L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 3 febbraio 2018

Niger - Cosa ci stiamo a fare nel Sahel, Gentiloni c'è lo spieghi

ANALISI
La missione italiana in Niger fa gli interessi della Francia

In teoria andiamo in Africa a bloccare i migranti. In pratica faremo soprattutto un favore a Macron. Perché i "cugini" d'Oltralpe hanno nella regione fortissimi interessi economici

DI ALBERTO NEGRI 02 febbraio 2018


Ogni volta che l’Italia è coinvolta in una missione militare ricordiamoci dell’Iraq, della Somalia e dell’Afghanistan. Non siamo autonomi. In Somalia nel’92 gli Usa non ci davano neppure il permesso di atterrare a Mogadiscio. Come ex potenza coloniale non eravamo graditi. In Libia francesi, americani e britannici nel 2011 hanno bombardato Gheddafi senza farci neppure una telefonata. I nostri alleati, che sono anche dei concorrenti, ci rammentano, sempre che abbiamo perso la guerra.

In Iraq nel 2003, mandati allo sbaraglio, abbiamo subito l’attentato di Nassiriya. In Afghanistan, nella polvere gialla di Herat, abbiamo perso decine di uomini e poi abbiamo smesso di effettuare missioni di combattimento, perché di quello si trattava. Bisogna esserci stati, e non una volta sola, per capire di cosa si parla. Il resto sono fesserie di esperti che giocano a tavolino con i soldatini di piombo.

Vediamo cosa ci aspetta dal Niger. Cosa avremo in cambio da Parigi? Macron sarà meno attento alle ambizioni di Khalifa Haftar o in Libia ci dovremo affidare a Putin, che ha firmato accordi militari con l’egiziano Al Sisi?

Con la missione in Niger facciamo i nostri interessi, turare le falle sulle rotte dei migranti, ma anche quelli di Parigi, come si era già capito al vertice euro-africano di Abidjan, preceduto da un viaggio di Gentiloni nel continente che con l’Eni aveva firmato contratti a tutto spiano nel gas. Qualche cosa ogni tanto porta a casa anche l’Italia, primo investitore europeo in Africa nel 2016 grazie al settore energetico.

Certo guerra e diplomazia in questi anni ci offrono bilanci meno brillanti. Dopo che nel 2011 l’ex presidente francese Sarkozy fece sprofondare di mille chilometri la frontiere della Libia nel Sahel, distruggendo con americani e britannici il regime di Gheddafi, adesso l’Italia si prepara a dare una mano anche a Parigi, che ha già migliaia di soldati sul terreno.

Emmanuel Macron

Con un sistema militare che ha preso le mosse dall’intervento in Mali del 2013 contro al-Qaeda, Parigi ha organizzato un ritorno in forze di “Francafrique”. La Francia oggi ha 7 mila militari in Africa e oltre a Gibuti ha una presenza importante in Senegal, Gabon, Costa d’Avorio e un ruolo decisivo tra il Mali, il Niger il Ciad e il Centrafrica. Insomma i nostri 470 militari in Niger sono un discreto contingente ma in posizione ancillare rispetto alla Francia: non bisogna risentirsi ma prenderne atto.

In Niger l’Italia fornirà supporto al governo «nell’ambito di uno sforzo europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area»: ecco perché abbiamo avuto il via libera da Washington a ridurre i contingenti in Afghanistan e in Iraq.

Cosa andiamo a fare è chiaro solo in parte. È un contingente nutrito per addestrare l’esercito nigerino ma non così consistente per i controlli alle frontiere. Nel primo caso si tratta di una missione “no combat”, nel secondo invece i rischi sono sicuramente maggiori.




L'iniziativa militare decisa da Gentiloni è piena di rischi e di ombre. E uranio, petrolio, gas naturale, oro e diamanti presenti nel sottosuolo fanno gola a molti Inoltre andiamo su un terreno “arato” da altri. La Francia ha appena lanciato una nuova operazione insieme ai Paesi del G-5 (Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania). Coordinate dai militari francesi dell’Operazione Barkhane, le truppe si concentreranno in una zona nevralgica ai confini tra Burkina, Niger e Mali.

Il contingente italiano si muoverà - se si muoverà - in un’area affollata e dove si combatte. All’inizio comunque sarà il nuovo governo a decidere l’aumento della presenza militare. Così come l’Italia intensificherà la presenza in Libia di supporto al governo Sarraj e manderemo un mini-contingente in Tunisia sotto comando Nato. Due paesi chiave questi per il contrasto alle infiltrazioni jihadiste, oltre che per i flussi dei migranti.

Per la Francia la regione ha un’importanza strategica fondamentale. Un’area in cui ha profondi interessi legati alle materie prime. La Total, per esempio, mette a bilancio in Africa un terzo della sua produzione mondiale di petrolio. Soltanto in Niger la società francese Areva estrae il 30 per cento dell’uranio per le centrali nucleari. Uranio e petrolio del Sahel sono pilastri della geopolitica francese in Africa.



Un territorio immenso diviso tra 8 Stati, dove la povertà gioca un ruolo cruciale. Insieme al controllo di trafficanti e terroristi. Un fronte caldo per l’Europa Poi ci sono le armi. La Francia nel 2016 è stata il secondo esportatore di armi nel mondo dopo gli Usa e il Sahel è uno dei suoi clienti di riguardo, anche se ovviamente meno redditizio delle monarchie del Golfo.
Ma quello che interessa ancora di più è la posta finanziaria, il motivo per il quale Sarkozy volle colpire Gheddafi. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi voleva sostituire il Franco Cfa con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi.

Il Franco delle Colonie Francesi d’Africa creato in contemporanea con gli accordi di Bretton Woods nel 1945, è una moneta imposta a 14 ex colonie francesi. Le ex colonie hanno il 70 per cento delle loro riserve depositate al Tesoro francese. La Francia ha anche il potere di determinare quanti franchi Cfa si stampano. Le tiene, insomma, a guinzaglio.

Il presidente francese Emmanuel Macron è stato chiaro con i leader africani: «Se non vi sentite felici nell’area del franco Cfa lasciatela e fatevi la vostra moneta. Ma se rimanete smettetela di fare dichiarazioni demagogiche imputando al franco Cfa i vostri fallimenti e indicando nella Francia l’origine dei vostri problemi».

“Sono il signor Wolf e risolvo problemi”: così si è presentato Macron in Africa, come il personaggio di Pulp Fiction di Tarantino. Peccato che prima di lui qualcuno di problemi ne abbia creati e anche grossi, pure a noi.

Mauro Bottarelli - La Strategia del caos e della Paura si interseca con il mondo del lavoro e i nuovi schiavi sono pronti per essere serviti da qui acquista sempre più forza il Pensare altrimenti di Diego Fusaro

SPY FINANZA/ Il "modello Amazon" pronto a livello globale

Ci sono dei segnali piuttosto preoccupanti a livello globale: sembra si possa andare verso un mondo in cui le rivendicazioni dei cittadini non saranno più un problema. MAURO BOTTARELLI  

03 FEBBRAIO 2018 MAURO BOTTARELLI

Lapresse

Prima, un piccolo aggiornamento, visto che vi ho resi partecipi delle mie disavventure mediche. Le due piccole operazioni propedeutiche che dovevo sostenere sono passate, ho retto: ora c'è la parte più difficile, far passare fra queste quattro mura poco ospitali il fine settimana e attendere l'esito che mi verrà comunicato lunedì. Molto, anzi tutto, dipende da quello: di fatto, finora si è scherzato: quale tipo di battaglia ci sarà da combattere è ancora da scoprire, ma già essere uscito egregiamente dalle prime due prove, tutt'altro che scontate, un po' di forza me l'hanno data. Così come il vostro affetto e la vostra vicinanza. Per questo, grazie. 

Ora, basta con i bollettini medici e l'autoreferenzialtà. Non sono in forma smagliante, quindi non attendetevi i soliti papiri di analisi con numeri, percentuali e cifre, visto che da tre giorni sono fuori dal mondo, ma, proprio per questo, voglio porre l'accento su un articolo uscito lunedì sul Corriere della Sera e del quale mi pare si sia parlato troppo poco. Il titolo è esplicativo: Inflazione, i dubbi degli economisti sul target del 2%. Di per sé, per quanto mi riguarda, siamo già alla follia pura. Dopo sei anni di delirio monetarista espansivo, dopo un fiume di soldi a livello globale iniettato dalle Banche centrali in un sistema totalmente esangue, ma al tempo stesso esposto a un livello debitorio di leva che tramuta il 2007 in una passeggiata nel parco, ecco che qualcuno comincia a dire che quel mitologico target inflazionistico in nome del quale si sono giustificati tre cicli di Qe della Fed più Operation Twist, l'Abenomics della Bank of Japan, il Qe temperato della Bank of England, quello ancora in atto della Bce con il suo addentellato vitale dell'acquisto di bond corporate e la continua operatività creditizia della Pboc cinese, forse non è più valido. Forse, esattamente come per le valutazioni fatte finora, ci siamo sbagliati

E ad aprire a una revisione critica, infatti, è in primis il Fmi con la sua numero uno, Christine Lagarde, la quale da Davos ha chiaramente detto che nuovi criteri valutativi non sono affatto da escludere. C'è però un problema. Per quanto mi riguarda, non avevo certo bisogno della Commissione d'inchiesta sul sistema bancario per rendermi conto del fatto che spesso controllori e regolatori sono i primi da controllare e regolare. Certo, avere delle conferme è importante, ma si sa che l'uomo, in quanto tale, è fallace per sua natura: nessuno è perfetto, a parte il Padreterno. Non stupisce, quindi, che il più fallace degli organi, il Fmi, apra chiaramente all'ennesima messa in discussione dei suoi dogmi, i quali sono stati pagati sulla pelle dei cittadini e delle economie che hanno avuto la sventura di incrociarli sulla loro strada sotto forma di Troika: pagheranno mai per i loro errori? E io non chiedo la galera, né la pubblica gogna: voglio però delle scuse e la loro messa al bando da un contesto che dimostrano di non conoscere o di conoscere in base a criteri ormai desueti. Nessuno è obbligato a sapere tutto, ma se le tue scelte e decisioni vanno a impattare sul destino di nazioni e migliaia di cittadini o sai come fai e dici o vai a fare altro: altrimenti smettiamola di parlare di "tecnici", professori, meritocrazia, ecc. 

C'è però qualcosa di ancora più inquietante, all'interno di quell'articolo: a mettere platealmente in discussione quel parametro del 2% è stato l'esperto cinese Zhu Min, a detta del quale «le nuove tecnologie hanno ridotto i costi delle transazioni», quindi è assurdo fare ancora riferimento a un tasso di costo del denaro che è stato superato dalle nuove dinamiche in atto e da quelle che si stanno affacciando, vedi robotica, Intelligenza artificiale e quant'altro. Insomma, prendendo a prestito la famosa metafora usata da Matteo Renzi nei confronti dell'approccio della Cgil alle questioni del lavoro, anche sull'inflazione stiamo cercando di mettere un gettone dentro l'iPhone per farlo funzionare? 

