L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 27 gennaio 2018

Davos - Trump da il giusto peso agli euroimbecilli sono un niente e il dollaro basso, le emissioni lo dimostrano, sono solo cani al guinzaglio del padrone

IL FORUM

Trump a Davos ignora l’Europa e difende la strategia America First
 
Il presidente Usa usa toni più pragmatici sul commercio, per rassicurare il big business: «Crediamo nel libero scambio. Siamo pronti a negoziare accordi bilaterali di cui beneficino tutti i Paesi»

di Federico Fubini, inviato a Davos
26 gennaio 2018



È apparso preceduto da una banda di suonatori di ottoni in costumi dell’Ottocento, ma stavolta non è stata colpa sua. Almeno questa non è una gaffe di Donald Trump. È solo che dieci giorni fa Klaus Schwab, padre-padrone del World Economic Forum, era stato a un concerto dell’orchestra di Friburgo e il mattino dopo il direttore si è trovato una chiamata della moglie di Schwab con una strana proposta: suonare per il presidente degli Stati Uniti, quando avrebbe parlato a Davos. Fra tutti i brani proposti, gli Schwab hanno scelto la Marcia di Coburgo «la più solenne») ed ecco così ieri alle due Trump sull’attenti davanti a una platea di un migliaio di banchieri e uomini d’affari.

Pochi minuti di musica, e il presidente ha iniziato a leggere da due schermi trasparenti un discorso che fin dalle prime parole ha tradito il nome del vero autore. «Credo nell’America — ha detto quasi subito Trump —. Come presidente degli Stati Uniti metterò sempre l’America al primo posto, esattamente come gli altri leader dovrebbero mettere i propri Paesi al primo posto. Ma America First non significa America isolata». Quest’ultima frase è stata come un’impronta digitale: quella di Gary Cohn, l’uomo che era già venuto a Davos un’infinità di volte come presidente di Goldman Sachs e ieri ci è tornato da consigliere economico di Trump. Sono esattamente le parole che Cohn stesso aveva affidato al New York Times per un articolo del giorno prima, il cui senso è chiaro: sminare la retorica sciovinista del primissimo Trump, quella che l’aveva portato alla Casa Bianca promettendo barriere e muri nel commercio e nell’immigrazione. Un anno e mezzo dopo, Trump è un presidente marcato stretto nel centro congressi di Davos da tre stagionati uomini bianchi espressi dal Big Business: oltre a Cohn, il segretario al Tesoro Steven Mnuchin (ex Goldman anche lui) e l’ex capo di ExxonMobil Rex Tillerson.


Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Donald Trump arrivato al Forum di Davos 2018

Questo infatti è un Trump più pragmatico, che a Davos non parla come twitta. Il presidente rivendica, certo, successi che naturalmente attribuisce sempre e solo a se stesso: «Il mercato azionario batte un record dopo l’altro, 84 volte da quando sono stato eletto, e da allora ha aggiunto settemila miliardi di dollari di ricchezza» (ma l’America sta crescendo oggi del 2,6% in ritmo annuo, meno dell’area euro). Oppure: «Abbiamo cancellato 22 regolamentazioni ogni nuova regola aggiunta» (in realtà Bloomberg calcola che le ultime reali semplificazioni risalgano a Ronald Reagan e Bill Clinton). O ancora: «Con noi la disoccupazione degli afroamericani e degli ispanici è scesa ai minimi» (benché il calo duri da sette anni).

Ma il tono sul protezionismo, nervo scoperto per la platea di Davos che vive dei mercati globali, è molto sorvegliato. Anche con aperture nuove a trattative multilaterali: «Gli Stati Uniti credono nel libero scambio», ha detto Trump. «Siamo pronti a negoziare accordi che beneficino tutti i Paesi, in modo bilaterale e anche con gruppi di Paesi se ciò beneficia tutti». Canada, Giappone e altri undici Paesi del Pacifico stanno andando avanti su un accordo di libero scambio, anche Trump deve ammettere che l’America non può restare fuori. Non sono certo mancate le accuse alla Cina di rubare brevetti, sussidiare il proprio export e mantenere le imprese sotto il controllo soffocante del governo.

Grande assente nel discorso di Trump è stata piuttosto l’Europa: mai una parola in proposito, neppure un’allusione se non per dire che i Paesi emersi dal blocco sovietico dovrebbero comprare gas liquefatto americano per non dipendere dalle forniture russe. Eppure proprio qui a Davos due giorni prima Angela Merkel aveva speso tutta la sua forza per attaccare Trump: «Non ha capito le lezioni della storia», aveva detto la cancelliera tedesca. Emmanuel Macron era stato molto più cauto, consapevole che la Francia risorgente a cui aspira avrà sempre bisogno di un’intesa con gli Stati Uniti. Ma dell’Europa, Trump non sembra accorgersi minimamente.

Tutta questa indifferenza potrebbe non durare, specie se si avvererà la previsione espressa qui dall’investitore-filantropo George Soros: il potere del presidente finirà presto, forse già con una disfatta repubblicana alle elezioni di mid-term tra dieci mesi. Certo alla fine la platea dei ricchi di Davos ha riservato a Trump un applauso breve e fiacco, dopo l’ovazione per Macron. Ma forse non era ostilità. Magari era solo imbarazzo per il dono del taglio alle tasse, ricevuto da un uomo tanto più rozzo di loro. 
 

Nicola Gratteri - competenze, capacità, umanità fanno l'uomo

Gratteri: via vagabondi e spioni dai corridoi della Procura


Pubblicato il 27 gennaio 2018 alle 15:12 - di Redazione

“Per dimostrare chi siamo e cosa siamo capaci di fare abbiamo fatto una piccola rivoluzione a Catanzaro”. Lo ha dichiarato il procuratore della repubblica, Nicola Gratteri, intervenendo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto di Catanzaro.
“Abbiamo cercato di cambiare – ha proseguito – l’approccio e il modo di pensare. Quando sono entrato in Procura, ho trovato magistrati intelligenti e preparati ma li ho visti tristi, quasi rassegnati. Il mio lavoro e’ stato soprattutto quello di cambiare mentalita’ e approccio e – ha detto Gratteri – ci siamo riusciti, almeno nel mio ufficio. Abbiamo creato una macchina. Faccio l’esempio di un problema che ho trovato: 100 richieste di archiviazione dalla Procura generale. Allora ho pensato di cacciare dai corridoi della Procura di Catanzaro tutti i vagabondi e gli spioni che giravano per avere notizie, e ho aperto la porta alle parti offese che avevano bisogno di parlare, e ogni settimane dedico un pomeriggio a far parlare chi soffre. Cosi’ – ha concluso il procuratore di Catanzaro – ho eliminato le richieste di avocazione”. (AGI)

https://wesud.it/gratteri-via-vagabondi-e-spioni-dai-corridoi-della-procura/

Ilva - il venditore di fumo Calenda non si può liberare dalle stupidagini scritte nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri per l'ambiente di Taranto

Ilva, nuovo ricorso contro il decreto sull’Aia. Melle: “Unica via, lo stop dell’area a caldo”

di Alessandra Martelotti
27 gennaio 2018

Anche il Comitato Donne e Futuro per Taranto Libera impugnano il decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017 con cui il Governo ha approvato l’attuale piano ambientale per l’Ilva.

Il decreto, com’è noto, già impugnato dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci e dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. La presidente del Comitato, Lina Ambrogi Melle, procede però con richiesta di sospensiva, cui hanno invece rinunciato, almeno per ora, Comune e Regione. Con la Melle, a sostegno dell’iniziativa, numerosi cittadini di Taranto e le associazioni ” Giustizia per Taranto “, ” PeaceLink” e ” Fondo Antidiossina ” “indignati – scrivono – da questi continui decreti del governo italiano che calpestano i diritti fondamentali dell’Uomo alla vita, alla salute e alla sicurezza di noi tarantini”. 

La spinta è stata l’immunità penale riservata ai nuovi acquirenti: “Noi non possiamo rimanere inermi difronte ad una politica che continua a proteggere interessi economici di privati a discapito della salute di una popolazione”. “L’unico modo per affrontare e risolvere questa terribile situazione sanitaria ed ambientale – per la Melle – è quella già realizzata a Genova nel 2005 con la chiusura dell’aria caldo dell’Ilva e l’avvio di serie bonifiche all’interno e all’esterno dell’azienda”. Il Comitato ha già fatto ricorso contro lo Stato italiano per violazione con le sue leggi salva-Ilva dei diritti alla vita, alla salute ed alla vita familiare dei tarantini”.

Articolo completo: http://www.trmtv.it/home/primo-piano/2018_01_27/162500.html

Niger - altro che fake news qui siamo nel mondo dell'assurdo - Gentiloni e il Parlamento maggioranza euroimbecille Pd mandano i NOSTRI soldati senza che il governo nigerino sapesse niente

africa

L’Italia invia soldati in Niger, ma il Paese nega di essere d’accordo
 
In un articolo pubblicato online, la radio francese Rfi cita una fonte del governo: «Non siamo stati né consultati né informati. La notizia ci ha sorpreso»

di Stefano Montefiori
26 gennaio 2018

 
(Ansa)

Nei giorni scorsi l’Italia ha annunciato l’invio di 470 soldati in Niger, per aiutare la Francia impegnata nell’operazione Barkhane nel Sahel, e per frenare l’afflusso dei profughi verso la Libia e poi l’Europa. Ma secondo Rfi (Radio France Internationale), il governo del Niger nega di essere stato consultato e di essere d’accordo con l’iniziativa. In un articolo pubblicato online, la radio francese cita una «fonte del governo». «Non siamo stati né consultati né informati. La notizia ci ha sorpreso», dice la fonte a proposito dell’invio di soldati italiani in Niger, aggiungendo che il governo di Niamey ha saputo della missione italiana non dal governo di Roma ma da una agenzia Afp. E ancora: «Abbiamo indicato agli italiani, tramite il nostro ministro degli Affari esteri, che non siamo d’accordo».

Addestramento

La missione approvata il 17 gennaio prevede un rafforzamento delle misure di sicurezza e il sostegno alla polizia locale. «Ma abbiamo quel che ci serve grazie agli americani, e ci coordiniamo anche con i francesi», dice la fonte a Rfi. La radio fa parte del servizio pubblico francese, finanziata in parte con il canone e il parte con fondi del ministero degli Affari esteri, e si rivolge a tutto il mondo, con una rete di 400 corrispondenti e trasmissioni in 14 lingue.

LEGGI ANCHE: La Farnesina: «Una patacca montata dai francesi»

http://www.corriere.it/esteri/18_gennaio_26/italia-invia-soldati-niger-ma-paese-nega-essere-d-accordo-407753e0-02a5-11e8-b05c-ecfd90fad4de.shtml

Davos - Trump ha un forte sentimento identitario e questo getta nel panico la forma di Globalismo che si è sedimentato nella mente dell'èlite che fin'ora aveva comandato il mondo. L'America al primo posto significa, protezionismo, barriere doganali e dazi, rivuole indietro le aziende che hanno decolonizzato e anche altre facendo diventare appetibile il Paradiso Fiscale Stati Uniti

ECONOMIA

Spiazzare è il suo credo. A Davos va in scena il ruvido pragmatismo di Trump
Al Forum il presidente veste i panni del dominus planetario che crea e disfa alleanze a partire dagli interessi del suo Paese
26/01/2018 17:08 
Umberto De Giovannangeli Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam


FABRICE COFFRINI via Getty Images

"America first" non significa "America alone". Primi, certo, ma non in solitaria. Da Davos, Donald Trump aggiorna e ridefinisce il concetto che è l'asse portante della sua visione del mondo e del ruolo in esso degli Stati Uniti. Dal commercio alla guerra al terrorismo, dai migranti alla sicurezza: The Donald veste i panni del dominus planetario che crea e disfa alleanze a partire dagli interessi del suo Paese e di quanti si fanno suoi alleati. Non ha la presunzione di agire da solo, l'inquilino della Casa Bianca, ma pensa e lavora ad alleanze a geometria variabile. Alleanze di scopo, verrebbe da dire, mutuando un lessico in uso nella politica nostrana. Ciò vale per il Medio Oriente come nella ridefinizione, a tutto campo, di una partnership euroatlantica: Trump non firma assegni in bianco, non si sente vincolato da storiche alleanze o da organismi sovranazionali – dall'Onu alla Nato – che il presidente Usa giudica nel migliore dei casi un fardello, peraltro troppo costoso per il contribuente americano.

