L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 10 marzo 2018

Immigrazione di Rimpiazzo - il Partito dei Giudici è impazzito

Un cittadino bengalese è stato accolto in Italia come rifugiato ambientale

Pubblicato il 09 MAR 2018 di 

Con una sentenza che farà storia, un giudice del Tribunale di L'Aquila ha accolto una richiesta d'asilo per motivi ambientali. Non è la prima volta, ma la giurisprudenza è fondamentale per l'adozione di una terminologia universale.

Con un’ordinanza fuori dal comune, il Tribunale di L’Aquila ha concesso il diritto di asilo a un profugo a causa dei cambiamenti climatici. La giudice Roberta Papa ha riconosciuto, infatti, la protezione umanitaria a un cittadino del Bangladesh che aveva dichiarato di essersi irrimediabilmente indebitato dopo aver perso il suo terreno agricolo a causa di un’alluvione. È uno dei primi casi di accoglienza di questo tipo, da rifugiato ambientale, in Italia.

La motivazione datata 18 febbraio 2018 fa riferimento alle problematiche legate agli eventi climatici disastrosi che interessano il Bangladesh, annoverando tra le cause il land grabbing e la deforestazione e citando in merito il rapporto Crisi Ambientali e migrazioni forzate firmato dall’associazione A Sud.

Nel 2017 un intenso alluvione ha colpito il Bangladesh causando più di 150 morti © Paula Bronstein/Getty Images

Cosa dice la sentenza del Tribunale di L’Aquila

In una sentenza, che si può definire storica per la sua portata, il giudice ha ricordato come l’Italia abbia ratificato il Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

Il primo prevede che gli stati aderenti riconoscano il diritto di ogni individuo “a un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario, un alloggio adeguati, nonché il miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita”.

Il secondo patto, invece, si pone come obiettivo il riconoscimento del diritto fondamentale di ogni individuo a liberarsi dalla miseria. La sentenza rileva inoltre che tali principi internazionali trovano riscontro nella nostra Costituzione, in particolare all’articolo 2, e di come sia necessario considerare anche la circolare del 30 luglio 2015 adottata dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo del ministero dell’Interno, in cui sono evidenziati tra i motivi della concessione umanitaria anche le “gravi calamità naturali o altri gravi fattori locali ostativi a un rimpatrio in dignità e sicurezza”.

L’Onu non ha ancora riconosciuto una definizione condivisa di rifugiato ambientale © Ilia Yefimovich/Getty Images

Quanti sono i rifugiati ambientali

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) stima che, dal 2008, circa 21,5 milioni di persone all’anno hanno abbandonato le loro terre a causa di calamità naturali, come inondazioni, tempeste e incendi.

Tra gennaio e settembre del 2017, secondo Oxfam International, ben 15 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case per fuggire a eventi estremi: di questi, 14 milioni provenivano da paesi a basso reddito. Tra quelli più colpiti troviamo proprio il Bangladesh, seguito da India e Nepal. Ma ci sono anche le piccole isole del Pacifico, come le Fiji dove nel 2015 i cicloni hanno messo in fuga 55 mila persone e ridotto del 20 per cento il prodotto interno lordo nazionale (pil).

La previsione contenuta nel rapporto Lancet Countdown, pubblicato sulla rinomata rivista scientifica, è preoccupante: si parla di un miliardo di rifugiati climatici in giro per il pianeta entro il 2050.

Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), inoltre, ci troviamo di fronte a un fenomeno irrimediabile, dal momento che “un aumento della temperatura e una maggiore incidenza di disastri meteorologici aumentano le percentuali di emigrazione” e che la migrazione sia una “strategia di adattamento per famiglie colpite da shock climatici”. Flussi migratori consistenti potrebbero sorgere anche a causa del significativo innalzamento del livello dei mari.

Le previsioni di The Lancet parlano di oltre un miliardo di sfollati a causa dei cambiamenti climatici entro il 2050 © Daniel Berehulak/Getty Images

Quali soluzioni per accogliere i profughi ambientali

Quella del Tribunale di L’Aquila non è la prima sentenza a riconoscere un diritto di asilo legato ai cambiamenti climatici. Già nel 2016 il Tribunale di Bologna ha accolto il ricorso di un cittadino pachistano, proveniente dalla regione del Punjab, riconoscendo anche a lui la protezione umanitaria. Il cittadino, infatti, aveva lasciato la sua casa dopo che questa era stata devastata da un’alluvione che, oltre a distruggere tutti i suoi averi, aveva causato la morte dei suoi familiari.

Nonostante le coraggiose sentenze, portate avanti da singoli tribunali, non esiste una definizione universalmente accettata per i profughi ambientali. Le Nazioni Unite non hanno mai adottato formalmente il termine “rifugiato climatico” o “rifugiato ambientale”, mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) si limita all’espressione “migranti ambientali”.

10 marzo 2018 - QUANTO MANCA ALLA FINE DELL'EURO - Marco Zanni

4 marzo 2018 - Mattarella è avvertito, ora governo al M5S-Centrodestra ma le carte per quest'ultimo non c'è l'ha lo zombi Berlusconi, stanato dagli italiani, ma Salvini

RISULTATI ELEZIONI 2018/ Aldo Moro spiega il suicidio di Renzi e Berlusconi

Il trasformismo e il vuoto pneumatico hanno annichilito Renzi e Berlusconi. Di Maio e Salvini sono i due nuovi contenitori del Nord e del Sud del paese. MARA MALDO

05 MARZO 2018 - AGG. 05 MARZO 2018, 20.23 MARA MALDO

Silvio Berlusconi (LaPresse)

"Un partito che non si rinnovi con le cose che cambiano, che non sappia collocare ed amalgamare nella sua esperienza il nuovo che si annuncia, il compito ogni giorno diverso, viene prima o poi travolto dagli avvenimenti, viene tagliato fuori dal ritmo veloce delle cose che non ha saputo capire ed alle quali non ha saputo corrispondere". (Aldo Moro)

Il duro monito dell'ultimo statista che questo paese (che ha ucciso la politica) abbia avuto, si attaglia perfettamente al Partito Democratico e al suo leaderucolo Matteo Renzi, che in questa circostanza ha svelato avere come suo guru il trasformista Casini piuttosto che il riformista Tony Blair. 

Ma calza a pennello anche per Forza Italia, che nasconde pateticamente con la non candidatura di Antonio Tajani la sostanza della crisi berlusconiana, di un partito cioè che ha perso quasi 10 milioni di voti in pochi anni, che per paradosso ottiene in questa tornata gli stessi consensi della Scelta Civica di Monti del 2013 e che si avvia mestamente, come Alfano lo era stato di Renzi, ad essere la ruota di scorta di Salvini. 

Ma le parole di Aldo Moro, che tutti ipocritamente ricorderanno in settimana nel giorno della sua memoria storica, devono rimanere scolpite soprattutto nella mente dei vincitori di questa tornata elettorale: Di Maio e Salvini. Alfieri di due partiti passati dall’essere, invece che contenuti della protesta antisistema e della rivolta fiscale, contenitori del Sud e del Nord e quindi potenzialmente nuovo asse politico del paese. Sono giovani e approssimativi ma anche scaltri e capaci di comunicare. Se solo si lasciassero ferire dal dolore del nostro popolo, se solo mostrassero compassione per il destino di una generazione confusa, se solo uscissero dall'angolo degli slogan fine a se stessi permetterebbero ai loro partiti di essere qualcosa di più che delle corti e di lasciarsi interrogare dalla Storia.

"Non ci dobbiamo vergognare — era solito dire Al Kindi, filosofo e matematico arabo del Medioevo — di riconoscere la verità e di assimilarla da qualsiasi fonte ci venga, anche se ci è stata insegnata da altre generazioni e da popoli stranieri; per colui che cerca la verità, non c'è nulla che abbia un valore più grande della verità stessa; essa non lo umilia, anzi, lo onora e lo nobilita". Quando saranno chiamati a fare dei compromessi per il bene comune faranno bene a ricordarsene per non fare la fine di una qualsivoglia "grande coalizione".

4 marzo 2018 - si avvicina il governo M5S-Centrodestra ma l'agenda non è dettata dallo zombi Berlusconi ma da Salvini e Di Maio

SCENARIO/ Il sogno proibito del Cavaliere ha bisogno di Mattarella

Per DANIELE MARCHETTI, ciò che si prospetta all'orizzonte è un governo M5s-centrodestra. Con Berlusconi in chiave di vero "regista", che però vuole tenersi le mani libere

10 MARZO 2018 DANIELE MARCHETTI

Sergio Mattarella (LaPresse)

Mattarella parla di senso di responsabilità e Berlusconi — che non attendeva altro — da patron del centrodestra (ovvero da leader de facto) risponde presente. E raccomanda (ai suoi perché intendano tutti) apertura ed attenzione anche verso chi era ritenuto, fino a qualche giorno fa, "il male assoluto": un pericolo per la stabilità democratica del Paese da relegare, in ogni modo, all'opposizione.

Eppure dopo l'inatteso (ma forse non proprio casuale) "non" dialogo a distanza tutto appare meno nebuloso. E ciò che era ritenuto impossibile (e non solo improbabile) potrebbe invece materializzarsi prima di quanto si possa pensare. 

Con lo spoglio delle schede e l'affermarsi di un inedito scenario politico, molte sono state le formule ipotizzate per la formazione di un nuovo esecutivo. Qualcuno ha parlato di governo M5s-Pd, altri di maggioranza centrodestra-Pd, altri ancora di intesa M5s-Lega per arrivare persino a scomodare i cosiddetti governi della "non sfiducia" con improbabili appoggi esterni, astensioni concordate o tattiche uscite d'aula. Alchimie elettorali destinate ufficialmente a rimanendo sul tavolo del dibattito politico-giornalistico, ma che, dopo la pragmatica presa di posizione del Cav, sembrano archeologia.

