L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 7 luglio 2018

Il Partito dei Giudici placca platealmente la Lega di Salvini, Di Maio fa bene a difendere il suo alleato

POLITICA
07/07/2018 10:04 CEST | Aggiornato 10 ore fa

Luigi Di Maio sta con Salvini. Sui giudici si schiera con l'alleato: "Superare le correnti"

L'intervento in una lunga intervista a Repubblica


TONY GENTILE / REUTERS
Italian Minister of Labor and Industry Luigi Di Maio attends during his first session at the Lower House of the Parliament in Rome, Italy, June 6, 2018. REUTERS/Tony Gentile

"La questione delle correnti nella magistratura è stata affrontata da tutti. L'opposizione che ora si scandalizza, nelle linee guida del 2014 parlava della necessità di superarle". Lo dice, in un'intervista a Repubblica, il vicepremier e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio.

"L'idea - spiega - non è quella di creare una corrente unica. Bisogna assicurare la pluralità, ma fare in modo che le scelte nel Csm siano legate agli obiettivi della giustizia e non a interessi di corrente". Di Maio nega che il rapporto tra il Movimento Cinque stelle e la magistratura stia cambiando: "No. La magistratura deve fare il proprio lavoro e noi non l'abbiamo mai attaccata, ma ci siamo sempre permessi di dire che, ad esempio, i magistrati che entrano in politica non possono tornare a fare i giudici".

Sull'ordine di recuperare i fondi della Lega, Di Maio aggiunge: "La magistratura ha tutti gli strumenti per trovare quei soldi qualora ci siano. Salvini ha detto che sono stati spesi. Io non ho nessun imbarazzo perché questa storia riguarda i tempi in cui la Lega era guidata da Umberto Bossi. Perché non mi chiedete dell'inchiesta sul governatore della Basilicata Pittella? Bisogna spezzare - dice - il legame tra politica e manager della sanità. Lo abbiamo detto in campagna elettorale e lo faremo: la salute dei cittadini non sarà mai più merce di scambio".

Sull'ipotesi che nel decreto dignità vengano inseriti i voucher, Di Maio afferma: "È una scelta che farà il Parlamento, ma non sono assolutamente intenzionato a far sfruttare i nostri giovani o meno giovani con i voucher. Eravamo arrivati al punto in cui si pagavano in questo modo anche avvocati, ingegneri. Se ci sono specifici lavori che ne hanno bisogno ne discuteranno le Camere, ma devono essere limitati". Sui contratti a termine, fa sapere: "Tutto quello che è migliorativo nei confronti dei diritti dei lavoratori va bene, quello che serve a precarizzare la loro vita no".

Il taglio del cuneo fiscale, ricorda quindi, "interesserà le imprese più deboli e le eccellenze, quindi le pmi con precise mission, come il made in Italy, le nuove tecnologie. Il dibattito parlamentare potrebbe inserirlo già nel decreto dignità".

Diego Fusaro - Il Pensiero Unico del Politicamente Corretto è sbandato ha perso i punti di riferimento, grazie al voto degli italiani

SILURO
Rolling Stone, Diego Fusaro massacra Fabio Fazio & Co: "Eccoli qui...ridere per non piangere"

6 Luglio 2018

Ci si mette anche il filosofo Diego Fusaro ad infierire sui firmatari del manifesto contro Matteo Salvini di Rolling Stones. Gli bastano poche righe, su Twitter, per demolirli. Eccoli: Fabio Fazio, Daria Bignardi, Michele Serra & Co. Li mette tutti in fila e cinguetta: "Eccoli qui, con l'immarcescibile arcobaleno delle sinistre post-marxiste e market-friendly, i firmatari del manifesto anti-Salvini. Ridere per non piangere". Touché.


Di seguito, il tweet di Diego Fusaro:





Eccoli qui, con l'immarcescibile arcobaleno delle sinistre post-marxiste e market-friendly, i firmatari del manifesto anti-Salvini. Ridere per non piangere.

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La sanità è stata, fin dagli lontani anni '80, la mammella a cui i partiti di allora, Psi, Dc, Pci, si attaccarono con l'avallo di Cgil, Cisl, Uil per rifornirsi di denaro illegalmente, attraverso le esternalizzazioni, gli appalti. Oggi il corrotto euroimbecille Pd. Il Partito dei Giudici l'ha sempre saputo e l'ha sempre permesso. L'una tantum occasionale è servita per regolare i rapporti interni al Sistema massonico mafioso politico

Operazione Suggello, arrestato il presidente Pittella

Svelato un sistema di corruzione nei concorsi pubblici
Basilicata

Ven, 06/07/2018 - 14:54

Nella foto:
La conferenza stampa degli inquirenti

ANTONIO CORRADO

MATERA – L’hanno chiamata “Suggello”, dal termine utilizzato in un’intercettazione della dirigente amministrativa Maria Benedetto, arrestata stamane insieme con il commissario dell’Azienda sanitaria materana, Pietro Quinto, ed altre 28 persone indagate ed ai domiciliari, tra cui il presidente della Regione Marcello Pittella, più 8 con obbligo di dimora. Infatti, la lista dei raccomandati, letta dalla Benedetto a Quinto, aveva “il suggello del presidente” Pittella.

LEGGI LA NOTIZIA DELL'ARRESTO
DEL PRESIDENTE MARCELLO PITTELLA


Così l’indagine condotta dalla Guardia di finanza di Matera e coordinata dalla Procura provinciale, è stata illustrata un’ora fa dal procuratore capo Pietro Argentino, che ha elogiato il grande lavoro degli inquirenti, partito nel 2016 dalla denuncia di un ex dipendente della società cooperativa “Croce Verde Matera”, poi divenuta “Croce Verde Materana”, scatola cinese pare proprio per coprire presunte truffe nel sistema di trasporto degli infermi per conto dell’Asm.

> TUTTI I NOMI DELLE PERSONE COINVOLTE

Le intercettazioni telefoniche ed ambientali nell’ambito di questo primo filone, hanno portato nell’estate 2017 a svelare quello che si ritiene un sistema di corruzione nei concorsi pubblici all’Asm e al Crob, che avrebbe coinvolto anche l’Azienda sanitaria pugliese, per l’inserimento di un raccomandato del direttore Montanaro, anch’egli indagato ed ai domiciliari. Poi ci sono i suggeritori di raccomandazioni, tra politici e alti religiosi, nessuno dei quali è indagato perché si sono limitati a segnalare le persone, ma non hanno alcuna complicità nel sistema.

GUARDA IL VIDEO SULLA CONFERENZA STAMPA

Infine la presunta corruzione a carico di Quinto, per incarichi a una ditta edile e gli intrecci con un professore di Diritto amministrativo di Bari, dove il figlio del commissario Asm si è recentemente laureato. I capi d’accusa in totale sono ben 32, tutti suffragati da importanti indizi di reato. I dettagli ed i particolari dell’indagine domani sull’edizione cartacea.