Non è da escludere, ma c'è qualcosa che deve farci paura: perché proprio la Cina avanza questa critica? Non so se lo sapete, ma nel Paese del Dragone non esiste soltanto il misuratore classico dell'inflazione, l'indice Cpi core e non core, ma anche uno meno ortodosso ma decisamente pratico, la cosiddetta pork inflation, ovvero la valutazione del costo della vita - e quindi del potere d'acquisto dei salari - in base al prezzo della carne di maiale, principale ingrediente della dieta dei cinesi. Da lì capiamo molto, perché non è affatto detto che inflazione reale e percepita siano corrispondenti. Di più, spesso sono inflazione reale e ufficiale a divergere e molto. Quel misuratore è il primo che la politica va a vedere, perché è anche il termometro della sostenibilità sociale di determinati processi produttivi di iper-produzione, quelli che negli ultimi decenni hanno progressivamente permesso a Pechino di vedere il proprio Pil crescere in totale decoupling da quello mondiale, esportando però nel contempo deflazione in tutto il mondo, in primis nell'unico mercato abbastanza grande e volenteroso di accettare tutte le merci che la Cina vuole esportare: gli Usa. I quali, a loro volta, necessitano da un lato della Cina come detentore principale del loro debito e dall'altro di una valvola di interscambio che garantisca un equilibrio bilaterale nel commercio tale da non mettere in discussione il benchmark di valuta mondiale del dollaro, bypassando l'euro e l'eurozona, potenzialmente il primo mercato al mondo. 

Ora, però, gli equilibri stanno cambiando. La Cina sta forzando le tappe per un apprezzamento dello yuan nello status di valuta globale, sia attraverso la denominazione dei futures petrolieri, sia attraverso l'accesso del renminbi nelle detenzioni delle Banche centrali, vedi l'annuncio in tal senso della Bundesbank la scorsa settimana. Ecco quindi arrivare i primi dazi punitivi voluti da Donald Trump e annunciati proprio prima di Davos, di fatto l'ennesimo allarme misto a minaccia verso l'avversario numero uno che, giocoforza, ancora non si può attaccare frontalmente. Ma, contemporaneamente, ecco arrivare anche l'assist di Zhu Min: cosa presuppone, infatti, in assoluto come conditio sine qua non l'assunto del rinomato e sempre più in auge economista cinese? Un Paese in cui la pace sociale segue il principio cardine che in questi anni è stato applicato al denaro a pioggia delle Banche centrali: la presenza costante, la non messa in discussione, il superamento stesso del principio di contrapposizione. In parole povere, per ottenere ciò che viene auspicato, occorre per prima cosa eliminare la pork inflation, quando parliamo di Cina: i salari subiranno un calmieramento di Stato, non esisterà spazio alla rivendicazione in tal senso, il potere d'acquisto non sarà una dinamica di cui tenere conto, ma soltanto un calcolo empirico da studioso. 

Certo, lo Stato sarà così intelligente da tirare la corda fin che può, alternando sapientemente bastone e carota, ma non ci sarà più la terza dinamica di cui tenere conto: serve una società di neo-schiavi per ottenere la società perfetta a livello di produttività, per fare spazio a robotica e Intelligenza artificiale occorre portare alla residualità l'idea stessa di forza lavoro salariata, in primis non contemplandola più in maniera così dirimente all'interno del calcolo inflazionistico. L'uomo diviene giorno dopo giorno sempre più un ostacolo, quindi occorre fare una scelta: continuare un calcolo desueto destinato a scontrarsi con realtà come quella statunitense, dove a fronte di dati occupazionali record contempliamo un livello di partecipazione alla forza lavoro bassissimo, una componente demografica molto alta e una stagnazione salariale ormai pluri-trimestrale oppure inventarsi scuse estremamente dotte, a livello empirico ma che alla fine si limitano alla presa d'atto che il valore salariato inteso come componente sociale va rivisto nel suo dato percentuale di incidenza. 

Quando, insomma, economisti e governi decideranno a tavolino i target delle loro politiche, avranno paradossalmente un elemento di disturbo in meno: l'uomo con le sue esigenze e rivendicazioni. E attenzione, perché queste ultime già oggi in Cina sono praticamente a zero, quindi non aggregabili come variabili all'interno di calcoli e proiezioni macro: certo, quando il prezzo della carne di maiale sale troppo, interviene lo Stato per calmierarlo, ma la dinamica è quella in base alla quale si attende fino all'ultimo, fino al punto di non ritorno della rivendicazione. Può una società come quella europea entrare anche soltanto formalmente in un'ottica simile, partendo dalla Rivoluzione francese e arrivando alle varie conquiste ottenute negli anni, è possibile? E in quali tempi? Sarà il "modello Amazon", non a caso definito "nuovo schiavismo" dai sindacati italiani dopo l'ultima sortita sul braccialetto ai dipendenti, l'apripista a questo livello ulteriore verso il basso? 

In due città statunitensi, tra cui l'avanguardista California, esistono già punti vendita Whole Foods, ultima acquisizione di Jeff Bezos, dove non esiste personale umano, né alle casse, né in altre parti operative del negozio: solo robot. O sarà il dumping salariale sempre più spinto e palese, come ammesso dallo stesso numero uno di Bundesbank, Jens Weidmann, relativamente alla compressione posta in essere dall'afflusso di massa degli immigrati, a rendere possibile questa deriva? O ancora i processi di automazione, di fatto parti complementari sempre più vincolanti di ogni nuovo rinnovo contrattuale, in nome del bene supremo della produttività? Vi sembra il Mondo nuovo di Aldous Huxley? A me sì, ma, oggettivamente, giorno dopo giorno i sintomi crescono: e a livello sociale, si arriverà all'acquiescenza figlia di una struttura sociale simil-dittatoriale pronta a reprimere ogni possibile moto di rivolta nel sangue? 

Basterà la repressione o servirà un più lungo processo di erosione sistematico dei diritti fondamentali dei lavoratori? E la legislazione d'emergenza entrata in Costituzione in Francia con la "scusa" dell'Isis, cosa rappresenta potenzialmente e in fieri? E il caso greco e cipriota, l'uno con la distruzione dello stato sociale a colpi di voto parlamentare con il ricatto dell'Europa e della reazione dei mercati e l'altro con un esempio di controllo di capitali dalla sera alla mattina e senza precedenti, cosa sono stati? Certo, è un ragionamento potenziale il mio, ma non crediate che certi processi richiedano anni e anni oramai, siamo nell'ottica di generazioni che si accorciano sempre di più: chi avrebbe scommesso su un modello Amazon così dirimente e imperante in così poco tempo? Chi avrebbe sancito il simil-funerale del commercio al dettaglio nel regno dei consumi, quegli Usa che ancora oggi vedono il Pil composto al 70% da consumi personali? 

Pensateci, certi segnali non arriva mai a caso. Tantomeno, certi messaggi.

Libia - Macron chiede scusa. Napolitano NO. Noi italiani abbiamo il morele morale di andare in Libia ad aiutare il popolo amico che abbiamo tradito

2 FEBBRAIO 2018 POLITICA
Macron. Libia, Gheddafi, grave errore. Scuse anche da Napolitano?

Il tempo è galantuomo e vediamo i perchè


Libia. Il tempo è galantuomo. Sono passati pochi anni, per la precisione 7 e 13 giorni, e la verità emerge. Il Presidente francese Macron ha detto che loro, e i complici inglesi, hanno commesso un grave errore a portare la guerra nel Nord Africa con il risultato che tutto vedono.

Il tempo è galantuomo e così han dovuto troncare, per fortuna, la carriera i due bombaroli Sarkosy e Blair

Il tempo è galantuomo su questa vicenda anche qui in Italia. La scusa per dare il via ai bombardamenti – felicissime le aziende produttrici pensando alle ricche commesse necessarie per reintegrare i confetti usati – era stata l'eccidio di Bengasi. 10.000 morti, un crimine di Gheddafi. Non ci abbiamo creduto, siamo andati a Bengasi scoprendo che là non c'erano lutti, funerali, carri armati, o anche solo jeep militari. Strade illuminate, traffico scarso ma regolare.
Ne abbiamo scritto subito innanzitutto per essere io contrarissimo ad ogni guerra avendo esperienza in materia (una bomba scoppiata a 5 metri, altra pure vicina, mitragliamenti eccetera). In secondo luogo perchè mi pareva da suicidi prendersela con un Paese, unico fra quelli del petrolio, che aveva investito in Italia, che aveva abbandonato l'estremismo e via dicendo. In ogni caso contrario ad un linguaggio di morte, di tanti civili assassinati da bombe scioccamente e colpevolmente chiamate "intelligenti"
Come eravamo andati noi a Bengasi ci poteva andare chiunque perchè il viaggio l'avevamo fatto via etere andando a vedere le cose via webcam. Avrebbe visto, avrebbe capito l'imbroglio dei franco-inglesi

Il tempo è galantuomo e va onorato. Macron ha parlato di grave errore francese per cui ci sarebbe da attendersi analogo riconoscimento anche in Italia. Mentre noi dimostravamo ai nostri lettori il falso su Bengasi – falso un po' sullo schema delle armi di distruzione di massa di Bush che aspettiamo ancora adesso – il Presidente della Repubblica Napolitano in un atrio del Quirinale, ascoltato in TV, si pronunciava scaldatissimo per la “Primavera araba”.
Erano contro all'intervento una buona maggioranza del Parlamento, il Papa, Forze sociali ed economiche, pacifisti. Ma il Comandante in Capo dell'Esercito è il Presidente della Repubblica che presiede pure il Consiglio Supremo di Difesa e così dopo un paio di giorni il suo volere prevalse e dovemmo metterci anche noi a bombardare, magari anche impianti italiani, quelli che facevano gola a Sarcosy, altro che “Primavera araba”! Noi dunque con i bombaroli mentre, più intelligente la Germania se neera stata fuori...

Il tempo è galantuomo, anche per le scuse, Macron si è scusato, ci sarebbe da attendersi analogo comportamento da parte del Presidente della Repubblica Napolitano effervescente sostenitore di una strumentale ma inesistente “Primavera araba”.
Ci sarà?

4 marzo 2018 - La Strategia della Tensione, la mamma della Strategia del Caos e della Paura è stata liberata in Italia. Le elezioni si avvicinano e il corrotto euroimbecille Pd ha capito che sarà preso a calci nel sedere per questo a chiesto ai servizi segreti italiani di rinverdire la tensione, cominciando da uomini che sparano nella regione Marche

Il caso Svezia, quando la realtà è peggio delle fake news

2 febbraio 2018


Quanto sta accadendo in Svezia, non largamente divulgato dai media italiani, conferma che a volte la realtà è peggio delle fake news

Abbiamo letto su La Cruna dell’Ago una presunta fake news sulla Svezia, che purtroppo si è rivelata vera. Ma che i media nazionali non hanno ampiamente divulgato. Un articolo del 23 gennaio 2818 dal titolo: “La Svezia come l’Afghanistan: giovani armati di Kalashnikov per le strade”. Nel servizio, oltre a rappresentare una situazione di estremo degrado nella democrazia più avanzata d’Europa, viene anche affermato che quelle autorità sono pronte all’impiego dell’esercito. Ciò per fare fronte alle bande che si sono impossessate di interi quartieri delle città, divenuti “no-limits” per chiunque non vi risieda stabilmente. Un’ulteriore affermazione sconcertante riguarda scontri razziali in una scuola di Rosengard – uno dei quartieri più pericolosi di Malmo – chiusa per tali violenze, i cui attori sono gang criminali generalmente costituite da mediorientali, africani o immigrati dell’est europeo.