Ciò che si prospetta all'orizzonte è un governo M5s-centrodestra. Non un semplice governo Di Maio-Salvini. Bensì un governo Di Maio-Salvini-Berlusconi (ovvero, un esecutivo del 70 per cento) nel quale Berlusconi, da mister della coalizione, disporrà (leggi: tratterà) i posti per tutti. Salvini compreso!

Il banco di prova sarà ovviamente l'elezione dei presidenti delle camere. A quel punto si capirà chi potrebbe essere l'incaricato del Colle: Di Maio, Salvini oppure una personalità condivisa (anche da B.) coadiuvata dagli stessi capi di Lega e 5 Stelle nel ruolo di vice con delega, sempre che — come si ipotizza da più parti — non siano proprio gli stessi leader a presiedere i due rami del Parlamento.

Insomma la soluzione, data tanto per difficile, appare ormai a portata di mano. Una soluzione, fra l'altro, buona (se non ottima) per tutti: per Mattarella che, in quattro e quattr'otto, sbrigherebbe una partita in potenza assai complicata; per i "quasi" vincitori Salvini e Di Maio che pur dettando la linea non rischierebbero la faccia come premier in una situazione comunque potenzialmente difficile. Ma anche e soprattutto per Berlusconi che, oltre a farsi apprezzare per le doti di mediazione e di responsabilità (caratteristiche proprie dello statista) potrebbe, da un lato, condizionare le scelte dell'esecutivo ritagliando per FI ruoli pesanti pur di secondo piano e, dall'altro, lasciarsi ampio spazio di manovra politica. Persino quello di abbandonare la maggioranza in caso di mala parata, lasciando gli eventuali ministri azzurri al loro posto (o al loro destino) come accadde con il governo Letta e facendo ricadere sulle spalle di Salvini e Di Maio tutto il peso politico di un eventuale esecutivo "alla deriva".

La prima pietra della XVIII legislatura è posta. Adesso sarà un gioco di nervi e di posizionamenti per piazzare ogni tessera al posto giusto. Servirà tempo, ma non più di tanto.

4 marzo 2018 - Berlusconi ha iniziato le grandi manovre contro Salvini. Prima delle elezioni con Maroni, ora con le delegazioni separate al Quirinale. Imbecille Di Maio se si accorda con lo zombi di Forza Italia che li ha insultati dalla mattina alla sera e che da sempre è inaffidabile teso unicamente a difendere le sue aziende private

DIETRO LE QUINTE/ Il piano (targato Mediaset) di Berlusconi per scaricare Salvini

La lettera di Berlusconi ai nuovi eletti segna una prima svolta vera nel dopo voto. Berlusconi vuole liberarsi di Salvini e fare un patto con M5s. Ecco come pensa di fare. ANTONIO FANNA

10 MARZO 2018 ANTONIO FANNA

Silvio Berlusconi (LaPresse)

L'idea che circola nel palazzo è solo un'ipotesi di scuola, ma non è del tutto peregrina. Un partito antisistema, nato contro l'establishment, avversato e preso in giro fino al ridicolo, sbanca nel paese con uno slogan evocativo, quasi quotidiano, che d'un tratto dà voce ad un ceto trasversale e silenzioso che vede nella politica solo declino e inevitabile corruzione. 

Quel partito si definisce con forza "movimento", cura molto la comunicazione, quando si presenta in tv i suoi esponenti paiono marziani ed è difficile etichettarli semplicemente come di destra o di sinistra. Alla sua prima performance elettorale ha fatto boom, alla sua seconda si è attestato su percentuali da Democrazia cristiana e si prepara a diventare l'asso pigliatutto della politica con promesse semplici, efficaci, che intercettano i bisogni di tanti ancora shockati dal tracollo economico degli ultimi anni. 

Adesso, se avete ben seguito il ragionamento, cambiate le date e capirete a quale salto stia davvero pensando la politica italiana. Nel 1994 quel partito era Forza Italia, nel 2018 il Movimento 5 Stelle. Venticinque anni dopo, il grande vecchio della politica ha ancora una volta fiutato il vento e ha capito, con una mossa quasi banale, come recuperare il centro della scena, liberarsi dello scomodo alleato leghista e tornare nella stanza dei bottoni da garante della democrazia di fronte all'Europa, come lo fu della destra di Gianfranco Fini e della Lega di Umberto Bossi. Senza dimenticare che, con una scelta del genere, Berlusconi avrebbe ampie garanzie per il futuro delle sue stesse aziende nel prossimo governo, cosa che dalle parti di Arcore vale più di mille inviti del Quirinale. 

Il copione è dunque molto semplice: 1. Spingere centrodestra e 5 Stelle, in un'ottica di nuovo sistema, ad accordarsi per la presidenza delle camere tagliando fuori il Pd e accogliendo l'appello di Mattarella; 2. Salire al Quirinale con delegazioni separate dalla Lega e ottenere dal presidente un incarico esplorativo — e fallimentare — per Salvini, così da rispettare il mandato elettorale ma dimostrando l'inevitabile fallimento della formula forza-leghista. 3. Aprire la stagione della responsabilità con appelli per un governo stabile al paese. Appello più mediatico che di sostanza, visto che al Senato Forza Italia e 5 Stelle sono già una maggioranza, mentre più fluida è la situazione alla Camera, dove mancherebbero poco più di venti deputati, ma il richiamo del Governo — si sa — è irresistibile e Forza Italia è sempre stata esperta nel ruolo di Arca di Noè. Il partito berlusconiano accetterebbe tutti i punti del programma a 5 Stelle, chiedendo in cambio qualche misura simbolica da giustificare col suo elettorato, qualche ministro d'effetto, e una serie di non belligeranze per i gioielli aziendali dell'ex Cav. La manovra potrebbe anche essere il prodromo di un'intesa territoriale che farebbe del nuovo blocco politico una macchina da guerra da Nord a Sud. 

Berlusconi e Di Maio sanno che tutto questo, per essere digerito, comporterebbe non pochi mal di pancia nei loro partiti, ma sanno anche che — alla lunga — tutto potrebbe apparire inevitabile ed innovativo. E forse è questo che spinge Di Maio a parlare di dialogo con "tutte le forze politiche, nessuna esclusa" e che porta l'attenzione della lettera di Berlusconi ai nuovi parlamentari sul tema della "lealtà" alle scelte della leadership. 

Pare che gli sherpa siano già al lavoro e che dal Colle più alto si segua con attenzione la manovra, che potrebbe fare da apripista per la madre di tutte le intese: quella sul nome presidente della Repubblica targato 2022. 

C'è chi indica nell'elezione del presidente del Senato il vero spartiacque della legislatura: se, in nome di un futuribile incarico per Salvini, Forza Italia ottenesse il Senato per uno dei suoi, magari stimato anche dai 5 Stelle, vorrebbe dire che la lunga marcia di sganciamento dalla Lega sarebbe partita e che l'ipotesi di queste ore starebbe maturando: il 1994 e il 2018 sarebbero quindi ad un passo dall'abbracciarsi. Lasciando al Pd l'umiliazione di una nuova faida interna tra renziani e calendiani e gettando alla Lega un guanto di sfida non scontato e imprevedibile. Del resto è proprio con questi colpi di scena che, sotto Pasqua, ad Arcore sono soliti festeggiare la Resurrezione del Caro Leader.

Mauro Bottarelli - E' guerra vera - che potrebbe servire come pretesto per far funzionare a pieno regime la creazione di dollari altrimenti il Sistema Finanziario Globale espoderebbe. Oggi più di ieri governo M5S-Centrodestra per portare via l'Italia dalle secche del Progetto Criminale dell'Euro

SPY FINANZA/ Gli interessi (Usa e Ue) dietro le "follie" di Trump

Negli Stati Uniti e in Europa c'è chi è pronto a sfruttare le mosse di Trump, compresa quella sui dazi commerciali, a proprio vantaggio, dice MAURO BOTTARELLI

10 MARZO 2018 MAURO BOTTARELLI

Donald Trump (Lapresse)

Il giochino di specchi e fumo, come dicono gli americani, si sta disvelando, giorno dopo giorno, sotto gli occhi di chi vuole vedere la realtà per ciò che è e non ciò che appare. Ma partiamo dall'ufficialità: parafrasando il noto proverbio, infatti, da giovedì sera "il dazio è tratto". Donald Trump ha firmato l'ordine esecutivo che dal 23 marzo vedrà in vigore le tariffe penalizzanti su acciaio e alluminio estero sul mercato statunitense, una mossa - a suo dire - per tutelare i lavoratori americani. L'Ue minaccia ritorsioni contro di dazi Usa, ma, come ora ovvio, finora solo a parole e cercando di evitare uno scontro frontale: addirittura, il consigliere economico della Casa Bianca, Gary Cohn, ha fatto seguire alle parole i fatti a tempo di record e si è dimesso, proprio in relazione alla decisione di presidente di imporre tariffe penalizzanti verso i competitor commerciali. 

Direte voi, la prova del contrario di quanto dice Bottarelli. No, l'esatto opposto. L'Ue, debitamente istruita dalla Bce, ha capito la logica che sottende l'intera operazione e ha colto la palla al balzo per mettere in cascina fieno fresco per una nuova crisi da spacciare ai mercati in cerca di emergenzialità: non a caso, Mario Draghi ha sentito il bisogno di ribadire la gradualità necessaria nel ritiro del Qe, sottolineando come il board dell'Eurotower seguirà strettamente il principio della forward guidance per prendere qualsiasi decisione. E poi? Se da un lato l'Eurotower ha eliminato dal suo comunicato post-board ogni riferimento a possibili aumenti o estensioni degli acquisti, se necessario, dall'altro il numero uno ha sottolineato come atti unilaterali come quelli di Trump possano avere impatti a livello globale, non un ultimo sull'inflazione. E metti che le prospettive peggiorino, cosa fai? Non rimetti mano alla stamperia per un po', tanto la colpa è di quello con i capelli strani che sta alla Casa Bianca. 