Gaza la prigione a cielo aperto - dove gli ebrei calpestano sistematicamente tutte le risoluzioni dell'Onu

Zuwayda, Striscia di Gaza… uno sguardo sulla Gaza che non ti aspetti

07.07.2018 - Patrizia Cecconi


Zawaida è un villaggio di circa 2.200 abitanti a sud di Gaza, dopo Zahra, altro piccolo centro dove c’è un’ottima università pubblica, e prima di Deir el Balah, del cui governatorato fa parte, e dove si produce – unico al mondo – il miele di fiori di palma di altissima qualità, nonché dei wafer di pari qualità dei più famosi wafer europei. Fabbrica che ovviamente nel 2014 Israele graificò delle sue attenzioni armate perché la sua guerra contro l’economia gazawa prevedeva la distruzione di ogni struttura produttiva. Ma ora tornata a produrre. La fabbrica porta un nome ricorrente in Palestina, “Al Awda”. Un nome che è un sogno, un programma politico, una Risoluzione Onu che Israele calpesta al pari, per la verità, di tutte le altre. La Risoluzione n. 194 che dispone il diritto al ritorno nelle proprie terre dei palestinesi cacciati nel 1948 e dei loro discendenti. Al awda infatti significa “il ritorno”.


Il 35% degli abitanti di Zawaida è sotto i 18 anni ed il 65% è sotto i 35 anni, quindi in grado di aumentare ancora quella percentuale di nascite che terrorizza Israele. La Striscia di Gaza è molto stretta, e in alcuni punti tra il mare e il confine terrestre dell’assedio passano solo due chilometri,


quindi anche Zawaida affaccia sul mare ed anche al suo interno il terreno è sabbioso, ma nonostante ciò la zona è ricca di vegetazione. Spiccano, in questo periodo, non solo qui ma in tutta la Striscia, le acacie dai fiori rossi o arancio, le si trovano sparse qua e là per fare ombra, o in bellissime alberature stradali, e poi le palme, gli agrumi, gli olivi. Insomma toglietevi dalla mente che gli israeliani hanno fatto giardini nei deserti, qui i giardini, se Israele non succhiasse via l’acqua, sarebbero diffusi e spontanei.


Un campo di agrumi dalle chiome folte e brillanti, esattamente di “clementine” mi dicono con orgoglio, è proprio sotto le finestre del centro in cui si svolgono attività giovanili. E’ il centro Herat, che significa azione, movimento. E’ l’unico in questo villaggio ma è estremamente attivo. Nasce grazie all’aiuto di un’associazione svedese e cammina a grandi falcate animato da un gruppo di ragazzi e ragazze tra i venticinque e i trent’anni che organizzano attività per bambini di ogni tipo e di ottimo livello.


Il calcio qui la fa da padrone, ma anche nel resto della Striscia non si scherza! Infatti la seconda domanda che ti fanno (la prima è come ti chiami e da dove vieni) è se tifi Barcellona o Real Madrid. Guai a rispondere che per te è la stessa cosa! A questa risposta i tuoi interlocutori – grandi o piccoli non fa differenza – si dividono in due categorie: quelli che ti spiegano il loro punto di vista (drammaticamente in arabo) e quelli che ti guardano con aria di sufficienza e passano a chiederti, come domanda di riserva, di quale squadra italiana sei, non potendo accettare che tu sia proprio lontana dal gioco del calcio e lo capisci già all’entrata del Centro Herat.


Inutile fare gli snob, il calcio non può essere sottovalutato e allora ti ricordi che a Londra il Liverpool e il Chelsea erano in piazza con i loro stendardi a sostegno della causa palestinese. Glielo dici e recuperi qualche punto.


Il centro giovani di Zawaida ti accoglie così, con tre bellissimi bambini di fronte al murale che rappresenta un giovane calciatore. Poi entri e ti trovi un grande quadro, ormai un po’ scolorito, con la prima squadra del villaggio, grande onore per tutti perché pare che fosse composta da grandi calciatori.


E’ la prima formazione e risale al 1979. Due di quei primi giocatori sono morti piuttosto giovani. Majid Brecht, il portiere, per un cancro che non è riuscito a curare, Ismail Jawada per le ferite riportate durante il bombardamento israeliano di piombo fuso nel 2008/09, dopo aver subito inutilmente l’amputazione delle gambe. E’ così importante il calcio a Zawayda che appesi al muro si trovano, l’uno sotto l’altro, la squadra locale e il ritratto di Arafat.


Altre formazioni sono appese lungo le pareti e il disegno di un bambino, che rappresenta un sogno comune, è a sua volta attaccato al muro.


Ma il poster più significativo è senz’altro quello che mostra un calciatore palestinese che riesce a rompere le catene che gli bloccano le caviglie e dà un grande calcio a un pallone che arriva oltre il muro.


Ecco, comunque la si metta, anche nella leggerezza di una giornata di summer camp, è impossibile dimenticare assedio e occupazione. E dimenticarlo significherebbe accettare la normalizzazione della situazione data! Questo dà a una mano a capire perché Israele si è accanito in tante occasioni contro i calciatori, impedendogli di partecipare a match importanti o addirittura sparandogli alle gambe. E questo spiega anche perché nella Striscia di Gaza si è costituita una squadra di calcio di giocatori mutilati. Hanno deciso di giocare lo stesso nonostante la mutilazione dovuta ai crimini impuniti degli assedianti.

Bisogna fare attenzione a non confondere questo atteggiamento in qualche modo stoico con la rassegnazione per quanto successo al proprio corpo. No, questa è la tenacia resiliente oltre che resistente di chi non si arrende. Certo i traumi non si cancellano così e gli operatori del centro lo sanno bene. Il loro lavoro con i bambini punta proprio su questo, siano performances recitative, siano altre attività.


Chiedo quante scuole ci sono a Zawaida, visto l’altissimo numero di bambini e mi dicono mi dicono che nel villaggio ci sono due scuole pubbliche ed una privata. Nelle pubbliche si fanno i doppi turni e le classi sono di circa 40 scolari. Deve essere dura, eppure questi bambini, almeno quelli che oggi sono qui, sembrano capaci di essere felici.



I loro trainers, tutte persone assolutamente qualificate che tuttavia offrono il loro lavoro a livello volontario, hanno chiara una cosa molto importante: ogni attività deve aiutare a superare lo stress post traumatico che affligge un altissimo numero di bambini che hanno vissuto almeno due dei tre ultimi massacri israeliani. Per questo sviluppano le attività più diverse ma tutte in uno stesso quadro progettuale che tende a trasferire su attività artistiche e motorie quel disagio psicologico oscuro che lasciato crescere si trasforma in aggressività e autolesionismo.


Disegno, attività fisica, attività culturali, educazione ambientale (e ce n’è davvero bisogno) educazione stradale e tanti giochi interattivi, dal teatro delle ombre fino alla costruzione di cartoni con le storie inventate o ricordate dai bambini che alla fine diventano film di animazione riprodotti in video.


Aneen, Nuur, Mahmoud, Bilal, Rana,Ala, Ahmed e un altro bel gruppo di giovani, chi laureato in legge, chi in scienze motorie, chi in medicina, chi in scienze della comunicazione, chi in psicologia, chi in altro, ma tutti con una gran voglia di offrirsi con passione e competenza per lo sviluppo di questi ragazzini in un posto molto povero ma con grande dignità.


La giornata di summer camp cui sono stata invitata si conclude con la proiezione di alcuni brevi filmati creati dai bambini sotto la guida di Aneen. Storie vere o verosimili tratte dalla loro realtà. Disegnate, ritagliate, ricostruite in cartoni e quindi animate e filmate.