Sul piano geopolitico, Trump sembra essere andato a lezione dall'amico-competitor russo: Vladimir Putin. L'importante è scegliere da che parte e con chi stare, senza tentennamenti o cambi di rotta. L'alleanza di scopo contempla matrimoni di affari e non amori a vita. In questo, Trump è un ruvido pragmatico, niente a che vedere con il suo "visionario" predecessore, Barack Obama. Sul tormentato scacchiere mediorientale, Trump ha scelto gli alleati di cui fidarsi: Arabia Saudita e Israele. Evita scivolate messianiche, come quelle del suo vice, l'evangelico Mike Pence, a detta del quale stare dalla parte d'Israele è una "scelta di fede".

Nel suo ruvido pragmatismo, Trump è molto in sintonia con il suo amico primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: tutti e due lasciano ad altri esponenti dei loro governi cimentarsi con visioni ideologiche e "suprematiste", per The Donald e "Bibi" ciò che conta è portare a casa risultati concreti, e corrispondere quanto più possibile alle aspettative di quella parte di America e di Israele che li ha rispettivamente scelti. In Siria, poi, Cia e Pentagono continuano a sostenere le milizie curde siriane dell'Ypg, ma ora che, parola di Trump, lo Stato islamico è stato cacciato dal 100% della Sira, l'America non si metterà a sparare contro le forze armate turche impegnate nelle aree siriane dove forte è la presenza curda. E anche sul fronte israelo-palestinese, Trump agisce usando la potenza dei dollari per piegare i palestinesi a un negoziato a guida americana.

Tanti presidenti Usa, democratici e repubblicani, hanno cercato di passare alla storia per aver realizzato la pace tra israeliani e palestinesi. Nessuno c'è riuscito. E ora ci prova Trump con inaspettate, ma concrete, possibilità di riuscita. Oggi più della metà della popolazione palestinese, in particolare quella di Gaza (è una prigione a cielo aperto e quindi non potrebbe essere altrimenti), vive grazie agli aiuti internazionali. Non solo. La ricostruzione della Striscia dopo l'ultima guerra con Israele dell'estate 2014 è ancora tutta o quasi da realizzare, e senza i finanziamenti di Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, la situazione rischia di precipitare in una immane tragedia umanitaria che né l'Anp né Hamas sarebbero in grado di gestire. Trump lo sa bene, e per questo usa l'arma dei finanziamenti per costringere Abu Mazen a tornare al tavolo negoziale, per ottenere quel poco che è sempre meglio del niente.

Non piacerà ai circoli liberal, ma il fatto è che Trump si sta rivelando un presidente che spiazza, capace di lavorare sulle altrui contraddizioni. Per porre fine allo shutdown i democratici pretendono il salvataggio dei "dreamers"? No problem, basta che poi non facciano storie per trovare i dollari necessari alla costruzione del muro con il Messico. E così, a dividersi non sono i repubblicani ma i dem.

Altro giro, altro spiazzamento. Il dossier nucleare iraniano. Certa pubblicistica ha letto e interpretato la mancata disdetta dell'accordo con Teheran, fortemente voluto da Obama e dall'Europa, come un passo indietro, addirittura una sconfitta campale. Anche qui: è un grave errore scambiare i desiderata con la realtà. E la realtà è che Trump ha ributtato la palla in campo europeo, chiedendo a Bruxelles (Ue) e ai Paesi del vecchio continente membri del Gruppo 5+1 (Francia, Gran Bretagna e Germania) di decidere sul tipo di sanzioni da applicare a un regime che ha sedato nel sangue le proteste di inizio anno. "Oggi, malgrado la mia forte propensione (al contrario, ndr) non ho ancora ritirato gli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare con l'Iran. Confermo la sospensione dell'applicazione delle sanzioni nucleari (contro Teheran, ndr) ma per consentire ai nostri alleati europei di mettere a posto i terribili difetti dell'intesa nucleare con l'Iran. Questa è l'ultima chance e nessuno deve dubitare delle mie parole": così Trump il 12 gennaio scorso. E ancor prima, all'alba del nuovo anno, l'inquilino della Casa Bianca dedica uno dei cinguettii di inizio 2018 alle proteste nella Repubblica islamica lanciando lo slogan "TIME FOR CHANGE!".

Insomma, l'ex tycoon fa politica. Include e divide. Non scatena applausi, ma come Reagan e la Thatcher, sa cosa vuole e come e con chi farlo. In questo è un "rivoluzionario" come Ronnie e Margaret. Non difende lo status quo, ma dà una sua traduzione "sovranista" all'idea di cambiamento. Accresce la ricchezza, senza accorciare le diseguaglianze, ma questo è un problema che ha a cuore Bernie Sanders, non certo lui. Lui, The Donald, si fa forte del fatto che "l''America sta di nuovo vedendo una forte crescita, in Borsa si sono creati 7.000 miliardi di dollari dalla mia elezione. Come presidente degli Stati Uniti - ha proseguito - metterò sempre l'America al primo posto, come gli altri leader mettono il loro Paese al primo posto. Venite in America. Io credo nell'America e la metterò sempre al primo posto. Ma non significa America alone. Invitiamo gli altri leader a proteggere gli interessi dei loro cittadini come lo facciamo noi".
La sua idea di "protezione" sfocia nel protezionismo, mette in campo barriere doganali e dazi, specie contro il Dragone cinese, ma resta il fatto che sia un tipo così ad aver incarnato negli States la critica ad una globalizzazione che ha significato delocalizzare interi comparti industriali minando posti di lavoro e marginalizzando la working class. La sfida è lanciata. Sul commercio come sulla sicurezza. "Gli Usa – afferma Trump - sono fortemente impegnati per la massima pressione per denuclearizzare la Corea del Nord, lavoriamo con gli alleati per contrastare i terroristi e Daesh, gli Usa sono leader per assicurare la sicurezza mondiale".

America first, ma non alone. L'importante è scegliere. In questo, l'inquilino della Casa Bianca si mostra in sintonia con il modus operandi del suo omologo russo. Tutt'altro che in rotta di collisione, Trump ha di fatto affidato a Putin il ruolo del "Garante" della tenuta dei fragili equilibri mediorientali: l'importante, è che gli interessi russi non confliggano con quelli dell'America e dei suoi due alleati regionali (Arabia Saudita e Israele). A The Donald non interessa "conservare", lui è un presidente del "cambiamento". "Alla Trump", naturalmente. Il sistema che regola l'immigrazione negli Usa "è fermo al passato e d'ora in poi chi entra verrà selezionato in base alla sua capacità di contribuire al benessere economico degli Usa", dice il presidente degli Stati Uniti.

Le cronache da Davos segnalano che metà della sala lo ha applaudito, l'altra metà no (fischiandolo quando ha attaccato i media, definendoli "cattivi" e accusandoli di diffondere "fake news"). Ma nessuno si è sottratto all'ascolto, e la sala non è riuscita a contenere tutti quelli che volevano presenziare all'Evento. Il suo "change" è agli antipodi di quello che portò alla Casa Bianca Barack Obama. Ma Trump piega alla sua visione del cambiamento, anche parole che fanno parte del vocabolario dei progressisti: dice di essere aperto al commercio globale "purché sia giusto ed equo".
Il modo peggiore per affrontare l'avversario è sottovalutarlo, deriderlo, dipingerlo come una macchietta. Così si fa il suo gioco, e si perde
La grande stampa americana sembra aver imparato la lezione. Trump ha finalmente conquistato un posto tra le élite globali, che l'avevano sempre snobbato quando era imprenditore, e criticato per mesi una volta arrivato alla Casa Bianca, grazie al fascino dei tagli fiscali miliardari. È così che il Washington Post, testata notoriamente critica del presidente Usa, legge in questo modo la calda accoglienza riservata a Trump a Davos. "È bastato un taglio delle tasse da 1,5 trilioni di dollari e un approccio più permissivo per quanto riguarda il controllo delle corporation a convincere il leader del grande business ad accoglierlo", scrive il Post, sottolineando l'enorme differenza con la grande preoccupazione che si viveva un anno fa a Davos subito dopo l'insediamento del presidente che prometteva un ritorno ad un nazionalismo economico.

Sulla scia dell'entusiasmo per un'agenda economica incentrata sul 'corporate tax cut' e la deregulation quindi non sembrano provocare grande ansia le tendenze protezioniste e le posizioni su immigrazione tra le elite dell'economia e della finanza riunite a Davos. Anche il New York Times, altra testata notoriamente critica di Trump, deve registrare come Davos abbia finora "riservato una calda accoglienza al presidente, che è stato uno dei suoi critici principali", riferendosi al manifesto populista, e gli attacchi alle élite globali, che hanno consegnato la vittoria elettorale a Trump...". Riconoscimenti che non delineano un cammino trionfale per The Donald: il Russiagate, i rischi delle elezioni di midterm, le crisi internazionali sono macigni pesanti sulla strada presidenziale. Ma Trump non è una meteora, un incidente della storia. Prima se ne prende atto, meglio è.

Davos - si accartocciano su se stessi ma nulla possono. Stampare una montagna di soldi e non finanizzarli alla creazione di posti di lavoro stabili e duraturi ma darli al sistema finanziario affinchè questi si continui a sbranare per fare altri soldi facili creati sul nulla ci ha consegnato per anni alla deflazione, impoverito masse di umanità, precarizzato a vita l'occupazione diminuendola. Pensano di avere stabilizzato il Sistema e quindi lentamente anche in assenza di inflazione sono orientati ad alzare, tutti insieme, progresivamente i tassi d'interesse, avranno brutte sorprese quando la bolla/le bolle gli scopieranno in mano. Non avranno strumenti per fronteggiarla/e, ci saranno una quantita di morti sul campo, le aziende in apparenza più solide crolleranno. Caos certo

Le insidie alle spalle di una crescita troppo forte

L'economia mondiale corre senza sosta. Ma le banche centrali hanno perso gli strumenti per governare i fiumi di denaro facile con cui hanno inondato il mercato in questi anni. La politica monetaria è diventata cauta e prevedibile, fornendo eccessive rassicurazioni agli investitori. E ora chiudere i rubinetti rischia di non bastare

di MAURIZIO RICCI

27 Gennaio 2018



Siamo sull'orlo di una bolla? E, alla fine, quando ci sarà il botto, diranno che è tutta colpa di Draghi che è troppo bravo? Il 2018 inizia, in effetti, sotto l'ombra di un paradosso. Eccolo: la buona notizia è che l'economia mondiale va a gonfie vele; la cattiva notizia è che l'economia mondiale va a gonfie vele. E, invece, non dovrebbe. Il dubbio serpeggiava, in questi giorni, a Davos: le cronache raccontano che i protagonisti del mondo degli affari non avrebbero potuto che congratularsi per un'economia che va come una macchina ben oliata, con le borse alle stelle, con il Fmi che rialza proiezioni di sviluppo vecchie di soli tre mesi. E, al contrario, si guardavano in giro preoccupati: quanto può durare ancora la pacchia?

Una grande banca come Morgan Stanley ha messo le mani avanti: il 2018 non sarà come il 2017 e sarà bene stare attenti. Sui mercati, dicono i suoi analisti, è iniziata la fase dell'”euforia”: più che investire, si specula. E uno dei guru del Wall Street Journal ha esortato: “Abbiate paura”.