Nella democrazia più avanzata d’Europa c’è una situazione di estremo degrado e crisi, che pongono quesiti su come sia stato creato il nostro mondo globalizzato

Oltre alla gravità del fatto in sé, la criticità della “non fake news” dovrebbe destare notevole interesse. Ciò in funzione dell’immigrazione che coinvolge il territorio nazionale che – secondo stime del 2017 – annovera la presenza di circa 500 mila clandestini i quali si aggiungono a oltre circa 5 milioni in situazioni più o meno regolari. Indagare sulle cause sia della mancata integrazione degli immigrati in Svezia sia della disintegrazione sociale che sta comportando resta difficile. Ma accostando questa realtà al mondo globalizzato che siamo riusciti a costruire non è difficile trovare risposta. Abbiamo edificato la società moderna su una libertà contaminata da principi dissacratori, in cui la responsabilità, il rispetto delle regole ed i controlli sono solo espressioni verbali evanescenti alle quali non è necessario far corrispondere un adeguato comportamento.
La società moderna in Occidente – come conferma la Svezia – è stata depauperata di tradizioni, consuetudini, leggi e Istituzioni dell’etica. E’ stata invece surrogata da condotte egocentriche e opportuniste

Il caso della “falsa fake news” Svezia ci ricorda che abbiamo depauperato tradizioni, consuetudini, leggi e Istituzioni dell’etica, surrogata da condotte egocentriche e opportuniste. Dalle quali ha preso forma una realtà eterogenea ed estremamente competitiva che non si pone né confini né misure. Il potere non ha più una sua precisa collocazione e la sua eccessiva distribuzione ha modellato una frammentazione sociale e territoriale che non solo dissipa denaro pubblico, ma che non agevola affatto la governabilità. La miriade di indigenti, impreparati e inesperti, capaci solo a muovere accuse – talvolta anche in malafede – è strumentalizzata a fini politici contro lo “Stato ladrone”, inefficiente ed incapace di provvedere ai bisogni. Senza riflettere che lo Stato non è un’entità astratta ma siamo noi tutti. Infatti, siamo noi che abbiamo chiesto a coloro che ritenevamo più esperti e più capaci, votandoli, di andare nelle Istituzioni e di governare al nostro posto.

La democrazia è sempre stata affiancata dalla libertà auto-condizionata, che non può essere illimitata

La democrazia, nata in Grecia e diffusasi in gran parte dell’Occidente, non è mai stata sola. Ma sempre affiancata dalla libertà auto-condizionata che non poteva né può essere illimitata. Né può giustificare aggressioni violente contro terzi, come in Svezia, specie se soggetti pacifici. In un regime di democrazia è consentito fare tutto ciò che non nuoce ad altri, cioè rispettare il principio del “neminem laedere” (non danneggiare alcuno). Ognuno ha libertà di fare ciò che vuole. A patto che non violi l’eguale libertà di ogni altro uomo. Sulla base di tali assunti Pericle la connotò come miglior governo possibile, qualificandola quale mediatrice fra interessi pubblici e privati. Per costui, lo Stato democratico si incarica di comporre – in un equilibrio dinamico, ancorché carico di tensione – il mondo discorde e contrastante del privato e dell’economia con quello dell’armonia e della concordia, corrispondente al dominio della “cosa pubblica” e della collettività.

Come ricorda Platone, il matrimonio tra libertà e democrazia non è sempre duraturo

Come tutte le cose umane hanno una fine, così il matrimonio fra libertà e democrazia non sempre è stato duraturo. “Quando un popolo divorato dalla sete della libertà si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni – ricorda Platone nella Repubblica, VIII) -. Avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, un servo; il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari e non è più rispettato; il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui; i giovani pretendono gli stessi diritti e la stessa considerazione dei vecchi e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà e nel nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno ed in mezzo a tanta licenza si sviluppa una mala pianta: la tirannia”.

Pericle, circa tremila anni fa, ha dipinto una situazione che stiamo vivendo anche oggi

È un aforisma che ha circa tremila anni di vita ma non sembra abbia perso di attualità, atteso che Pericle stesso con pochi tratti di penna dipinge una situazione che stiamo vivendo anche oggi. Eppure la libertà è il substrato fondante della democrazia e senza libertà non c’è democrazia. È allora l’eccessiva libertà che conduce alla nascita di oligarchie, tirannie, organizzazioni sovversive/criminali e altre distorte conflittualità sociali? Una plausibile risposta viene data ancora una volta da Platone il quale non definiva la democrazia come il miglior governo possibile ma, argomentando sull’etimologia del termine (dal greco “demokratia”, composta da “demos”–popolo e “kràtos”-potere, superiorità) l’ha definita come “governo del numero” o “della moltitudine”, attribuendole una connotazione negativa.

La democrazia è un’autolimitazione delle libertà mediante l’adozione di una serie di obblighi (diritti e doveri) trascritti in norme

Non è questo il senso della democrazia che è invece ben rappresentata dall’autolimitazione delle libertà mediante l’adozione di una serie di obblighi (diritti e doveri) trascritti in norme. Le norme – l’assetto giuridico di un’organizzazione sociale – costituiscono e giustificano il potere politico, ponendo fine allo stato naturale e sostituendo la legittimità (potere derivante dal diritto naturale) con la legalità (potere derivante da leggi scritte). Nel momento in cui queste norme sono violate, si “instaura una società caratterizzata dalla licenza” ove torna ad imperare la legge del più forte.

Diritti e doveri

Per comprendere l’essenza di queste tesi occorre dare un significato ai limiti posti da diritti e doveri. Ci sia consentita una premessa esplicativa, per poter poi interpretare la realtà quotidiana in cui oggi viviamo, spesso scossa da sussulti e da gravi squilibri. Sia i diritti sia i doveri sono disciplinati da norme: scritte (leggi) per i diritti, ma anche autoimposte (obblighi morali) per i doveri. I diritti sono quelle libertà che competono a ogni singola persona e che essa può esercitare liberamente. A patto che non leda i diritti di altri. I doveri sono, invece, i vari comportamenti che ogni persona è obbligata a sopportare o ad evitare, per non ledere la libertà delle altre persone.

I doveri sono il collante umano che consente la sopravvivenza di una collettività o struttura sociale

I doveri sono molto più importanti dei diritti e costituiscono il “collante umano” che consente l’istituzione e la sopravvivenza di una collettività o struttura sociale. Infatti, sono quelle regole che occorre rispettare e osservare per vivere insieme serenamente, evitare conflittualità e sviluppare una condizione sociale sana ed armoniosa. La maggiore importanza attribuita ai doveri impone di determinare quale significato conferire al termine: secondo il dizionario Devoto-Oli “dovere” è l’obbligo di agire in conformità ad una norma imposta dall’esterno o dettata dalla propria coscienza. Indica un obbligo e non una possibilità, di dire o fare qualcosa. Cioè di comportarsi perentoriamente in un determinato modo. Desumendo dall’etimologia latina (“debere”, composto da “de habere”, cioè riavere) consiste nel comportamento che bisogna tenere per restituire ad altri qualcosa che da essi abbiamo ricevuto, quindi essere obbligati a restituire.

I doveri non sono astratti, ma traggono la loro validità da norme morali per salvaguardare il rispetto della persona

In genere i doveri traggono la loro validità da norme morali, perché devono tendere a salvaguardare sempre il rispetto della persona. Da qui la ripartizione dei doveri in due categorie: legali o giuridici, quando l’obbligo è dettato dalle leggi, in termini positivi imponendo un comportamento attivo di fare o dare qualcosa, oppure negativi vietando di fare qualcos’altro (i cosiddetti divieti); morali o religiosi, quando l’obbligo è lasciato alla libera scelta dell’individuo (auto-imposizione) e non è legalmente prevista alcuna sanzione in mancanza dell’adempimento dell’obbligo. Limiti, proporzioni, misura ed armonia sono le colonne portanti della cultura occidentale caratterizzata soprattutto dai doveri oltre che dai diritti, in cui si afferma il potere legislativo, la piena sovranità, la laicità dello Stato e la tolleranza religiosa.

La democrazia, perciò, non è un’ideologia. Ma un insieme di diritti e doveri validi e vincolanti per tutti

La democrazia, quindi, non è un’ideologia – la quale trova invece la sua giusta collocazione nei partiti politici – bensì quell’insieme di regole (diritti e doveri) valide per tutti, impiegate nella costituzione di un governo e nella determinazione di decisioni politiche vincolanti per l’intera comunità. La democrazia si configura non solo nel riconoscimento dei diritti ma soprattutto nel rispetto dei doveri. Ma la società attuale proclama e reclama a gran voce – talvolta anche con metodi violenti – solo i diritti e dimentica, anzi rigetta o rinnega, gli obblighi che a tale Stato sono dovuti, non solo su basi giuridiche ma anche morali.

Le denunce del sindaco di Lampedusa confermano che la società attuale reclama a gran voce – anche con metodi violenti – solo i diritti e rigetta, o rinnega, gli obblighi

È il caso di ricordare quanto affermato recentemente dal sindaco di Lampedusa che lamenta minacce, molestie e furti da parte di clandestini sbarcati sull’isola che le forze dell’ordine sono impotenti a contrastare. Tali clandestini, che avrebbero l’obbligo morale di riconoscenza nei confronti dello Stato di accoglienza, si arrogano anche il diritto di infrangerne le regole giuridiche e spesso pretendono di esportavi le loro tradizioni, cultura e religione invece di ricercare una corretta integrazione.

L’agonia della nostra democrazia non è causata solo dal problema dell’immigrazione

Quanto in precedenza delineato – espressione di un “passaggio” in itinere verso l’agonia della nostra democrazia – non è limitato al problema dell’immigrazione ma anche ad altri fattori, quali. Avidità di denaro che lucra su: vendita di prodotti alimentari adulterati, contraffatti, scaduti o deperiti; lievitazione, oltre misura, dei costi dei lavori pubblici mediante il meccanismo della revisione prezzi, spesso seguito dall’abbandono al degrado più lercio di immobili non completati per esaurimento degli stanziamenti o per asserito fallimento dell’impresa; corruzione che mina le Istituzioni democratiche e che coinvolge, nella corsa al potere, leader compiacenti dell’accaparramento e dell’avidità di denaro pubblico; quotidiani episodi di malasanità cui si affiancano sperperi inverecondi del pubblico denaro in mezzi, strumentazioni e strutture sanitarie resi inefficienti dall’incuria o dall’abbandono in scantinati, come spesso evidenziano reportage televisivi.