E Cohn? È un ex banchiere di Goldman Sachs, sa quando è il momento di abbandonare la scena: solitamente, un minuto prima del disastro e con una straordinaria motivazione, in grado di metterlo al riparo dalle critiche e dalle accuse. Come dire, se la folle politica della Casa Bianca innescherà una crisi in grado di far deragliare non solo i mercati ma la stessa ripresa economica Usa, Cohn avrà la scusa pronta: io lo sapevo e me ne sono andato per questo. Peccato che sia stato lui a dettare l'agenda economica di Trump finora, taglio delle tasse e budget 2019 tutto a deficit in testa. E di quale ripresa stiamo parlando, quella che ci mostrano questi due grafici, forse? Più della metà delle aziende Usa sta perdendo soldi, mentre la comparazione fra assets finanziari e assets reali non è mai stata così divergente: è questo il quadro che Cohn intende rivendicare e difendere con il suo addio? 


 

Attenzione, siamo di fronte a un deja vù storico notevole: Trump, infatti, appare lanciato verso un epilogo della propria breve carriera politica a metà fra Herbert Hoover e John Fitzgerald Kennedy. Non sono impazzito, provate a seguirmi. Il primo, 31mo presidente Usa, fu infatti l'uomo del grande taglio fiscale del 1930 in risposta alle tensioni del Grande Depressione, operazione di cui beneficiarono soprattutto le corporations e, subito dopo, della politica di dazi conosciuta come Smoot-Hawley Act. Cosa accadde? Il focus di Hoover sull'iper-produzione infrastrutturale espanse enormemente il debito Usa, di fatto lasciando inascoltato o quasi il grido di dolore occupazionale del Paese. Fu colpa di Hoover il 1929 o il suo fallout? No, ma le sue politiche economiche errate, come l'Hoover Dam, restano scolpite nella storia come tali: e lui, come potenziale capro espiatorio che garantisca ai veri responsabili se non l'immunità totale, certamente un bell'alibi. Ricorda nulla? E Kennedy? Guardate questo grafico: già il fatto che sia stato pensato e prodotto, deve far riflettere. Trump destinato alla stessa fine di Jfk? Non è detto, almeno non a livello fisico: basta ucciderlo politicamente, addossando al timing folle della sua scelta sui dazi la responsabilità per la crisi in arrivo. Responsabilità che invece grava su Banche centrali e d'affari, punto. 


Cosa deve farci paura? Il fatto che, a mio avviso, alla parabola quasi parallela fra i due presidenti manchi l'atto che scatenò il nuovo rally di Wall Street dell'ottobre 1962: il corrispettivo 2.0 delle crisi con la Russia per i missili a Cuba. E, come potete vedere, le possibili riproposizioni in chiave da XXI secolo di quel confronto non mancano, più o meno proxy. Russiagate, ora con il cotè dell'avvelenamento da gas nervino dell'ex spia russa in Gran Bretagna, la Corea del Nord, la Siria della nuova crisi a Goutha, il Baltico e il fronte Est della Nato. A vostro avviso, perché il 2 marzo scorso Ucraina, Moldavia e Georgia hanno sentito il bisogno di sancire ufficialmente la creazione di una nuova alleanza locale in chiave anti-russa, immediatamente benedetta da Washington, la quale non più tardi di una settimana fa ha fornito armi anti-carro all'esercito di Kiev? 

Insomma, siamo davvero in pericolo, ma non certo per dei dazi sull'alluminio. E, paradossalmente, a confermare che qualcosa che va al di là della volontà di Trump stia davvero bollendo in pentola è stato il plateale disvelamento avvenuto ieri della bufala nordcoreana, con Kim Jong-un che invita Trump per un incontro a quattr'occhi e il numero uno statunitense che dice di sì senza battere ciglio: mancava soltanto che gli chiedesse quali gusti di gelato preferisse o se fosse allergico a qualche cibo. Non vi avevo detto fin dall'inizio che si trattava di una patetica cortina fumogena? Il problema è che così la faccenda è davvero troppo sfrontata nella sua ridicolaggine, sembrano Gianni e Pinotto quei due e invece vogliono farci credere che siano stati a un passo dallo scatenare una guerra nucleare: e cosa avrebbe salvato il mondo dal disastro? La mediazione sudcoreana, grazie alle Olimpiadi invernali. 

Decenni di armi puntate, rotture diplomatiche, filo spinato e test nucleare e, alla fine, bastavano quattro pattinatori sul ghiaccio e una delegazione di Seul dal forte appeal diplomatico: credeteci pure, se volete, ma io - da buon malfidato - sento puzzo di qualcosa che bolle in pentola. Ma attenzione, perché la vera notizia - di cui ovviamente nessun grande media ha fatto menzione - è arrivata nella tarda serata di mercoledì. Ora, tutti sappiamo che la Fed ha innalzato l'outlook per l'economia Usa nel meeting di dicembre a causa della mitologica ondata di inflazione salariale in atto negli Usa: bene, questi due grafici mettono la cosa in prospettiva. Da un lato, abbiamo la quasi certezza che - stante l'indice delle sorprese macro - il quadro stia per mutare, dall'altro sono di dati a dirci che nel 2017 la crescita salariale negli Stati Uniti è stata la più deludente da nove anni a questa parte. 



Di cosa stiamo parlando, quindi? Di balle, come al solito, per giustificare altro. Ed eccoci alla novità dell'altro giorno. Raphael Bostic, presidente con diritto di voto della potente Fed di Atlanta, ha infatti impersonato la proverbiale prima gallina che canta, quando ha detto che «alcuni sviluppi con la politica commerciale del Paese hanno introdotto una dose di incertezza su come l'economia si muoverà in futuro, quindi sono fermamente intenzionato ad adottare una politica attendista». E quando i giornalisti gli hanno chiesto, alla luce di questo, se nella sua intenzione la Fed debba quindi operare due, tre o quattro aumenti dei tassi quest'anno, ecco la sua risposta: «Tutto è sul tavolo come opzione». E parliamo dell'uomo che, dopo aver fermamente difeso la politica di due soli rialzi, al Fomc di dicembre ha cambiato idea, optando per tre dopo il mega-piano di taglio fiscale di Trump. E ancora: «Al momento non è stato fatto. Non sappiamo quali prodotti verranno inseriti nel Nuovo regimi di dazi e l'Europa ha detto che è pronta a colpire un largo novero di nostri prodotti, non solo alluminio o acciaio, quindi regna l'incertezza. Chiunque sia coinvolto nel commercio internazionale deve essere preoccupato da questo, poiché esiste un rischio di cambiamento della realtà dei costi». Il primo, quello del denaro, pare di capire. Et voilà, la Fed con uno dei suoi membri più eminenti e ascoltati, mette le mani avanti: se saremo costretti a rallentare il processo di normalizzazione dei tassi di interesse, sappiate fin d'ora che la colpa non è della realtà economica che abbiamo mistificato finora e continuiamo a mistificare, ma della politica di dazi di Donald Trump! 

Ed ecco cosa scriveva a stretto giro di posta l'autorevole Oxford Economics al riguardo: «Stando alle sue previsioni e commenti, pensiamo che l'approccio futuro di Bostic all'aumento dei tassi sarà improntato alla cautela». Caso strano, il mercato ha festeggiato le parole di Bostic come fosse Natale. E poi, scusate, ma il Messico non era il nemico giurato di Trump, il quale ha incentrato un'intera campagna elettorale sul muro anti-clandestini (da far pagare ai messicani stessi, per giunta) e sull'intenzione di riportare in patria tutte le fabbriche svicolate oltre-confine per pagare meno tasse e salari più bassi? Cos'è successo, di colpo i clandestini mangiafagioli e stupratori, come li ebbe a definire il presidente, non sono più un problema? E nemmeno il dumping salariale e fiscale? Come spiegare, altrimenti, il fatto Trump abbia inserito proprio il Messico nella lista di Paesi amici - insieme a Canada e Australia - da esentare dalla nuova politica di dazi? Insomma, non vi pare che tutta questa faccenda puzzi lontano un miglio di diversivo, l'ennesimo? 

Anche perché la rapidità con cui Bostic ma anche Draghi hanno sottolineato le potenzialità inflattive della mossa di Trump, lascia intendere che - se necessario - si tornerà sui propri passi a livello di abbandono o riduzione degli stimoli espansivi. Vuoi dire che la Bce ha voluto farsi bella, eliminando l'ipotesi di aumento o prosecuzione degli acquisti dal documento del board, non perché l'outlook europeo sia così straordinario ma perché c'è la scusa pronta, oltretutto esterna all'eurozona, per bloccare tutto e andare avanti a monetizzare debito? Il dubbio viene. Eppure, a leggere i giornali e sentire i tg, tutti paiono terrorizzati dalla mossa di Trump, evocando scenari millenaristici: davvero pensate che il Deep State lascerebbe mano libera al presidente su una materia di questa delicatezza, se non ci fosse una finalità nascosta? Quale diavolo di ragione ci sarebbe di intervenire ora e con questa rudezza sul tema, d'altronde? Nessuna. Né, tantomeno, di attaccare frontalmente la Cina, visto che ha operato in modo fattivo per giungere al presunto disgelo fra Stati Uniti e Corea del Nord. E poi, se la Fed si è detta pronta fino all'altro giorno ad alzare i tassi quattro volte quest'anno, stante lo stato di salute eccezionale dell'economia Usa, perché rischiare un frontale con Ue e Cina sul commercio? 

