitario. Di fronte all’aumento dell’influenza di Russia e Iran in Siria negli ultimi due anni, Washington ritiene di non poter restare a guardare mentre il fronte lealista riannette gran parte del paese sotto il vessillo governativo. Non è un caso che le accuse a mezzo stampa al blocco filo-Assad siano aumentate da quando Trump ha tenuto due settimane fa il discorso contro l’accordo del 2015 sul programma nucleare con Teheran. Prima la coalizione guidata dagli Usa ricorda che a est dell’Eufrate non c’è futuro per il regime di Assad; ora che per lo stesso regime non c’è futuro in nessuna parte del paese.

Messaggi come quello di Tillerson servono a rammentare a Russia e Iran (e in parte anche alla Turchia, accodatasi per manifesta inferiorità) di non contare troppo sul raggiungimento dei propri disegni geopolitici fra Levante e Mesopotamia. Gli Stati Uniti fanno così sapere a Mosca di non essere disposti a fare alcuna concessione al Cremlino. Nel Mediterraneo come in Ucraina.

Inoltre, useranno le milizie curde e la scusa della caccia ai jihadisti – i quali non spariranno dopo la sconfitta territoriale dello Stato Islamico mi si daranno appunto alla macchia – per creare un cuscinetto che impedisca a Teheran di creare una sfera d’influenza continua dalle terre persiane a Beirut. Specie ora che Israele sembra intensificare le attività militari al confine siriano in funzione anti-Hezbollah e che gli ayatollah descrivono apertamente la propria presenza a Damasco in funzione anti-Stato ebraico

Siria - i mercenari sono piccole pedine in mano agli stati europei per destabilizzare il medio oriente

Jihadisti partiti dalla Francia per la Siria, ma continuano a percepire il sussidio

La rivelazione di Le Figaro: il traffico di denaro sarebbe di 2 milioni di euro

Abdelhamid Abaaoud, ritenuto la mente degli attentati di Parigi

Pubblicato il 26/10/2017
Ultima modifica il 26/10/2017 alle ore 13:23
PAOLO LEVI
PARIGI

Professano la distruzione della Francia laica e «infedele», ma niente scrupoli quando si tratta di approfittare del suo generoso sistema di welfare. 

Secondo la Brigata specializzata nella caccia ai finanziamenti del terrorismo, il 20% dei combattenti dell’Isis con passaporto francese arruolatisi in Siria o in Iraq hanno continuato ad intascare sussidi sulla disoccupazione o per la casa da parte dello Stato. Soldi - rivela oggi il quotidiano Le Figaro - che hanno dunque contribuito al finanziamento dello Stato islamico, la stessa organizzazione che rivendicò gli attentati parigini del 13 novembre 2015. Gli agenti d’Oltralpe, insieme ai servizi dell’antiterrorismo (Sdat) ed Europol, sono stati chiamati ad indagare sul caso nel quadro di un’inchiesta aperta proprio nel novembre di due anni fa. Con importanti risultati. Quello scoperto è un tentacolare traffico europeo e internazionale di raccolta fondi a beneficio dell’Isis. In pratica, i sussidi venivano prelevati da famiglie o persone vicine ai combattenti e poi inviate nei feudi siriani o iracheni attraverso una fitta rete di «corrieri», di cui almeno 210 identificati come libanesi o turchi. Quanto ai «mittenti», in maggioranza famigliari dei jihadisti partiti in Medio Oriente, finora ne sono stati identificati 190 soltanto in Francia. 

«Quando un individuo si arruola in una filiera - spiega Stéphane capo del polo finanziario della Brigade criminelle, la cui parola d’ordine è “Follow the money”, segui i soldi - spegne il telefono, acquista biglietti e svuota il conto corrente perché per lui si tratta di una partenza senza ritorno». «Alla deriva nelle zone di combattimento - precisa l’esperto in camicia bianca - l’Isis non ha più redditi propri da quando ha perso il controllo del commercio su petrolio e cotone. Non può dunque più retribuire i suoi combattenti come una volta, ma questi devono comunque pagare alloggi, cibo ed equipaggiamento. Famiglie e conoscenti rimasti in Francia sono dunque sollecitati a fargli arrivare soldi freschi». 

In totale, il traffico ammonterebbe a un totale globale di oltre 2 milioni di euro, di cui solo 500.000 partiti dalla Francia tra il 2012 e il 2017. Un caso destinato a suscitare rabbia e polemiche in uno dei Paesi europei maggiormente colpiti dagli attentati jihadisti. Intanto, sempre in Francia, i soldati dell’operazione antiterrorismo «Sentinelle» si preparano ad un possibile ritorno dei foreign fighters. «C’è il timore di vederli tornare sul territorio nazionale», ha dichiarato nei giorni scorsi il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Jean-Pierre Bosser. Centinaia di francesi si sono arruolati nelle fila dello Stato islamico in Siria o in Iraq, combattendo sul posto contro le forze locali sostenute dalla coalizione a guida Usa. Bosser ha spiegato che oggi «c’è la volontà di prepararsi a delle minacce a cui potremmo essere esposti domani e su cui a mio avviso non si lavora abbastanza». 