Alcuni dei più grandi problemi oggi sono l’assenza di civismo, correttezza, legalità e senso di appartenenza

L’assenza di civismo, correttezza, legalità e senso di appartenenza, che si manifesta con: violente aggressioni immotivate a pacifici cittadini (attacchi con pugni, calci, ecc.), oltre a stupri o tentativi di stupro; deturpamento estetico di campagne e città, con abbandono e/o occultamento ovunque di rifiuti anche tossici, scarichi abusivi ed immondizie non rimosse, che inquinano vieppiù l’ambiente già contaminato abbondantemente dai combustibili fossili impiegati quotidianamente; indebita tolleranza – talvolta addirittura interessata – per insediamenti nelle periferie delle città di “bidonville” ed accampamenti abusivi, nei quali regna non solo il degrado ma anche la violenza di ogni genere – dai pestaggi agli incendi dolosi, dagli stupri agli omicidi – senza che si provveda a ripristinare legalità infranta e sanità ambientale; inquinamento – per anni – di terreni, fiumi, laghi e mari di una terra che era il paradiso del Mediterraneo e che si tenta – ora – di bonificare tassando cittadini onesti e rispettosi. Mentre i responsabili continuano impunemente a inquinare, senza rendersi conto che prima o poi le malattie provocate dai miasmi – da essi cagionati – si ritorceranno anche contro le loro famiglie; nonché altro ancora, che comporterebbe un’elencazione interminabile.

L’aspetto più dirompente dell’attuale società è l’immigrazione. Costituisce un problema di dimensioni rilevanti per diversità di valori, sentimenti ed emozioni. Strumentali per fini di parte

L’aspetto più dirompente dell’attuale società è l’immigrazione – sia essa legale o clandestina – che costituisce un problema di dimensioni rilevanti. Problema caratterizzato soprattutto dalla diversità di valori, sentimenti ed emozioni di culture diverse spesso derise, umiliate e maltrattate da un occidente caduto in un vuoto pneumatico di ideologie e di valori. Diversità che altrettanto spesso sono strumentali per fini di parte, atteso che i giovani – sfruttati ed ammassati in ghetti fatiscenti delle metropoli del mondo globalizzato, senza prospettive credibili per un loro futuro – costituiscono il serbatoio sia di organizzazioni criminali sia di movimenti sovversivi.

Gli estremismi, comunque, non affrancheranno i migranti dall’arretratezza, dallo sfruttamento, dalla miseria e dalla manipolazione ideologico-fideista che li manda a morire

E’ bene ricordare ai giovani che il ricorso ad estremismi – siano essi politici che fideistici – forse potrà appagare gli aneliti di identità, giustizia sociale, rivalsa e libertà che essi ritengono esclusivi bisogni della loro anima. Ma non li affrancherà dall’arretratezza economica né dallo sfruttamento, né dalla miseria, né dalla manipolazione ideologico-fideista che li manda a morire. Solo il rispetto delle regole democratiche può garantire loro un sicuro ed equo sviluppo socio-economico.

Bisogna ripristinate lo Stato di diritto per impedire che l’”infezione” svedese contagi anche il nostro territorio, invaso da immigrati stranieri

Per esorcizzare le su esposte criticità e impedire che l’”infezione” svedese contagi anche il nostro territorio invaso da immigrati stranieri, è indispensabile resuscitare una democrazia agonizzante mediante il ripristino dello Stato di diritto, facendo rispettare le regole che non possono rimanere cristallizzate nel passato. Regole che necessitano di essere adeguate al progresso ed allo sviluppo sociale, cogliendo i bisogni, le esigenze e le aspirazioni dei cittadini da proiettare anche nel futuro per assicurare loro le migliori condizioni di vita; il restauro dell’economia reale, disastrata dal terremoto fallimentare di piccole e medie imprese produttive oltremodo indebitate dai titoli tossici dell’economia finanziaria. Titoli imposti a tali imprese come prestiti da condotte bancarie spregiudicate; la sopravvivenza di una classe media – con un tenore di vita leggermente superiore al tasso di inflazione annuo – in modo da poter favorire il risparmio da impegnare esclusivamente per finanziamenti all’economia reale.

Il primo passo è la certezza della pena. Il secondo è il ripristino della bipartizione degli istituti bancari fra banche finanziarie e banche commerciali

Il primo passo per il conseguimento di questi obiettivi risiede nel rispetto delle norme e soprattutto dei doveri, struttura portante della democrazia, mediante la certezza della pena diventata – con il patteggiamento ed altri cavilli giuridicisolo un’opzione per i più smaliziati o per coloro che hanno la tutela di un “padrino”. Per una solida democrazia non si possono impiegare “due pesi e due misure”, a seconda della convenienza, delle opportunità o della confraternita di appartenenza. Il secondo intervento investe il ripristino della bipartizione degli istituti bancari fra banche finanziarie e commerciali. Consentendo solo a queste ultime di raccogliere il risparmio da reinvestire in attività produttive e concedere mutui e prestiti a tassi accettabili. Ciò senza addossare alle industrie tassi da strozzinaggio, finora ad esse imposti dall’impossibilità di evitare il ricorso al financial banking; dissanguare oltre cinquanta anni di risparmi di Italiani onesti e lavoratori, che hanno assolto all’obbligo costituzionale di pagare le tasse, contribuendo in base alle loro possibilità a mantenere in vita la Repubblica Italiana. Costoro non possono avere in restituzione – in luogo dei risparmi investiti – solo titoli cartacei. Titoli decurtati talvolta del 50% delle somme risparmiate, se non addirittura evaporati con i fallimenti bancari. Nel merito si segnala la giacenza in Parlamento – finora dimenticata – del disegno di legge n.3112, presentato il 25 gennaio 2012 dal Senatore Oskar Peterlin e finalizzato al conseguimento di tale obiettivo.

Per salvare la nostra democrazia è necessario che i cittadini recuperino il senso di responsabilità. In particolare se connesso con la gestione di denaro pubblico

Infine, fra i doveri inderogabili – che hanno lo scopo di spingere ogni cittadino ad abbandonare posizioni individualistiche per abbracciare la propria comunità – occorre iscrivere quello della responsabilità: quest’ultima, oggi, appare talvolta ignorata e non attribuibile ad alcuno, in particolare se connessa con la gestione di denaro pubblico. Occorre rammentare che in situazioni di estrema indigenza e in assenza di provvedimenti statuali riequilibratorii, gli uomini sono spinti a formare aggregazioni di gruppi criminali/sovversivi ai quali spesso si contrappongono associazioni di mutua protezione per la difesa di diritti. E tali associazioni evolvono verso sistemi di aggressione – con derive dittatoriali o di guerra civile – come avvenuto nel recente passato: “settembre nero” (in Giordania negli anni 70) e guerra civile in Libano (nello stesso periodo).

Un monito ai nostri politici da Pericle: “Chi di correnti impure e di fango intorbida limpide acque non troverà più da bere”

Democrazia non significa arroganza, criminalità dilagante, dissolutezza, depravazione, corruzione, disonestà, negligenza, irresponsabilità, relativismo morale, ecc. ma rispetto delle regole, onestà, responsabilità, impegno, autocontrollo, riflessione, equilibrio, aiuto reciproco, solidarietà, ecc. L’agonia che sta travolgendo la nostra democrazia investe non solo l’interesse dei cittadini, ma anche gli stessi politici ed amministratori che, abolendo ogni confine tra lecito e illecito, rischiano di rimestare corrotti e corruttori in un inestricabile miscuglio in cui tutti pagano il conto. Pericle, soleva sostenere che “chi di correnti impure e di fango intorbida limpide acque non troverà più da bere”.

di Claudio Masci & Luciano Piacentini

Luciano Piacentini – Brevettato incursore, è stato Comandante di Unità Incursori nel grado di Tenente e Capitano. Assegnato allo Stato Maggiore dell’Esercito, ha in seguito comandato il Nono Battaglione d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin” e successivamente ricoperto l’incarico di Capo di Stato Maggiore della Brigata Paracadutisti “Folgore”. Ha prestato la sua opera negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico.

Claudio Masci – Ufficiale dei Carabinieri proveniente dall’Accademia Militare di Modena, dopo aver assunto il comando di una compagnia territoriale impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali. Laureato in scienze politiche. Tra i suoi contributi L’intelligence tra conflitti e mediazione, Caucci Editore, Bari 2010 e The future of intelligence, 15 aprile 20122, Longitude, rivista mensile del MAECI.

Claudio Masci e Luciano Piacentini sono gli autori di: “The future of intelligence”, articolo del 15 aprile 2012, pubblicato su Longitude, rivista mensile del MAECI, nonché dei libri: “L’intelligence tra conflitti e mediazione”, Caucci Editore, Bari 2010 (esaurito) e di “Humint… questa sconosciuta (Funzione intelligence evergreen)”, acquistabile da Amazon a questo link.


Vaccinazioni - sempre più palese la malafede della Lorenzin. Quanto ti hanno pagato?

ITALIA Roma 

Vaccini, Raggi a Lorenzin: all'asilo anche i non vaccinati 

Mozione dell'Assemblea capitolina per impegnare la sindaca a farsi promotrice di un'azione verso il governo, la Regione Lazio, l'Anci e ogni altro ente interessato affinché sia rispettata la continuità didattica ed educativa 

Virginia Raggi (Ansa) 

Vaccini. Di Maio: cambieremo legge Lorenzin 

01 febbraio 2018 

La sindaca di Roma Virginia Raggi, comunicano dal Campidoglio, ha scritto al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, al ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli, al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e al presidente dell'Anci Antonio Decaro per informarli della mozione, approvata all'unanimità dall'Assemblea Capitolina, riguardo alla necessità di rispettare la continuità didattica ed educativa per tutti gli alunni non ancora vaccinati. La mozione impegna, infatti, la sindaca a farsi promotrice di un'azione verso il governo, la Regione Lazio, l'Anci e ogni altro ente interessato affinché sia rispettata la continuità didattica ed educativa con particolare evidenza verso i bambini regolarmente iscritti all'asilo nido e alla scuola dell'infanzia (fascia 0-6 anni), i cui genitori non avessero ancora assolto l'obbligo di vaccinazione. "L'intera Assemblea Capitolina, dunque, ha ritenuto la mancata vaccinazione non ostativa al prosieguo e alla continuità dell'attività e del percorso educativo considerando quest'ultimo (stesso insegnante, stesso contesto educativo, stessa aula, stessa rete di relazioni socio-affettive) una condizione psicodidattica da garantire a tutti in totale certezza ed assoluta equità", si legge nella lettera. Nella missiva la sindaca fa notare come la legge condanni "con una multa i genitori dei bambini non vaccinati, in proporzione all'entità della mancanza, ma, almeno nella scuola dell'obbligo e a differenza della scuola dell'infanzia, non obbliga all'allontanamento del loro bambino. Come se non fosse il contagio la preoccupazione principale del legislatore, quanto piuttosto la sanzione amministrativa da comminare ai genitori colpevoli di omissione. Ma se è così, appare ancor più cogente la necessità di rispettare la continuità didattica ed educativa per tutti i bambini, se è proprio la legge per prima a spostare l'attenzione sulla sanzione invece che sul possibile esito contagioso. Ciò quindi, induce a ritenere molto fondata la richiesta formulata dall'Assemblea Capitolina, che la Sindaca di Roma in questa nota rappresenta con profondo convincimento alle SS.VV". La sindaca sottolinea, infine, l'importanza di "salvaguardare la linearità di percorso di un bisogno educativo, che non si può negare per alcun motivo plausibile e che si tratta invece di garantire, consentendo a tutti i bambini, a partire da quelli tra 0 e 6 anni, di 'giungere alla conclusione dell'anno educativo e scolastico 2017/2018 senza interruzioni di sorta nella frequenza e nella totale continuità educativa e didattica"

Brasile - quel sgangherato golpe di stato praticato grazie al Partito dei Giudici, sempre prono al Globalismo totalizzante. Troviamo una completa decomposizione del sistema politico

VENERDÌ 02 FEBBRAIO 2018
PAROLE DEL SUD - GENNAIO 2018
DOPO IL GOLPE IL BRASILE NON RIPARTE

di Comboniani Brasile


Investimenti internazionali
Exxon, Shell, Repsol e altre imprese multinazionali si stanno aggiudicando all’asta blocchi del grande giacimento di petrolio Pré-Sal, in acque profonde del territorio brasiliano. Il piano del governo precedente era di investire percentuali significative di questo patrimonio in progetti di educazione e salute.