Forse, allora, l'economia statunitense non brilla così tanto? O, forse, questa mossa da teatrante serve ad altro, Bostic docet. Ieri sono usciti i dati relativi ai nuovi assunti non agricoli di febbraio e boom! Più 313mila unità contro le attese medie di 205mila, il dato più forte da metà 2016 e - udite udite - torna a salire anche la partecipazione alla forza lavoro, stagnante se non in decrescita per trimestri e ora invece al 63% dal 62,7% di gennaio, il livello più alto dallo scorso settembre. Cosa ha deluso, invece? Le dinamiche salariali orarie su soltanto del 2,6% su base annua e questo dopo aver visto al ribasso al 2,8% il dato di gennaio: guarda caso, la voce che aveva fatto gridare all'inflazione al rialzo fuori controllo, al rischio di iperattività della Fed e aveva fatto schiantare i mercati tre settimane fa. 

Attenzione, non c'è più un'emergenza inflattiva, non c'è più tanta fregola nell'alzare il costo del denaro. Anzi, ho il forte sospetto che i dazi di Trump deprimeranno le aspettative inflazionistiche e molti altri Bostic si sentiranno in dovere di rendere nota la propria rinnovata cautela rispetto alla politica dei tassi. Tu guarda a volte le coincidenze. Quanto è comodo avere un presidente ritenuto così fuori di testa da non far sospettare che abbia un secondo fine: d'altronde, lo hanno messo lì per questo. Finché serve, lo sfrutteranno a dovere. Una volta che non servirà più, ricordatevi del parallelo con Jfk… Ma non sperate di leggere altrove teorie alternative all'allarmismo: il panorama informativo italiano, tutto purtroppo, è troppo occupato a seguire minuto per minuto la pantomima post-elettorale, dipingendo di fatto Di Maio e Salvini come De Gaulle e Adenauer. Povera Italia, meno male che a breve ci penserà l'Europa a riportare sulla terra - e a un minimo di dolorosa e allarmante serietà - l'intero circolo politico-mediatico.

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ANSA
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Pubblicato il 10/03/2018
Ultima modifica il 10/03/2018 alle ore 08:13
FABIO POLETTI
MILANO

AAA cercasi una cinquantina di parlamentari per portare Matteo Salvini a Palazzo Chigi. Visti i numeri, la Lega che si vorrebbe di governo allarga gli orizzonti ma non troppo. Igor Iezzi, 43 anni, ex segretario e consigliere comunale a Milano catapultato per la prima volta a Montecitorio, mette i paletti: «Accordi organici non ne facciamo con nessuno. Ma è chiaro che è più facile trovare i parlamentari che ci mancano tra i 5 Stelle. Anche se tra di loro c’è gente molto più a sinistra del Pd che viene dai centri sociali. Una volta dato l’incarico a Matteo Salvini si va in aula con 4 o 5 punti di programma. Penso che sull’abolizione della legge Fornero non possano dire di no. Ma mi viene difficile pensare ad accordi su una nuova legge elettorale. Quella è la cosa più politica che c’è». 

Al primo piano delle Stelline, la riunione dei 183 deputati e senatori della Lega è finita da poco. All’ingresso gli hanno tolto i telefonini per non registrare. Giurano che non si è parlato di politica, figuriamoci di alleanze: «Ci hanno dato solo consigli pratici. Tipo che alla Camera ci vuole la giacca ma non la cravatta. Ah sì... ci hanno detto anche di non accettare caramelle da sconosciuti». Gli «sconosciuti» sarebbero il resto del mondo, in questa partita che vale scudetto e coppa Italia. Averci a che fare è materia assai spinosa. Giuseppina Pina Castiello, ex deputata campana di Forza Italia approdata alla Lega, fa lo slalom con le parole: «Allearsi con i 5 Stelle è impossibile. Sono inaffidabili, li conosco bene. È vero che anche loro sono contro la legge Fornero ma come muoversi lo decide il segretario e la coalizione». 



L’abolizione della legge Fornero è il catalizzatore. Il reddito di cittadinanza che «farebbe saltare l’Inps e il sistema delle pensioni» come dice Umberto Bossi è l’ostacolo più grande. Matteo Salvini mette nel piatto pure una presidenza di Camera o Senato per i 5 Stelle. Ma guai a parlare di accordi. Massimiliano Fedriga, parlamentare del Nord-Est di lungo corso chiude la saracinesca a doppia mandata: «Gli accordi fatti dopo le elezioni erano una cosa che avviliva e faceva parte della vecchia politica. Noi come centrodestra siamo la maggioranza relativa in Parlamento. Se ci deve essere un dialogo su alcuni punti di programma che possono essere condivisi va fatto coi singoli parlamentari». 

Certo l’idea di sedersi attorno a un tavolo a trovare la quadra per qualcuno è un esercizio machiavellico. Senza contare che esporsi troppo quando non si è ancora capito dove tira il vento può essere assai rischioso. Meglio essere tranchant come Luis Roberto Lorenzato, avvocato e discendente di una nobile famiglia di Ivrea, eletto tra gli italiani all’estero nel collegio di San Paolo in Brasile: «Per me i 5 Stelle e il Pd sono la stessa cosa». E si intende che non li considera come la crema sul babà. Simone Billi, fiorentino ma emigrato in Svizzera dove è diventato manager di una multinazionale nel settore Energia prima di essere eletto nel collegio di Zurigo, dissente: «Non è vero. I 5 Stelle sono peggio di tutti». Mirabile la sintesi di Donatella Tesei arrivata al Senato dall’Umbria dove è sindaco di Montefalco: «Il Pd è il male conosciuto. I 5 Stelle sono il male sconosciuto». 



Eppure se la Lega vuole andare al governo qualche amarissimo calice se lo deve pur bere. Alla fine si gioca tutto su acrobatici equilibrismi. Come dice Claudio Borghi, il responsabile economico del partito rieletto in Toscana: «Ci sono delle cose di massimo buon senso su cui tutti sono d’accordo. penso all’abolizione della legge Fornero. C’è chi la vuole cancellare, chi la vuole correggere, è solo una questione di termini. Riuscire a parlare coi 5 Stelle sarebbe epocale visto che non si è mai fatto. Trovarsi sui programmi è fondamentale ma l’importante è fare le cose». Che non sia troppo facile lo si capisce da quelli che svicolano e rimandano al «segretario, decide il segretario». Pure la neoleghista eletta Giulia Bongiorno, che saluta gentile «ma non mi faccia dire nulla». O Roberto Calderoli, dentista e più volte ministro con la Lega che giura di tacere fino al giorno dell’insediamento: «Ho mal di denti, non parlo fino al 23 marzo».

Africa - La prossima presente futura guerra è già iniziata, la posta in gioco sono le risorse naturali di questo continente

RUSSIA. Lavrov: “Non sapevo che Tillerson si intendesse di Africa e Cina”

marzo 10, 2018
Anna Lotti


Il ministro degli Esteri russo ha firmato una serie di accordi economici in Zimbabwe, una delle cinque tappe di un tour in Africa che comprende gli stati già legati all’Urss come Mozambico, Etiopia e Angola.

L’obiettivo dichiarato del viaggio di Sergey Lavrov in Zimbabwe era quello di riaffermare le relazioni e di firmare accordi che per il Cremlino «cementano i legami bilaterali», riporta VoA. Lavrov ha firmato tre accordi di cooperazione sul commercio e l’industria durante la visita ad Harare, coincisa con il primo viaggio del suo omologo americano, Rex Tillerson, nel continente africano.

Durante la visita, Lavrov ha condannato le sanzioni statunitensi allo Zimbabwe per presunte violazioni dei diritti umani e altri atti di repressione. «Siamo certamente e categoricamente contrari a qualsiasi iniziativa unilaterale come le sanzioni o il tentativo di imporre misure che costringano questo o quel paese a fare qualcosa. Tali misure sono purtroppo contro lo Zimbabwe. Riteniamo che questi passi politicizzati distorcano il mercato e i paesi che invocano queste misure interferiscono illegalmente nel gioco delle forze del libero mercato».

Il ministro degli Esteri russo ha anche criticato il Segretario di Stato americano Rex Tillerson per le opinioni espresse sul coinvolgimento cinese in Africa. In un discorso prima della sua partenza per l’Africa, Tillerson ha accusato la Cina di «incoraggiare la dipendenza» in Africa.

«Non sapevo che Rex Tillerson fosse uno specialista di relazioni Cina-Africa (…) In ogni caso, non credo che sia del tutto appropriato, se ha davvero detto questo. E non è appropriato per lui criticare i rapporti dei padroni di casa quando si è loro ospiti».

Il viaggio di Tillerson in Africa lo ha portato in Ciad, Gibuti, Etiopia, Kenya e Nigeria: tutti paesi con i cui governi gli Stati Uniti hanno collaborato per contrastare il terrorismo. Tillerson ha detto che la politica statunitense nei confronti dell’Africa si basa sulla promozione della sicurezza, dello sviluppo e del buon governo.