A leggere bene l'analisi che accompagna le nuove previsioni del Fmi, del resto, l'ottimismo appare piuttosto rarefatto. Lo stimolo della riforma fiscale di Trump, dice il capo economista, Maurice Obtsfeld, avrà vita breve, l'economia Usa è già ai limiti del surriscaldamento, un brusco rialzo di tassi e inflazione avrebbe effetti a catena dentro e fuori gli Stati Uniti: i mercati si accorgerebbero presto che, mediamente, ci sono in giro più debiti oggi che prima della Grande Crisi del 2008 e i governi hanno meno munizioni per farvi fronte. La situazione, spiega, è figlia della scelta che le banche centrali non potevano non fare per tamponare la Grande Crisi: moneta facile. Ma, alla lunga, la politica monetaria accomodante ha drogato i mercati finanziari. “Gli operatori si sono convinti che le banche centrali possano risolvere qualsiasi problema – dice Obtsfeld – ma non è vero”.

Stranamente, Obtsfeld, che è stato un nemico dell'austerità e un fautore dello stimolo monetario, si ritrova oggi sulla stessa sponda dell'ultimo profeta dell'austerità: Claudio Borio, il capo economista della Bri, la banca centrale delle banche centrali. Presentando l'ultimo Bollettino della Banca dei Regolamenti Internazionali, Borio ha notato che l'indicatore che misura le condizioni finanziarie registra una politica monetaria mai così accomodante dalla metà degli anni '90. Non è sorprendente, dunque, che l'economia marci veloce. E' sorprendente, però, che questo avvenga mentre la più grande banca centrale del mondo, la Fed, sta alzando i tassi e l'altra, la Bce, ha cominciato a muoversi nella stessa direzione.

Ma la stretta monetaria sembra fermarsi al portone delle banche centrali. E Borio evoca il fantasma che, probabilmente, agita i sonni dei più riflessivi fra i boss della finanza: il “Greenspan conundrum”, l'enigma di Greenspan. Come è possibile, si interrogava, nei primi anni 2000, il mitico capo della Fed degli anni di Clinton e Bush, che io rialzo i tassi, ma i rendimenti a lungo termine, invece, scendono e i prezzi dei titoli salgono? Il manuale del banchiere centrale dice esattamente il contrario e, finora, non ha mai sbagliato.

Invece, è finita malissimo, come ognuno sa. Ma perché, adesso come quindici anni fa, gli strumenti a disposizione delle banche centrali si dimostrano così goffi e imprecisi? Borio non ha una risposta solida, ma le ipotesi che avanza rimbomberanno, probabilmente, nelle stanze della Bce a Francoforte. Perché la stretta monetaria, argomenta il capoeconomista della Bri, è stata forse, per non pregiudicare la ripresa, troppo lenta e cadenzata. Soprattutto, troppo prevedibile e trasparente. Le due cose insieme hanno radicato nei mercati la convinzione che le banche centrali non avrebbero comunque dato scossoni, avrebbero fatto l'impossibile per non azzoppare l'economia e, comunque, non avrebbero mai dato sorprese.

Questo quadro di certezze avrebbe consentito agli operatori di alzare il livello di rischio, a prescindere dalla politica monetaria.
Discorsi non molto diversi erano già stati fatti in passato dai “falchi” della Bce, scontenti delle rassicurazioni con cui Draghi ha guidato con mano sicura i mercati, nella lunga teoria di conferenze stampa di questi anni. In realtà, il problema vero è che, complice il ristagno dei salari, l'inflazione, nonostante le paure, in realtà non si muove. Ma c'è il rischio che, invece che di questo, nelle prossime settimane si parli soprattutto della “forward guidance” - l'illustrazione della politica della banca centrale – che Draghi ha trasformato, in questi anni, in un esercizio di straordinaria abilità.

http://www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2018/01/27/news/bolla_finanziaria-187385055/ 

Davos - Marcello Foa - E' guerra vera - si delinea la strategia di Trump, Stati Uniti Paradiso Fiscale per le multinazionali, dollaro debole, dazi e impossibilità di trasferimento a paesi terzi delle aziende statunitensi ritenute strategiche

Attenti a Trump: spacca l’élite globalista e manda in crisi la Ue

27 gennaio 2018
di Marcello Foa

Il Trump che abbiamo visto a Davos forse sta riuscendo a spaccare l’establishment globalista, utilizzando lo strumento più soprendente: quello fiscale, che sta mettendo in crisi l’Unione europea, la quale , dopo la Brexit e la vittoria di Trump, era stata indicata come lo scudo dell’élite globalista. L’ex consigliere di Obama, Kupchan, era stato esplicito scrivendo che:

Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale.

 
 
Mi spiego: lo schema promosso dall’élite globalista prevedeva, fino ad oggi, la creazione di un blocco unico nella Ue, con il progressivo sradicamento delle identità e delle strutture nazionali, con il corrispettivo trasferimento dei poteri esecutivi e legislativi a entità sovranazionali, con la conseguenza di favorire i grandi gruppi multinazionali. Il Trattato CETA tra Ue e Canada, che riprende diversi punti salienti del defunto trattato TTIP, ed approvato nel silenzio dell’opinione pubblica, mira da un lato a sbarazzarsi dei vincoli giuridici nazionali, conferendo ai privati e non a una Corte suprema, l’ultima istanza nel caso in cui una grande azienda si senta danneggiata da leggi o provvedimenti nazionali, ovvero svuotando uno dei pilastri del nostro sistema democratico; dall’altro promuovendo non la concorrenza ma l’armonizzazione fiscale fra i Paesi della Ue, con un doppio standard: livelli impositivi crescenti per i cittadini e le società locali, scappatoie con regimi agevolati (biasimati pubblicamente ma di fatto permessi) per i grandi gruppi multinazionali.

Affinché questo piano riuscisse era indispensabile che non si palesassero elementi esterni di disturbo e invece Trump sta scompaginando il quadro. Come noto, il Congresso Usa ha appena approvato la riforma fiscale che abbatta le tasse per le società e a Davos il presidente americano cos’ha fatto? Si è seduto a cena con una cinquantina di Ceo delle principali compagnie al mondo, che ha invitato a trasferirsi negli Stati Uniti ovvero nel nuovo paradiso fiscale, che ha una peculiarità: non è l’Irlanda, nè uno statarello dei Caraibi ma la superpotenza dominante.

E’ presto per valutare l’impatto su scala plantearia del nuovo regime, però, gli effetti sono potenzialmente dirompenti. Trump, che è un uomo di affari, potrebbe scardinare i piani globalisti facendo leva sull’elemento costituente del capitalismo: il profitto. Perché il Ceo di un grande gruppo dovrebbe rimanere nella Ue o in Svizzera se può far guadagnare centinaia di milioni ai propri azionisti? E’ possibile che tra qualche tempo inizi l’esodo dei quartieri generali dei grandi gruppi dall’Europa verso New York o San Francisco, generando non pochi grattacapi dalle nostre parti: Bruxelles come potrebbe continuare a proporre l’armonizzazione fiscale di fronte alla concorrenza statunitense? Non è azzardato prevedere che a breve molti Stati abbasseranno le imposte per tentare di trattenere le aziende. Macron si sta già muovendo in questa direzione. Ma com’è possibile che ci riescano dovendo rispettare i rigidissimi parametri di Maastricht e dovendo far fronte alle note intolleranze dogmatiche della Germania da una parte e della Bce dall’altra? Aggiungete gli effetti dirompenti sull’economia europea del calo del dollaro e del forte aumento dell’euro e il quadro è chiaro.

Donald Trump rischia di mettere in crisi l’Unione europea e i piani dell’élite globalista. Chi l’avrebbe detto?

http://blog.ilgiornale.it/foa/2018/01/27/imprevedibile-trump-spacca-lelite-globalista-e-la-ue-va-in-crisi/

Davos - Trump in scena svia dalla vera sostanza, il dollaro debole che spiazza gli euroimbecilli e il protezionismo difesa dell'aziende statunitensi dall'intrusione cinese e dazi ai prodotti di questi e della corea in attesa per quelli europei oltre quelli già fatti

Trump a Davos, è ancora ‘America first!’: ‘Quando l’America cresce, tutto il mondo cresce’
26 gennaio 2018
 di C. Alessandro Mauceri –


 
(Foto Wef).

C’era grande attesa a Davos, in Svizzera, dove sono in corso gli incontri per il World Economic Forum 2018, per l’intervento del presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump. Lui stesso aveva manifestato una certa ansia nei giorni scorsi, “c’è tantissima gente, come non hanno mai visto prima”. E come ogni bravo venditore, avere davanti a sé tanta gente, lo eccita.

La missione di Trump non è facile: rilanciare l’immagine degli Usa sui mercati internazionali, e perché no, distogliere l’attenzione dei media dai problemi interni, dal Russiagate e dalle numerose bocciature delle leggi da parte della magistratura e dallo shutdown poi (a fatica) rientrato..
Ancora prima di scendere dall’aereo presidenziale che doveva atterrare a Zurigo Trump ha annunciato che il suo messaggio sarebbe stato “molto ben accolto” e che gli Stati Uniti stanno “facendo incredibilmente bene, meglio di quanto fatto in decenni
Da bravo tycoon ed esperto venditore, Trump non ha lasciato niente al caso: dopo essere atterrato con l’Air Force One è salito su un elicottero che, scortato da elicotteri dell’aeronautica elvetica, lo ha lasciato proprio davanti la porta d’ingresso del centro dove sono in corso i lavori del WEF2018 per un’entrata trionfale, “spettacolare”, seguita da numerose altre azioni di marketing, tutte studiate con grande attenzione. Come quella di sedere accanto al primo ministro inglese Teresa May con la quale è in scaletta una conferenza stampa congiunta. Un incontro importante dopo gli ultimi attriti tra Usa e Londra causato da un tweet di un paio di mesi fa con il quale Downing Street aveva criticato Trump. Gli Stati Uniti dovrebbero fare di più per combattere l’estremismo di destra, aveva scritto la premier Theresa May. Poco dopo, il presidente Trump aveva annullato la sua visita di Stato in Gran Bretagna. Fatti che avevano incrinato le relazioni “speciali” tra i due Paesi. Ma di fronte al problema comune i due leader hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco e hanno mostrato una rappacificazione che appare essere più formale che sostanziale. La May infatti, dopo aver esortato la comunità internazionale a sollecitare nuove misure per promuovere il libero scambio e la compravendita di servizi tra Paesi, ha aggiunto che il Regno Unito non può “spingere in una direzione opposta”.
E così, mentre nelle stanze adiacenti si parlava dei problemi di siccità che stanno colpendo altri stati dopo la California ormai arida da anni, sul palco Trump ha continuato a sbandierare slogan come “America first” e “l’America è il luogo per poter fare affari”, dato che “non c’è mai stato un momento migliore per fare affari con gli Usa”. E poi “quando l’America cresce, tutto il mondo cresce”.

Ma non basta. Da provetto venditore, e forse memore dei problemi interni delle ultime settimane nel settore delle agevolazioni per le imprese energetiche americane (bloccate dalla magistratura), il presidente ha trasformato quella che solo un anno fa era un problema, ovvero la “sostenibilità” energetica, in un nuovo concetto: quello di “sicurezza” energetica. Un modo come un altro per giustificare anche scelte poco environment friendly.
Non ha mancato di fare pubblicità per molti settori americani dall’industria alle università alla produzione di armi e armamenti fino ai rapporti internazionali, anche questi oggetto di critiche negli ultimi mesi: per chiarire una volta di più la posizione degli Usa Trump ha tenuto una conferenza stampa anche con il premier israeliano. Sempre sul tema dei rapporti internazionali, il tycoon della Casa Bianca ha parlato di Iran e della necessità di evitare che quest’ultimo sviluppi armi nucleari. Ma non sono mancati cenni al terrorismo islamico, con la promessa di combattere ancora contro l’Isis, in Siria e altrove.