In Brasile
I momenti più vivi sono state le grandi manifestazioni del 2013, ma anche l’organizzazione autonoma, pluricentrica e contagiosa che nel 2016 ha portato migliaia di giovani a occupare le scuole per opporsi alla riforma del mondo dell’educazione.


José, che piacere rivederti! Allora, avete già seminato nelle terre attorno al villaggio? Grazie a Dio, sì, padre. Se il cielo ci benedice, anche quest’anno avremo fagioli e manioca!

Ricominciamo un nuovo anno. I cicli della vita si fermano, a gennaio, per riposare e farsi fecondare dalla pioggia. La frenesia urbana rallenta un po’, per riprendere a breve. Ricomincia anche il Brasile? Purtroppo no.

Dom Erwin Krautler, vescovo difensore dei popoli indigeni brasiliani, afferma che «questo golpe è sistemico». Da quando, nel 2016, il presidente che consideriamo illegittimo ha scalzato il governo eletto nel 2014, sono sotto attacco tutte le dimensioni della vita nazionale: vengono modificate le leggi ambientali, le regole del lavoro e della previdenza sociale, i princìpi e gli stanziamenti pubblici per la salute e l’educazione. Si cerca di svendere agli interessi privati del grande capitale patrimoni pubblici, acqua, terra, riserve minerali e fossili.

Le conseguenze cominciano a farsi sentire. Più di 40 milioni di lavoratori sopravvivono con meno di 250 euro di stipendio mensile; ci sono 13 milioni di disoccupati ed è aumentato molto il lavoro precario e informale. È tornata la fame e aumentano i debiti, la violenza, lo scoraggiamento. Sulla scena nazionale brillano i sorrisi dei fantocci politici, sostenuti dagli enormi interessi degli investimenti internazionali.

Guardandoci attorno, osserviamo un ciclo simile in diverse parti del mondo. Si è consolidata una disillusione globale riguardo alla rappresentanza politica. Il sociologo spagnolo Manuel Castells la definisce «totale decomposizione del sistema politico».

Nei primi anni del nostro decennio, si sono messi in moto nuovi movimenti di piazza, che rivendicano in varie parti del mondo (anche in Brasile) dignità e democrazia. Ma sono mancati strumenti legittimi per imporre il cambiamento (la totale comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale). E i movimenti si sono in buona parte sgonfiati.

Così, si è affermato un progressivo senso di impotenza, che sfocia oggi nello scoramento. Ci si ritira a vita privata (e virtuale), oppure in una ribellione disorganizzata e disperata, poco efficace per il cambiamento.

In Brasile, ogni ansia di ricostruzione viene canalizzata verso le elezioni del prossimo ottobre, con il rischio che nei prossimi nove mesi si inghiottano passivamente nuove deleterie riforme antisociali. Perlomeno ci sarà restituito un governo frutto della volontà popolare (qualsiasi essa sia: nei momenti di crisi il rischio del populismo cresce).

Ma resta alta la probabilità che si inneschi il ciclo descritto sopra. «Se, pur in paesi con caratteristiche diverse e specificità proprie, sorge lo stesso fenomeno, allora possiamo pensare come ipotesi che il modello sta crollando», conclude Castells.

A ogni crisi corrisponde una rinascita. Ma non riusciamo ancora a vedere in quale direzione; cerchiamo con il cuore stretto nuove intuizioni. Uno spunto ci viene dai popoli indigeni, eterni resistenti in questo lungo tempo coloniale a loro imposto. Una speranza viene dal ricominciare nei territori, dal rilocalizzare l’economia e la gestione politica, dal riscoprire le radici per difendere il futuro degli spazi collettivi.

È una piccola semente che, in questo inverno, possiamo seminare. Che la pioggia e il cielo la benedicano!

Ilva - quei buffoni, cialtroni al governo capaci solo a favorire il privato e a non tutelare la salute, calci nel seder, tic ta tic tac 4 marzo 2018

IL SIDERURGICO

Emiliano furente sull’Ilva
«Si prende in giro il Paese»

Il governatore interviene dopo che la proposta di mediazione partita dalla Puglia è stata respinta dai 4 ministeri interessati. «Vogliamo conoscere il piano industriale»



Durissima presa di posizione di Michele Emiliano sul caso Ilva che contrappone il governo alla Regione e al Comune di Taranto. Il governatore è intervenuto dopo che Roma ha espresso un sostanziale rifiuto alla proposta di accordo arrivata dalla Puglia. «La mancata esibizione di alcuni elementi essenziali della vicenda Ilva — dice Emiliano — in particolare del contratto firmato con Arcelor Mittal e del Piano industriale, rasenta l'omissione di atti di ufficio. Darò mandato agli avvocati della Regione di richiedere al Tar di Lecce di ordinare l'esibizione di questi documenti. Nel frattempo presenteremo anche un esposto alla procura di Roma: non riusciamo a comprendere perché questi atti, che pure sono connessi direttamente al decreto ambientale (quello per il funzionamento di Ilva, impugnato dalla Regione e dal Comune, ndr) vengano considerati dal ministero come segreti».

«A Roma si perde tempo»

Il governatore esprime anche il suo «rammarico» per un altro aspetto: «Trattandosi di un governo a trazione Pd, il caso Ilva sarebbe stato l'occasione per dimostrare quanto siamo capaci di fare a tutela della salute e a tutela delle ragioni della produzione». Questo governo, aggiunge Emiliano, «non potrà fare nulla di più sull’Ilva, tant’è che sta prendendo in giro anche il sindacato in finte riunioni che avvengono al ministero». Emiliano dice di aver «letto il comunicato della Usb secondo il quale in queste riunioni si mostrano slide e si perde tempo: si sta prendendo in giro tutto il paese». Emiliano riflette anche sulla proposta della Regione e del Comune respinta da Roma sulla base di un ragionamento: che la proposta pugliese andasse a modificare il decreto del governo sul funzionamento di Ilva. «Dicono cose scontate — sottolinea Emiliano — perché è chiaro che se non si modifica il decreto la nostra proposta di Accordo di programma rischia di non essere coerente con il decreto».

venerdì 2 febbraio 2018

Niger - il governo non vuole i soldati italiani

MIGRAZIONI E GEOPOLITICA
Niger: il no dei missionari italiani al contingente militare, “è neocolonialismo”

02 febbraio 2018

"Quello che disturba è che l'Italia sia praticamente telecomandata dalla Francia. Sembra che vengano in Niger per difendere gli interessi francesi, legati all'uranio". A parlare al Sir dalla capitale Niamey è padre Vito Girotto, della Società missioni africane. Tutti i missionari italiani in Niger concordano sulla contrarietà alla missione militare italiana: "È come se dal Niger venisse un contingente militare in Calabria o in Campania per verificare se i nigerini che raccolgono i pomodori nelle campagne italiane sono ben pagati. È chiaramente un neocolonialismo. Si cerca di mettere un piede qui perché il Niger, pur essendo povero, è ricco di materie prime".

(Foto: AFP/SIR)

I missionari italiani in Niger non vedono di buon occhio la prossima missione militare nel Paese africano. La considerano un ritorno del colonialismo per motivi geostrategici e per sfruttare le risorse, senza alcun vantaggio per la popolazione locale. Il 17 gennaio il Parlamento italiano ha approvato la presenza di un contingente di 120 uomini nel primo semestre di quest’anno fino a raggiungere un massimo di 470 militari entro fine anno, con una media annuale di 250 militari. Oltre al personale saranno inviati in Niger anche 130 mezzi terrestri e due aerei, per una spesa totale di 49,5 milioni di euro per tutto il 2018. Obiettivi della missione, “non combat ma di addestramento” come dichiarato dal ministero della Difesa, sono il controllo dei flussi migratori e la lotta al terrorismo. Ma il 31 gennaio si è diffusa una notizia secondo cui il governo di Niamey, la capitale nigerina, non era stato informato ufficialmente, esprimendo quindi la sua contrarietà. In Niger il 98% della popolazione è musulmana ma la piccola minoranza di 50.000 cattolici è seguita anche da 7 missionari italiani: 4 appartengono alla Società missioni africane, altri 3 sono sacerdoti fidei donum dalle diocesi di Lodi e Milano. Padre Vito Girotto, della Società missioni africane, è missionario in Niger dal 2009 dopo 22 anni in Costa d’Avorio. Nella sua parrocchia di Makalondi, alla frontiera con il Burkina Faso, segue circa 1.500 persone in un territorio rurale molto vasto, con piccole comunità di 15/20 persone. Organizza inoltre corsi di alfabetizzazione, laboratori per imparare i mestieri. “Abbiamo tanta povertà al limite della miseria – racconta -, moltissimi bambini sono malnutriti. Rarissime scuole. Sanità a livelli molto bassi. Pochi medici e dispensari, l’ospedale più vicino è a Niamey e dista un centinaio di chilometri”. In Niger, uno dei Paesi più poveri del mondo, ogni donna partorisce in media 7,2 figli, per cui ci sono tantissimi bambini e giovani. Il 50% della popolazione ha meno di 18 anni.

Padre Vito Girotto

Cosa pensa la popolazione del Niger riguardo all’invio del contingente militare italiano?

La gente non reagisce molto. Ma quelli che sentono le notizie alla radio o quei pochi che hanno la televisione pensano che è inutile mandare dei militari qui. Anche perché non conoscono le strade nel deserto.

Ricordiamo che il 50% dell’uranio che la Francia utilizza proviene dal Niger. Qui i francesi sono visti come colonialisti, che hanno contribuito a far sì che il Niger sia uno degli ultimi Paesi al mondo come Pil. Sembra che l’Italia voglia assumere di nuovo un aspetto coloniale. Dicono che vogliono fermare i migranti, ma chi migra troverà altre strade, attraverso il Ciad, il Mali. Ci sono tante strade che noi non conosciamo e neppure i militari possono conoscere. È chiaro che il governo italiano vuole avere dei benefici sia per l’uranio, ma anche per il petrolioche ora è in mano ai cinesi – e l’oro. Tanti vedono male la presenza di tutti i Paesi europei che mandano militari per bloccare i migranti.