Bulgaria - una visione distorta dell'Europa, invece di intraprendere un sano realismo come il blocco delle frontiere all'Immigrazione di Rimpiazzo

L’allarme di Sofia: così l’Europa
lascia i Balcani in mano ai russi e ai cinesi

MAR 9, 2018 
Marzio G. Mian

«Sbrigatevi ad ancorarci definitivamente all’Occidente, altrimenti Russia, Turchia e Cina avranno mano libera nei Balcani stanno occupando spazio ogni giorno che passa. Siamo noi la garanzia di stabilità, guardate la cartina e capirete perché la Bulgaria è il baluardo dell’Occidente», ha detto giorni fa a Sofia il premier conservatore Boyko Borisov, ex cintura nera di karate, pelata da ex buttafuori e fisico da guerriero tracio («dopo un suo abbraccio sono rimasto a letto tre giorni», disse David Cameron). Fa un certo effetto osservare come il paese che fu simbolo della sudditanza al Cremlino, ligio alle purghe più feroci e ai lavori più sporchi dell’intelligence sovietica, abbia orientato con lo stesso slancio la sua leggendaria maggioranza a ovest. A lungo nessuno se l’è filata, anche il suo ingresso nella Nato nel 2004 e nell’Unione europea nel 2007 è avvenuto in modo sommesso. Nei palazzi dell’Europa occidentale si continua a guardare con sussiego a quella parte dell’est solo per rilevarne la scarsa solidarietà in tema d’immigrazione; tuttavia, mentre Sofia presiede il semestre europeo, ci s’accorge che lì s’incrociano tensioni e interessi che rischiano di minare una regione storicamente instabile. «L’Unione europea deve correre subito ai ripari o rischia di trovarsi una crisi ingestibile sul fronte sud-orientale», ha scritto sul Guardian Ivan Krastev, direttore del Centre for liberal strategies di Sofia. Nessuno come la Bulgaria ha esperienza di pressioni provenienti da Mosca ed è stato lo stesso premier Borisov, durante un vertice informale con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, a lanciare l’allarme sugli imponenti investimenti russi nei paesi balcanici: tre miliardi di euro negli ultimi due anni, il 15 per cento dell’economia regionale, banche, miniere, turismo sono in mano ai russi (anche se avanzano a grandi passi i cinesi). «Un quarto dell’economia bulgara dipende da Mosca», denuncia al Giornale Martin Vladimiro, analista del Centro per la democrazia a Sofia: «Alcune istituzioni sono in ostaggio dei russi». Borisov ha annunciato a Juncker che, se Bruxelles non indugerà nel processo d’inclusione di Sofia nell’euro, saranno tacitate le sirene pan slave del Cremlino, a partire dalla dipendenza energetica. Appena terminato il gasdotto proveniente dalla Grecia (220 milioni di euro) il governo è pronto a siglare un accordo con Israele e a chiudere con la fornitura di Gazprom che copre il 90 per cento del fabbisogno nazionale.

Tuttavia l’allargamento dell’eurozona al malconcio paese balcanico non è affatto scontato, nonostante sulla carta rientri nei criteri richiesti. Per ingraziarsi l’Olanda, uno dei paesi che più ostacola il suo ingresso in Schengen, Borisov ha guidato il collega Mark Rutte alla frontiera turca: «Se questi non sono i confini più protetti d’Europa, be’ allora non accettateci». Ciò che accade con la Bulgaria mostra che nell’Unione europea, dopo il «caso Grecia», non sono più le norme e lo stato di diritto a regolare l’allargamento, ma la politica economica e gli interessi di alcuni stati. Sofia ribadisce che la moneta è stata ancorata al marco per 20 anni, gode di un surplus di budget, il debito pubblico è solo il 25% del Pil e l’inflazione appena 1,8%, in linea con il target della Banca centrale. Il fatto è che a Bruxelles, Berlino e Parigi vedono lo spettro di un’altra tragedia greca. La Bulgaria nelle cancellerie viene percepita come paese inaffidabile e corrotto. «È un preconcetto politico, le riserve sono infondate», dice Zsolt Darvas del centro Bruegel. «C’è un doppio standard, accettare la Bulgaria nel club dell’euro dovrebbe essere automatico. Non doveva esserlo con la Grecia, piuttosto. Noi stiamo diventando un partner necessario».

Ricordavamo la Bulgaria come un vivaio di spie e di addestratori di terroristi in missione nei paesi Nato, ma ora la ritroviamo nel ruolo di paese pacificatore che prova a garantire la stabilità nei turbolenti Balcani. Sta infatti mediando tra Atene e Skopje sulla spinosa questione del nome Macedonia; inoltre, nonostante l’ostilità della destra nazionalista al governo, Borisov ha siglato un accordo con la Macedonia mettendo fine a una delicata disputa su confini e minoranze. La mossa, secondo Ivan Krasnev, sarebbe stata ispirata da alcuni stati Nato per arrivare a inglobare l’unico paese mancante nella scacchiera balcanica dell’Alleanza e dissuadere così Mosca nel suo corteggiamento a suon d’investimenti. C’è poi la Turchia con cui la Bulgaria condivide il più «caldo» confine terrestre europeo. Una Turchia, va detto, che sta pericolosamente rimettendo in discussione i confini stabiliti a Losanna nel 1923, minacciando sia Atene sia Sofia: «Erdogan sta giocando una rischiosa partita nei Balcani attraverso le comunità musulmane in Macedonia, Bosnia, Albania e Kosovo»», dice Krasnev. «La Bulgaria si trova sotto una tremenda pressione, il 10 per cento della popolazione appartiene alla minoranza turca. E i sentimenti anti turchi stanno crescendo».

Un crocevia d’interessi contrastanti tra Russia e Turchia passano da Sofia. «Questo è un paese troppo debole per potere gestire partite così delicate. Ma Bruxelles è lontana, cieca e sorda», dice Krasnev, secondo il quale «quando l’Unione si deciderà d’investire politicamente e materialmente nella regione sarà probabilmente troppo tardi, perché a quel punto Cina, Russia e Turchia avranno comprato fedeltà e alleanze. Non serve avere una spia al Cremlino per capire come per Mosca sia un’operazione a bassissimo costo destabilizzare l’Ue attraverso la Bulgaria e i Balcani occidentali, senza alcun rischio di confronto con gli Stati Uniti. Bruxelles avrà mai la forza o la volontà di fermare questa escalation?»

Dall’era comunista la Bulgaria è uscita a pezzi, inquinamento, corruzione, mafie, istituzioni allo sbando: un paesaggio di rovine industriali e di devastazione sociale. Dal 1990 la popolazione è calata da nove a sette milioni, un esodo di massa, 60mila espatri l’anno. In maggioranza giovani professionisti che non ritornano più. Il tasso di natalità è il più basso d’Europa e quello di mortalità il più alto. Escluso il ricambio con ingressi stranieri, perché il governo non fa entrare nessuno, sui migranti è più implacabile dell’ungherese Viktor Orban: sono appena un centinaio i permessi di asilo concessi.

L’unico settore in espansione è il turismo. Molti bulgari infatti cominciano a rientrare dalle coste spagnole e dalle isole greche per lavorare nei resort sul mar Nero d’estate e soprattutto sulle piste d’inverno che sono diventate per inglesi, russi e scandinavi la destinazione sciistica low cost più popolare. E pur di fare cassa e ampliare l’offerta si stanno devastando i parchi naturali e i siti Unesco, come quello del Pirin, 440 km quadrati di laghi e foreste, definito l’«ultima riserva di selvaggio d’Europa». Per ampliare la capacità ricettiva di stranieri (una famiglia di quattro persone spende complessivamente duemila euro la settimana tutto incluso) sono già stati abbattuti tremila ettari di foresta. Così, dopo gli abitanti spariscono anche gli alberi.

4 marzo 2018 - quel branco di cani rabbiosi dei mass media che ancora costruiscono e veicolano fake news per proteggere i loro padroni, MA ora governo fortissimo M5S e Centrodestra per la difesa degli Interessi Nazionali

Elezioni. Marco Tarchi: “L’exploit del M5S e Lega? Tutt’altro che inatteso”

Pubblicato il 9 marzo 2018 da
Categorie : Politica

Marco Tarchi

Come commenta l’exploit del Movimento 5 Stelle (e di Lega)?
Tutt’altro che inatteso. I sintomi della crescente disaffezione di una buona parte dell’elettorato verso l’establishment erano evidenti da tempo. Stupisce un po’ che entrambi siano riusciti a recuperare una discreta quota (insieme, circa il 10%) di coloro che fino a un mese e mezzo fa dichiaravano di volersi astenere.

Definirebbe tecnicamente il M5S un partito populista?
No. Ho sempre distinto il discorso politico di Grillo – che è populista a pieni carati – e l’azione del M5S, che se ne è tendenzialmente distaccato, soprattutto dopo la morte di Gianroberto Casaleggio. Oggi nel movimento ci sono alcuni tratti della mentalità populista, ma vari altri mancano.

Grillo ha detto che il M5S è riuscito a convogliare positivamente una rabbia repressa degli italiani che altrove (vedi Francia, Ungheria e altri) è stata raccolta dai movimenti di destra estrema. È d’accordo?
Sì e no, perché non condivido l’etichetta di “destra estrema” attribuita al Front National, a Orbàn o alla Fpö austriaca. Sono partiti populisti. Detto questo, sì, il M5S ha intercettato in buona parte anche spinte che avrebbero potuto andare in quella direzione (cioè, da noi, alla Lega).

Come mai il M5S ha preso comunque tanto nonostante alcuni inciampi degli ultimi mesi? Il voto nei suoi confronti è un atto di fede?
È un atto di ripulsa verso i comportamenti dei “politici di professione” che hanno guidato l’Italia da molti decenni. Ed esprimere, in questo senso, una preferenza che non può essere scossa da qualche smagliatura nel rapporto fra promesse e realtà.