E in questi video c’è, immancabile, il dramma di vivere sotto l’assedio armato e i periodici bombardamenti arbitrari. Ma sono film a lieto fine e i ragazzini ridono tutti di cuore quando il filmino che ha per titolo “la scatola” e che sembra sia una storia vera e angosciante, si conclude con l’uscita da uno scatolone di un bambino piccolo dato per morto e pianto da un papà disperato che non era riuscito – nei cinque minuti di preavviso dati dai soldati israeliani – a portarlo fuori dalla casa che veniva bombardata. Ridono, i bambini, quando vedono il piccolo uscire dalla scatola vivo, ridono e si sentono liberati. Hanno tutti dagli 8 ai 12 anni e hanno vissuto tutti almeno il massacro di margine protettivo, quello in cui Israele, in soli 50 giorni, di bambini come loro, solo di bambini, ne ha uccisi circa 500.

In particolare, il progetto legato alla rappresentazione filmica del dramma, è un modo per superare il trauma e al tempo stesso crescere culturalmente, e le facce di questi bambini sembrano un programma orientato a un futuro che merita felicità.


Anche questa è Gaza, non solo quella che raccontano i profeti di sventura che vogliono ammansirla sotto l’innegabile gravità della crisi economica e trasformarne il popolo in un’accozzaglia di questuanti.

Ebbene, anche questa è Gaza. Quella che, nonostante la gravissima crisi, è capace di dare una lezione al mondo. Un mondo che non sempre riesce a capirla questa lezione, perché si ostina a vedere Gaza come un monolite governato da un partito religioso che ne blocca ogni creatività, mentre Gaza, al contrario, non è un monolite ma un caleidoscopio ed è questo, nel bene e nel male, che la rende speciale.

L’esperienza di Zawaida è parte di quel caleidoscopio capace di farti capire che in questo posto un po’ speciale, dietro a ogni angolo, si nasconde la Gaza che non ti aspetti.



Il Partito dei Giudicici è stato scatenanato, il mandato impedire alla Lega di fare politica

Il solito vizietto dei magistrati: usare la toga per fare politica

Maurizio Blondet 7 luglio 2018 


di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero, 06/07/2018

Correva l’anno 1992. Per debellare una classe politica un po’ corrotta ma capace, i poteri sovranazionali pensarono di scatenarle addosso una parte della nostra magistratura. I partiti di governo furono letteralmente spazzati via dalla scena politica nel giro di appena un anno e mezzo.

L’obiettivo era quello di consentire ai post-comunisti di andare al governo del Paese. Dopo la caduta del muro di Berlino (1989) il Pci doveva individuare una dimensione politico-internazionale ove collocarsi, e la trovò nella nascitura Unione europea. Il progetto prevedeva un percorso di continue limitazioni di sovranità nazionale che, per potersi realizzare aveva bisogno di una classe politica che se ne facesse carico. Gli uomini della Prima Repubblica, che pur firmarono il Trattato di Maastricht, avrebbero fatto resistenza quantomeno all’ingresso dell’Italia nell’eurozona. Bisognava dunque spazzarli via. E così fu.

Ma il diavolo fa le pentole, non i coperchi. La gioiosa «macchina da guerra» di Occhetto, che oggi tesse le lodi del «+Europa» della Bonino, si schiantò contro la macchina commerciale di Berlusconi, che sin dai primi segnali mostrò insofferenza all’entrata dell’Italia nella moneta unica, quantomeno nella prima fase. Il Cavaliere doveva essere messo in ginocchio. Ed ecco che gli si scatenò contro il più feroce e continuativo attacco giudiziario dell’intera storia del nostro Paese. Vent’anni di processi, avvisi di garanzia durante i summit mondiali e telecamere tra le lenzuola. Berlusconi ha reagito, anche perché economicamente ha potuto permettersi di pagare decenni di spese legali, ma alla fine ha dovuto cedere pure lui dopo il Colpo di Stato del 2011.

Poi se anni di incondizionata sudditanza all’Ue con la magistratura rossa impegnata a portare a termine la distruzione di Silvio. Punto e a capo.

STESSA STORIA

Oggi ci risiamo. Al governo non c’è più Berlusconi ma Salvini, leader della nuova Lega sovranista che terrorizza i tecnocrati di Bruxelles. I poteri forti devono in qualche modo “eliminarlo”. Ci hanno provato con il tentativo di dar vita ad un governo Cottarelli senza numeri in Parlamento, e ora ci riprovano con la Magistratura. Nel 2012 scoppiò lo scandalo dei fondi parlamentari utilizzati in malo modo dalla Lega gestita da Bossi e dal tesoriere Belsito. Le sentenze parlano di 49 milioni di euro da restituire allo Stato. Matteo Salvini è diventato per la prima volta Segretario della Lega nel dicembre 2013, e quindi è estraneo a questa vicenda. Ma i partiti politici sono associazioni non riconosciute e dei debiti ne rispondono secondo il principio dell’autonomia patrimoniale imperfetta.

In buona sostanza se gli imputati condannati non pagano, paga il partito coi suoi beni e i suoi fondi.

Nei giorni scorsi la Corte di Cassazione, depositando le motivazioni della sentenza, ha sancito il principio che lo Stato dovrà rincorrere ogni fonte che produca alla Lega-partito una qualsiasi tipologia di entrata, sino al soddisfacimento dell’intero maltolto. Un’affermazione di principio che risponde alla fallimentare logica della distruzione dell’avversario politico per via giudiziaria. In questo modo si mette in serie difficoltà non solo Salvini, ma soprattutto il secondo partito in termini di scranni parlamentari.

SENZA EQUITÀ

Si poteva seguire un approccio più ragionevole che prevedesse il pagamento del dovuto, ma allo stesso tempo la possibilità per il partito di continuare a contribuire alla vita democratica del Paese, garantendo in tal modo la funzione che la Costituzione attribuisce ai partiti politici. Il partito non è un’associazione qualunque, è il contenitore nel quale la Costituzione ha deposto la vita democratica della Nazione. La Corte di Cassazione non ha bilanciato gli interessi in gioco: da un lato l’obbligo di restituzione sancito in una sentenza, dall’altro il diritto costituzionale della Lega di avere gli strumenti idonei per poter «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (l’art. 49 della Costituzione). Questo bilanciamento la Suprema Corte non lo ha fatto. Ma Salvini non se ne cura: «È evidente che c’è qualche giudice che fa politica, ma non esiste un disegno generale. Noi siamo tranquillissimi», ha dichiarato. La Lega non si fermerà, così come l’uso politico della giustizia non ha più sul popolo la stessa forza emotiva del passato. Sono finiti i tempi di Mani pulite.

Ma occorrerà intervenire con una riforma che vieti ai magistrati di rindossare la toga dopo una qualsiasi esperienza politica. Passerà ad alcuni di loro la voglia di fare i fenomeni.

Boeri, economisti all'acqua di rose

La lettera di Savona a Boeri spopola

Maurizio Blondet 6 luglio 2018 


Lettera aperta di Paolo Savona a Tito Boeri (Presidente INPS)

Caro Boeri,
avevo letto le tue dichiarazioni sul ruolo degli immigrati nel sistema pensionistico italiano e le avevo cercate inutilmente nella Relazione annuale dell’INPS, ma le ho trovate solo negli estratti stampa di un tuo intervento in uno dei tanti inutili e confusionari incontri che si tengono in Italia.

Conclusi che la lettura delle tue dichiarazioni poteva essere oggetto di interpretazioni positive e ho lasciato perdere. Sei tornato sul tema e ho sentito ripetere nuovamente i concetti nel corso di una trasmissione radio nella quale sostieni che il tuo ruolo all’INPS è di fornire informazioni statistiche sullo stato del sistema pensionistico; sarebbe cosa meritevole, perché quelle che fornisci non sono sufficienti e sono devianti perché le accompagni con interpretazioni che inducono a una valutazione distorta della realtà.