Di cosa avrebbe davvero bisogno la popolazione del Niger?

Se si vuole veramente aiutare la popolazione del Niger bisogna cercare di creare lavoro qui e dare la possibilità ai giovani di restare nel proprio Paese.

I migranti ci saranno sempre, ma se i giovani non riescono ad andare a scuola – o vanno a scuola perché non sanno cosa fare – non trovano uno scopo nella vita. Sono rarissimi quelli che riescono a trovare lavoro qui o all’estero con un diploma universitario. Qui c’è poco futuro. Io ad esempio sono in una zona colpita dai cambiamenti climatici, con grande penuria di generi alimentari. Il cibo più importante è il miglio ma i granai sono vuoti. Siamo nel mese di febbraio e dobbiamo arrivare fino ad ottobre per avere una nuova produzione. Ci sono tanti di quei problemi che i militari non risolveranno per niente. Tanti nigerini cercano fortuna all’estero perché qui la situazione economica è disastrosa.

Dalle ultime notizie sembra che il governo del Niger non sapesse della missione italiana e sia contrario.

Sembrava che avesse approvato l’invio dei militari italiani invece adesso il governo del Niger dice che non sapeva nulla. Io vivo alla frontiera e non riesco ad avere notizie ma ho sentito altri parlarne. Sembra che il governo nigerino non sia d’accordo.

Quindi siamo di fronte ad una sorta di neocolonialismo europeo in Africa?

Sì è chiaramente un neocolonialismo. Si cerca di mettere un piede qui perché il Niger, pur essendo povero, è ricco di materie prime. La Merkel è venuta qui a mostrare il progetto di bloccare i migranti prima della frontiera.

Ma è come se dal Niger venisse un contingente militare in Calabria o in Campania per verificare se i nigerini che raccolgono i pomodori nelle campagne italiane sono ben pagati.

Quando si dice militari si dice armi, e le armi fanno sempre paura. Questo non ci piace e non ci fa onore come italiani.

Tutti i missionari che vivono in Niger concordano su questa posizione?

Sì siamo tutti concordi. Il nostro portavoce padre Mauro Armanini si è già espresso su diverse testate. Anche se non scriviamo bene come lui, siamo tutti d’accordo.

La missione militare costerà all’Italia circa 49,5 milioni di euro nel 2018. Potevano essere utilizzati meglio?

Quante cose si potrebbero fare con quei soldi!

Il mio sogno è vedere scuole primarie in tutto il Niger, almeno i bambini imparano qualcosa.

Qui si parlano una trentina di lingue, pochissimi conoscono il francese. Non è così che si aiuta la popolazione. Certo non li aiutano i militari. Sarebbe importante invece sostenere il governo per fare progetti veri per i giovani, visto che il 50% della popolazione ha meno di 18 anni.

Giovani che sono anche potenziali migranti…

Sì, se non c’è lavoro migrano. Ma non è facile mettere dei soldi da parte, attraversare il deserto del Niger (da sud a nord è di circa 2.000 km). Molti nigerini sono poverissimi, hanno il desiderio di migrare ma non possono farlo. Noi li scoraggiamo, spiegando cosa troverebbero in Europa. Incontriamo tanti giovani e parliamo loro dei rischi del viaggio in Libia e nel Mediterraneo. Cerchiamo di aiutarli a vivere, seppur con risorse minime, attraverso piccoli lavori. Finché i governi non cambiano il loro modo di fare sarà difficile.

Altro scopo della missione è la lotta al terrorismo ma si sa che la rabbia dei poveri può indurre a estremismi. Com’è la situazione ora?

Certo, credo che la presenza dei militari farà ancora più arrabbiare i giovani. Chi ragiona si chiede perché sono venuti qui. È una provocazione. Bisogna stare attenti.

Secondo me il governo italiano sbaglia, sbaglia, sbaglia. E sbaglia anche tutta la politica europea.

Ci sono attentati alla frontiera tra Niger e Mali (di recente ci sono stati più di 60 morti) e alla frontiera con la Nigeria, a causa del gruppo Boko haram. Per il momento qui si può vivere, poi se le condizioni cambieranno si vedrà.

https://agensir.it/mondo/2018/02/02/niger-il-no-dei-missionari-italiani-al-contingente-militare-e-neocolonialismo/

Pierluigi Fagan -1- Lo Stato esiste dalla nascita delle città complesse


Pubblicato il 1 febbraio 2018 di pierluigi fagan

La definizione di “europei” è geo-storicamente, notoriamente, precaria. Ma, per quanto precaria come ogni definizioni di “popolo-nazione”, concetto che ha spesso bordi sfuggenti[1], ha senso in posizioni comparative. Si constata l’esistenza dell’europeo quando lo si mette accanto al non europeo. Al suo interno, il sistema europeo, risulta

 

dotato di molti sottosistemi ognuno con all’interno un sottosistema che a sua volta ha un sottosistema e così via. Al secondo livello, dopo gli “europei” e prima di arrivare alle “nazioni”, si trovano le grandi famiglie storico-culturali che sono per lo meno quattro: gli europei del nord che includono anglosassoni, germani e scandinavi; gli europei del sud-ovest che includono francesi, iberici, italici e greci (i franchi erano popoli appartenenti sia a questo sistema ed in parte al precedente) detti “greco-latino-mediterranei”; gli europei del nord-est (polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi e baltici) e quelli del sud-est i balcanici, bulgari e rumeni. Due di queste aree sono storicamente attratte dal fuori del sistema europeo: gli anglosassoni che hanno avuto storica propensione atlantica e comunque in generale “oceanica”; l’area del sud-est bulgara-rumena-moldava che è contigua all’Ucraina e quindi all’area ponto-russa e quella balcanica dove si mischiano popolazioni ortodosse (Montenegro, Macedonia, Serbia) cattoliche (Slovenia e Croazia) e musulmane (Bosnia Erzegovina, Albania), dove la dominazione ottomana ha lasciato impronte durevoli data una presenza in loco per più di cinque secoli.

Dopo lo shock di metà del Trecento (la Peste Nera), la storia degli europei si è sviluppata lungo cinque direttrici. La prima è stata un costante crescita demografica che è giunta a moltiplicatori significativi già da metà XIX secolo per poi assestarsi ed ultimamente ristagnare, se non ad invertirsi. Nel frattempo, il resto del mondo è cresciuto molto di più per cui se ai primi del XX secolo, gli europei dominavano il mondo anche attingendo al loro peso (20% del mondo, circa), oggi questo peso si è di molto contratto (8%) e vi e più si contrarrà nell’immediato futuro. La seconda direttrice è stata quella che a partire dalla fine del XV secolo in Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, si sono formati stati che manterranno fino ad oggi più o meno la loro dimensione nativa, arrivando ad omogeneizzare le loro popolazioni interne in “nazioni. Da qui il significato originario, prettamente europeo, di “Stato-nazione”, stati che tendono a coincidere con una popolazione che ha una sua relativa omogeneità storico-culturale. Ciò che appare abbastanza nitido nell’origine dello Stato-nazione europeo nell’Europa occidentale del XV-XVI secolo, lo diventa molto meno mano a mano che ci spostiamo ad est. La terza direttrice è quella di una inversione tra ordinatori per la quale proprio a partire dalla pace di Augusta (1555) e poi Westfalia (1648), si afferma sempre più l’ordinatore politico aristocratico-militare a scapito dell’ordine medioevale che includeva quello religioso che spesso sovra-ordinava tutti gli altri o comunque interferiva pesantemente. Ma a partire dalla successiva Gloriosa rivoluzione britannica (1688-89), si assiste anche da una modificazione interna all’ordinatore politico (e militare) che diventa sempre più un sistema binario con quello economico affiancando all’aristocrazia una nuova borghesia


prima commerciale, poi industriale e finanziaria. Ciò in ragione di un potente sviluppo della stessa attività economica, espansione il cui inizio si nota già da dopo la Peste Nera. La quarta direttrice accompagna le prime tre. Popolazione, Stati e loro ordinatori, soprattutto quelli economici e militari, si allacciano tra loro in una dinamica che se in parte porta ad una lunga sequenza di guerre europee interne, almeno sino al 1815, dall’altra porta ad una progressiva appropriazione del resto del mondo tramite colonie e poi imperi. L’ultima direttrice, la quinta, parte dalla conflittualità endemica in quel territorio europeo che sembra fatto apposta per produrre popolazioni diverse senza che nessuna di esse abbia mai potuto pensare di sottomettere tutte le altre realizzando una unità imperiale. Crollati i Romani, dopo Carlo Magno e forse Carlo V e dopo il penultimo grande tentativo di Napoleone (l’ultimo fu quello di Hitler), i britannici allora dominanti, sovraintendono una sorta di pace armata che dura quasi un secolo nel quale gli europei si dedicano per lo più alla conquista e consolidamento delle proprie colonie/imperi in accompagno ad una fase di crescita economico-materiale e di equilibrio di potenza nelle relazioni reciproche. L’esternalizzazione della concorrenza interna dona una pausa ma poi si torna a fare i conti in casa una volta affermatesi le sovranità dei tedeschi e degli italiani. Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Europa sembra assestata in grandi partizioni che semplificano il governo della sua parte centro-orientale dove troviamo l’Impero tedesco, quello austro-ungarico e quello russo e null’altro. Ma tra la seconda metà del XIX secolo e il 1915, si creano anche i presupposti del disastro europeo. Gli europei torneranno imperterriti a scannarsi tra loro mentre il resto del mondo si emancipa dal loro dominio. Il sistema europeo non è più isolato o dominante il mondo come è stato nelle prime due lunghe fasi (antico-medioevo e moderno), il mondo circonda l’Europa e le pone la domanda su ciò che vorrà e potrà essere nel nuovo contesto[2]. Questa domanda esterna rivolta a tutte le nazioni e stati europei, si riflette sulla loro stessa consistenza e sulle loro dinamiche di relazione. Se lo Stato-nazione è stato l’attore della storia europea moderna, la successiva storia complessa nella quale siamo entrati, sembra porre seri limiti a questo sistema nato per adattarsi ad un diverso contesto.