Sul palco del centro congressi di Davos, il castello delle convenzioni, dove ha tenuto il proprio discorso Trump ha dato il meglio di sé: gettato subito nella spazzatura il copione preparato dal suo entourage, Trump è andato a braccio ribadendo la tesi del dollaro forte (dimenticando le perdite della moneta statunitense soprattutto a causa degli attacchi da parte della Cina e dei Brics). Dichiarazioni che cozzano non poco con quelle rilasciate anche dal presidente della Bce, Mario Draghi, che proprio nello stesso momento da Francoforte stava dichiarando preoccupazione “sullo stato delle relazioni internazionali”. E ai microfoni della Cnbc Trump ha ribadito la sua tesi del dollaro forte, appena messa in dubbio a Davos dal suo stesso segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, e ha aperto all’idea di rientrare nel patto commerciale dell’America del Nord e persino in quello del Pacifico, il TPP. Un tema solo apparentemente poco significativo in un momento in cui sono in discussione due accordi molto più importanti: il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e soprattutto il TISA (Trade in Services Agreement). Per farla breve, “Restiamo a favore del libero commercio, ma i trattati devono essere giusti e reciproci”.

E per far capire a tutti che fa sul serio, nell’incontro con alcuni leader mondiali ha buttato subito in terra le carte. Lo ha fatto fisicamente (altra scena da esperto da venditore) scagliando in terra davanti al gruppo di manager un fascio di documenti preparati dallo staff sui temi da trattare (ma non prima di essersi assicurato di essere sotto gli occhi di quante più telecamere possibile). Palesemente turbati e preoccupati alcuni dei membri dello staff del presidente che alla fine sono apparsi sconcertati dalle sue dichiarazioni (“Con me l’America vola”). Ma a lui questo non interessa. A un anno esatto dall’inizio del suo mandato di presidente a Trump importa soprattutto dare un’immagine di presidente forte che ha fatto le scelte giuste per il proprio paese e per il mondo. Una pubblicità forse fin troppo sfacciata che molti dei presenti hanno mostrato di non aver gradito. 

Roma - è dolo, chi incendia i mezzi pubblici romani, chi vuole continuare a screditare l'Atac?

Viale Palmiro Togliatti: incendio distrugge autobus Atac

Il mezzo si è incendiato nella parte posteriore. Nessuno è rimasto ferito. Sul posto i Vigili del Fuoco

Lorenzo Nicolini 26 gennaio 2018 11:09
























Ancora un autobus Atac in fiamme a Roma. E' il secondo caso nel 2018, dopo le fiamme che hanno danneggiato un bus a piazza di Monte Savello, all'Isola Tiberina. Questa volta lo scenario è quello di viale Palmiro Togliatti, nella zona di Cinecittà. L'autobus Atac è stato avvolto dalle fiamme domate poi dai Vigili del Fuoco. Ancora da determinare le cause dell'incendio avvenuto nella tarda serata di mercoledì 24 gennaio.
Flambus a Roma

Nessuno è rimasto ferito. Roghi che si sommano ai tanti avvenuti nell'ultimo periodo. Prima dell'episodio dell'Isola Tiberina, a fine novembre, toccò all'autobus 88, sul Ponte delle Valli, ed al 509 sulla via Tuscolana. Precedentemente era stata la volta della linea 188 a via della Camilluccia.

Il 28 ottobre, un bus Atac della linea 50, parcheggiato alla fermata di piazza dei Cinquecento, a Termini, con il motore acceso, prese fuoco. All'alba del 19 ottobre, nella rimessa di Tor Sapienza. Il fuoco si sviluppò nel vano motore a causa di un corto circuito. E ancora il 9 ottobre una nuvola di fumo nero avvolse il 556 a Tor Tre Teste, mentre transitava su via Davide Campari. Il 6 ottobre un altro caso a Romanina in via della Sorbona. L'elenco dei Flambus a Roma continua ad aggiornarsi.

http://www.romatoday.it/cronaca/incendio-bus-atac-viale-palmiro-togliatti.html

Mauro Bottarelli - E' guerra vera e gli euroimbecilli non sono attrezzati culturalmente per combatterla, saranno spianati

SPY FINANZA/ Gli Usa pronti alla guerra fatale per l'Europa 

Gli Stati Uniti sono più agguerriti che mai per non perdere la loro leadership economico-finanziaria. L'Europa rischia quindi di trovarsi nei guai. MAURO BOTTARELLI

 27 gennaio 2018 Mauro Bottarelli

 
Emmanuel Macron (Lapresse)

Cari lettori, non sono sparito, un inconveniente mi ha bloccato. Capita nella vita, soprattutto quando, come fa il sottoscritto, ci si trascura: è sempre e soltanto tutto stress, passa da solo, non ci si deve fermare mai. E invece no, occorre fermarsi. E se non lo si fa di propria spontanea volontà, ci pensa la vita ad alzare il cartello del pit-stop: ho passato una settimana a fare esami e rimettermi in sesto per due interventi che sosterrò la prossima settimana, sperando di tornare in fretta al lavoro. Più in forma di prima (e se faccio riferimento all'ultimo periodo, devo dire che almeno da questo punto di vista ci vorrà poco). Temo che la prossima settimana potrò fare poco o nulla (anzi, ne ho la pressoché certezza fin d'ora), quindi approfitto per un punto rapido e senza troppo approfondimento riguardo quanto sta accadendo.

La guerra commerciale che vi avevo anticipato fra Usa ed Europa è arrivata, puntuale come morte e tasse e ora anche la questione dell'euro in overshooting sul dollaro è diventata seria: è bastato che il sottosegretario al Tesoro parlasse di necessità di un biglietto verde debole strumentale all'economia Usa post-riforma fiscale per spedire l'euro a 1,25 e costringere Mario Draghi a rompere i vincoli della diplomazia fra banchieri centrali e chiedere a Washington il rispetto dei patti. State certi che la guerra proseguirà. E sarà dura, davvero dura. Donald Trump, come vi dico da sempre, è stato eletto a Pennsylvania Avenue solo per un motivo: fare ciò che a un presidente normale non sarebbe stato consentito di fare.

E, come avrete notato, attorno alla sua farsesca presidenza sono state create ad hoc le condizioni ideali per una cortina fumogena tale da non far capire all'opinione pubblica cosa davvero bollisse in pentola: prima il Russiagate, poi la Corea del Nord, il muro col Messico, i "dreamers", la riforma sanitaria, persino lo scandalo sessuale di Hollywood o quello legato alle proteste del mondo del football americano relativo all'inno nazionale. E poi la Cina, il fronte siriano che si riapre, l'Afghanistan che ricasca nella spirale della violenza più cieca del terrorismo e, stranamente, diviene a tempo di record nuova culla dell'Isis, dopo la caccia di Daesh e dei suoi miliziani da Siria e Iraq. E poi la Libia e ora la guerra di Erdogan contro i curdi filo-Usa: è un mondo in fiamme, a pezzetti, come dice Papa Francesco. Ma, alla fine, ruota tutto attorno a interessi economici basilari: in primis, il ruolo benchmark, a livello globale, del dollaro. Un qualcosa che Washington non può permettersi di perdere: qualsiasi sia il prezzo da pagare. O da far pagare.

L'idea che la Cina intenda dar vita a futures petroliferi denominati in yuan è ancora accettabile, perché la strada appare lunga prima di arrivare a uno status globale alternativo, ma non è accettabile il fatto che gli equilibri di bilanciamento commerciale possano esistere a prescindere dagli Usa e dalle loro esigenze. Una cosa è accettare strumentalmente l'esportazione di deflazione cinese a livello di deficit commerciale, visto che la contropartita è l'impulso creditizio che la Pboc garantisce a livello globale - l'enorme Qe del Dragone - e senza che la Fed debba ammettere di fronte al mondo che il suo rialzo dei tassi è una farsa, esattamente come il "miracolo" borsistico del Trumpnomics, un'altra perdere il ruolo di unico mercato di riferimento: quantomeno, a livello di grandezza come recettività delle merci di quel bazar a cielo aperto chiamato sovra-produzione cinese, in attesa della rivoluzione di Xi Jinping che Washington contrasterà con ogni mezzo, almeno a livello infrastrutturale sul progetto "One Belt, One Road".

Dopo l'11 settembre, i neo-con diedero vita alla loro agenda per un "Nuovo secolo americano", (attraverso la Strategia del Caos e della Paura) ovvero le re-imposizione di un ordine mondiale principalmente militare che garantisse però finalità geopolitiche e di sfruttamento economico delle commodities più strategiche, dal petrolio all'uranio alle terre rare, oltre ovviamente al warfare, ovvero al moltiplicatore keynesiano del Pil attraverso l'attività frenetica del comparto bellico-industriale statunitense. Lo stesso che decide i presidenti, le guerre, le carestie. Tutto. A Davos abbiamo avuto un antipasto di ciò che ci attende, ma anche la drammatica anteprima di una sconfitta annunciata: potrà un'Angela Merkel mai così debole riuscire a sostenere la resistenza europea allo strapotere di Usa e Cina?

No, lo sappiamo tutti. Anche perché l'Europa è un nano politico che non parla con una ma con 27 lingue e si fa commercialmente guerra al proprio interno, mentre gli avversari sono una falange politica pronta a chiudersi a riccio e ad avanzare compatta come un sol uomo. E poi, siamo certi che Emmanuel Macron, il nuovo leader di questo vaso di coccio fra vasi di ferro, giochi per la squadra di cui porta formalmente la divisa? L'Europa è pronta a una guerra di dazi e tariffe, di gioco sporco e concorrenza sleale? Se il precedente dell'affaire emissioni che ha coinvolto le case automobilistiche europee negli Usa deve dirci qualcosa, beh quel qualcosa è scoraggiante. Molto scoraggiante (anche se è meglio degli Stati Uniti chiaramente dichiarati che quelle larve pusillanime, quegli ectoplasmi degli euroimbecilli europei e nostrani).

E sapete perché occorre aver paura? Per la reazione di Draghi: il quale sa che il combinato congiunto fra fine del programma di acquisto di bond corporate in seno al Qe - che permette alle aziende di bypassare il finanziamento bancario e i suoi oneri - ed euro sopravvalutato sul dollaro può devastare la ripresa europea alla radice, polverizzarla letteralmente. Forse per questo la Bundesbank si è mossa con largo anticipo, non solo rimpatriando tutto l'oro stoccato all'estero e aprendo le proprie riserve estere allo yuan? Forse Berlino sa già che l'epilogo della guerra commerciale appena iniziata sarà la nascita forzata di un'Europa a due velocità, di fatto un'Europa "reale" che coincide con quella del Nord e del rinnovato asse renano e una complementare e satellitare, da sfruttare alla bisogna, guidata da Italia e Spagna? Forse il caso di studio della Grecia è servito a questo, una prova tecnica di spogliazione?

Occorre porsi certe domande, è giunta l'ora: perché Oltreoceano non faranno prigionieri, troppo alta la posta in palio. E lo stesso vale per la Cina, la quale ha cercato di far capire all'Europa quanto stava accadendo - così come ha fatto con altri metodi e altre lusinghe la Russia -, ma il pregiudizio filo-atlantico è ancora troppo forte, declinabile addirittura in servilismo parossistico giunti a questo livello e se vogliamo essere onesti fino in fondo. Siamo a uno snodo storico e non sapete quanto mi costa dover essere forzatamente inattivo, voi siate vigili e informatevi: quanto sta per accadere non è la solita crisi economico-commerciale, è una rivoluzione copernicana di potere sottotraccia che sancirà gli equilibri dei prossimi 50 anni.