Come mai non ha perso consensi nonostante il mutamento antropologico del partito? 
Perché per adesso è riuscito a conciliare i “vecchi” elettori, che sperano di vederlo conservare i vecchi connotati “grillini” di protesta e i nuovi, che hanno apprezzato la svolta “istituzionale”. Il vero problema sarà riuscire a mantenere in futuro questo carattere composito.

I congiuntivi sbagliati di Di Maio non hanno effetto?
Ha presente il linguaggio trasparentemente ipocrita e costruito di gran parte degli esponenti degli altri partiti? Quello sì che scandalizza i potenziali elettori pentastellati…

Lo scandalo rimborsi, che sembrava mettere in discussione il mito dell’onestà, non ha avuto effetti. Perché?
Perché è molto meno eclatante degli scandali che hanno punteggiato la vita dei partiti concorrenti, che nei decenni ne hanno accumulati una enorme quantità.

E le gestioni non eccellenti di Roma e Torino a opera di sindaci M5S? 
Come tali sono state presentate soprattutto dai grandi media, che notoriamente l’opinione pubblica portata alla protesta vede come il fumo negli occhi. L’impressione che molti potenziali elettori M5S possono avere avuto è quella di un accanimento mediatico contro il movimento. E questo li ha portati a respingere certi messaggi.

Cosa si aspetta secondo lei adesso l’elettore medio dei 5Stelle? Manderebbe giù anche un’alleanza con Salvini?
Il problema è che un elettore medio M5S non esiste. È un elettorato composito. Una parte sarebbe d’accordo, un’altra no. Sarebbe la prima prova di tenuta del movimento.

*Da Vanity Fair

Eliminazione dei contanti - quei cialtroni che vogliono dominare la vita in tutte le sue angolature

La lotta ai contanti nasconde dei pericoli: il caso della Svezia

08/03/2018

Luci e ombre della lotta ai contanti. La guerra per limitare il ricorso ai pagamenti sull’unghia a favore dei mezzi ‘cashless’, in Italia, ha toccato da vicino anche le agenzie di viaggi, alcune delle quali non hanno mancato di porre l’accento sulle difficoltà e sulle ripercussioni sulle vendite di questa strategia.

Ma la guerra alla cartamoneta potrebbe avere anche dei risvolti preoccupanti, come dimostra il caso della Svezia. Il Paese nordico, come riporta ilsole24ore.com, ha raggiunto la quasi totalità delle transazioni in forma elettronica. Ma la banca centrale svedese ha lanciato un allarme: in caso di catastrofe naturale o tecnologica, ci potrebbero essere intere regioni completamente sprovviste di denaro contante. Dunque, si avrebbero migliaia di cittadini impossibilitati ad effettuare anche gli acquisti di sussistenza. 

Per contro, sempre in Svezia, la lotta al contate ha sicuramente dato un contributo fondamentale nelle battaglie contro evasione fiscale e lavoro nero. Ma, come spesso accade, non manca il rovescio della medaglia.

Nicola Gratteri - solo quel pozzo oscuro dei servizi segreti possono eliminare l'intelligenza del nostro


REDAZIONE 09 MARZO 2018 13:48

Per il capo dell’Ufficio territoriale del governo di Vibo Valentia, l’azione di inquirenti e forze dell’ordine «favorisce nel cittadino la percezione di legalità e di sicurezza che serve a ricostruire il legame fra popolazione e istituzioni». Solidarietà al maresciallo Todaro dal commissario prefettizio Raimondo 



Il prefetto di Vibo Valentia Giudo Longo, attraverso una nota, ha espresso il «suo sentito plauso per l’esito delle indagini condotte dall’Arma dei Carabinieri di Vibo Valentia, diretta dal tenente colonnello Gianfilippo Magro, che, sotto il sapiente coordinamento del procuratore della Repubblica presso la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, Nicola Gratteri, hanno consentito, nella giornata di ieri, di assicurare alla giustizia pericolosi esponenti della criminalità organizzata, operante in particolare sul territorio di Filandari». 

Per il rappresentante territoriale del governo: «La citata operazione, in un territorio, qual è quello di Vibo Valentia, fortemente pervaso dalla criminalità organizzata, favorisce nel cittadino la percezione di legalità e di sicurezza che serve anche a ricostruire il legame fra la parte sana della popolazione e le istituzioni, ripristinando un rapporto fiduciario che non può e non deve sfaldarsi».

«Piena ed incondizionata solidarietà al maresciallo Salvatore Todaro ed all’Arma dei Carabinieri» viene invece espressa dal commissario prefettizio del Comune di Filandari, Sergio Raimondo, in conseguenza dei messaggi intimidatori indirizzati dal clan Soriano alla Benemerita. 

A giudizio del Commissario Raimondo «è necessario che ora più che mai è necessario che le forze sane del Comune di Filandari, quali le parrocchie e le numerose associazioni di volontariato operanti su quel territorio, mettano una marcia in più nel tentativo di affermare i principi di democrazia, legalità e di promozione della città».

4 marzo 2018 - Di Maio, Salvini, siete avvertiti avete il dovere diritto di mettervi insieme per salvaguardare gli Interessi Nazionali, ora governo M5S-Centrodestra

Ferruccio De Bortoli: «È ora che i Cinque Stelle provino a governare»

L'ex direttore di Corriere e Sole 24 Ore spiega perché non veda con preoccupazione un eventuale governo Di Maio: «Il fatto che cambino idea su tutto può essere una forma di saggezza implicita. Rischi di nuove crisi? Oggi stiamo molto meglio che nel 2011»

9 Marzo 2018 - 07:30

«CI troviamo di fronte a un voto di pancia, che viene dalle viscere del Paese, ma che è comunque un'espressione di democrazia. E io credo, in quest’ottica, che si debbano associare i Cinque Stelle a responsabilità di governo. Trovo sia molto difficile lasciare fuori dalla porta il 33% dei cittadini italiani». Queste parole, pronunciate la sera del 6 marzo nel contesto di un incontro sul risparmio tradito degli italiani organizzato da Linkiesta e Moneyfarm nell’ambito del clclo di eventi di #redazionefinanza, iscrivono Ferruccio De Bortoli alla fazione di chi vedrebbe con favore un’alleanza tra Pd e Movimento Cinque Stelle. È un opinione, quella dell’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore, motivata da una lettura delle cause che hanno portato a un risultato elettorale «atteso, ma non in questa misura» e da un analisi del contesto politico ed economico che ci troveremo di fronte nei prossimi anni.

Le cause, innanzitutto. Quello per i Cinque Stelle, secondo de De Bortoli è un voto che «prescinde da come i Cinque Stelle stanno governando e da come governeranno».Semplicemente, spiega, «è lo strumento più acuminato per esprimere la rabbia, la frustrazione, il senso di esclusione». Non è un caso, ricorda, che il consenso del Movimento guidato da Luigi Di Maio sia «inversamente proporzionale al reddito medio delle regioni italiane». Sono 11 milioni e rotti di italiani, che per De Bortoli «non possono essere lasciati fuori dalla porta». Anche perché «non sono degli alieni che improvvisamente hanno deciso di mettere la scheda nel posto sbagliato, ma pezzi del ceto produttivo di questo Paese».

Fa riferimento alla questione delle crisi bancarie, De Bortoli, proprio per sottolineare da dove scaturisce la frustrazione dei territori, ma anche dove la politica cessa di diventare un problema e cominci a prendere le sembianze del grande alibi: «Le responsabilità delle crisi di Mps, delle popolari venete, delle quattro banche locali, va ascritta alle classi dirigenti locali, tra cui ci metto imprenditori, professionisti, dirigenti, non solo politici - spiega -, che non hanno visto, o non hanno voluto vedere quel che stava succedendo. Progressivamente, l’orgoglio territoriale si è trasformato in connivenza, e poi in complicità, in alcuni casi in omertà». Racconta della vicenda, misconosciuta ai più, della Cassa di Risparmio di Chieti, guidata letteralmente dall’autista del presidente, tale Domenico Di Fabrizio, signore delle preferenze locale: «Era dipendente della banca, ma anche referente politico del territorio. Giustamente, tutti andavano da lui, per farsi fare un fido. E lui rendeva efficiente il tragitto per istruire pratiche. Un caso straordinario, quasi unico, di governance bancaria», riflette tra l’ironico e l’amaro De Bortoli.

Non stupisce, pertanto, che sui territori delle crisi bancarie sia calata una specie di congiura del silenzio su quanto accaduto: «Nessuno non ne vuole più parlare - spiega De Bortoli - Si vergognano, nel migliore dei casi, di aver fatto cose in spregio alle più elementari regole economiche, ad esempio mettere tutte le loro uova nel medesimo paniere, investendo tutti i loro risparmi nelle azioni della banca, consigliati dal medesimo funzionario che apriva loro un fido bancario, evidentemente considerato molto attendibile. Molte di queste persone sono comuni cittadini senza la benché minima formazione economica e si sono sentite ingannate, truffate, tradite, escluse. E quali strumenti, oltre al voto, possono avere queste persone per manifestare tutto questo, per scaricare le loro responsabilità verso qualcun altro?».

I Cinque Stelle, in questo senso, si sono rivelati il Movimento giusto nel momento giusto: «Lo abbiamo visto benissimo in occasione della commissione banche, un errore gravissimo del Pd, che pensava di scaricare le proprie responsabilità su Bankitalia e Consob. E invece, a beneficiare di quella commissione è stata l’unica forza estranea alla gestione del risparmio degli italiani. Anche la commissione banche, in quest’ottica, è stata un volano efficace per far aumentare i consensi per Di Maio, soprattutto nei territori in cui la gente si è sentita tradita».