Leggendo alcuni ragionamenti politici e strategici di questo ultimo secolo e mezzo, si nota che già verso la fine del XIX secolo, prima quindi dell’inizio della grande conflitto in due puntate che coinvolgerà l’intero mondo e produrrà tra gli 80-90 milioni di morti distruggendo tutti i presupposti di potenza degli europei (e gli stessi diritti di eccezionalità dei suoi fondamenti culturali) , si presentava una forte preoccupazione per una situazione-mondo che disegnava scenari nei quali l’Europa nel suo complesso, andava a perdere la sua centralità/dominio. Era una consapevolezza ancora appena intuita del fatto che tra Stati Uniti d’America, Russia, Giappone (e qualcuno, sopratutto dopo la prima guerra mondiale vedrà con preveggenza anche un nuovo massiccio attore: la Cina), il “mondo” non era più quello di una volta. Soprattutto non era più una massa informe che “chiamava” l’opera di partizione, dominio e sfruttamento da parte degli europei. Questa


consapevolezza si rinforza all’indomani della prima guerra mondiale poiché già lì si può toccare con mano il sorpasso di potenza degli Stati Uniti d’America rispetto alla Gran Bretagna in quel 1919 da cui inizia il “secolo americano”. Dalla Pan Europa del conte Coudenhove-Kalergi (1922)[3], al tramonto dell’Occidente di Spengler (1923)[4], alle più tarde riflessioni di Schmitt (1938-39)[5], nel mentre alcuni intelletti ragionano problematicamente sul rapporto tra stato interno al sub-continente ed il resto del mondo, le dinamiche competitive e il disequilibrio di potenza europeo portano alla seconda definitiva disgrazia, quel secondo conflitto che accelererà la verticale perdita di potenza del sistema europeo nel suo complesso. Anche il manifesto europeista di Ventotene (1941-1944)[6], parte sia dalla necessità di sedare la secolare coazione bellica degli europei, sia dalla necessità di prender atto che ormai le questioni non sono più solo quelle interne al sub-continente ma anche quelle del rapporto tra questo come sistema integrato ed il più vasto e problematico mondo, quel mondo “grande e terribile” di cui si accorge anche Gramsci. Da Kalergi a Spinelli, nessuno di questi progetti europeisti partiva dalle sole considerazioni economiche, partivano tutti da considerazioni storiche, culturali, politiche e geo-strategiche, parlare di Europa solo con le lenti economiche e monetarie è nevrosi tipicamente contemporanea.

Come si riflette nel pensiero questa tramontante condizione europea? Nel suo “Nazioni e nazionalismi dal 1780”, E. Hobsbawm [7]ci dà conto di un dibattito a più voci che sorse già nel XIX secolo che, rispetto alla consistenza degli stati, prendeva la forma di un vero e proprio principio indicatore: il “principio di taglia minima”. L’economista tedesco -per altro in linea di massima liberale (ma di buonsenso)- F. List (1841), aveva introdotto più generali considerazioni sulla dimensione e forma dei sistemi economici nazionali, anticipato in parte dall’economista canadese John Rae (1834) e prima ancora dal federalista americano Alexander Hamilton sulle relazioni tra nazione, stato ed economia. Di List, Hobsbawm, riferisce la convinzione che “… la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare una unità in grado di svilupparsi. Nel caso quindi non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica”[8]. A questo dibattito prendevano parte dal Dictionnaire politique di Garnier-Pagès del 1834 che definiva “ridicola” la pretesa di sovranità di entità come il Portogallo ed il Belgio, a John Stuart Mill, Giuseppe Mazzini, Frederich Engels, il nazionalista economico irlandese


Arthur Griffin. Senza un adeguato livello di popolazione e risorse, non era possibile dare al principio astratto di sovranità politica la concretezza di un adeguato sistema economico. Altresì, secondo List, i sistemi economici nazionali dovevano essere per molti versi “protetti” durante l’infanzia, prudentemente “semi-aperti” nell’adolescenza e definitivamente partecipanti a network libero-scambisti solo quando in grado di competere alla pari o giù di lì e sempre che avessero il peso per farlo. Lo seguiva il prussiano Gustav Cohn che confermava i vantaggi dei Gross-staaten riferendosi ai casi britannici e francesi, traendone addirittura una normativa di una futuro processo di costruzione progressiva di stati sempre più grandi, qualcosa di simile ai ragionamenti futuri di C. Schmitt sul Gross-raum. I termini Kleinstateerei (sistemi di mini-stati) o balcanizzazione perpetueranno in sintesi, questo auto-evidente giudizio di insufficienza per sovranità non in grado di partecipare ai sistemi mondiali che s’andavano formando, sia dal punto di vista della consistenza economica, finanziaria e valutaria, sia come poi si rivelerà plasticamente nei due conflitti, dal punto di vista militare. Ai primi del XX secolo , c’era anche una sottile polemica di molti europei (anche liberali) contro quel “diritto all’autodeterminazione dei popoli” (anche i più microscopici) concepito dal presidente americano Wilson, un idealista-astratto nel migliore dei casi, un furbo manipolatore del divide te impera secondo i più maligni. Visto che i pensatori tedeschi sembrano i più convinti assertori di questa scalata alla potenza data da soglie minime di dimensioni, val bene ricordare che l’attuale Germania unita, è di circa un terzo più grande di Gran Bretagna, Francia ed Italia e nella speciale classifica di Stati per Pil, è superata dal Giappone che è quasi mezza volta più grande, dagli Stati Uniti che sono quattro volte più grandi, dalla Cina che è diciassette volte più grande mentre viene insidiata nel suo quarto posto, dall’India che ha proporzioni di poco inferiori alla Cina. Del resto, nello studio PWC[9] su i leader economici per Pil al 2050, la Germania, che è l’unico paese europeo previsto nella top ten è solo nona, sopravanzata da tutti paesi più grandi (tra cui le new entry Indonesia, Brasile, Russia e Messico). Quest’ultima considerazione porta a sottolineare come il “principio di taglia minima”, essendo un principio relativo, se nel XIX secolo era relativo a gli stati europei tra loro, oggi e sempre più domani, lo sarà rispetto a ben diversi standard mondiali. La conformazione geo-storica dell’Europa non è affatto sintonica con lo standard che si andrà sempre più affermando sul pianeta e le sue parti avranno non poche difficoltà storico-culturali a passare dal riferimento sub continentale a quello mondiale. Nelle nostre culture sociali e politiche l’economia è dominante e l’argomento è dominato da una ideologia che non prende affatto in considerazione la dimensione degli stati, solo modelli astratti.

Su questo punto dimensionale c’è da segnalare che, lungo il Novecento, il resto del mondo è cresciuto prepotentemente di dimensione, contribuendo a quella iper-inflazione demografica per la quale da i 1.500 milioni di inizio secolo, siamo oggi arrivati ai 7.500 milioni e tra trenta anni ai 10.000 milioni di cui gli europei saranno un minima frazione (poco più o forse meno del 5%). Ma a questa discontinuità potente se ne aggiunge un’altra, quella per la quale soprattutto dal discorso di Deng Xiaoping sul “socialismo con caratteristiche cinesi” del 1982, già da poco prima o da poco dopo, l’intera Asia si è volta al sistema economico moderno formatosi in Europa già nel XVII-XVIII secolo, seguita più di recente da Sud America ed Africa. Naturalmente la globalizzazione ha ulteriormente

 

potenziato questa crescita di volume e peso economico e finanziario del resto del mondo, ma questo si sarebbe comunque sviluppata magari accompagnato ad una più tipica internazionalizzazione[10]. I progetti sulle vie della seta cinesi, nonché le nuove istituzioni internazionali come l’AIIB o la SCO o i BRICS, in prospettiva l’imprescindibile sviluppo soprattutto dell’Africa , dicono che l’ambiente competitivo del’economia-mondo, si farà sempre più affollato. Proprio il declino del ruolo degli USA come supervisore e promotore del mercato mondiale che ormai va per conto suo, il loro trincerarsi verso una più realistica posizione di giocatore superpotente ma non più in grado di imporre standard di gioco mondiali a tutti, l’apertura quindi di un fase multipolare del tutto inedita a livello mondiale[11], fanno pensare ad un futuro ordine mondiale molto dinamico, in cui il peso e la potenza daranno le carte migliori in ogni tavolo di gioco, sia che si agisca, sia che si contrattino le regole sul come agire. Vale per l’economia, la finanza, le valute, la disciplina dei flussi migratori, le energie e materie prime, le questioni ambientali, lo sviluppo delle aree influenza, il mercato delle armi, gli ombrelli atomici, la crescita o la decrescita controllata, la politica economica, lo sviluppo delle nuove tecnologie, lo sviluppo tecno-scientifico in generale, i rapporti tra civiltà e grandi credenze, il modello economico e quello sociale, nonché quello politico, nel cui campo si registra il declino delle forme post-belliche della democrazia rappresentativa occidentale. La “potenza” è classicamente definita dal rapporto tra volume economico e forza militare e la potenza è quella che serve per farsi largo nella oscura selva dei temi più sopra appena accennati. Questo è il mondo complesso che pone le domande a gli europei sulla loro organizzazione interna, la consistenza, la strategia di adattamento alle nuove condizioni che rendono obsoleto ogni riferimento al periodo moderno ormai terminato.

Il “principio di taglia minima” dice a gli Stati che oggi e vi e più domani dovranno fare i conti con la resilienza del proprio sistema economico nazionale, che significa anche in quali produzioni potranno essere autonomi se non esportatori e di quali esser dipendenti, cioè importatori più o meno obbligati, che significa anche di quale meta sistema che dalla R&S va in relazione con la capacità produttiva interna ci si dota, che significa anche con quale valuta si partecipa alla rete di scambi internazionali, che significa anche quale sovranità fiscale si ha in regime di libera circolazione dei capitali o scegliendo una minore libertà come ci si approvvigiona di capitali d’investimento, che vale per politiche di gestione degli scambi internazionali che non significa autarchia ma regolazione fine e selettiva delle aperture-chiusure in base all’ovvio principio di reciprocità, non trascurando i problemi di forza militare (anche solo difensiva), di peso nelle relazioni internazionali che sceglieranno gli standard dei modi di vita planetari (diritti sociali e del lavoro, ambiente, condizioni di lavoro, stile di vita). Tale principio di taglia minima è relativo, nel senso che va comparato alle taglie di coloro che s’individuano come competitor principali, dei differenti contesti in cui si è collocati ed è relativo anche nel senso che non per forza


dobbiamo diventare tutti inquadrati in sistemi di 1,5 miliardi di persone come Cina ed India sembrano indicare.

