L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 26 gennaio 2018

Davos - gente comune a cui noi gli abbiamo dato dei poteri immensi

Davos

Trump getta via il copione
Improvvisa (e smentisce i suoi)

Accolto come una rockstar al World Economic Forum di Davos, sulle Alpi svizzere il presidente americano riafferma la dottrina del dollaro forte

di Federico Fubini



Sono le sette di sera quando diventa chiaro che questo è il solito, vecchio Donald Trump. Prima era prevalsa l’illusione che l’arrivo al centro congressi di Davos, il castello delle convenzioni, bastasse a rendere questo presidente americano un po’ più come gli altri: meticoloso, cauto nel parlare perché conscio del suo potere, attento al copione.

Sconcertati

Invece Trump a Davos il copione lo ha gettato per terra, subito. Quando dopo le sei salgono nella sua stanza al secondo piano del Centro Congressi alcuni «business leader» — i capi delle grandi aziende — l’impressione di normalità dura pochi secondi. Il presidente ha davanti a sé un fascio di documenti preparati dallo staff sui temi da trattare. Ma invece di consultarli, li impugna e li scaglia in terra davanti al gruppo di manager. Lui preferisce sempre una lunga tirata scomposta sui suoi soliti temi: più o meno quello che si può leggere ogni giorni nei suoi tweet. Alcuni «business leader», alla fine, escono sconcertati.

Può esserci del metodo nella follia di Trump e anche molta voglia di spiazzare. Perché poi sulla sostanza almeno ieri il presidente è stato invece più convenzionale di quanto gli venga riconosciuto: alla Cnbc ha riaffermato la dottrina del dollaro forte appena messa in dubbio dal suo stesso segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, ha aperto all’idea di rientrare nel patto commerciale dell’America del Nord e persino in quello del Pacifico.

L’arrivo in Air Force One

Trump a Davos sa che può prendersi qualche libertà. Lo ha visto subito con i suoi occhi. Quando verso le 14 è arrivato dall’aeroporto di Zurigo — l’Air Force One parcheggiato fra le centinaia di jet privati dei delegati di Davos — l’atmosfera nel centro congressi è cambiata all’improvviso. La folla di multimilionari e economisti ha dimenticato di colpo le chiacchiere sul Bitcoin, il protezionismo e i mali del Big Tech. Si sono tutti trasformati in adolescenti davanti a una rockstar: centinaia di braccia tese sopra le teste, smartphone in pugno, pur di strappare una foto dell’uomo con il ciuffo arancione.

Lui, rosso in viso, avvolto in un cappotto nero, ha salutato con piglio salendo le scale. Dietro di lui lo stuolo di una sterminata delegazione che qui a Davos include il genero Jared Kushner. È a quel punto che Trump si è chiuso al secondo piano e ha iniziato a ricevere, fra i leader presenti, solo quelli per lui più facili.

L’arrivo di May

Alle tre sale nelle sue stanze la premier di Londra Theresa May, mentre i fedelissimi di Trump si aggirano lì intorno in attesa dei cocktail. C’è Mnuchin, ex banchiere Goldman Sachs e produttore di Hollywood, in abito blu e grossi scarponi da montagna. Appena lo vede, il giovane neo-ministro delle Finanze olandese Wopke Hoekstra lo abborda: si presenta, vuole un appuntamento a Washington, il ministro di Trump sorride cortese e glielo promette con una confidenza: «Sa, io vengo dal settore privato — gli fa —. Ma ormai in questa amministrazione dopo sei mesi sei un veterano».

Trudeau non lo incontra

Verso le 15.30 esce May e allora sale le scale verso le stanze di Trump, circondato dalla scorta, il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Anche il collega canadese Justin Trudeau passa di là, raggiante, bello come un attore, unico leader a restare tre giorni a Davos, segno forse che tutto va così liscio a casa che il suo contributo non è richiesto. Lui Trump non lo vedrà. Proprio a quell’ora, da Francoforte, Mario Draghi sta confessando la sua preoccupazione «sullo stato delle relazioni internazionali», ma qui a Davos le parole del presidente della Banca centrale europea arrivano attutite. Chissà se le ha già lette Gary Cohn, l’ex presidente di Goldman e oggi consigliere di Trump che si aggira massiccio, scuro in volto. O Dina Powell, anche lei ex Goldman, che ha lasciato dall’amministrazione Trump in dicembre, non figura nella delegazione Usa, eppure gode qui di un accesso apparentemente senza limiti alle stanze del capo.

Ma ormai è tardi, tempo di iniziare la cena con i «business leader» europei. Nelle presentazioni, ciascuno di loro sottolinea quanti posti di lavoro ha creato in America. Trump sorride. Non c’è traccia di un solo foglio davanti a lui. 26 gennaio 2018

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