Può nascere qualcosa di buono, da questa rimozione collettiva delle responsabilità? De Bortoli è convinto di sì, che la rabbia e la frustrazione possano essere incanalate in una cultura di governo, perlomeno in un suo embrione: «Il fatto che cambino idea abbastanza facilmente non depone a favore della loro coerenza, ma forse è un segnale di saggezza implicita. Che messi di fonte alle responsabilità di governo, rinuncino a scelte che ci porterebbero dritti alla bancarotta. Del resto, noto una venatura democristiana nel loro leader. E registro anche che persino da parte della Lega c’è un tentativo di dimostrare tendenze moderate, in aperto conflitto con i programmi e le affermazioni di giorni prima».

«Il fatto che cambino idea abbastanza facilmente non depone a favore della loro coerenza, ma forse è un segnale di saggezza implicita. Che messi di fonte alle responsabilità di governo, rinuncino a scelte che ci porterebbero dritti alla bancarotta. Del resto, noto una venatura democristiana nel loro leader».Ferruccio De Bortoli

Rischi all’orizzonte? Nemmeno troppi: «La situazione di incertezza politica del 2018 si inserisce in un quadro completamente diverso rispetto a quella del 2011 - spiega De Bortoli - allora non c’era il meccanismo europeo di stabilità, né il quantitative easing di Mario Draghi, ad esempio. Anche la nostra situazione di finanza pubblica e di bilancia commerciale è molto diversa rispetto a quelle del 2011. Nel 2011 più del 50% del nostro debito pubblico era collocato all’estero, oggi siamo attorno al 30%. Oggi, semmai, il problema è che il debito è in pancia alle banche italiane. Intesa San Paolo, ad esempio, possiede il 10% esatto del debito italiano. C’è stato un momento che era addirittura attorno al 15%».

La vera questione aperta, semmai, è che pensiamo che ci sia una torta da dividere che non esiste più: «Ci siamo abituati a vivere sotto il mantello protettivo della Bce e la campagna elettorale che abbiamo appena vissuto ne è in qualche modo una testimonianza evidente», spiega De Bortoli. Le cose cambieranno, insomma, e non necessariamente in meglio. Anche per le banche, che hanno di fronte anni di rivoluzione tecnologica e imprenditoriale, dopo le crisi di malagestio degli anni passati: «C’è un mondo, ricchissimo, che sta per attaccare il sistema del credito bancario - spiega Paolo Galvani, fondatore e ceo di Moneyfarm, anch’egli protagonista del dialogo con De Bortoli - Amazon è già pronta a finanziare, da sola, gli acquisiti che vengono fatti sulla sua piattaforma, ad esempio». Secondo Galvani per le banche c’è ancora spazio, ma è un ruolo diverso, più semplice. Con servizi più specializzati, dati in outsourcing ad altre realtà: «È il concetto dell’open banking - spiega -. Non vedo e spero di non vedere la fine del ruolo delle banche. Vedo un’evoluzione».

Siamo di fronte a una nuova ondata di crisi bancarie? No, secondo De Bortoli, ma molto dipenderà dalla capacità che i sistemi territoriali avranno nel gestire il cambiamento e nel ruolo che avrà la politica di governare le crisi, come in passato non è avvenuto: «ll sistema economico italiano si è accorto in ritardo del fatto di avere un rischio di credito molto elevato - racconta -. Oggi si tende frettolosamente a dare responsabilità alla crisi economica, ma si è discusso poco del fatto che proprio a causa e nel bel mezzo della crisi economica sono state affidate persone senza alcun merito di credito e senza alcuna ricaduta sull’indotto e sulla ricchezza del territorio. Il tutto in spregio alle stringenti norme di Basilea».

Il tutto, anche, mentre l’Italia non interveniva a mettere in sicurezza il suo sistema bancario, come invece hanno fatto Germania e Spagna, coi soldi dell’Europa: «Io ho discusso a lungo con Monti sul perché nel 2011 e 2012, quando c’erano avvisaglie di una crisi di sistema non è stato chiesto aiuto all’Europa - ricorda De Bortoli -. La risposta non è semplice: c’era l’idea, allora, che la Bankitalia non percepisse l’esplodere dei crediti in sofferenza. Ma io sono dell’idea che se anche si fosse compresa la gravità della situazione non si sarebbe mai chiesto aiuto all’europa. Perché avrebbe negato l’esistenza stessa del governo tecnico. Perché si fa un governo tecnico, se ci pensate? Per evitarsi un commissariamento. Se un governo tecnico si fosse fatto salvare dall’esterno, avrebbe accettato delle condizionalità e non avrebbe potuto farlo». Allo stesso modo, continua De Bortoli, «si è sbagliato a ritardare il decreto sulle popolari, che è arrivato con almeno dodici mesi di ritardo, si è sbagliato nell’approvare con troppa leggerezza la normativa sul bail in, e si è sbagliato a ritardare il salvataggio di Montepaschi, perché si temeva che mettere soldi per salvare una banca avrebbe avuto effetti nefasti sul referendum». Se ora siamo dove siamo, quegli errori c’entrano qualcosa.

4 marzo 2018 - con questi euroimbecilli del Pd che vogliono più Europa non si va da nessuna parte e il voto lo ha consacrato

Lo strano snobismo di sinistra verso gli elettori dei Cinquestelle

Nella sinistra si sta diffondendo, da anni, un atteggiamento ironico e canzonatorio verso gli elettori del Movimento 5 Stelle, un atteggiamento che da qualche mese sfiora il classista. E che, a bene vedere, è l'esatto contrario dell'essere ”di sinistra”

9 Marzo 2018 - 13:00

Dalle scie chimiche di qualche anno fa fino alla morte accidentale dell'albero Spelacchio, dallo scandalo Rimborsopolifino ai congiuntivi di Di Maio, da ultimo, proprio ieri, le reazioni sarcastiche al limite del classismo, alla notizia, poi rivelatasi non corretta, delle code ai Caf pugliesi di gente che voleva i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza.

L'ironia verso i pentastellati non è certo una novità — l'elenco poteva andare avanti a lungo — ma, dopo una campagna elettorale fortemente connotata sui toni dell'attacco e dell'irrisione, quell'atteggiamento canzonatorio di superiorità di una parte della sinistra italiana si sta trasformando in qualcos'altro, qualcosa di brutto, che non fa più ridere, qualcosa di molto meno sano dell'ironia: una sorta di snobismo che ha parecchio di autoassolutorio.

Quella che all'inizio era ironia canzonatoria si sta trasformando in qualcos'altro, qualcosa di brutto, che non fa più ridere, qualcosa di molto meno sano dell'ironia. Una sorta di snobismo che ha parecchio di autoassolutorio

Non è una cosa da prendere alla leggera. È una dinamica inquietante, e lo è soprattutto perché emerge in un popolo, quello “di sinistra”, che da sempre costruisce il proprio impegno politico e sociale in direzione degli oppressi, dei deboli, degli svantaggiati. Proviene cioè da della gente che, dopo decenni passati a voler insegnare a leggere agli analfabeti, ora si ritrova ad usare la stessa parola “analfabeti” come insulto per umiliare gli avversari, ritrovandosi più elitista, classista e ogni tanto persino razzista degli avversari populisti.

Il rapporto tra la sinistra e gli oppressi è contemporaneamente fondativo e contraddittorio, da sempre. Fondativo perché è proprio per difendere l'eguaglianza degli esseri umani e per cercare di emancipare le classi subalterne e schiantare le meccaniche di sfruttamento messe in pratica dalle classi dominanti che è nato il comunismo e il socialismo. Contraddittorio perché la maggior parte dei grandi pensatori di sinistra da Bakunin a Berlinguer, sia dell'ala radicale e anarchica che di quella marxista e comunista, non provengono certo dalle classi popolari,bensì dall'aristocrazia e dalla nobiltà,.

Eppure, se uno come Marx, che proveniva da un'ottima famiglia delle classi agiate della Prussia di inizio Ottocento, poteva terminare il Manifesto invitando i proletari di tutto il mondo a unirsi e combattere contro i loro oppressori, non si riesce a capire come i suoi pronipotini se la prendano con i propri avversari dando loro dei poveracci ignoranti e analfabeti. Devono per forza essersi dimenticati qualcosa per strada.

È un atteggiamento snob e classista che dovrebbe far riflettere, anche perché risulta difficile pensare che non abbia alcun collegamento con l'emorragia di voti che ha subito il Partito Democratico

È un atteggiamento snob e classista che dovrebbe far riflettere, anche perché risulta difficile pensare che non abbia alcun collegamento con l'emorragia di voti che ha subito il Partito Democratico nel corso degli ultimi anni di stagione renziana. Da questo punto di vista è interessante leggere tra le righe dell'articolo che il deputato del Pd Ivan Scalfarotto ha scritto sul Post a poche ore dal voto: «Siamo diventati», scrive Scalfarotto, «il partito preferito dalle classi abbienti, dagli intellettuali, dalla borghesia illuminata, dagli imprenditori più capaci, in una parola dalle eccellenze di questo nostro Paese. Questo non è certamente sbagliato, sulle eccellenze bisogna sicuramente costruire, ma dobbiamo reimparare a essere a nostro agio anche con gli ultimi, i diseredati, con chi non ce la fa, persone che non ci riconoscono più – e questa responsabilità è nostra, non loro – come potenziali punti di ascolto».

In questa frase c'è quasi tutto: dalla presa di coscienza dell'essersi dimenticati qualcunoper strada, che, almeno quella, fa ben sperare, fino all'incapacità di rendersi conto, nemmeno scrivendolo nero su bianco, del proprio atteggiamento venato appunto di paternalismo e classismo, quello che si inchina di fronte alla magnifica eccellenza alle élite e che invece guarda agli svantaggiati con pietà/sussiego, considerandoli come un fastidioso corpo esterno. E se una volta l'obiettivo era lottare per la loro emancipazione, ora si limita allo sperare di riuscire a sopportarli, quei poveracci, ad “essere a nostro agio” anche con loro, anche se non sanno parlare italiano, se non leggono nemmeno un libro e se non sanno capire una frase complessa. Quasi come se se lo meritassero. Quasi come se fossero di una specie diversa.