Siate preparati, siamo solo all'inizio. Di mio, spero solo di poter tornare umilmente e per quanto in mia possibilità a informarvi il prima possibile. Fate il tifo per me, mi raccomando (è indiscutibile). Ne ho bisogno

e quindi si conferma che la Tassa piatta è un ulteriore tassello per uscire fuori dall'euroimbecillità che ci ha tolto la Sovranità Nazionale, Monetaria, Politica, Economica. Sull'Iva bisogna fare un discorso serio a parte: Lo spread non esisterebbe più se si ritornasse al sistema ante 1981 con buona pace dei mercati

FLAT TAX, LA TASSA PIATTA. OPPORTUNITA’ O ILLUSIONE?
 
Maurizio Blondet 25 gennaio 2018 
di Roberto PECCHIOLI

In campagna elettorale le promesse abbondano. La gara è tra chi offre di più al perplesso elettore, un voto messo all’incanto, in entrambi i sensi della parola. Una commedia teatrale di grande successo di Pietro Garinei del 1986 aveva un titolo adatto alla cronaca di queste settimane: Se devi dire una bugia, dilla grossa. Nei panni di Johnny Dorelli, miglior attore protagonista l’immortale Silvio Berlusconi, ma i suoi avversari non sono da meno, da Giggino Di Maio a Pietro Grasso fino a Matteo Renzi. Tutti promettono molto, ma la certezza è che, chiunque finirà al governo, manterranno assai poco.

Le tasse, naturalmente, la fanno da padrone nella riffa elettorale. Più che giusto, milioni di italiani votano con il portafogli e il fisco nazionale è contemporaneamente vorace, potentissimo, sclerotizzato e inefficiente, epperò fortissimo con i deboli, mite e incline al compromesso al ribasso con i potenti. La proposta più importante viene dal centrodestra, e, come tutte le novità, ha un nome anglofono: flat tax, cioè tassa piatta e consiste nell’applicare un’unica aliquota a tutti i redditi. L’obiettivo finale è quello di tassare in maniera uniforme sia i redditi delle persone fisiche sia quelli delle persone giuridiche.

Secondo i sostenitori della proposta, nata in ambito leghista attraverso l’azione dell’economista Armando Siri, autore del libro Flat Tax la rivoluzione fiscale in Italia è possibile, successivamente accolta con distinzioni importanti da Forza Italia, l’impianto tributario così ridisegnato, oltre a diminuire il carico fiscale dei cittadini e delle imprese, consentirebbe un decisivo rilancio di tutte le attività economiche, trasformandosi nel medio termine in un beneficio per le casse erariali. I detrattori sottolineano tre aspetti
  • sarebbe un regalo per i ricchi senza grossi vantaggi per i poveri; 
  • provocherebbe un buco drammatico di bilancio;
  • avrebbe profili di incostituzionalità, giacché il criterio generale cui si ispira il sistema tributario è quello di progressività, stabilito dall’art. 53 c. 2 della vigente costituzione.

Proviamo a orientarci in un dibattito molto serio che incide in modo immediato sulla nostra vita quotidiana, anticipando onestamente al lettore le nostre personali convinzioni, di cittadini ma anche di funzionari di lungo corso del Ministero delle Finanze, contrarie alla tassa piatta. La questione, tuttavia, è assai complessa e necessita una riflessione che non può esaurirsi in un semplice no.

Gli argomenti a sostegno o contro il nuovo sistema tributario, innanzitutto, trascurano senza affrontarla una questione di fondo: l’Italia si è spogliata della sovranità economica e di quella monetaria. Ogni politica fiscale si scontra pertanto con l’impossibilità dei governi di attuare misure non coincidenti con i meccanismi che abbiamo improvvidamente accettato. Il primo è quello del pareggio di bilancio previsto dalla riforma dell’art. 81 della costituzione, la cui revisione, invocata da alcune forze politiche (Lega, Fratelli d’Italia, sinistra radicale) è però scomparsa dai programmi elettorali.

Un secondo problema è il vincolo del rapporto del 3 per cento tra debito sovrano e deficit di bilancio statale, un cappio cui ci siamo impiccati con la complicità comune delle maggiori forze politiche e l’entusiastico assenso dei poteri forti. Silvio Berlusconi ne ha garantito il rispetto ai suoi patroni del Partito Popolare Europeo (si legge Angela Merkel) e al suo amicone Juncker, superburocrate dell’Unione Europa. Come non si possono servire insieme Dio e Mammona, non si possono diminuire drasticamente le tasse senza mettere in discussione il tragico dogma del 3 per cento.

L’Italia non ha margini di sovranità economica, tanto è vero che le leggi di bilancio vengono trattate in sede europea, o, per dirla chiara, sono scritte sotto dettatura della Troika. Secondo il sito ufficiale dell’UE, è chiamata troika” l’insieme dei “creditori ufficiali durante le negoziazioni con i paesi membri, costituito dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale”. Wikipedia, pur devotissima al politicamente (e finanziariamente) corretto ammette che si tratta di un vero e proprio “organismo di controllo informale”. Guarda un po’, milioni di europei erano pervenuti alla stessa conclusione! L’ enciclopedia digitale informa che ai membri della Commissione UE, formata da un rappresentante per ogni Stato membro, è prescritta “la massima indipendenza dal governo nazionale che lo ha indicato”. Tombola.

La sovranità monetaria è in capo alla Banca Centrale Europea, un organismo estraneo agli Stati che decide quanto denaro creato dal nulla (!!!) prestarci, stabilendo insindacabilmente anche l’interesse, l’ex tasso di sconto. La BCE, che non ha alcun obbligo di sostenere o acquistare i titoli di Stato emessi nell’Eurozona, ha sempre rifiutato, spalleggiata soprattutto dall’ordoliberalismo tedesco, l’emissione dei cosiddetti Eurobond, ovvero buoni comuni dell’eurozona. Ciò significa che una politica fiscale sgradita alle centrali finanziarie – non solo europee- metterebbe nel mirino i nostri titoli di Stato. Si riattiverebbe il ricatto dello spread, il differenziale tra gli interessi sui BOT/CCT e i titoli di altri Paesi. Berlusconi dovrebbe ricordare la losca operazione del 2011 che lo estromise dal governo innescata dalla vendita di titoli di debito italiano da parte di Deutsche Bank.

Non scordiamo che nel 1981, anno del vergognoso divorzio Tesoro- Banca d’Italia organizzato da Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, con cui venimmo posti alla mercé del sistema usuraio, il debito pubblico era il 56 per cento del PIL ed era posseduto in massima parte dai risparmiatori italiani: una partita di giro tra residenti, e che oggi, al tempo del dominio dei banchieri è al 133 per cento, è posseduto dall’arcana entità chiamata mercato finanziario e paghiamo più o meno 50 miliardi annui di interessi, qualcosa come il 12/13 per cento dell’intero gettato tributario della Stato. La spesa per interessi, da allora, secondo il sito specializzato Scenari Economici, è stata, al valore attuale, di tremila miliardi di euro, quasi sei milioni di miliardi delle vecchie lirette (abbiamo più che pagato il debito).

Secondo l’Osservatorio di Carlo Cottarelli il debito potrebbe caricarsi nei prossimi anni di ulteriori 55 miliardi legati all’acquisto, da parte del Tesoro, di prodotti finanziari derivati. L’economista bocconiano tacque accuratamente durante il suo incarico di commissario alla spesa dei governi PD, ma, se le sue rivelazioni fossero confermati, sarebbe un guaio in più; il giudizio sui comportamenti governativi sfiorerebbe la categoria dell’alto tradimento.

Berlusconi (lo zombi) rilancia ora l’ipotesi di svendita del patrimonio pubblico (?!?!) – un’operazione che per avere successo dovrebbe attestarsi su almeno 400 miliardi di euro – finalizzata a sostenere una politica di abbattimento del debito sovrano. A chi giovi un’operazione di tale portata, che non esitiamo a definire tradimento storico del popolo italiano, è fin troppo chiaro. Dunque, nessun intervento fiscale di ampia portata è possibile senza il recupero della sovranità perduta.

Comunque, il carico fiscale italiano resta intollerabile. E’ pressoché raddoppiato in mezzo secolo sino ad arrivare al 43 per cento del 2015. Il lieve calo dell’ultimo biennio sembra più un’alchimia matematica che una realtà. Le entrate tributarie italiane hanno superato i 408 miliardi. Di questa cifra, 225 miliardi sono di imposte dirette. Stiamo quindi parlando di somme enormi, tenuto conto che l’insieme di tutte le dichiarazioni IRPEF (reddito delle persone fisiche) relative all’anno d’imposta 2015, l’ultimo di cui il MEF abbia diffuso un’analisi completa, assomma all’imponibile di 833 miliardi di euro. L’imposta media effettivamente corrisposta, al netto di deduzioni, detrazioni, bonus è stata del 19,64 per cento.

La proposta di Forza Italia di Flat Tax al 23 per cento rischia di essere un’autorete, poiché prevede un’area di non tassazione fissata a 12 mila euro , che realizzerebbe forse la progressività ( elemento non eludibile in quanto costituzionalmente prescritto) ma ridurrebbe la base imponibile a 444 miliardi , con un’entrata di 102 miliardi ed un buco di 53, poiché, il gettito IRPEF assomma a 155 miliardi, il 70 per cento delle imposte dirette ( un’altra stortura italiana a danno dei piccoli e medi contribuenti !). In più, il meccanismo della no tax area così congegnato renderebbe pressoché nullo il vantaggio fiscale per milioni di contribuenti con redditi medio bassi. Autogol alla Comunardo Niccolai.

Dunque, la tassa piatta versione in salsa berlusconiana presenta difetti e difficoltà pratiche. Più organica è la proposta leghista, che prevede un’aliquota choc del 15 per cento, ma ha il merito di operare alcune profonde distinzioni tra i contribuenti. La prima prevede una deduzione fissa di 3.000 volta a garantire la progressività dell’imposta sulla base del reddito e dei membri del nucleo familiare, sino a 50.000 euro. L’altro elemento che rende interessante l’ipotesi ideata da Armando Siri è che non si tasserebbe più il singolo contribuente, ma il nucleo familiare, privilegiando quindi, finalmente, la famiglia. Concretamente, non capiterebbe più che un contribuente celibe paghi, a parità di reddito, quanto un padre o una madre di famiglia. E’ un vecchio cavallo di battaglia cattolico e della destra sociale che diventerebbe legge.

Tuttavia, anche tale ipotesi resta assai debole su due versanti: la copertura innanzitutto e la capacità di provocare il rientro in Italia di chi ha delocalizzato all’estero. L’obiettivo è infatti quello di unificare al 15 per cento anche la tassazione delle imprese. Qui, probabilmente, cade l’intero castello della flat tax. Se infatti la tassazione italiana globale sulle imprese è spaventosamente alta, sino ad inghiottire variamente quasi i due terzi dei ricavi, contro il 35,5 per cento britannico, è tuttavia vero che in questo campo i veri eroi sono i piccoli e medi imprenditori, giacché il sistema delle elusioni fiscali ammesse è impressionante, tutto a favore dei grandi. Lo stesso Antonio Martino, liberale inflessibile e primo sostenitore, già vent’anni or sono, della tassa piatta, riconosce che la grande impresa, in Italia, paga soprattutto studi professionali specializzati che riescono a ridurre enormemente il peso delle imposte.

Dunque, è più urgente una semplificazione e un abbattimento della giungla di bonus, eccezioni, detrazioni ed altre opportunità sfruttate da chi può permettersele. Martino attribuisce a Giulio Tremonti un’affermazione relativa al suo studio di consulente tributario, secondo la quale l’ex ministro, nell’ambito della privata attività professionale, avrebbe fatto scomparire in legalissime elusioni 600 miliardi di lire di imponibile dei propri clienti. Un altro osservatore non ostile al centrodestra, il professor Alberto Quadrio Curzio, nega la possibilità di applicazione della tassa piatta per carenza di copertura certa, suggerendo piuttosto di unificare le troppe tasse “sparpagliate”.