Con l’ultimo via libera del Senato, Parigi ha adottato la nuova legge antiterrorismo promossa dal presidente Emmanuel Macron, che dal primo novembre, a quasi due anni dalla tragica notte del Bataclan, dovrebbe consentire l’uscita dallo stato d’emergenza.

Bolkenstein - la chiamano concorrenza ma è una lotta impari tra i pescecani che hanno i soldi e l'arte dell'arrangiarsi di italica cultura, non tiene conto dello stato dell'arte, non scende nei molteplici contesti locali


Ddl spiagge: Sì della Camera al recepimento della Bolkenstein


Via libera oggi della Camera in prima lettura al ddl Spiagge, che ora passa al Senato. Il ddl (proposto dal Governo) contiene una delega al Governo stesso per riformare la normativa sulle concessioni demaniali così da recepire la direttiva Bolkenstein. Una volta approvato il ddl, e se verrà approvato in via definitiva, l’Esecutivo ne dovrà quindi attuare le indicazioni con uno o più dlgs.

La direttiva Bolkestein è un atto approvato dalla Commissione europea nel 2006 e recepito nell’ordinamento italiano dal governo Berlusconi, nel 2010. Prende il nome da Frits Bolkestein, allora commissario per la concorrenza e il mercato interno. L’obiettivo della direttiva è favorire la libera circolazione dei servizi e l’abbattimento delle barriere tra i vari Paesi.

Le proteste degli ambulanti di queste ore riguardano solo uno dei punti della direttiva e del suo provvedimento di recepimento, quello che riguarda l’obbligo di messa al bando delle concessioni in scadenza di spazi pubblici e beni demaniali.

Ma vediamo ora in breve le modifiche apportate al ddl da parte della Camera:

PERIODO TRANSITORIO SOLO PER CONCESSIONI ENTRO 2009 La riforma del comparto delle concessioni demaniali, prevista dal ddl Spiagge, dovrà prevedere un adeguato periodo transitorio riservato a quegli stabilimenti che hanno ottenuto la concessione entro il 31 dicembre 2009, “ferme restando le previsioni dei rapporti contrattuali in corso tra concessionari e gestori“.

Un altro emendamento approvato, dei relatori Sergio Pizzolante (Ap) e Tiziano Arlotti (Pd), prevede che il dlgs con cui il Governo dovrà riformare il comparto, dovrà anche “regolamentare gli effetti giuridici, durante il periodo transitorio, degli atti di pianificazione territoriale e dei relativi strumenti di programmazione negoziata stipulati, ai fini del miglioramento dell’offerta turistica e della riqualificazione dei beni demaniali, tra le amministrazioni competenti e le associazioni maggiormente rappresentative su base nazionale delle imprese del settore“.

PREMI PER STABILIMENTI ECOSOSTENIBILI E CON SERVIZI PER DISABILI Le gare per l’affidamento delle concessioni demaniali marittime, quindi degli stabilimenti balneari, dovranno avvenire non solo prevedendo la salvaguardia dei livelli occupazionali attuali, ma tenendo anche conto della professionalità acquisita sia in qualità di concessionario che di gestore e premiando gli stabilimenti a basso impatto ambientale e che prevedono più servizi per i disabili. Un altro emendamento riformulato e approvato prevede che tutta la riforma del comparto dovrà tenere conto “delle forme di gestione integrata dei beni e delle attività aziendali”;

OK LEGITTIMO AFFIDAMENTO E SALVAGUARDIA LIVELLI OCCUPAZIONALI La riforma delle concessioni demaniali marittime dovrà rispettare l’articolo 12 della direttiva Bolkestein sul legittimo affidamento e prevedere la salvaguardia dei livelli occupazionali.

POSSIBILITÀ TRE MESI IN PIÙ PER ATTUARE RIFORMA I termini della delega al Governo per la riforma delle concessioni demaniali marittime potranno essere prorogati di tre mesi, qualora il termine di 30 giorni entro i quali le Camere dovranno esprimere i pareri sui dlgs attuativi cada a ridosso del termine ultimo per l’attuazione della delega;

UNA QUOTA CANONI STABILIMENTI VA A COMUNI PER TURISMO Con la revisione del comparto delle concessioni demaniali marittime verranno create tre categorie di beni oggetto di concessione e una quota dei canoni della categoria di maggior valenza andrà, oltre che alla Regione di riferimento, anche “ai Comuni, in ragione dei costi sostenuti per la gestione amministrativa del demanio marittimo, da destinare al sostegno delle attività del settore turistico ricreativo“.

Un altro emendamento approvato anticipa anche che il dlgs del Governo con l’attuazione della riforma dovrà disciplinare il riordino delle concessioni ad uso abitativo e assicurare la trasmissione al Sistema informativo del demanio marittimo di ogni informazione utile sul numero delle concessioni e la loro consistenza. Si dovrà inoltre, viene previsto, definire la facile e difficile rimozione dei beni realizzati dai concessionari;

FORME DI GARANZIA A CHI CEDE STABILIMENTI Chi subentrerà nella concessione di un bene demaniale marittimo, quindi nella gestione di uno stabilimento balneare, dovrà assicurare forme di garanzia a chi cede la concessione;

DEROGA PER ENTI PA E SPORT La riforma delle Spiagge non toccherà gli enti pubblici preposti a servizi di pubblico interesse e le società sportive dilettantistiche. Le concessioni a questi soggetti non saranno quindi sottoposti a gara.