4 marzo 2018 - Gli italiani hanno votato per il cambiamento. Contro il precariato a vita introdotto dal Jobs Act, Fornero, l'euroimbecillità di più Europa, Pareggio di Bilancio che significa niente investimenti pubblici, oggi necessari come il pane, contro l'Emmigrazione di Rimpiazzo. Il cambiamento è Rappresentato dal M5S e Lega, quindi ora governo tra il Centrodestra e M5S. Un governo così forte ha il mandato fortissimo di andare a cambiare i trattati, a distruggere il Progetto Criminale dell'Euro

Elezioni, aumentano chance governo tra M5S e Lega

9 marzo 2018, di Daniele Chicca

Mentre la leadership del MoVimento 5 Stelle cerca intese sull’economia, la base apre a un governo con la Lega – i numeri alla Camera e al Senato ci sarebbero. Intanto nella coalizione di Centro Destra Silvio Berlusconi è al lavoro per impedire un simile scenario. L’idea del leader di Forza Italia è quella di convincere Matteo Salvini a farsi da parte e proporre come primo ministro una figura come Luca Zaia o un altro esponente della Lega rispettato anche dal Centro Sinistra.

Berlusconi, dicono i media mainstream, spera di poter convincere il premier ancora in carica Paolo Gentiloni e Dario Franceschini. A tale scopo avrebbe già messo all’opera il suo asso nella manica Gianni Letta. L’81enne tre volte primo ministro intende fare “tutto il possibile per consentire all’ Italia di uscire dallo stallo, di darsi un governo, di rimettersi in cammino sulla strada della crescita”, si legge su La Stampa.

Dal PD i ministri in uscita Carlo Calenda e Marco Minniti avvertono che il partito rischia di sparire, ma non per questo motivo – ovvero per tirare a campare – può andare al governo con formazioni politiche “populiste” che lo insultano e vessano da anni e che hanno inasprito i toni in campagna elettorale. Il discorso vale anche per la Lega. La linea è la stessa del segretario dimissionario Matteo Renzi: si va all’opposizione come hanno chiesto i cittadini. Da un sondaggio riportato dal Fatto Quotidiano emerge tuttavia che il 59% degli elettori del PD vuole che il partito vada al governo con il M5S.

Il quotidiano La Stampa riferisce anche dell’apertura della base del M5S a un’alleanza di governo con la Lega, un’indicazione che sembra sia emersa da una “consultazione segreta“. Sarebbe questa, piuttosto che una coalizione con il PD (anche sei poco), la strada preferita dalla formazione anti sistema per poter salire al governo.

“Il sondaggio, commissionato dai vertici del M5S, rivela un elettorato spaccato quasi a metà, ma pare leggermente più propenso ad allearsi con la Lega di Matteo Salvini che con il Pd, anche senza Matteo Renzi”. “Avere pronto un sondaggio che spinge il M5S verso la Lega, da tirar fuori al momento opportuno, può rivelarsi molto funzionale alla politica dei due forni” che il M5S sta conducendo. “È anche una pronta risposta all’appello alla responsabilità rivolto ai partiti da Sergio Mattarella“, osserva Ilario Lombardo nell’articolo, facendo riferimento al capo del Quirinale.
M5S al governo con PD o Lega: cosa cambia

Se dovessero trovare un accordo per la formazione di un governo,. il MoVimento 5 Stelle e una parte del PD potrebbero trovare dei punti comuni in aree di programma come tagli alle tasse, riforma del mercato del lavoro, incremento degli investimenti, un reddito minimo per disoccupati e indigenti (che nel programma del M5S viene definito erroneamente “reddito di cittadinanza”). Oltre che accettare di abbassare in qualche modo le tasse e aumentare le spese pubbliche, la Lega condividerebbe temi come la sicurezza, la revisione dei trattati dell’Unione Europea e l’annullamento dell’accordo di Dublino sui richiedenti di asilo.

Un problema dalla situazione attuale del M5S è rappresentato dal fatto che dei trecento eletti, solo di un’ottantina sono note le posizioni. Con gli altri i rapporti verranno approfonditi in occasione della prima assemblea programmata, che si terrà all’Hotel Parco dei Principi di Roma. Chi non vuole scendere a patti con la Lega, evidenzia come il M5S abbia raccolto grandi consensi soprattuto al Sud, e che una buona fetta del nuovo elettorato proviene dal Pd, come si evince anche dai flussi dei voti negli ultimi anni.

Questa lettura più politica tuttavia, sottolinea Lombardo, “stride con il risultato del sondaggio sulle alleanze preferibili”. Nel frattempo Di Maio sta lavorando a un possibile Def e si dice pronto “alle prime proposte e a discutere quelle degli altri”. In particolare il M5S cerca intese sull’economia e sostiene che in questo frangente il “Def sarà decisivo“. Il M5S ha l’intenzione di presentare nei prossimi giorni proposte sul document, con l’obiettivo di trovare convergenze con altre forze politiche.

“Noi ci siamo, siamo responsabili e siamo l’unico fattore di stabilità tra i partiti”, sostengono Di Maio e i parlamentari a lui più vicini, come Danilo Toninelli che ieri al Tg1 ha ribadito la volontà di dire
‘no al caos e all’instabilità‘. Con chi sarà fatto il governo non ha grande importanza, potrebbe essere con il PD o anche con Salvini, il quale però per il momento si smarca, dicendo di non voler stringere un patto con un gruppo che ha idee programmatiche diverse dalle sue.

Citando la proposta di un reddito di cittadinanza il leader del Carroccio critica Di Maio e i suoi per la loro visione “pauperistica” contro quella sua del lavoro e del regime fiscale della flat tax vantaggioso per autonomi, privati (e benestanti). In ogni caso Mattarella ha lanciato già un appello per un “senso di responsabilità”, richiamo che il leader del M5S ha definito “sacrosanto”.
I numeri e i seggi in Parlamento dopo le Elezioni

Raccogliendo le indicazioni dei singoli partiti l’agenzia Reuters ha fatto una stima di come sarebbero distribuiti i seggi tra i vari partiti e gruppi politici. Il conteggio ritorna utile per poter studiare quali alleanze sarebbero possibili. Perché il piano di Berlusconi vada a buon fine, la lista di Centro Destra deve trovare ben 49 deputati e 22 senatori per ottenere la maggioranza parlamentare. Pare un’impresa ostica: “raccogliendo i voti di Usei e Maie (due formazioni politiche centriste presenti nei collegi esteri), quelli della lista Civica e Popolare, oltre ai senatori a vita e gli esclusi del M5S, arriverebbero a circa 276 deputati e 147 senatori”, stima Reuters.

Una via percorribile per il Centro Destra sarebbe anche quella di allearsi con il M5S o addirittura formare larghissime intese con anche parte del PD dentro. Una maggioranza con i quattro principali partiti (M5s, Lega, Pd, Forza Italia) conterebbe addirittura su 563-565 voti alla Camera e 281 al Senato. “Maggioranze Pd-Fi solo con la Lega o solo con il M5s avrebbero dai 343 ai 438 seggi alla Camera e dai 169 ai 223 al Senato”, fa sapere Reuters.

Si tratterebbe di un esecutivo di responsabilità nazionale che permetterebbe di fare qualche riforma, tra cui quella della legge elettorale per poter inserire un premio di maggioranza. Se le consultazioni non dovessero dare frutti, infatti, Mattarella potrebbe chiedere al M5S di partecipare a un governo di scopo per cambiare la legge elettorale e poi tornare al voto.

“È un retropensiero che i grillini stanno coltivando, a patto che la nuova legge garantisca una maggiore governabilità alla prima forza politica del paese”, dicono su La Stampa. Ritornare subito alle urne, specie con un sistema del genere che favorirebbe il M5S, primo partito d’Italia con un grande distacco sulla concorrenza (quasi il 33% dell’elettorato), sarebbe però uno scenario da incubo per Forza Italia e Pd, quindi viene da chiedersi perché mai – politicamente parlando – dovrebbero accettare condizioni del genere.

Se ai voti di M5s, si uniscono quella delle forze anti establishment di Lega e Fratelli d’Italia, si arriva a 381-383 seggi alla Camera e 188 al Senato: sono numeri ampiamente sufficienti per governare con tranquillità. A parte la già citata Lega, in un ipotetico governo a trazione M5S, potrebbero anche unirsi una parte del Pd e Liberi e Uguali, formazione di sinistra che ha dato la sua disponibilità a dialogare ma che, visti i numeri (14 deputati e 4 senatori), conterà ben poco. I numeri ci sarebbero: 348-350 seggi alla Camera e 171 al Senato. Per un eventuale governo di minoranza del M5S, invece, se il Pd, le altre forze di centrosinistra e Liberi e Uguali si astengono (e anche se questi ultimi votano la fiducia) i voti non sarebbero sufficienti.

In questi giorni “proseguono i contatti tra M5S i senatori della Lega”. Da quello che riferisce sempre La Stampa, “finora i discorsi si sono limitati ad alcuni ragionamenti sugli effetti del Rosatellum e alle possibili intese sulle presidenze di Camera e Senato”. Di Maio vuole piazzare uno dei suoi (probabilmente Roberto Fico) a Montecitorio, mentre Salvini conta di eleggere un esponente della Lega a Palazzo Madama. Sui media si fa il nome dell’ex presidente del Senato Roberto Calderoli.