Effettivamente, in Italia si pagano, IRPEF a parte, l’IRES e l’IRAP sulle imprese, e poi TARI, TASI, IMU, ICI e mille altri balzelli , tra i quali segnaliamo per odiosità in un mondo fondato sulla mobilità, i 73,50 euro per i passaporti , il bollo auto di oltre 500 euro , rispetto alla media UE di 291, ma dal quale sono esentati i residenti della provincia autonoma di Bolzano, oltre alla tassa sui passaggi di proprietà degli autoveicoli , calcolati in maniera tale che in taluni casi si arriva a importi più onerosi del valore del mezzo. Insomma, un labirinto da cui non si esce senza impugnare la scure di interventi davvero innovativi. Peccato che, senza fuoruscire dai vincoli europei e recuperare la sovranità nazionale, ogni misura, per quante buone intenzioni abbia il legislatore, non potrà funzionare e dovrà essere accantonata.

In più, resta il nodo formidabile della tassazione indiretta, che grava indistintamente su tutti senza riguardo per il reddito. Si tratta di oltre 183 miliardi di euro: parliamo soprattutto dell’IVA, di cui non è affatto scongiurato un devastante aumento al 25 per cento, nonché delle accise, che valgono oltre 30 miliardi nel solo comparto dei prodotti energetici e dell’energia elettrica, oltre al 22 per cento dell’IVA relativa. Sì, perché, nonostante i principi generali del diritto tributario vietino la tassazione di altre tasse, l’IVA sfugge alla regola, talché su un litro di benzina corrispondiamo circa 73 centesimi di accisa e 16 di IVA sull’accisa, oltre all’imposta sul valore del prodotto. Uguale principio vale per l’IVA all’importazione, il cui calcolo è gravato dai dazi doganali, i quali peraltro sono incassati a nome dell’UE, che riconosce agli Stati esattori solo un aggio, come ai tabaccai o ai rivenditori dei bolli.

Qui sorge un altro serio dilemma tributario, giacché l’erario nazionale, tanto inflessibile con i piccoli e medi contribuenti, quelli che non si possono permettere consulenti alla Tremonti né lunghe battaglie legali in Commissione Tributaria o davanti all’autorità giudiziaria, non riesce a raggiungere i grandi contribuenti transnazionali. Protetti da società schermo e dal prevalente carattere internazionale dei beni e dei servizi trattati, finiscono infatti per pagare solo dove più conviene, o addirittura evadere totalmente il fisco. Sappiamo della lunga battaglia dell’UE contro Apple, dell’immensa elusione realizzata da Facebook, Microsoft. Google, dalle piattaforme come Amazon, Uber, Airbnb, oltre alla difficoltà di tassare il commercio elettronico (e-commerce) ma il conto fiscale alla fine lo pagano il signor Rossi, le piccole imprese, i consumatori. La stessa mitissima web tax a carico dei giganti tecnologici è un’imposta europea, farà parte, come i dazi, delle cosiddette risorse proprie dell’Unione, di cui siamo semplici esattori e, ahimè, garanti, poiché a Bruxelles i soldi li vogliono subito e non fanno distinzione tra riscosso e accertato. Abbiamo scoperto, nell’Europa, un mostro fiscale più esoso e rapace dello Stato italiano!

Il centrodestra, specie nella sua componente liberale, insiste altresì per la totale abolizione delle imposte di successione. Aléxis Tocqueville sosteneva che la libertà di uno Stato si giudica dal sistema di tassazione delle eredità, ma non poteva conoscere i sofisticati meccanismi giuridici con cui vengono trasmessi beni, titoli, azioni, patrimoni restando sostanzialmente indenni da tributi; tuttavia anche su questo tema è lecita qualche perplessità. Qualcosa va fatto, è immorale colpire chi eredita una casa, un campo, un fondo o somme modeste, ma non si possono trattare con i guanti i grandi patrimoni. Sarebbe ingiusto non solo da un punto di vista morale, ma anche in un’ottica liberale, che dovrebbe privilegiare il merito, la capacità personale sulla fortuna e la casualità dell’appartenenza a famiglie abbienti o dell’indicazione di un testatore.

Nella flat tax, dunque, sono più le ombre che le luci, e non ha torto Matteo Renzi nell’affermare che se cinque aliquote Irpef sono troppe, una è troppo poca. Non possiamo, al di là di congegni più o meno intelligenti di deduzione, detrazione, quozienti familiari, trattare allo stesso modo la vedova pensionata di reversibilità, i precari a vita e Gonzalo Higuaìn, Valentino Rossi, Fabio Fazio. Del pari, IRES e IRAP, insieme con studi di settore, redditometro e spesometro e ogni altro infernale meccanismo inventato dal redivivo conte Dracula, non devono considerare allo stesso modo le piccole imprese, i professionisti, gli artigiani, Finmeccanica, le entità finanziarie e le multinazionali.

Probabilmente, l’obiettivo più realistico, poiché nessuna forza politica intende affrontare il nodo essenziale, ossia il debito, gli interessi passivi e la dipendenza da centrali di potere che hanno azzerato la sovranità sottraendola al popolo, è quello di semplificare, disboscare, e spostare con prudenza quote di tassazione dalle imposte dirette a quelle indirette. E poi sottrarre alla macchina impersonale del fisco una parte degli enormi poteri che ha, a cominciare da Equitalia, dal dedalo di interessi, indennità, sovrattasse, automatismi che moltiplicano le somme dovute, e rivedere il sistema che pone immediatamente a ruolo tutte le somme pretese, con l’impatto economico, psicologico ed esistenziale che produce sulla vita dei cittadini (e la morte, attenzione al dato allarmante dei suicidi per motivi economici e tributari).

L’alternativa, a voler davvero applicare la tassa piatta, è, un sicuro squilibrio di bilancio nel breve periodo che produrrebbe le pesanti reazioni del “pilota automatico “chiamato troika– l’espressione pilota automatico è di uno che sa, Mario Draghi – l’esplosione comandata dell’arma letale spread, con il risultato di consegnare anche gli ultimi spiccioli a chi sta espropriando il nostro popolo, il sistema produttivo, la nazione intera. Non a caso, si parla di nuove privatizzazioni (ma si legge svendita) che impoverirebbero ulteriormente la nostra disgraziata nazione, con il trasferimento ai soliti noti, gli strozzini globali, di quanto faticosamente costruito con il sudore e il lavoro di generazioni.

Resta da stabilire se sia vera la convinzione dei sostenitori della tassa piatta secondo la quale essa abbatterebbe l’evasione e, a regime, per il grande incremento previsto delle attività economiche, risulterebbe addirittura benefica per le casse erariali. Il caso americano, con la celebre reagonomics degli anni 80, basata sulla curva di Laffer (oltre un certo livello di tassazione diminuisce il gettito per disinteresse a creare ricchezza) dimostrerebbe il contrario, poiché l’ampio programma di tagli fiscali, di cui beneficiarono soprattutto i più ricchi e la grande impresa, ha moltiplicato il debito. Negli Usa, la potenza complessiva del dollaro, il dominio globale, politico, tecnologico e militare a stelle e strisce ha evitato disastri sociali, ma la povertà di decine di milioni di americani prova che la rivoluzione liberale è radicalmente ingiusta.

Altri esempi presentati non sono persuasivi. I buoni esiti della flat tax in area baltica celano il fatto, assai grave, che la previdenza è stata privatizzata, talché i pensionati dipendono dai risultati a breve termine dei mercati finanziari su cui è piazzato il denaro dei fondi, mentre l’esempio russo risente di troppe differenze. Si può tuttavia affermare che un risparmio fiscale mal bilanciato inevitabilmente diminuirebbe la copertura sociale, previdenziale e sanitaria, con esiti infausti per il sistema Italia che spende oltre il 16,5 per cento del PIL per pensioni e destina alla sanità circa un quarto della spesa pubblica, peraltro con squilibri clamorosi nella qualità dei servizi tra le varie regioni. Un proverbio dei contadini pugliesi spiega “se non paghi a lino, paghi a lana”.

Un’ultima osservazione riguarda le evidenze statistiche. La lotta di classe c’è stata, dopo la caduta del comunismo. L’hanno vinta gli straricchi, come ha tranquillamente ammesso uno di loro, Warren Buffet. Per limitarci all’Italia, meno del 20 per cento della popolazione possiede oltre due terzi della ricchezza; i protagonisti del Ceo capitalismo, ovvero il dominio dei manager alleati con i grandi possessori di azioni, guadagnano in un giorno quanto i loro subordinati in un anno. Se il panorama è questo, è fin troppo evidente che, pur con diverse intenzioni, la tassazione ad aliquota unica beneficerà in modo straordinario la fascia di contribuenti che può pagare, cambiando marginalmente la condizione dei più. Si può forse lavorare sulla progressività finale dell’imposizione, ma non verrà rispettato il principio del sacrificio proporzionale dei contribuenti.

Resta drammatica ed inevasa la richiesta di un sistema tributario più equo, più leggero, meno pervasivo e occhiuto, caratterizzato da un numero di regole, norme, interpretazioni, meccanismi che non riempiano manuali e massimari di migliaia di pagine come accade oggi. Un venerato maestro del modello liberale, Adam Smith, scriveva che le leggi, in particolare quelle tributarie, devono essere poche e scritte in linguaggio accessibile ai più. Una riforma orientata in tale direzione sarebbe un regalo immenso al popolo italiano, ma non accadrà.

Tutti preferiscono le promesse, le acrobazie aritmetiche, il marketing elettorale teso alla cattura dei contribuenti maltrattati. Senza uscire dal circolo vizioso del debito, del dominio della finanza, dei poteri transnazionali, qualunque soluzione sarà illusione, pannicello caldo, rinvio della resa dei conti, mera sopravvivenza per continuare a lavorare per falsi creditori e autentici mentitori.
 

Evitare a tutti i costi lo zombi Berlusconi e gli euroimbecilli del Pd che hanno continuato imperterriti nella medesima direzione regalando soldi alla Deutsche Bank

Esclusivo
Così l'Italia ha regalato 3 miliardi alla tedesca Deutsche Bank

Spuntano i derivati fatti dal Tesoro italiano con l'istituto di credito. Tutti in perdita. Con tanto di beffa: un contratto del 2004 è stato ristrutturato più volte con nuove clausole capestro

di Paolo Biondani e Luca Piana 26 gennaio 2018



L'insegna di una filiale Deutsche Bank In questi anni segnati dalla crisi lo Stato italiano ha perso una cifra superiore a tre miliardi di euro in una serie di scommesse finanziarie ad altissimo rischio effettuate con Deutsche Bank. È la conclusione che si può trarre dall’esame di una serie di contratti finanziari con caratteristiche molto particolari, chiamati in gergo derivati, stipulati fra i nostri governi e il colosso bancario tedesco a partire dal maggio 2004. Accordi riservatissimi, più volte modificati almeno fino al 2015 e tuttora in vigore, ma finora mai pubblicati. Fanno parte di quel complesso di contratti derivati che da anni sono al centro di aspre polemiche proprio per l’entità delle perdite subite dall’Italia. E per la segretezza che li circonda.

Di recente due dirigenti del ministero dell’Economia e due ex ministri, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, che respingono ogni accusa, si sono visti addebitare dalla procura della Corte dei Conti di aver causato danni miliardari alle casse pubbliche attraverso alcuni derivati siglati a suo tempo con un’altra grande banca, l’americana Morgan Stanley, che all’inizio del 2012 passò all’incasso facendosi versare dall’Italia ben 3,1 miliardi di euro. Tranne questa eccezione, tutti gli altri contratti sono rimasti top secret. Nonostante le richieste di trasparenza arrivate anche dal parlamento, che vi ha dedicato in tempi recenti un’indagine conoscitiva, nessun governo ha infatti mai rivelato i nomi delle altre banche interessate e i contenuti dei contratti, trincerandosi dietro necessità di riservatezza.