I carabinieri cacciatori ci sono è la politica che manca - 1 -

SQUADRONE ELIPORTATO CARABINIERI CACCIATORI DI CALABRIA (PRIMA PARTE): OLTRE IL CORAGGIO


(di Lia Pasqualina Stani)
26/10/17 

"Per me Calabria significa categoria morale, prima che espressione geografica. Calabrese nella sua migliore accezione vuol dire Rupe, cioè carattere” (Leonida Rèpaci).

Non sono i protagonisti di un poema epico o di un colossal americano, sono circa 90 uomini che possiedono un training militare completo ed una formazione investigativa ed operativa che gli consente di rappresentare saldamente lo Stato nell’estremità meridionale dello “stivale”. Supportano i reparti territoriali nell’attività investigativa e svolgono autonomamente una precisa attività di servizio in un ambiente “montano” come quello calabrese: ricercare e catturare i latitanti dell’organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa più potente e sanguinaria al mondo, la ‘Ndrangheta. E la Santa e Picciotteria (o Onorata società) seppur nata e sviluppata sin dal secolo scorso in Calabria non è certo un vanto per questa terra, vittima e complice allo stesso tempo: “non si muove foglia che la ‘ndrangheta non voglia”.

Il traffico di droga è il core business della ‘ndrangheta. La sua pericolosità è nella gestione del traffico di armi. La sua struttura tentacolare le permette di gestire anche il traffico di esseri umani, lo smaltimento di rifiuti tossici e radioattivi, di praticare l'estorsione e l'usura, condizionare appalti e voti elettorali.


Ha una rete di consensi a livello di politica locale e regionale senza distinzione di schieramento. I settori in cui cerca e trova complicità vanno dall’agricoltura alla sanità, dalla pubblica amministrazione alla Chiesa fino all'imprenditoria immobiliare di cui si serve per il riciclaggio di denaro.

La forza della criminalità organizzata calabrese è nelle ‘ndrine, cosche malavitose gestite da una famiglia (ovvero da consanguinei) e da soggetti affiliati che controllano un territorio (paese o un quartiere di città). I matrimoni tra le varie cosche, hanno un alto valore simbolico: saldano i rapporti tra famiglie mafiose per estendere il proprio potere o suggellare la fine di una faida. Il nome di una ‘ndrina non è altro che il cognome della famiglia o in alcuni casi i cognomi di più famiglie. Ogni ‘ndrina ha pieni poteri oltre che il controllo sul territorio che le appartiene in cui gestisce ogni attività illecita. E non è un caso se la magistratura le identifica come vere e proprie “holding” con un “presidente” (il capubastuni) e un “consiglio d’amministrazione”.

I Cacciatori di Calabria sono carabinieri che vivono una battaglia quotidiana nella roccaforte delle più potenti ‘ndrine calabresi: l’Aspromonte. Dall’acrocoro calabrese, si immergono nelle aree impervie della Locride, nei boschi e nelle immense distese dei frutteti, nei territori pianeggianti dell’area tirrenica e nelle intercapedini di ville, case, nei forni o nelle stalle, per localizzare i latitanti, individuando silenziosamente i rifugi o i bunker più assurdi dove i boss cercano di sfuggire alla giustizia.


Stanare un latitante non è facile né impossibile: i Cacciatori di Calabria conoscono capillarmente il territorio calabrese e l’Aspromonte meglio di chiunque altro (supportati anche dalla cartografia dell’Istituto Geografico Militare – IGM), eccezione fatta per i pastori della zona. L’esperienza maturata negli anni consente di conoscere la realtà culturale e sociale della regione, unitamente alle dinamiche legate ai vari crimini. Tutte le attività operative concluse con la cattura di un latitante sono durate giorni, settimane o anni, sono il risultato di un lavoro svolto con costanza, ardimento e velocità d’esecuzione.

Nel 1970, con lo sviluppo del fenomeno del sequestro di persone a scopo di estorsione, l’Arma si è adattata alla realtà circostante e alla tipologia di crimine da contrastare, impiantando delle unità speciali, denominate squadriglie, destinate ad agire in Calabria per occuparsi - anche - della ricerca dei latitanti e del furto di bestiame. I sequestratori, dopo aver catturato le vittime (appartenenti perlopiù a famiglie di imprenditori facoltosi del nord Italia), le trasferivano sull’Aspromonte. I rifugi, le grotte, gli anfratti, le caverne o i recessi sparsi nell’immensa area rocciosa ricoperta da fitta vegetazione, diventavano luoghi di detenzione in attesa del riscatto.

Fin dalla loro costituzione le squadriglie vennero dotate di unità cinofile, reparti a cavallo ed elicotteri, per poter compiere rastrellamenti serrati e capillari in ogni località impraticabile e malagevole dell’Aspromonte. Gli organi istituzionali dell’Arma dei Carabinieri, per perfezionare le attività delle prime squadriglie, crearono un reparto eliportato specializzato in grado di raggiungere ogni luogo dell’Aspromonte in modo rapido e silenzioso. Spesso in un normale rastrellamento era impossibile individuare un luogo dove era nascosto un sequestrato. Oppure una squadriglia in avvicinamento era facilmente rilevabile da chi conosceva la montagna. Segnalato il loro arrivo in tempo utile, il latitante si allontanava o l’ostaggio portato altrove.