Tu dici che gli immigrati che hanno trovato un lavoro hanno versato oneri sociali di rilevante entità che servono per pagare le pensioni degli italiani e concludi che sono perciò indispensabili. Così presentata l’informazione induce a ritenere che ogni opposizione all’accoglienza di immigrati che non tiene conto di questo vantaggio è errata, accreditando la politica fallimentare finora seguita in materia.

La prima obiezione, che conferma la natura di interpretazione delle statistiche che rendi pubbliche, è che, se al posto degli immigrati ci fossero stati italiani, il gettito contributivo sarebbe stato lo stesso perché il sistema pensionistico italiano è basato sul metodo distributivo: i giovani lavoratori pagano per gli anziani andati in pensione e se tra essi vi sono immigrati non è la loro nazionalità a dare un carattere particolare al contributo che essi danno al sistema.

Potresti tutt’al più obiettare che le nuove assunzioni avvengono sovente in deroga al versamento degli oneri sociali e, quindi, in prospettiva il sistema pensionistico peggiora. Questo sarebbe assolvere al proprio dovere.

Non so se i giornali abbiano riferito una tua frase dove sostieni che non tutti gli immigrati finiranno con beneficiare di una pensione, ma questa è stata l’interpretazione. Se l’andazzo del bilancio e del debito pubblico continua, probabilmente tutti gli immigrati, non solo gli italiani, non beneficeranno della pensione attesa.

Mi indigna il solo pensare alla possibilità di un’espoliazione o decurtazione di valore della pensione che gli immigrati attendono. Se l’affermazione fosse tua, ha tutti i tratti del colonialismo d’antan. Sono favorevole all’inclusione di immigrati regolari nel mondo del lavoro, ma sono contrario che essi provengano dall’immigrazione irregolare, la cui numerosità è enormemente sproporzionata rispetto a quella del suo assorbimento da parte dell’attività produttiva, creando ben altri problemi sociali.

Trovo inoltre giuridicamente devastante che, se l’immigrato trova lavoro regolare, il suo illecito diventi lecito, perché induce scontento nel migliore dei casi e scarso rispetto della legge da parte di chi quotidianamente lotta per adempiere alle incombenze di cittadino; esse sono piene di scadenze che, se solo vengono saltate di un giorno, generano ammende. Anche all’INPS. Si introduce nel corpo delle leggi il concetto di violazioni sanabili e non sanabili.

Ritengo inoltre socialmente ingiusto che un immigrante illecito venga preferito a un giovane italiano perché disposto a lavorare a un salario inferiore; ancor più considero economicamente errato che si assista l’immigrante illecito a condizione che non lavori. I giovani italiani costretti a emigrare pur essendo preparati, di cui parli nelle tue dichiarazioni, sono il risultato di questo stesso modo di intendere la cittadinanza ed essendo tu equiparato a un funzionario dello Stato devi rispettare il dettato costituzionale e le leggi ordinarie, non “interpretarle” come fanno in troppi.

Se vuoi combattere per un’idea che ritieni giusta, devi lasciare l’INPS ed entrare nella tenzone politica o metterti a predicare come faccio io, rifiutandomi di conformarmi alla volontà dei gruppi dirigenti.
Credo che il risanamento del sistema pensionistico passi attraverso la trasformazione del metodo per ripartizione in metodo per accumulazione. Il primo passo è il ricalcolo del valore della pensione sulla base dei contributi versati, per poter comunicare a ciascun cittadino quale sia la quota di cui ha diritto e quale l’assistenza pubblica che riceve. Non per tagliare l’assistenza, ma per chiarire i rapporti tra cittadino e Stato.

Il secondo passo è una buona legge di tutela del risparmio pensionistico, che oggi manca. Spero che lo farai, risparmiandoci in futuro altri giudizi equivoci.
Grato per l’attenzione.
Paolo Savona

venerdì 6 luglio 2018

Oggi più di ieri lo stretto di Hormuz è destinato ad essere un teatro di guerra. L'Iran non si piegherà ai voleri degli Stati Uniti che non sono capaci neanche a mantenere i trattati

PASSAGGI MARITTIMI STRATEGICI: LO STRETTO DI HORMUZ

- 2 ottobre 2014

Mappa dello stretto di Hormuz | wmmbb.wordpress.comPuoi leggerlo in 6 min.


Miscela Strategica – Lo stretto di Hormuz divide la Penisola arabica dalle coste dell’Iran e mette in comunicazione il Golfo Persico con il Mar Arabico e il Golfo di Oman. Quello di Hormuz è lo stretto più importante per i traffici commerciali mondiali e rappresenta un’arteria fondamentale per il trasporto di petrolio dal Medioriente. Lo stretto si estende tra le 60 e le 21 miglia in larghezza ed è circondato da Iran, Oman ed Emirati Arabi Uniti. A nord, lo stretto di Hormuz è chiuso dall’Iran e, a sud, dal Sultanato dell’Oman, che esercita il controllo del traffico marittimo, dal momento che la parte navigabile dello stretto si colloca all’interno delle sue acque territoriali.

UN PASSAGGIO STRATEGICO – Lo stretto di Hormuz è geograficamente un punto di collegamento molto importante tra il Golfo Persico, il Golfo di Oman e il Mar Arabico e assume, di conseguenza, un’importanza strategica notevole a livello militare e politico.
Questo passaggio marittimo ha un’importanza di primo piano anche in termini commerciali. La circolazione marittima del petrolio interessa in particolare sei punti di passaggio marittimi. Tra questi, due punti sono particolarmente significativi: lo stretto di Hormuz, appunto, e quello di Malacca, attraverso i quali transita il 60% del petrolio mondiale. Tuttavia, Hormuz assurge a passaggio strategico più importante in quanto punto di accesso al petrolio del Medioriente.
Secondo la US Energy Information Administration, esso rappresenta lo stretto strategicamente più importante al mondo, in particolare per il flusso di petrolio che lo attraversa e che ammontava a 17 milioni di barili al giorno nel 2011. I Paesi del Golfo (Bahrein, Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) sono i produttori di circa il 30% del petrolio mondiale, nonché i proprietari del 57% delle riserve globali di oro nero. Inoltre, la regione del Golfo possiede vaste riserve di gas naturale, che ammontano al 45% delle riserve mondiali. Sia il petrolio che il gas naturale vengono esportati dal Golfo Persico nel resto del mondo, in particolare verso l’Asia, l’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Ancora la US Energy Information Administration rileva che nel 2011 più dell’85% delle esportazioni di petrolio erano destinate ai mercati asiatici, per lo più a Giappone, India, Corea del Sud e Cina.
In termini geofisici, lo stretto ha una profondità tale da consentire il passaggio di moderne imbarcazioni di grandi dimensioni, ma la sua larghezza non è generosa. Per ovviare al problema, sono state predisposte misure di vario tipo al fine di evitare collisioni tra navi. Queste ultime, infatti, devono seguire uno schema di separazione del traffico (Traffic Separation Scheme) ben preciso. Per attraversare lo stretto, le imbarcazioni passano dalle acque territoriali di Iran e Oman e il loro transito è regolamentato da norme internazionali, in particolare dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos).