Ora L’Espresso è in grado di svelarne un nuovo blocco, raccontando la genesi di una serie di accordi siglati a partire dal 2004 con Deutsche Bank. Contratti che, secondo gli esperti interpellati, rischiano di costare all’Italia più di tre miliardi di euro: la stessa somma che nel caso di Morgan Stanley fece gridare allo scandalo. Si tratta senza dubbio di numeri pesanti. Basti pensare che, per l’intero piano nazionale di ristrutturazione e messa in sicurezza delle scuole pubbliche, il governo italiano ha stanziato per il prossimo triennio circa 1,7 miliardi.

I derivati sono contratti complicatissimi che, se ben fatti, funzionano come una polizza di assicurazione. Il Tesoro ha sempre sostenuto di averli sottoscritti proprio per coprire l’Italia dai rischi finanziari. Il nostro Paese, che ha un enorme debito pubblico, corre pericoli gravissimi in caso di rialzo dei tassi d’interesse: quando crescono troppo, siamo rovinati. Di qui l’idea di assicurare le casse pubbliche con i derivati. Se i tassi superano un livello da allarme rosso, ad esempio il 5 per cento e rotti (come era previsto nel primo contratto del 2004 con Deutsche Bank, spiegato nella figura della pagina a destra), la differenza deve sborsarla la banca. Se invece gli interessi calano o crollano, lo Stato deve pagare comunque il 5 per cento e a guadagnarci è la banca.

Qui c’è il primo punto delicato: questo tipo di contratto derivato (chiamato “swap”, cioè scambio di tassi d’interesse: lo Stato paga un fisso e riceve un variabile) a detta di molti esperti assomiglia più a una scommessa che a una polizza assicurativa. Quando assicuriamo la nostra automobile, ad esempio, paghiamo un prezzo determinato e certo fin dall’inizio: in cambio, è la compagnia che si accolla il rischio di dover pagare il conto in caso di incidenti. Con questi “swap”, invece, il costo è incerto e il rischio resta distribuito tra le due parti: se i tassi vanno nella direzione opposta rispetto a quella su cui si è puntato, le perdite possono arrivare a cifre astronomiche. Quindi i derivati in questione assomigliano più a una scommessa finanziaria su come si muoveranno i tassi futuri. Una scommessa che, nel caso di Deutsche Bank, si è rivelata disastrosa per lo Stato italiano.

L’Espresso ha potuto esaminare, in particolare, le caratteristiche dei derivati stipulati con l’istituto tedesco dal 2004 fino al 2015. Si tratta, per la precisione, dello swap originario e di sei contratti di ristrutturazione, che via via modificano gli accordi iniziali, fino a stravolgerli. I cambiamenti sono sostanziali. Il primo derivato legava il Tesoro e la banca per un periodo di tempo molto lungo, fino al 2034. In seguito questo termine è stato prima abbreviato radicalmente, fino al 2017, ma poi riallungato, questa volta fino al 2023. Con queste modifiche sono state introdotte nel tempo anche delle opzioni, esercitabili sempre e soltanto da Deutsche Bank: è la banca a poter decidere a suo piacimento di allungare la durata dei contratti o di aumentare il valore assoluto dei pagamenti. Una clausola che solleva una questione cruciale: perché il Tesoro, guidato in tutto questo arco di tempo dalla responsabile della direzione debito pubblico Maria Cannata, che aveva la specifica competenza sui derivati, ha accettato contratti così favorevoli al colosso tedesco? E che posizione hanno tenuto i tre direttori generali che si sono succeduti con i diversi governi? Si tratta degli stessi Siniscalco e Grilli, poi promossi ministri, seguiti infine da Vincenzo La Via.

Per valutare gli effetti di questi contratti, L’Espresso li ha sottoposti a una docente di fama internazionale: Rita D’Ecclesia, che insegna Finanza Quantitativa alla Sapienza di Roma e alla Birkbeck University di Londra. La sua premessa è che calcoli troppo precisi sono impossibili, perché servirebbero informazioni che nei contratti non vengono fornite, come l’esatto momento dell’esecuzione: «Anche uno spostamento di qualche ora può modificare la reale quantificazione dei flussi d’interessi da corrispondere fra le due parti». Detto questo, l’esperta di matematica finanziaria calcola che, fra il primo contratto del 2004 e l’ultimo accordo conosciuto della primavera del 2015 (quando Deutsche Bank comunicò al governo italiano l’esercizio di un’opzione, che permetteva alla banca di accendere un ulteriore contratto, con scadenza 15 ottobre 2017), questi derivati si siano tradotti in un vero salasso per lo Stato. L’esborso netto è stimabile, solo per questo periodo, «in una cifra compresa fra 1,1 e 1,3 miliardi di euro».

E poi? Che cosa è accaduto dal 2015 a oggi, e che cosa succederà da qui al 2023, quando matureranno le ultime scadenze dei contratti esaminati? I dati disponibili, fermi appunto a tre anni fa, permettono agli esperti di quantificare ulteriori pagamenti molto ingenti. Gli addetti ai lavori utilizzano un indicatore tecnico, chiamato in gergo “mark to market”. Quello dei derivati con Deutsche Bank, alla data dell’ultimo contratto (aprile 2015) risultava negativo, per l’Italia, per 2 miliardi e 250 milioni. Insomma, tra i versamenti già effettuati fino al 2015 e quelli prevedibili per i prossimi anni, non c’è il rischio di sbagliare troppo se si afferma, come spiega la professoressa D’Ecclesia, che «il costo netto a carico dello Stato sia valutabile complessivamente in oltre tre miliardi».

Questa stima è valida, ovviamente, solo a condizioni che i contratti, dopo il 2015, non siano stati ulteriormente modificati (in peggio o in meglio) con altre clausole riservate, come già avvenuto in passato. Questo è un punto importante. A saltare agli occhi, infatti, è proprio il progressivo stravolgimento delle condizioni contrattuali. L’accordo iniziale del 2004, stando alle valutazioni tecniche, non era così squilibrato. L’Italia aveva addirittura qualche probabilità in più di vincere la scommessa rispetto a Deutsche Bank: 54 per cento, contro 46. Ma la posta in gioco era sbilanciata dall’inizio. Nella media dei casi prevedibili, infatti, lo Stato italiano avrebbe potuto incassare 360 milioni, mentre l’istituto tedesco, in caso di vittoria, poteva sperare fin dall’inizio in profitti più elevati: circa 460 milioni. Nella realtà, però, l’evoluzione effettiva dei tassi d’interesse ha subito dato torto al Tesoro, che ha iniziato a perdere soldi fin dalle prime scadenze, pagando ogni sei mesi pesanti interessi. C’è solo un momento in cui la situazione migliora: nel primo semestre 2009 i tassi risalgono fino al livello che permette allo Stato di non rimetterci troppo. Ma proprio allora il governo italiano accetta di varare la prima ristrutturazione.

Non sarà l’unica modifica delle condizioni contrattuali: dal 2010 al 2014 ne seguiranno altre cinque, al ritmo di una l’anno. I risultati sono sempre più negativi per l’Italia. E sempre più vantaggiosi per Deutsche Bank. Tra il 2010 e il 2012, stando alle valutazioni effettuate da Rita D’Ecclesia sulla base delle informazioni disponibili, la banca tedesca riesce ad azzerare ogni rischio di perdere la scommessa con lo Stato. Una strategia del tutto logica, dal punto di vista dell’istituto di Francoforte. Più difficile spiegare il perché di queste scelte per il Tesoro e per i governi dell’epoca. L’unica risposta che si può ricavare dai dati disponibili è preoccupante: con quelle modifiche, il ministero ha ottenuto uno sconto sugli interessi da pagare nell’anno in corso, ma ha aggravato il debito totale, da versare alla scadenza finale. Invece di disinnescare la bomba dei derivati, si è allungata la miccia, aggiungendo altri carichi di esplosivo. Fino ai tre miliardi in scadenza entro il 2023.

Deutsche Bank è lo stesso istituto che, per tutt’altri motivi, è finito al centro di un’inchiesta giudiziaria che riguarda una massiccia operazione sui titoli di Stato italiani avvenuta nel 2011. Tra il primo gennaio e il 30 giugno di quell’anno la banca tedesca aveva ridotto la propria esposizione sui titoli del debito pubblico italiano, tagliandola da 8 miliardi a soli 996 milioni di euro. L’istituto di Francoforte lo comunicò al mercato il 26 luglio 2011: un annuncio che contribuì ad alimentare la crisi di fiducia nell’Italia. Nei giorni successivi lo spread (cioè la differenza tra i tassi d’interesse italiani e quelli tedeschi) superò per la prima volta la soglia dei 300 punti base. Nel corso di un’indagine per manipolazione di mercato iniziata dai magistrati di Trani e poi trasferita a Milano, è emerso ora un retroscena rimasto per anni inedito: quello stesso 26 luglio 2011 - cioè quando Deutsche Bank sembrava annunciare la fuga dall’Italia, pubblicando i dati di bilancio del 30 giugno precedente - il gruppo tedesco aveva in realtà già ricomprato una grossa quota di titoli italiani. Questa notizia giudiziaria, pubblicata nel dicembre scorso dall’Espresso , è stata utilizzata da importanti esponenti del centro-destra per suffragare la teoria di un complotto tedesco contro il terzo governo di Silvio Berlusconi. Che nell’autunno 2011 fu sostituito da Mario Monti, quando lo spread aveva ormai scavalcato anche la soglia dei 500 punti. L’ex ministro Renato Brunetta ha parlato addirittura di «colpo di Stato».

vedi anche:
Deutsche Bank affonda l'Italia: l'inchiesta che ha riaperto le polemiche

Ecco la vera storia dell'operazione condotta nel 2011 dal colosso di Francoforte sui titoli di Stato italiani. Che fece gridare alla fuga degli investitori internazionali dal 'rischio Italia'. Ora però emerge un'altra verità: quando l'istituto annunciò di aver venduto gran parte dei Btp, in realtà li stava già ricomprando. La procura di Milano indaga

La teoria del complotto, però, sembra appartenere alla campagna elettorale, più che alla realtà economica. Il capo di Deutsche Bank in Italia, Flavio Valeri, di fronte alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, ha ricordato che tra gli azionisti della banca di Francoforte il governo tedesco non c’è. I primi tre soci erano nel 2011 (e sono ancora oggi) investitori internazionali: cinesi, americani e qatarioti. Difficile ipotizzare un complotto politico con mandanti così variegati. Più probabile che i vertici dell’epoca di Deutsche Bank (poi rimossi) seguissero la logica della finanza di ogni latitudine: e cioè quella di massimizzare i profitti.