La scelta del nome - Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori di Calabria - non è casuale, è un riferimento ai Cacciatori delle Alpi di Giuseppe Garibaldi: brigata di volontari che nella 2° guerra di indipendenza affiancò le unità regolari dell’armata sarda. D’ispirazione è stata la tattica di combattimento dei cacciatori garibaldini che prevedeva, dopo essere stato su territorio nemico, l’uso della guerriglia: un metodo di combattimento che Garibaldi imparò e perfezionò in Sud America. I cacciatori erano unità armate in modo leggero, presente in ogni esercito già nell’antichità. Avevano compiti di infiltrazione, ricognizione e disturbo delle forze nemiche. Fu il re di Prussia Federico II a diffondere la denominazione di “cacciatori”.

"Vigilantia de cielo, coercitio ex terra": è il motto dei cacciatori. Fin dalla loro nascita, si volevano dei carabinieri capaci di giungere in un luogo sospetto senza essere visti ed in grado di restare lunghi giorni isolati da tutto e tutti, in grado di agire autonomamente senza alcun supporto o contributo da parte di altri settori dell’Arma.

Sono uomini in grado di mimetizzarsi all’interno di un’area boschiva, capaci di aspettare, pazienti e non visti, un segnale o una presenza umana che conduca all’arresto di un ricercato.

Come ogni specialità militare oltre all’uniforme di ordinanza, anche lo squadrone è in possesso di un elemento distintivo caratteristico che lo diversifica, di cui i componenti sono fieri al punto di identificarsi con esso. Per i carabinieri cacciatori di Calabria è il basco rosso che ciascuno di loro custodisce gelosamente in una delle tasche del pantalone della mimetica, quando non lo indossa.


Il mio viaggio per raggiungere lo Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori di Calabria inizia percorrendo la Salerno-Reggio Calabria. Viaggiare da soli è l’esperienza più liberatoria della nostra vita, spesso nel tragitto siamo costretti a pensare: “Per raccontare qualcuno, devo incontrarlo in qualche modo, devo calarmi nei suoi panni. Ho un imperativo nel mio cuore, guardare da vicino per capire ciò che accade”. Arrivata a Vibo Valentia, presso la base logistica operativa nell’Aeroporto Militare “Luigi Razza” sede della caserma dello Squadrone, ho capito che per documentare questo reparto appartenente ad una Forza Armata con oltre 200 anni di storia alle spalle, non può bastare scrivere, vivendo solo di parole.

Affiancare i carabinieri cacciatori nelle attività di servizio, sia di giorno che di notte è un privilegio: la Calabria si affaccia su 2 mari, il Tirreno e lo Jonio fino allo Stretto di Messina che la separa dalla Sicilia. La scelta, non casuale, di collocare lo Squadrone presso l’aeroporto di Vibo Valentia, favorisce le attività operative del reparto. Il comprensorio è situato poco distante dall’Aspromonte e dalle Serre Vibonesi. I carabinieri cacciatori operano in aree prestabilite: ogni squadriglia ha un’area di intervento, una precisa superficie della terra calabrese delimitata, in cui esercita la propria giurisdizione. In questo capillare controllo agisce coordinandosi con i comandi territoriali locali.

Oltre alla preparazione tecnica e all’esperienza, credo che la forza di ogni uomo dello squadrone sia davvero nel carattere, dal greco (traslitterato) “charaktér”, che significa “impronta”. Proprio come tutte le impronte che ogni carabiniere cacciatore lascia attraverso i sentieri che percorre e quelle che, a volte per ovvi motivi, cancella sulla strada del ritorno. Percorsi quotidiani in cui, con ogni passo, penetra nel territorio calabrese. Il lavoro di questi uomini, si concretizza in infiltrazioni improvvise sia di giorno che di notte. Appiattamenti mirati per interventi diretti da posti di osservazione per la sorveglianza di luoghi e persone sospette, ricercate o meno, che compiono azioni illegali, anche in assenza di una pianificazione d’intervento immediato. E lunghe attese per catturare la “preda”.


Sono uomini con una forte disciplina interiore, lo si apprezza camminando per ore, con una squadriglia, in aspre zone di montagna, attraversando le Fiumare, asciutte per la maggior parte dell’anno e che si riempiono d’acqua nelle stagioni piovose, fino ad arrivare nelle zone pianeggianti. Molte le perquisizioni in casolari abbandonati. Ritrovare un covo di armi o di munizioni è fondamentale. Tutte operazioni si svolgono con qualsiasi condizione metereologica. Equipaggiati per resistere in qualsiasi ambiente e con qualsiasi temperatura, si mimetizzano per fondersi col territorio.

Molteplici i compiti dello squadrone che avrò il beneficio di guardare da vicino per raccontarvi la formazione, la struttura, l’impiego delle squadriglie e il modo in cui si addestrano: dal poligono di tiro al fast rope con l’8° nucleo elicotteri, dal lavoro svolto con le unità cinofile dislocate nello stesso aeroporto militare alle attività svolte dalle A.P.I. (Aliquote di Primo Intervento) dell’Arma tratte anche dal reparto dello squadrone.