Prima però di analizzare velocemente le eccezioni a questa freccia che sembra puntare a produrre una megafauna di soggetti più potenti, occorre ricordarci che i soggetti di cui stiamo parlando, i soli soggetti previsti da questo descrizione del mondo odierno e futuro, non sono soggetti vaghi. Vaghi sono tutti i sistemi che non hanno una intenzionalità politica direttiva del loro comportamento. Sistemi nebbiosi come quelle dell’Impero negriano, la “globalizzazione”, le “élite mondialiste”, le civiltà, il “mercato regolato dalla mano invisibile”, il “capitalismo apolide”, l’Occidente o l’Oriente o l’islam, Internet e le sue vaste diramazioni virtuali, tutte le organizzazioni formali ed informali sovranazionali, sono senz’altro sistemi, ma sistemi vaghi. Russia, Cina, Stati Uniti, India, Germania, Giappone ed i nuovi affluenti, non sono sistemi vaghi. La loro sovranità serve proprio a districarsi in questa rete piena di problemi e di opportunità che taglia orizzontalmente o diagonalmente la verticalità sovrana che dal problema o dall’opportunità porta all’intenzionalità, al fare scelte, a fare leggi, a mobilitare risorse, a fare piani e strategie, a metterle in pratiche ed a correggerle all’occorrenza. Lo Stato come un’entità politica sovrana, costituita da un territorio e da una popolazione che lo occupa, declinato in istituzioni, diritto, forza militare ed una specifica cultura, soggetto a problemi di vicinato, di relazione e scambi, Stato non aggettivato con nazione o moderno o democratico o capitalistico o quant’altro di carattere eurocentrico e recentista, esiste dalla nascita delle società complesse, or sono seimila anni fa. Imperi, città-Stato, regni, principati, comuni, federazioni (non confederazioni che sono semplici alleanze su base di trattato), califfati, sultanati, khanati, non importa quindi con qual spazio o forma giuridica a variabilità culturale li si intenda, sono Stati[12]. La storia e la logica non ci hanno sino ad oggi dato altro modo di intendere le forme organizzate al completo livello di sovranità. Se non ci interessa la sovranità, possiamo ben perderci in post moderni sogni o incubi da fluttuazioni quantistiche tipo schiuma del falso vuoto, comunità che s’inseriscono in reti di reti acentriche magicamente autoregolate, finte sovranità formali comandate e strattonate dal diritto del più forte in qualcuno dei giochi orizzontali o diagonali (mercato, partecipazione ad alleanze miliari come complementi, varie forme di servitù o schiavitù volontaria), soggettività desideranti cosmopolite, metafore che vorrebbero assimilare il virtuale di Internet al reale del Mondo, ma a noi qui non interessa questo mondo del possibile per quanto improbabile. Vorremmo rimanere stretti ad un realismo concreto e quindi fare i conti con l’unica forma di individuazione conosciuta in questo contesto, lo Stato. Per quanto intersecato da altri sistemi, lo Stato è l’unità metodologica del discorso sull’ambiente in cui vivono ed agiscono i gruppi umani, famiglie, classi, popoli, civiltà, alternative non se ne vedono. Le potenti interferenze alla sovranità, che non vorremmo dar l’impressione qui si vogliano sottovalutare, esistono e sono proprio quelle che chiamano una sovranità dotata di autonomia e potenza, solo gli Stati forti potranno governare queste interferenze. Né gli USA, né la Cina, né la Russia, né


l’India, né il Giappone sembrano soffrire di quella “crisi dello Stato” che potrebbe essere una sindrome europea peggiorata dalle forme che si stanno sviluppando nell’Unione, nel sistema-euro e dal nanismo degli Stati del sub-continente, in rapporto al ben diverso standard che si va affermando nel mondo grande.

Dicevamo che quello della taglia minima è un principio che sembra puntare a stati più grandi come standard di un mondo multipolare, demograficamente denso, saturo di soggetti in competizione, almeno per coloro che ambiscono ad alti livelli di autonomia. Sulla natura di questo mondo siamo ancora incerti in quanto non si è mai verificato nella storia del pianeta e si sta formando e definendo proprio ora. Altresì è del tutto impensato come si potrebbero formare questi stati più massivi visto che l’unico esempio storico che abbiamo sono le annessioni di tipo imperiale, quindi in forma coattiva, di cui è ben difficile immaginare un futuro storico in un mondo denso, affollato e competitivo[13]. Mondo denso, affollato e competitivo, è una descrizione che dice multipolare e multipolare porta con se il principio di equilibrio di potenza. L’equilibrio di potenza fa sì che tutti osservino tutti, non appena uno si sbilancia diventando più forte e minaccioso, molti altri si compattano per bilanciarne il peso. L’equilibrio di potenza in un sistema anarchico come quello mondiale, funge da principio auto-regolatore. Erroneamente l’accademia anglosassone che spadroneggia nella disciplina della Relazioni Internazionali ha ritenuto quello unipolare un ordine massimo, quello bipolare un ordine dinamico e quasi-stabile e l’ordine multipolare un disordine anarchico, al pari di coloro che ritenevano il governo dell’Uno quasi-divino, quello dei Pochi accettabile ma instabile e quello dei Molti l’inferno in terra. Come è evidente, questa è teologia politica, metafisica e pure scadente. Più è grande la massa da ordinare più questa si suddivide in sistemi (pianeti, sistemi solari, galassie, ammassi di galassie), sistemi plurali tra loro in interrelazione, tendono a formare reti e nodi/hub ed un hub è propriamente ciò che chiamiamo “polo”, tanti hub, tanti poli. Più grande e denso il sistema più hub ed articolazioni ci sono, questo indica la multidisciplinare cultura della complessità che taglia in orizzontale gli steccati disciplinari tra scienze dure, umane e sapere umanistico. Multipolare in un sistema denso e massivo, non sarà un sistema con poche superpotenze e qualche potenza regionale, ci saranno anche medie potenze, alleanze regionali, reti di cointeressenze, partecipazioni a tema nei network che uniranno stati più piccoli a quelli più grandi che fanno “hub” di un certo polo. Naturalmente, più potente sarà il nodo/hub, maggiore la sua sovranità, maggiore il suo grado di autonomia[14]. Tanta pluralità complessa, tendenzialmente autoregolata dal principio di equilibrio di potenza, potrà permettere la sovranità a Stati medio – piccoli, se sì a quali condizioni?

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[1] Il concetto di popolo o nazione è soggetto ad una doppia traenza, esaltante e critica. Di recente è stato ripubblicato il classico di Benedict Anderson, Comunità immaginate, Laterza 2018, che noi abbiamo integrato col forse più ampio saggio di Hobsbawm su


nazioni e nazionalismo che citeremo dopo e dal più vecchio ma sempre interessante, F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, 1961-2011”. Si tenga ben distinto il concetto di nazione da quello di nazionalismo, la nazione è un sistema, il nazionalismo ne è esaltazione ideologica, l’una non porta per forza all’altro. In breve, nell’ambito della storia europea, lo Stato del XVI secolo, si affermerebbe ancora su un concetto debole ed eterogeneo di nazione e sarebbe proprio la sua affermazione a mettere ordine e precisione nella definizione della nazione. Questo porta alcuni a dire che furono gli Stati a creare le nazioni, probabilmente per ragioni di opposizione dialettica a coloro i quali sostengono il contrario. In verità, sembrerebbero estreme tutte e due le posizioni. Se come pare, il Giuramento di Strasburgo che è del 842 d.C., contiene doppie formulazioni in proto-francese ed alto-tedesco antico, si deve conseguire che i due ceppi linguistici si formarono molto presto e si svilupparono all’interno di due areali che avevano buone ragioni geografiche per ritenersi relativamente omogenei e distinti. Ciò non porta a dire che alla nascita della moderna Francia, esistesse una compatta e del tutto omogenea comunità nazionale di “francesi” e certo l’istituzione dello Stato favorì la successiva omogeneizzazione, ma tutto ciò non vuol neanche dire che non esistessero caratteristiche storico-culturali di omogeneità relativa precedenti. Altresì, le ragioni che sostengono la definizione propria di nazione, sono molte e non sempre tutte presenti nell’analisi di questa o quella identità nazionale. Hobsbawm, sulla scorta anche di Anderson, ne conclude che nella misura in cui un gruppo umano si crede nazione, è una nazione, estremizzando forse un po’ troppo il lato soggettivo della questione. Personalmente, ritengo che quello di nazione sia un concetto dai bordi sfumati e dalla giustificazione variabile, ma che compare a fuoco e significante in comparazione: esistono francesi, italiani e spagnoli ed un francese non è un italiano che non è uno spagnolo che non è un francese. Ovviamente, le nazioni statalizzate possono avere nel loro territorio altre sub-nazioni, così come appartenere a sistemi di livello superiore (uno spagnolo è anche un ispanico, un latino, un europeo, un occidentale). “Bordi sfumati” significa anche che questi sistemi, ai loro confini difficili da tracciare con precisione, si mischiano con altri sistemi. Quale sia il popolo dei germani propriamente detti, ad esempio, è problema diverso dal domandarsi chi sono esattamente gli inglesi, la geografia e la storia che in essa si è ambientata, fa la differenza tra maggiore o minore precisione.

[2] Una visione generale dei processi europei si può rinvenire in vari libri di “grandi narrazioni storiche”, da Arrighi a Landes, da Bairoch a Braudel. Una, attenta proprio alle dinamiche di potenza nell’arco storico che va dal 1500 al 1987, è: P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, 1989-1999

[3] R. Caudenhove-Kalergi, Pan-Europa, il Cerchio, 2017

[4] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (varie edizioni, l’ultima è Longanesi 2008)

[5] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio, Nomos, Adelphi, 2015

[6] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene (varie edizioni, l’ultima è Mondadori 2017)

[7] Einaudi, 1991-2002

[8] p. 35


[10] La differenza tra globalizzazione ed internazionalizzazione è poco notata. Essa è nella semantica, se la seconda è una rete tra nazioni, la prima non aspetta il formarsi di un


sistema per tessitura tra le sue parti, impone un sistema unico a cui tutte le parti si iscrivono trovando istituzioni e norme valide per tutti. Scambiare la globalizzazione per il motore unico della crescita degli scambi commerciali tra stati è un errore, la globalizzazione ha inciso sulle forme, non ha creato il fenomeno. La confusione terminologica è propedeutica a quella mentale. Non è vero che siccome Trump rifiuta i trattati di libero scambio pluri-nazionali allora diventa nazionalista e porta gli USA a ritirarsi dal mondo, questa è voluta confusione mentale indotta. Trump ha solo detto che invece di trattati pluri-nazionali, lui ne vuole fare altrettanti one-to-one. Solo un facente finta di essere stupido può confondere le due cose. L’una modalità di commercio internazionale si affida alla mistica della mano invisibile, la seconda si affida al conto di bottega di entrate (export) ed uscite (import) valutando caso per caso, sia la reciprocità, sia il saldo finale. “Magicamente”, dopo un anno di articoli scriteriati sull’argomento, recentemente a Davos, molti si sono accorti della differenza tra commercio sregolato e contrattato sulle singole partite. Poiché non possiamo pensare che all’Economist o Foreign Affaris siano davvero così stupidi, ne dobbiamo concludere che si tratta di guerre ideologiche che si disputano l’egemonia presso il vasto pubblico che non sa proprio di cosa si stia parlando e scodinzola come i cani di Pavlov al pronunciarsi dei propri vaghi concetti di riferimento “globalista”, “libertà”, “nazione”, “egoista”, “isolazionista”, “sovranista”, etc.

[11] Sistemi multipolari locali come nel Rinascimento italiano o in Europa nel secolo della pax britannica (il “Concerto” delle nazioni tra circa 1815-1914) possono costituire solo riferimenti vaghi. Entrambi furono sistemi in tutt’altra condizione demografica e di sviluppo e le loro dinamiche erano parte di un meno ampio contesto.

[12] Su una possibile archeologia della sovranità, sembra molto promettente l’ultima fatica congiunta di D. Graeber e Marshall Sahlins: https://haubooks.org/on-kings/

[13] Sul concetti di -impero- si veda l’indagine dello storico: H. Munkler, Imperi, il Mulino, 2008

[14] Autonomia non significa starsene per conto proprio, significa darsi la legge da sé, sottomettersi solo alla propria intenzione.