IL CONTESTO REGIONALE – I Paesi più vicini allo stretto di Hormuz sono Iran e Oman, che ne dividono i diritti territoriali sulle acque. Lo stretto comprende anche importanti isole sul controllo delle quali è nato un contenzioso tra Iran ed Emirati Arabi Uniti (EAU): Abu Musa, Grande Tunb, Piccola Tunb, Bani Furur, Furur, Sirri. Diverse le ragioni strategiche all’origine degli attriti tra EAU e Iran. In primo luogo, la posizione geografica delle isole le rende strategicamente cruciali per il controllo militare dell’intero Golfo Persico. Le isole, infatti, si collocano all’imboccatura del Golfo, appena oltre lo Stretto di Hormuz, al centro delle rotte marittime seguite dalle navi che trasportano merci e petrolio.
In secondo luogo, la contesa su alcune isole è legata alla scoperta di giacimenti di petrolio nelle loro vicinanze che, dagli anni Settanta in poi, le hanno rese ancora più appetibili a entrambi i contendenti.
In ultimo, ragioni di dominio culturale sono alla base di una disputa che si sviluppa sullo sfondo ben più ampio delle storiche tensioni tra l’Iran a maggioranza sciita e di cultura persiana e le Monarchie sunnite del Golfo di cultura araba.
Il traffico marittimo che passa Hormuz è quindi controllato e in parte gestito dall’Iran, che schiera nello stretto sia la Marina militare regolare che le forze paramilitari (marittime) della Guardia rivoluzionaria. Per ragioni geografiche, l’Iran condivide con l’Oman il monitoraggio e controllo del traffico navale. Infatti, la quasi totalità del traffico in ingresso nel Golfo Persico deve giocoforza attraversare le acque territoriali iraniane, mentre per uscire transita in quelle omanite.
Il trattato UNCLOS, universalmente riconosciuto, dispone che le navi siano lasciate libere di navigare attraverso i passaggi marittimi senza limitazioni di sorta (salvo casi particolari) e che possano raggiungere l’alto mare rapidamente una volta lasciato il porto. L’Iran ha firmato la Convenzione, ma – come gli Stati Uniti – non l’ha ancora ratificata. In ogni caso, a oggi Teheran si è attenuta ai dettami del diritto del mare universalmente riconosciuti. Non essendo tuttavia vincolato a essi in maniera definitiva, l’Iran ha più volte minacciato di negare il diritto di passaggio e di chiudere lo stretto alla navigazione commerciale. Se ne fosse veramente capace, non esisterebbero molte vie alternative per la navigazione. Ampia parte delle opzioni percorribili al posto di Hormuz non sono operative al momento. Solo Iraq, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti posseggono oleodotti in grado di permettere il trasporto di petrolio al di fuori del Golfo e solo Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti avrebbero oleodotti di una capienza tale da permettere di non passare per Hormuz.
L’Iraq possiede un oleodotto, il Kirkuk-Ceyhan (Iraq-Turchia) Pipeline, per il trasporto del petrolio dal Nord del Paese al porto mediterraneo di Ceyhan. Non solo questo punto di passaggio non ha la capacità di contenere le quantità di petrolio che passano per Hormuz, ma addirittura alcuni suoi punti sono chiusi e i lavori di rinnovamento potrebbero richiedere molti anni.
L’Arabia Saudita dispone di un oleodotto noto come East-West Pipeline che si estende fino al Mar Rosso: è stato usato negli ultimi anni per il trasporto di gas, per poi essere riconvertito al trasporto di petrolio. Gli Emirati Arabi Uniti hanno aperto recentemente la Abu Dhabi Crude Oil Pipeline, che permetterebbe di esportare fino a 1,5 milioni di barili al giorno se raggiungesse piena capacità operativa nel futuro prossimo. Altri oleodotti come, per esempio, la Trans-Arabian Pipeline(TAPLINE) che si estende tra l’Arabia Saudita e il Libano, sono rimasti fuori servizio per anni a causa di danni subiti a seguito di conflitti, divergenze politiche o altre ragioni e avrebbero bisogno di una completa opera di rinnovamento prima di essere utilizzate.

GEOSTRATEGIA E SICUREZZA – Trovandosi in una posizione strategica fondamentale, lo stretto di Hormuz è inevitabilmente fonte di numerose dispute regionali e internazionali. L’Iran, come altri Paesi dell’area, è stato coinvolto in varie dispute territoriali e per il controllo delle risorse energetiche e dei traffici nell’area di Hormuz. Al riguardo, si possono citare episodi di una certa rilevanza.
Negli anni Ottanta, durante la guerra contro l’Iraq, Teheran minacciò la chiusura dello stretto dopo il tentativo di interruzione dei traffici da parte di Baghdad. A seguire, lo stretto fu teatro di battaglia tra Stati Uniti e Iran durante lo stesso conflitto, dopo un attacco statunitense all’Iran nel 1988.
Nel decennio successivo una serie di contenziosi tra Iran ed Emirati Arabi Uniti riguardo al controllo di varie isole nello stretto hanno animato il dibattito, fino a indurre l’Iran a minacciare di chiudere lo stretto. Anche se nel 1992 l’Iran ha preso il controllo di alcune isole, le tensioni non sembrano essersi placate del tutto.
Tra il dicembre 2007 e il gennaio 2008 una disputa tra Stati Uniti e Iran si accese in seguito ad alcuni avvenimenti nello stretto. Nel giugno 2008 l’Iran minacciò di isolarlo dai traffici commerciali se gli Stati Uniti avessero sferrato un attacco. A sua volta, il Governo statunitense rispose che ogni chiusura dello stretto sarebbe stata considerata come un atto di guerra.
Più recentemente l’Iran ha minacciato di nuovo la chiusura dello stretto, soprattutto a causa della crescente pressione internazionale per l’interruzione del programma nucleare del Paese e l’embargo sul petrolio iraniano approvato dall’Unione europea nel gennaio 2012. Il 27 dicembre 2011 il vicepresidente iraniano Mohammad Reza Rahimi aveva minacciato di impedire il passaggio di petrolio nello stretto di Hormuz se le sanzioni economiche contro l’Iran avessero limitato o interrotto l’esportazione di petrolio. Nonostante un iniziale aumento dei prezzi del petrolio del 2%, in quell’occasione i mercati internazionali non hanno avuto ulteriori reazioni alla minaccia iraniana. Il 3 gennaio 2012, il Governo di Teheran ha dichiarato che avrebbe intrapreso azioni militari nel caso in cui gli Stati Uniti avessero dispiegato una portaerei nel Golfo Persico, sottolineando che Washington ne aveva collocata una nella regione a seguito dell’inizio di alcune esercitazioni navali iraniane.