Quando il comandante dello squadrone, il ten. col. Maurizio Biasin mi presenta ai suoi uomini, noto il loro sguardo attento e fiero. Sono all’apparenza ruvidi ma al contempo profondamente affabili. La Calabria è una terra che forgia il temperamento di questi militari che, con nervi saldi e costanza, svolgono il loro lavoro con rapidità e flessibilità, oltre che con preparazione tecnica e tattica. Un mix di caratteristiche che, se distribuito e sfruttato al meglio, produce successi.

L’arresto di un latitante è una vittoria per tutti. Ed è per questo che la presenza dei carabinieri cacciatori in questa regione esercita una pressione costante che infastidisce, ostacola e sorprende il malaffare calabrese.

Lo Squadrone Eliportato Carabinieri Cacciatori di Calabria ha, seppur a lungo termine, un obiettivo specifico da raggiungere: sradicare la ‘ndrangheta che non è, e mai sarà una debolezza intrinseca nell’azione dello Stato.

I cacciatori affrontano quotidianamente anche una battaglia culturale: vincere una mentalità assuefatta al clima di prevaricazione che richiede un deciso intervento dello Stato. La ‘ndrangheta è un fenomeno umano che si evolve o per una spinta interna o per una azione repressiva proprio dello Stato che impone cambi ai “vertici”.

La Calabria è una terra che deve essere restituita prima all’Italia e poi ai calabresi, non ci deve essere nessuna linea di confine segnata dalla paura diffusa di questi fenomeni criminali.

(Continua...)


(foto dell'autore)

Iraq - Il petrolio continua a motivare sullo scacchiere, le mosse dei vari attori politici

LA “RESTAURAZIONE” IRACHENA


(di Enrico Baviera)
26/10/17 

A dieci giorni dall’ offensiva del governo centrale iracheno per la rioccupazione dell’importante città petrolifera di Kirkuk proseguono senza sosta le operazioni militari di Baghdad per riposizionarsi nei territori ancora controllati dalla Regione Autonoma del Kurdistan (KRG).

Nei giorni scorsi, ammassamenti di truppe e movimenti di mezzi lungo le principali rotabili si sono susseguiti in tutte le zone contese della regione.

Il 24 ottobre, i Peshmerga hanno respinto in località Mackmour, a sud est di Erbil, un secondo attacco di milizie popolari sciite (PMU) dopo quello, fortunato, sferrato dieci giorni prima per la riconquista di Kirkuk; nella stessa giornata, la stampa locale ha riportato ulteriori scontri nei pressi di Rabia, a nord ovest di Mosul.

Sempre ieri, la tv panaraba filo-iraniana al Mayadin ha riferito scontri armati ripresi nel nord-ovest dell'Iraq al confine con la Siria, tra forze curdo-irachene e forze lealiste di Baghdad (in gran parte milizie filo iraniane Hashd Shaabi); analoghi eventi si sarebbero verificati in alcune zone di confine con l'Iran e a Sinjiar, a sud est di Mosul, importante centro di cultura Yazida, dove combattenti delle unità di mobilitazione popolare (PMU) a maggioranza sciita avrebbero aperto il fuoco contro le forze curde.

Mentre scriviamo, stando alla testata curda RUDAW, la porzione di territorio “conteso” in mano ai curdi si è ridotta di circa il 40%; una tendenza che promette di continuare, vista la velocità con cui opera lo schieramento avversario che può contare su numerose unità regolari (ISF), forze speciali controterrorismo (CTS) e svariate milizie popolari in gran parte sciite, molte dei quali munite di equipaggiamenti, armi e mezzi di produzione USA (si hanno notizie non confermate di almeno una decina di tank M1 Abrams distrutti dai Peshmerga).

A fronte di questi sporadici focolai di confronto acceso, si ha però la chiara impressione che sia in atto tra le parti una trattativa per una rapida restituzione di terreno, finalizzata a riportare la situazione quo ante il 2003, anno della seconda guerra del Golfo e della destituzione di Saddam.

In tale quadro andrebbe collocato il passaggio di consegne tra curdi e iracheni, avvenuto presso la diga di Mosul senza colpo ferire la settimana scorsa.

Sono proprio le armi e gli equipaggiamenti USA utilizzati dalle forze lealiste di Baghdad ed il mancato appoggio di Washington alla causa indipendentista, a far gridare la leadership politica del KRG al “tradimento americano”; anche se ormai di "leadership" è sempre più difficile parlare.

Il vecchio Masoud Barzani ha perso quel poco di credibilità che aveva riguadagnato con il referendum del 25 settembre, chiuso come è nel cerchio magico della sua famiglia che monopolizza gran parte delle cariche politico-militari della regione.

La lontananza del suo partito, il PDK, dalle due principali forze di opposizione, PUK e GORRAN, ora è abissale, con ripetute richieste di dimissioni (e di elezioni) avanzate da più parti, anche se è di ieri la notizia del posticipo di 8 mesi delle elezioni amministrative del KRG (si sarebbero dovute tenere il 1 novembre prossimo).

La gravità della crisi politica in atto si legge anche nel primo “cedimento” del granitico fronte referendario, e prende la forma di una sostanziale disponibilità politica di Erbil a “congelare” il risultato uscito dalle urne a tutto vantaggio di un rinnovato dialogo con Baghdad, sulla base della Costituzione (richiesta che però è stata prontamente rispedita al mittente).