La teoria del complotto si scontra anche con altri dati di fatto, documentati proprio dai derivati di Deutsche Bank ora svelati dall’Espresso. Il primo contratto, l’accordo-base che apre la strada a tutti gli altri, viene infatti siglato il 17 maggio 2004. Quando il capo del governo italiano era Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti ricopriva il ruolo di ministro dell’Economia. Ma non basta. Le prime tre decisive ristrutturazioni sono datate luglio 2009, novembre 2010, giugno 2011. Chi era il premier? Ancora Berlusconi. E il ministro dell’Economia? Tremonti. A questo punto resterebbe da capire perché mai Deutsche Bank avrebbe dovuto tramare proprio contro il governo che le aveva appena regalato quei contratti d’oro. 

e ci credo che Macron e i suoi amici tedeschi tifano Gentiloni dove lo trovano più un servo del genere? La politica estera è il fiore all'occhiello di ogni Nazione questa Europa l'ha completamente delegata agli Stati Uniti, solo i propri orticelli nessuna visione globale

COSA COMPORTA PER NOI “PIU’ EUROPA”

Maurizio Blondet 25 gennaio 2018

Berlino vuole accontentare Macron: grande unione dell’asse franco-tedesco, rilancio concordato della zona euro e via strombettando (il francese). Macron vuole almeno qualcosa da mostrare: un dispositivo europeo di assicurazione dei depositi bancari dell’eurozona, farebbe un bel vedere. I tedeschi hanno sempre rifiutato, ovviamente, perché non vogliono “condividere il rischio con gli altri; prima, hanno sempre detto, voi “riducete il rischio” (che noi dobbiamo rifondere i depositanti delle banche italiane), e “poi” noi aderiamo. Restando, s’intende, sempre sul vago quanto a precisare come e quanto.

Adesso Peter Altmaier, il ministro delle finanze tedesco (ad interim), ha precisato: ha dettato quattro condizioni che dovranno essere riunite perché la Germania si degni di partecipare all’assicurazione euro dei depositi.

Nelle banche altrui,
  • l’ammontare dei prestiti andati a male (NPL, non performing loans) dovrà essere diminuito
  • la quantità di titoli sovrani del paese cui la banca appartiene, tagliata decisamente
  • la definizione di insolvenza dovrà essere uguale in tutta la zona euro
  • e le banche dovranno avere abbastanza fondi propri da applicare la regolamentazione del bail-in.
Si tratta di quattro norme che sembrano pensate apposta contro le banche nostre, e quindi l’economia italiana. Le nostre banche sono piene di crediti deteriorati; da mesi la BCE ci fa’ fretta – il che significa svendere a 20 quel che vale 50. Le nostre banche hanno titoli di Stato: la Germania esige che noi (s)vendiamo i Btp e compriamo anche i titoli dello Stato tedesco, i Bund. Gli accantonamenti enormi di fondi propri tramite aumenti di capitale agli azionisti, provocherebbero il tracollo definitivo dell’economia italiana. “Se accettiamo tali richieste, lo spread esploderà di nuovo come nel 2011, e pagheremo tanti interessi sul debito anche qualora chiudessimo la metà degli ospedali pubblici”, ha spiegato l’economista Andrea Del Monaco sul Giornale. Il quale ha raccontato anche come i nostri governi hanno sempre addirittura anticipato i desideri di Berlino e Parigi, per mostrare il proprio zelo europeista (la propria euroimbecillità). Per esempio abbiamo, sulle banche spagnole, “ francesi e tedeschi erano esposti per 200 miliardi, noi per 20. Il salvataggio indiretto delle loro banche avrebbero dovuto pagarlo loro”. Invece «Merkel e Sarkozy ci chiesero un contributo agli strumenti Salva-Stati pari alla nostra chiave di contribuzione alla Bce”, e noi sborsammo. “noi”, cioè i governi non-eletti sostenuti dal PD (l'euroimbecillità di questo partito è conclamata da anni).

Adesso il rischio è che il governo Gentiloni, così bravo a prendere decisioni politiche gravi dettate dai padroni globali mentre dovrebbe limitarsi all’amministrazione corrente (vedi truppe in Niger), si affretti – prima di perdere il governo – ad eseguire le quattro condizioni di Altmaier, inchiavardandoci – e inchiodando il governo prossimo, che non sarà “loro” – ad impegni rovinosi. Come del resto lorsignori hanno sempre fatto dal 2011.



Il ministro francese Bruno Le Maire ha fissato il mese di giugno prossimo per arrivare al’armonizzazione fiscale e l’unione bancaria, come fosse nulla; questa fretta è sospetta, se si ricorda che è una francese Danièle Nouy, è quella che ha dato la linea durissima sulle banche italiane e i crediti deteriorati: svendere svendere svendere da gennaio, aveva ordinato, adesso da marzo. Per far passare le elezioni italiane. Il sospetto che sia in fieri un trucco come quello che fecero Merkel e Sarko quando ci fecero pagare i loro investimenti sbagliati in Spagna e in Grecia, è più che probabile.
I tedeschi chiedono aumenti. Il governo Merkel periclita.

Anche perché, attenzione, i tedeschi non si affrettano. Anzitutto, Altmaier è ad interim. Il governo della grande coalizione SPD-CDU, Merkel e Schulz, è tutt’altro che solido e affidabile, ed avrà tutte le scuse pronte per non adempiere ai suoi impegni, mentre pretenderà l’adempimento dei nostri.

 
La GrosseKoalition condannata all’inazione.

Il partito di Schulz, che ormai è sceso nei sondaggi fino ad avere più o meno i voti della destra AfD (17-18% ) dovrà vedersela con quella parte della sua base elettorale socialdemocratica, che è rappresentata dai sindacati. Dopo decenni di moderazione salariale, la IG Metall (3,9 milioni di operai dell’industria metallurgica, auto ed elettrica) ha cominciato a chiedere un aumento salariale del 6% e la settimana lavorativa da 35 a 28 ore. Che fare? SPD e CDU non hanno un accordo su questo, nel difficilissimo negoziato hanno messo da parte la questione salariale. Per adesso Merkel e Schulz hanno svicolato scaricando il barile sulle “parti sociali”. Ma dalla fine febbraio si apre la vertenza dei sindacati del pubblico impiego, dove la “parte sociale” è il governo. La federazione dei pubblici dipendenti (DBB) reclama “un chiaro e reale aumento” degli stipendi e la riduzione dell’orario nella funzione pubblica da 41 a 39 ore settimanali. La Deutsche Post è alle prese con un suo sindacato che esige l’aumento del 6%, e la possibilità di convertire parte di questi aumenti in riposi supplementari, come ha già ottenuto il personale di Deutsche Bahn (ferrovie) nel 2016.

Come si ricorderà, la Germania ha avuto anche quest’anno un surplus commerciale di 287 miliardi, il più alto del mondo: ottenuto anche con il dumping salariale dei propri lavoratori. Sembra anche questi, finalmente, si siano svegliati e vogliano la loro parte. Benissimo, ma sarà un’ottima scusa da Berlino per non adempiere alla sua parte nell’Unione bancaria e monetaria. Non vedete che devo spendere per pagare i lavoratori? E sto perdendo competitività!

Anche la Merkel ha un problema in più: di punto in bianco, Wolfgang Schauble, che dopo essere stato ministro delle finanze è oggi presidente del Parlamento, ha preso le distanze sulla questione dei migranti dalla Cancelliera. Più precisamente dalla ingiunzione agli altri paesi di prendersi le loro “quote”. Appena da una settimana Angela Merkel ha rimproverato il cancelliere austriaco Kurz, di non mostrare abbastanza “solidarietà” rifiutandosi di accollarsi la sua quota. Ma l’unità dell’Europa è più importante che la redistribuzione, ha detto a sorpresa Schauble in un’intervista alla FAZ. Questa svolta – – che evidentemente sa che Angela ormai è un morto che cammina (come lo zombi Renzi e Berlusconi) – crea un problema in più alla “grande” coalizione. Nel faticoso negoziato, o SPD (Schulz) ha preteso che non si ponesse un limite superiore alla “accoglienza”;la CSU bavarese vuole questo limite.

L’ostinazione di Mutti di voler prolungare la vita della Grande Coalizione oltre la sua esistenza naturale, per restare al potere senza una sola idea nuova, con una popolarità al minimo che si riduce ogni giorno, pone le basi per un incartamento senza fine del supposto paese-guida.

Temo che resteremo i soli ad essere pieni di zelo in Più Europa.

Interessante vedere come in politica estera, nonostante la rivendicazione di Mutti di una presenuta autonomia da Trump, Più Europa”significa Più Sanzioni a Russia e Iran.

L’ENI ha interrotto le perforazioni nel Mar Nero per le sanzioni

Lo ha detto Emma Marcegaglia al Forum di Davos. In un primo tempo avevamo ricevuto l’approvazione Usa, ha detto, ma ora dobbiamo smettere perché Rosneft (la socia russa) è stata colpita da nuove sanzioni e “Noi dobbiamo rispettare le normative statunitensi perché siamo quotati anche in Usa”.

Usa istiga Danimarca a bloccare il Nord Stream 2

Contro la “dipendenza energetica dell’Europa da Mosca” (e per creare la dipendenza europea dal GPL americano) i diplomatici Usa stanno istigando tutti gli stati del Nord Europa contro il raddoppio del gasdotto sotto il Baltico. Siccome Berlino non obbedisce, il diplomatico del Dipartimento di Stato addetto alla zizzania intra-europea, Aaron Wess Mitchell (j) ha istigato la Danimarca ad opporsi: infatti la pipeline passa per un tratto sotto il mare danese .

La Gran Bretagna, nonostante il Brexit, continuerà a mantenere le truppe in Germania, “a causa del pericolo russo”.

Gli Usa hanno il programma di piazzare in Italia le nuove testate atomiche B61-12, «armi nucleari di bassa potenza» utilizzabili anche in conflitti regionali o per rispondere a un attacco (vero o presunto) di hacker ai sistemi informatici. Le B61-12, che sostituiranno le attuali B-61 schierate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, rappresentano — nelle parole del Pentagono — «un chiaro segnale di deterrenza a qualsiasi potenziale avversario, che gli Stati uniti posseggono la capacità di rispondere da basi avanzate alla escalation». Nel rapporto del Pentagono, che il senatore democratico Edward Markey definisce «roadmap per la guerra nucleare», c’è dunque in prima fila l’Italia”, scrive Dinucci .

I paesi occidentali stanno scatendando la guerra economica contro la Russia per ottenere il cambio di regime”, ossia la caduta di Vladimir Putin, ha detto a Davos Andri Kostin, il capo della seconda più grande banca della federazione, VTB Bank.

https://themoscowtimes.com/news/west-is-waging-economic-war-russia-regime-change-bank-ceo-60266

Guerra “solo economica”? Il dottor Kostin è ottimista.



La UE si rimangia l’accordo sul nucleare con Teheran

Vi aspettate una qualche “autonomia” della UE su questo piano? Disilludiamoci. La Casa Bianca nuova vuole mantenere la sanzioni all’Iran, rimangiandosi gli accordi sottoscritti da Obama. Sembrava che la UE – anch’essa garante degli accordi – avesse preso le distanze dagli Usa, e non partecipasse più alle sanzioni anti-Iran.

Invece no. Adesso vien fuori che sì, la UE riconosce che Teheran tiene fede al suo programma di rinuncia all’arricchimento dell’uranio, però viola l’accordo in un altro modo: dispone infatti di missili balistici intercontinentali “intrinsecamente capace di portare testate nucleari (che non ha).

Conclusione in tre lanci d’agenzia. 4 dicembre 2017: “Francia e Germania esigono da Teheran che rinunci al programma missilistico”. 20 gennaio: “La Germania valuta nuove sanzioni contro l’Iran”, con questa incredibile spiegazione “Berlino sta facendo lobby fra gli alleati europei perché accettino nuove sanzioni contro l’Iran nel tentativo di prevenire il presidente Donald Trump dal terminale l’accordo internazionale con Teheran” (ciascuno apprezzi la logica del “ragionamento” europeo: aggraviamo le sanzioni per far vivere l’accordo – tipico di Mogherini). Il 22 gennaio

: La Francia: l’Iran non rispetta la lettera Onu sui missili balistici”

Questo significa Più Europa. Significa precipitare la guerra vera, perché stracciare con tale pretesto l’accordo con l’Iran , obbliga l’Iran a riprendere il proprio programma nucleare, perché ormai l’accordo è nullo e vuoto. Quel che vuole Sion. La nota lobby ha ben lavorato, in UE. Più Europa.

http://www.moonofalabama.org/2018/01/calls-upon-trickery.html#more