Traffico di petrolio attraverso Hormuz nel 2011 | National Geographic

Le conseguenze economiche della chiusura dello stretto di Hormuz sarebbero notevoli in termini economici e non solo. Infatti il trasporto di risorse passerebbe per vie molto più lunghe e richiederebbe costose alternative. Tuttavia, nonostante le minacce, lo stretto non è mai stato veramente bloccato. Molti esperti del settore sostengono che l’Iran non chiuderebbe lo stretto sostanzialmente perché la propria economia dipende dal passaggio del petrolio da quelle acque, oltre che per evitare una guerra con gli Stati Uniti e tensioni con Paesi quali l’India e la Cina. È opinione comune tra gli osservatori che l’Iran, piuttosto, renderebbe difficile e pericoloso il passaggio delle imbarcazioni attraverso Hormuz. Nell’ipotesi peggiore di escalation l’Iran potrebbe decidere di utilizzare diversi mezzi e tecniche – mine, sottomarini o missili, per esempio. Uno degli scenari possibili è l’utilizzo di mine nei canali di passaggio e un attacco sferrato dalle coste o per via aerea nel caso di tentativi di sminamento da parte nemica. Tuttavia nuovi studi prospettano anche scenari differenti, rivelando che la minaccia Iraniana sullo stretto potrebbe rafforzarsi nel giro di uno o due decenni. Gli Stati Uniti hanno di solito confidato nell’aiuto dei propri alleati nella regione del Golfo Persico per ottenere la disponibilità di basi da cui dispiegare truppe e ottenere rifornimenti. Al momento, però, l’Iran sta lavorando per mettere a punto sistemi d’arma che costituiscano una minaccia più seria per gli Stati della regione, dissuadendoli dal fornire ogni tipo di appoggio a Washington.

Nicaragua - la rivoluzione colorata con i suoi morti e violenze è approdata qui

Il Nicaragua è adesso l'obiettivo


Gli atti violenti sono presentati dalla stampa come pacifiche proteste studentesche


Individui mascherati, armati di mortai e bazooka fatti in casa bloccano le strade, chiudono le strade principali, attaccano le istituzioni statali, bruciano pneumatici, incendiano, saccheggiano e uccidono.

Ad oggi, circa 170 persone sono morte in Nicaragua vittime di caos e violenza. Una forte campagna mediatica accompagna gli eventi e più che accompagnarli, li dinamizza, li moltiplica, li falsifica senza pudore.

Gli atti violenti sono presentati come manifestazioni pacifiche di studenti, la stampa mostra foto di "assassinati dal governo sandinista", ma la menzogna ha le gambe corte e l'inganno viene scoperto. Diverse denunce mostrano che i morti sono vivi, un giovane che risiede all'estero torna per smentire la menzogna alle telecamere, ma la circostanza non viene diffusa dai media mainstream.

Secondo quanto recentemente pubblicato dal blogger e scrittore Max Blumenthal, all'inizio di giugno, un gruppo di attivisti dell'opposizione del governo nicaraguense si è recato a Washington DC, con i leader della Freedom House. Il gruppo di opposizione, noto come M19, è andato a chiedere a Donald Trump e ad altri funzionari del governo degli Stati Uniti "di aiutarli nella loro lotta contro il presidente nicaraguense Daniel Ortega".

I collegamenti delle organizzazioni statunitensi con gli eventi in Nicaragua e in altre parti del mondo sono chiaramente indicati nel testo di Blumenthal. «Ned (National Endowment Democracy) è un agente leader del soft power degli Stati Uniti coinvolto negli affari di altri paesi sin dalla sua fondazione nel 1983 al culmine della Guerra Fredda (... )». E l'autore cita Allen Weinstein, fondatore della Ned, nel 1991: "Gran parte di ciò che facciamo oggi è stato fatto in modo nascosto 25 anni fa dalla CIA".

Il budget con cui NED opera viene dal Congresso degli Stati Uniti, che assegna milioni ogni due anni come parte del budget del Dipartimento di Stato. Ricevono anche donazioni da quattro associazioni: la Smith Richardson Foundation, la John M. Ohin Foundation, la Lynde e la Harry Bradley Foundation e la Freedom House, finanziate indirettamente tramite contratti federali.


Il denaro è distribuito tra l'International Republican Institute (IRI), l'Istituto Nazionale Democratico per gli Affari Internazionali (NDI), il Centro Americano per la Solidarietà Internazionale del Lavoro della Federazione Americana dei Sindacati-Congresso delle organizzazioni industriali (AFL-CIO) e il Centro per le Imprese Private Internazionali (CIPE secondo il suo acronimo in inglese), della Camera di Commercio, che a sua volta distribuisce risorse monetarie e materiali ad altre organizzazioni nel territorio nordamericano e nel mondo, e distribuisce denaro e materiali per le organizzazioni di opposizione in paesi che non godono del favore del governo nordamericano.

Il reportage del blogger statunitense pone l’accento sui colpevoli: «Oltre la NED, l’Usaid è stata promotrice più attiva del regime change contro i governi socialisti in America Latina.

In Nicaragua, il budget USAID ha superato 5,2 milioni nel 2018, con la maggior parte dei fondi stanziati per la formazione della società civile e l’organizzazione dei media.

È la stessa Usaid che ha utilizzato i fondi dell'Alliance for Progress, i programmi di "aiuto economico”, "politico” e "sociale” degli Stati Uniti, una sorta di Piano Marshall e il primo grande tentativo di fermare la rivoluzione latinoamericana e isolare Cuba, per finanziare la repressione. Ma invece di ingegneri, tecnici e operai specializzati, l'Usaid formava polizia, soldati, paramilitari, torturatori e assassini senza scrupoli; Invece di fabbriche, piantagioni agricole e scuole, furono costruiti centri di detenzione e tortura.

Non dimentichiamo che è la stessa USAID ad aver inoltre finanziato la formazione di squadroni della morte, programmi cosiddetti di "salute" che nascondevano i processi di sterilizzazione disumana in America Centrale e collaborato con i ‘narcoagenti’ CIA nell’operazione Iran-Contra. 

L'USAID ha creato una rete profonda nel nostro continente, che cattura i quadri, fabbrica leader, penetra nella società civile. Un vero esercito interventista di «esperti», «consulenti», «consiglieri» che lavorano nello sviluppo di questi piani sovversivi. Solo nei suoi primi dieci anni di vita, NED ha distribuito oltre 200 milioni di dollari in 1.500 progetti per sostenere i cosiddetti "amici d'America".

La Serbia, Georgia, Kirghizistan, Bielorussia, Ucraina, Iran e Venezuela, ovunque ci sia un governo che sia in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti, gli specialisti della destabilizzazione e il caos, generosamente finanziati, entrano in azione.

Mercenari, criminali, al servizio del "Golpe Suave”, di "rivoluzioni colorate”, rivoluzioni dai nomi luminosi e tranquilli, progettati nei laboratori di Langley, anche conosciute come Rivoluzione delle Rose, Rivoluzione dei Tulipani, Rivoluzione Arancione, o con un nome più vicino alla realtà Rivoluzione dei Bulldozer nel caso della Serbia, dove l'acquisto coscienze critiche e l'inganno, la seduzione tramite l’utilizzo di concetti attraenti per i giovani e un sacco di soldi, tutto il denaro che sia necessario, sono i soldati e le armi della nuova guerra. E, naturalmente, ora l'obiettivo è il Nicaragua.

Tra i progetti sovversivi di USAID, in Nicaragua, vi sono:

  • Partecipazione civica al processo elettorale.
  • Incubare una cultura della trasparenza nella gioventù nicaraguense.
  • Formazione di giovani studenti di comunicazione per produrre storie che promuovano l'autoefficacia.
  • Multimedia per la governabilità democratica.
  • Rafforzamento dei diritti di donne e giovani a Masaya.
  • Quadro legale per l'azione civica dei giornalisti.
  • Partecipazione attiva dei cittadini nicaraguensi al diritto di voto.
(Traduzione dallo spagnolo per l’AntiDiplomatico di Fabrizio Verde)

Gli Stati Uniti vogliono affamare l'Iran,

L'Iran risponde alle minacce degli USA: Bloccheremo il trasporto internazionale di petrolio chiudendo lo Stretto di Ormuz


In questo modo, l'Iran risponde alle intenzioni degli Stati Uniti di convincere la comunità internazionale a smettere di comprare idrocarburi da Teheran.

Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche sono pronti a chiudere lo Stretto di Hormuz, al fine di ridurre il trasporto internazionale di petrolio, riporta l'agenzia YJC con riferimento al vice comandante dell'organizzazione iraniana, il generale Ismail Kosari.

"Se le esportazioni di petrolio iraniano saranno limitate, non permetteremo l'estrazione di petrolio al mondo attraverso lo stretto del Golfo", ha dichiarato questa 3 luglio in riferimento alla Stretto di Hormuz, un passo strategico dal Golfo Persico al Golfo di Oman ( Mar Arabico). I militari iraniani hanno sottolineato che il 20% del petrolio mondiale viene trasportato attraverso lo stretto in questione.


La scorsa settimana, un alto funzionario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, parlando in condizione di anonimato, ha dichiarato che Washington avrebbe cercato di convincere i suoi alleati a smettere di comprare petrolio dall'Iran ai primi di novembre.

"Stiamo per tagliare i flussi di finanziamento dell'Iran e mettere pienamente in luce il comportamento maligno dell'Iran in tutta la regione", ha dichiarato la fonte, aggiungendo che una delegazione statunitense si dirigerà presto in Medio Oriente per incoraggiare gli esportatori di petrolio dal Golfo Persico a garantire la fornitura di petrolio greggio quando l'Iran sarà espulso dal mercato il prossimo autunno.

L'approvvigionamento regionale di petrolio, in pericolo

In risposta alle dichiarazioni del lato degli Stati Uniti, il presidente della Repubblica islamica, Hassan Rouhani ha avvertito che la fornitura di petrolio regionale sarà compromessa se gli Stati Uniti riusciranno a convincere i loro alleati. "Sembra che non si rendano conto di quello che dicono quando dichiarano che non permetteranno all'Iran di esportare nemmeno una sola goccia di petrolio", ha spiegato il presidente iraniano, aggiungendo: "Molto bene, se voi [gli americani] potete fare una cosa del genere, fatelo e vedrete il risultato!"

Inoltre, il comitato per l'energia iraniano ha affermato che il paese persiano importerebbe solo merci dalle nazioni che acquistano il loro petrolio. "Noi lo scambio di petrolio lo facciamo per le merci, il che significa che l'acquisto di beni dipende dalle vendite di petrolio. Vogliamo informare i nostri mercati e paesi che comprano il nostro olio che compreremo i loro prodotti solo se comprano il nostro petrolio", ha affermato il rappresentante del Comitato per l'Energia dell'Iran, Asadollah Karekhani, che ha aggiunto che si sta formando un gruppo di lavoro per finalizzare gli accordi su questi scambi.

Fonte: YJC
Notizia del: 05/07/2018

Gli Stati Uniti vogliono prendersi la vita di Rafael Correa, solo la Russia può salvarlo con la sua famiglia

Washington alla caccia di Rafael Correa

05.07.2018 - Redazione Italia

Quest'articolo è disponibile anche in: Inglese, Spagnolo, Francese


di Paul Craig Roberts, 4 luglio 2018
L’articolo originale può essere trovato qui

Come presidente dell’Ecuador, Rafael Correa è stato una manna dal cielo per il popolo ecuadoriano, per l’indipendenza latinoamericana e per Julian Assange di WikiLeaks.
Servendo giustizia e verità invece di Washington, Correa si è guadagnato l’odio e la determinazione di Washington a distruggerlo.

A Correa è succeduto come presidente Lenin Moreno, che Correa erroneamente credeva fosse suo alleato, ma che ha tutte le caratteristiche per essere una risorsa di Washington. Le prime cose che Moreno ha fatto sono state un accordo con Washington, bloccare Correa dal candidarsi nuovamente alla presidenza, e consegnare Julian Assange. Moreno vuole revocare l’asilo concesso ad Assange e gli ha impedito di continuare la sua attività giornalistica dall’ambasciata ecuadoriana a Londra. In altre parole, Moreno ha cospirato con Washington e il Regno Unito per imprigionare del tutto Assange nell’ambasciata.

Ora Moreno ha fatto un altro passo che mette in risalto la sua indole di canaglia. Correa, rendendosi conto che lui e la sua famiglia erano in pericolo, si era trasferito in Belgio (patria di sua moglie-NdT). Un tribunale ecuadoriano ha ora ordinato ai belgi di catturare Correa e di estradarlo in Ecuador, con una accusa di sequestro di persona.

Correa ritiene che il Belgio non darà seguito a un’accusa assurda per la quale non viene presentata alcuna prova; egli ritiene che l’accusa sia fatta per diffamare il suo nome.
Se fossi Correa, non ne sarei così sicuro. Abbiamo visto la facilità con cui Washington ha potuto usare i suoi vassalli – Svezia e Regno Unito – per neutralizzare efficacemente l’asilo politico che l’Ecuador ha dato ad Assange. Anche il Belgio è vassallo di Washington e subirà minacce e corruzioni – qualunque cosa serva – per consegnare Correa nelle mani di Moreno, vale a dire nelle mani di Washington.
Se fossi Correa, andrei all’ambasciata russa e chiederei asilo a Putin.

Riferimenti:

Traduzione dall’inglese di Leopoldo Salmaso

Mauro Bottarelli - Il governo Conte dovrebbe chiedere/pretendere la vigilanza bancaria

SPY FINANZA/ La poltrona Ue che la Germania vuol togliere all'Italia

Ci sono guerre che non fanno rumore. Ma che cambiano il corso degli eventi. Succede nella Gdo e anche per le poltrone che contano nell'Ue. MAURO BOTTARELLI

06 LUGLIO 2018 MAURO BOTTARELLI

Angela Merkel con Jean-Claude Juncker (LaPresse)

Ci sono guerre che non fanno rumore. Ma che cambiano il corso degli eventi. E, soprattutto, gli equilibri. Una è quella che, non a caso, ha ottenuto due giorni fa la prima pagina dell'edizione britannica del Financial Times, come ci mostra la fotografia più in basso. È la guerra della grande distribuzione, uno scontro fra colossi il cui significato va ben oltre le quote di mercato di un business miliardario: si tratta di una battaglia per l'egemonia, prima ancora che per il carrello della spesa e gli utili. Tesco e Carrefour, giganti rispettivamente di Regno Unito e Francia, hanno ufficialmente creato una sinergia per contrastare lo strapotere dei discount tedeschi, Aldi e Lidl, capaci di erodere negli anni sempre più clientela e punti vendita con i loro brand cosiddetti no-frills, ovvero senza marchi conosciuti e roboanti e quindi in grado di non scaricare sul prezzo applicato alla clientela i costi di marketing e altre spese accessorie. 

L'alleanza anglo-francese nasce appunto come sinergia strategica per arrivare a un sostanziale taglio e poi contenimento dei costi, al fine di drenare l'emorragia che ha colpito non solo il leader della grande distribuzione francese, ma anche le cosiddette Big Four britanniche della spesa a basso costo, ovvero proprio Tesco ma anche Asda, Morrisons e Sainsbury's. Il tutto, senza contare le sempre maggiori quote di mercato che stanno drenando le nuove offerte legate al comparto anche alimentare e del fresco di Amazon e dell'e-commerce in generale, un qualcosa destinato a una continua crescita nei mesi e anni a venire (basti pensare che Jeff Bezos, titolare di Amazon, ha recentemente acquistato la catena leader del cibo biologico Usa, Whole Foods, molto apprezzata e diffusa anche nel Regno Unito).