La volontà del premier Al Abadi di punire Barzani per l’iniziativa referendaria appare chiara e determinata, anche nella misura in cui comporti una dura lezione alla popolazione che ha sostenuto il referendum.

E ha anche una duplice valenza: sul piano dell’orgoglio nazionale, per il drastico ridimensionamento dei confini regionali in una forma che respinga in modo netto le istanze etniche che ne avevano motivato nel corso degli ultimi anni l’espansione; sul piano politico, considerata la strategia in atto, mirata a rovesciare l’attuale leadership curda e sgretolare al suo interno la coesione dei principali partiti, ora più che mai divisi fra loro.

Per contro, è interessante notare come la crisi politica e militare tra Baghdad ed il KRG non abbia in alcun modo condizionato il mantenimento dei rapporti economici e commerciali con i principali players regionali (business as usual).

Erbil, infatti, in tutto questo periodo ha continuato ad intessere con Mosca importanti relazioni economiche sfociate nella stipula di accordi e contratti di particolare rilievo.

Dopo l’accordo firmato a settembre, questa settimana, la Oil Company russa Rosneft ha consolidato la posizione di leadership nel campo dello sfruttamento petrolifero nella regione, assicurandosi il 60% del flusso di greggio della più importante pipeline del KRG e, continuando sempre a dialogare direttamente con Erbil, aggiudicandosi i diritti di sfruttamento di ulteriori 5 siti di estrazione.

Anche Baghdad si dà da fare per sfruttare al meglio le ingenti riserve di petrolio, le terze al mondo, e lo fa con un viaggio del premier (sciita) Al Abadi nella (sunnita) Arabia Saudita, volto a attivare nuove forme di collaborazione tra i due Stati, principali produttori del OPEC.

Nei prossimi mesi, sarà particolarmente interessante vedere come Baghdad saprà conciliare le relazioni con Riad con quelle, consuete, che la legano al potente vicino iraniano. E come Mosca reagirà allorquando, al termine di questa crisi, il premier Al Abadi avrà ripreso il pieno controllo della produzione petrolifera irachena, comprendendo quelle aree, come Kirkuk, in precedenza passate sotto il controllo di Erbil.

(foto: KRSC)

Niger - I militari vengono usati e poi abbandonati

L’AFFAIRE NIGERINO


(di Paolo Palumbo)
25/10/17 

Giovedì 5 ottobre 2017 la CNN riportava una notizia scioccante: tre Berretti Verdi erano rimasti uccisi in un’azione al confine tra il Niger e il Mali, mentre altri due erano gravemente feriti e già evacuati presso il Centro Medico regionale di Landshut in Germania. Il conflitto a fuoco era avvenuto in una delle zone più delicate del continente africano, territorio di caccia di numerosi gruppi jihadisti, primo fra tutti Boko Haram che da tempo imitava le ambizioni di conquista dello Stato Islamico. Sempre in accordo con i rapporti ufficiali, 50 guerriglieri islamisti avevano aggredito la pattuglia americana di supporto ad un gruppo di militari nigerini. I fatti hanno fatto strabuzzare gli occhi a molti statunitensi per i quali il Niger è solo una macchia insignificante nella geografia globale dei Paesi del Terzo Mondo e mai si sarebbero aspettati la perdita di vite americane in quel remoto angolo della Terra. Non tutti però sapevano che le operazioni militari dell’U.S. Army in Africa perduravano dal 2005 e hanno goduto del beneplacito di tre presidenti (George W. Bush, Barak Obama e Donald Trump) i quali non si sono mai preoccupati di ottenere l’assenso ufficiale del Congresso.

L’amministrazione Bush diede inizio alla partecipazione militare che toccò l’apice durante il mandato del democratico Obama il quale intensificò l’uso dei droni per scovare i terroristi. Oggi, il presidente Trump inciampa inevitabilmente su questioni create dai sui predecessori, sebbene l’atteggiamento della Casa Bianca sia lontano dal voler chiarire all’opinione pubblica il vero ruolo delle truppe americane in Africa. Trump, contrariamente a Bush e Obama, dimostra un certo imbarazzo, soprattutto nel confronto diretto con la stampa obbligando l’establishment militare del Pentagono, a funambolici rapporti per nascondere la verità e biasimare le Forze Speciali.

Lo scenario africano


Chad, Niger e Mali: questi sono i tre Stati che occupano un ruolo strategico fondamentale per i movimenti jihadisti africani; essi sono, infatti, un punto di passaggio e scambio indispensabile sulla direttrice nord–sud in collegamento con la Libia. Il Niger è inoltre un’area appetibile per la presenza delle miniere d’oro, il cui controllo servirebbe a finanziare il terrorismo. In questa ampia fascia territoriale, morfologicamente molto arida e inospitale, oltre Boko Haramopera AQIM (Al-Qaeda in Islamic Maghreb), insieme ad altre piccole organizzazioni spesso in concorrenza tra di loro.

All’inizio del 2014 la Francia avviò l’operazione Barkhane concentrando le sue truppe nel settore dello Sahel e poi l'operazione Chammal, contributo sostanzioso agli sforzi internazionali contro il terrorismo espressi da Inherent Resolvein Iraq e Siria. In questo contesto i francesi contavano comunque sull’appoggio americano dell’U.S. Africa Command che garantiva agli alleati transalpini un apporto sostanziale nel comparto ISR (Intelligence, Surveillance and Reconnaisance) ed un circoscritto dispiegamento di unità speciali per l’addestramento delle truppe indigene.

La posizione della Casa Bianca sugli aiuti militari ai Paesi africani è sempre stata al centro di un dibattito molto acceso a causa del cosiddetto “Emendamento Leahy”, secondo il quale è proibita ogni forma di sostegno agli Stati che si siano macchiati di crimini di guerra. Un caso emblematico dell’atteggiamento americano rispetto la lotta al terrorismo nel continente Africano è quanto accaduto per la Nigeria, nazione limitrofa al Niger.


Nel 2015, l’allora presidente Barak Obama accolse il neoeletto Muhammadu Buhari, l’uomo della speranza il cui compito principale era ripulire la Nigeria dalla dilagante corruzione. In quell’occasione il leader nigeriano puntò il dito sull’emendamento Leahy poiché la sua rigida applicazione privava il suo Paese di strumenti efficaci contro Boko Haram. Il presidente africano respinse ogni accusa di crimini di guerra, rimarcando come l’esercito nigeriano non avrebbe mai potuto affrontare ad armi pari gli jihadisti senza un congruo supporto statunitense. Nonostante buona parte dei media faceva notare come le presunte accuse mosse dalla comunità internazionale fossero tutt’altro che illazioni, il presidente Obama decise di dimenticare le colpe della Nigeria e – con spudorato opportunismo – di avviare un nuovo rapporto politico/militare concretatosi con il semplice invio di qualche mezzo blindato, senza però un vero e proprio progetto di addestramento.

Senza dubbio, l’eccezione “nigeriana” al principio dell’emendamento Leahy segnò un passo importante per la politica della Casa Bianca in Africa, indotta così a potenziare la presenza dei soldati americani ed in particolare delle Forze Speciali. Proprio a gennaio di quest’anno il Niger, il Burkina Faso e il Mali hanno sottoscritto un patto per la creazione di una forza di sicurezza antiterrorismo denominata Liptako-Gourma Multinational Security Force con lo scopo di contrastare il pericoloso transito di jihadisti nelle zone di confine. Ovviamente gli africani non possedendo il know-how per allestire un simile organismo devono appoggiarsi soprattutto sull’apporto internazionale.

Le Special Forces in Africa

Secondo il noto sito militare americano SOFREP, dedicato alle operazioni speciali, i tre Green Berets caduti nell’imboscata, nella regione di Tongo Tongo a 130 miglia dalla capitale nigerina Niamey, facevano parte della ODA 3212 (Operational Detachment Alpha) impegnata in una Direct Action contro i terroristi del gruppo emergente ISIS GS (ISIS Greater Sahara). Tutti i soldati appartenevano al 3° Special Forces Group di stanza in Niger con una rotazione variabile dai 5 ai 6 mesi. SOFREP ha inoltre sottolineato che la presenza americana nel continente africano non sia assolutamente un segreto poiché inclusa nel programma JCET – Joint Combined Exchange Training. I compiti delle ODA (distaccamenti composti da 12 uomini) sono quelli di formare le unità antiterrorismo nigerine (BSI), ma soprattutto qualificare i soldati locali nel disinnesco degli IED. I rapporti tra le diverse unità sono ottimi: i soldati americani nutrono grande stima per la loro controparte nigerina, sebbene abbiano molte difficoltà a raffrontarsi con la catena di comando del SOC-Africa. In base ad alcune testimonianze raccolte da ex, le SF hanno espresso malcontento su come il generale Buldoc gestisce il comando, giudicandolo troppo timido e pieno di preconcetti rispetto la complessità del mondo africano.


Il giorno dell’imboscata l’ODA 3212 – sempre secondo notizie provenienti dagli americani – era in viaggio per una missione congiunta con i soldati nigerini verso il villaggio di Tongo Tongo per capire se alcuni anziani fossero o meno collusi con elementi ostili dell’ISIS GS. Mentre i nigerini convenivano fra loro, l’ODA Team garantiva la sicurezza del convoglio quando, all'improvviso, furono investiti da un violento fuoco di armi automatiche. Una parte di soldati locali rimase isolato, mentre i sergenti Bryan Black, Dustin Wright e Jeremiah Johnson caddero, colpiti mortalmente dalle raffiche avversarie. Il restante dell’ODA Team, tagliato fuori dal raggio di fuoco nemico, tentò una manovra accerchiante, senza successo; nel frattempo anche il comandante dell’ODA, capitano Michael Perezoni e il soldato Brent Bartels rimasero inattivi perché feriti in combattimento. Il tanto bramato supporto aereo invocato via radio dai Berretti Verdi era realmente in rotta verso il luogo dell’attacco – i francesi avevano ordinato il decollo di due Mirage 2000 – ciò nondimeno i caccia transalpini non avevano l’autorizzazione a fare fuoco dal momento che il governo nigerino aveva precluso qualsiasi bombardamento aereo entro i suoi confini. Stando a quanto dichiarato in un primo momento dalle autorità militari americane, l’evacuazione dei feriti sarebbe stata condotta da elicotteri francesi Super PUMA, decollati dalle vicine basi delle forze speciali. Alcuni giorni dopo la versione ufficiale ha subito una smentita, poiché è emerso che il trasporto del personale americano e nigerino sia stato effettuato da una compagnia aerea privata di contractor, la Barry Aviation. Entrambi le ipotesi sembrerebbero comunque veritiere poiché sia l’Armée de l’Air, sia i contractor avrebbero contribuito in egual misura allo sgombero del luogo dell’attentato. Alla conta finale delle vittime e dei feriti, mancava all’appello un altro soldato americano, l’autista meccanico La David Johnson, subito dichiarato Missing in Action oltre le linee nemiche.

Quando accade una cosa del genere, a Fort Bragg squilla il telefono rosso che mette in allerta un battaglione di Ranger e uno squadrone della Delta Force, pronti H24 ad intervenire per recuperare o liberare gli eventuali dispersi. Non appena la notizia della scomparsa di La David raggiunse i quartieri di Bragg, un distaccamento della Delta decollò alla volta del Niger con l’appoggio aereo del 160° SOAR (Special Operations Aviation Regiment) al quale fu affidato di compiere un’accurata ricognizione fotografica per trovare eventuali tracce del militare disperso. A questo punto – come racconta Jack Murphy, editore di SOFREP – alcuni sostennero di aver visto delle luci di segnalazione attive, mentre altri confermarono la presenza di qualcuno che poteva essere La David. Non appena stabilito il contatto visivo, la Delta richiese il permesso di atterrare, subito negato dal comando poiché il bagliore della luna piena rendeva troppo rischiosa la presenza degli elicotteri. I resti del meccanico americano furono rinvenuti due giorni dopo l’attentato e il team della Delta fu fatto rientrare a Fort Bragg.


Una brutta figura

Dopo la morte dei quattro operatori americani, il Pentagono ha redatto un frettoloso rapporto nel quale prendeva la distanze dall’intera vicenda, sbalordendo le Forze Speciali, purtroppo abituate a repentini voltafaccia per coprire giochi politici. Alcuni hanno subito paragonato – forse in modo inappropriato – il comportamento delle autorità americane a quanto accaduto a Bengasi, dove altri operatori furono lasciati al loro destino nel totale disinteresse di Hillary Clinton e della Casa Bianca. L’opinione pubblica, già in fermento contro il presidente Trump, ha espresso sconcerto per la perdita di vite americane in un territorio sconosciuto e periferico in raffronto al cuore pulsante della lotta al terrorismo combattuta in Iraq, Siria o Afghanistan. L’atteggiamento ambiguo di Washington ha poi complicato ulteriormente le cose, rimediando una brutta figura persino con il Niger il cui presidente, Mahamoud Issoufou ha espresso, senza equivoci, il suo vivo cordoglio per la perdita sia dei soldati nigerini, sia per quelli americani, definendoli eroi.

I dubbi espressi riguardo la presenza delle forze speciali americane in quella zona sono avallati dal fatto che la ricerca di informazioni a quel livello (interazione diretta con i locali) poteva essere organizzata in altro modo, oppure affidata ai soldati francesi, sicuramente più avvezzi all’ambiente. L’altro punto oscuro sul quale si stanno concentrando le indagini è come il soldato La David Johnson sia rimasto isolato per poi essere ritrovato morto dopo due lunghi giorni. Se prendiamo per buone le dichiarazione di SOFREP, quando la Delta Force sorvolò l’area, avrebbe captato un segnale e ciò comproverebbe che immediatamente dopo l’imboscata, Johnson fosse ancora vivo. In quali misteriose circostanze sarebbe dunque morto il soldato americano?


Un interessante articolo di Barbara Starr e Zacary Cohen, apparso su CNN Politics (v. articolo del 20/10/2017) svela ulteriori ombre sull’accaduto, interrogandosi sull’inspiegabile ritardo con il quale il presidente Trump abbia dato notizia dei morti americani. Tra le ipotesi più plausibili c’era quella che vedeva il presidente Trump in forte difficoltà su come chiarire al popolo americano la presenza di Forze Speciali in Niger. Inoltre, dichiarando che gli autori dell’imboscata fossero miliziani dello Stato Islamico, temeva di rafforzare l’idea che, sebbene l’ISIS fosse prossimo al collasso con la perdita di Raqqa, stesse comunque prendendo potere in altre parti del globo.

Se è vero che a pensar male in molti casi si ha ragione, allora si potrebbe anche ipotizzare come i terroristi non fossero veramente terroristi, ma piuttosto semplici villagers chiamati ad una reazione armata per non si sa quale motivo. Fonti non confermate, ma che per dovere di cronaca dobbiamo riportare, parlano di forti interessi economici collegati alla presenza di miniere d’oro proprio nell’aerea di Tongo Tongo e che questi impianti minerari siano di proprietà degli Stati Uniti. Confidiamo sull’imparzialità delle indagini in corso, non tanto per salvaguardare la dignità della Casa Bianca – oramai già compromessa – quanto per proteggere il sacrifico dei militari nigerini e americani.

(foto: CNN / U.S. DoD / web / U.S. Army)