Non si parla quindi solo di un business miliardario e di decine di migliaia di posti di lavoro in ballo, si parla di egemonia economica: negli anni, Aldi e Lidl hanno imposto la supremazia tedesca nel comparto discount e ora Londra e Parigi cercano di recuperare il terreno perduto, in quella che appare una guerra accessoria e complementare a quella politica in atto nell'Ue. Per quanto infatti il Regno Unito sia formalmente con un piede fuori dall'Unione, la guerra commerciale dimostra come né la frontiera naturale della Manica, né quella politica e imposta dagli uomini fra Eire e Irlanda del Nord possano sancire da un giorno con l'altro la fine del profilo europeo dei britannici. Quantomeno, dei consumatori. 

Per quanto Londra abbia scelto l'isolazionismo (e per quanto io resti convinto che non si arriverà mai a un Brexit tout-court, stante anche la crisi strutturale dell'Ue), i suoi cittadini, quando devono fare i conti con lo stipendio, il potere d'acquisto e la necessità di fare la spesa per vivere, mettono volentieri da parte sciovinismi tardo-imperiali e vanno dove conviene maggiormente loro: è la parte non deteriore del mercato, è la sana concorrenza. È, di fatto, ciò che l'Europa garantisce come massimo grado di possibilità a chi vuole investire e crescere. Non vi pare che manchi qualcuno in questo contesto? L'Italia, per un'ovvia ragione. Al netto di Coop, Conad ed Esselunga (per mesi nel mirino della stessa Tesco, dopo la morte del patriarca Bernardo Caprotti), la grande distribuzione in Italia parla già straniero da secoli e, se avete notato, proprio in questo periodo in televisione compaiono gli spot che preannunciano lo sbarco in grande stile nel nostro Paese proprio di Aldi, il discount tedesco che insieme alla già presente e frequentatissima Lidl, ha sbaragliato il mercato del low cost e delle offerte tutto l'anno (oltre che delle aperture pressoché senza sosta grazie alla turnazione di massa, alla faccia del vetero sindacalismo che ancora pensa di vivere negli anni Settanta delle serrate agostane e delle domeniche con solo i cinema aperti). 

Noi subiamo, anzi abbiamo già subito, la colonizzazione e non ci sono all'orizzonte ipotesi di ribaltare la situazione, visto che abbiamo festeggiato come il crollo del muro di Berlino il fatto che Esselunga sia riuscita ad aprire punti vendita in Toscana e a Roma. Insomma, dalle battaglie che contano e che sono rese possibili proprio dall'esistenza di un mercato unico, noi siamo esclusi: possiamo scegliere quale straniero sia più presente sul nostro territorio, ma ci è vietato anche solo sognare un nostro sbarco numericamente sensibile all'estero nel mondo della grande distribuzione. E la colpa è tutta nostra, dall'inizio alla fine, dall'idea di aver favorito lo shopping selvaggio del nostro comparto agro-alimentare e caseario da parte di competitor stranieri negli anni Ottanta e Novanta in nome di un provincialismo straccione spacciato per apertura al liberismo e alla concorrenza, fino appunto agli atteggiamenti da pre-rivoluzione industriale di certe sigle sindacali (e di certo mondo cattolico, quasi fosse colpa dei supermercati aperti la domenica o a Santo Stefano se la gente va meno a Messa). 

Ma c'è una battaglia di potere e di equilibrio in cui, invece, siamo pienamente protagonisti: quella per la successione alla francese Danièle Nouy a capo della Vigilanza Bce, visto che il mandato dell'esponente transalpina scade alla fine del 2018 e sarebbero ben tre i candidati italiani a succederle per i prossimi cinque anni. Nemmeno a dirlo, stante il nodo Npl che ingabbia i nostri istituti di credito (e tornato ovviamente e strategicamente in auge proprio in questi giorni), una battaglia di natura esiziale per il futuro del nostro Paese. Peccato che sulla strada dell'ottenimento di questo risultato si sia piazzata, come una falange, la Germania, preoccupata che un Paese altamente indebitato e con un sistema bancario come il nostro, schiacciato appunto da due criticità come le sofferenze e l'eccessiva detenzione di debito pubblico, possa prendere la guida dell'organismo di vigilanza della Banca centrale, depotenziandone il mandato di cane da guardia dei bilanci. 

A lanciare l'allarme, ieri, ci ha pensato Handelsblatt, il principale quotidiano economico tedesco, con un articolo della corrispondente da Bruxelles, Ruth Berschens. La quale, con il chiaro intento di bruciarne le candidature, fa nomi e cognomi dei potenziali candidati dell'Italia in lizza per quel posto. Sarebbero Andrea Enria, attuale capi dell'Eba, l'Autorità bancaria europea, la quale sta già preparando il trasloco da Londra a Parigi proprio in vista del Brexit, Ignazio Angeloni, top advisor della Bce e rappresentante dell'Eurotower presso il board di supervisione bancaria dell'Ue e Fabio Panetta, il meno accreditato, vice-governatore di Bankitalia. 

A scatenare il timore tedesco di un'Italia che vinca questa battaglia è il fatto che il prossimo hanno il nostro Paese perderà tre posti di grande rilevanza in ambito europeo: il mandato di Mario Draghi a guida della Bce scadrà infatti a novembre, quello di Federica Mogherini ad Alto rappresentante della politica estera alla fine di ottobre e quelli di Antonio Tajani come presidente dell'Europarlamento a giugno. Insomma, a fronte di questo esodo, un posto di prestigio sarebbe quasi automatico in nome dello spoil system (o del manuale Cencelli, per dirla all'italiana). A oggi, la Germania starebbe già operando lobbying per evitare questo epilogo, tanto che il quotidiano tedesco ieri attribuiva a diplomatici europei di alto livello la loro preferenza la guida della Vigilanza verso Sharon Donnery, vice-governatore della Bank of Ireland, ma la candidatura appare meramente di disturbo, visto che Dublino punterebbe a un posto nel direttorio della Bce proprio per il governatore della sua Banca centrale, Philip Lane. 

La strumentalità dell'offensiva tedesca è palesata anche dal fatto che la Germania avrebbe, di suo, una candidatura interna forte, ovvero il membro del board esecutivo della Bce, Sabine Lautenschlager ma il governo di Berlino parrebbe intenzionato a non avanzarla, nonostante la sua alta qualifica per il posto, al fine di ottenere qualcosa di più strutturalmente importante nell'ambito dell'enorme rimpasto interno alle istituzioni europee del prossimo anno, con da assegnare posti chiave alla Bce, alla Commissione Ue, al Parlamento europeo e al Consiglio europeo, presidenze in testa. Piazzare, con ottime possibilità di successo, la Lautenschlager al posto della Nouy diminuirebbe quindi le possibilità di ottenere successioni più pesanti. In primis, quello di capo della Commissione Ue, per il quale la Merkel vorrebbe puntare sul ministro dell'Economia, Peter Altmaier, o quello della Difesa, Ursula von der Leyen: sarebbe la prima volta dagli anni Cinquanta per Berlino, dopo il mandato di Walter Hallstein dal 1958 al 1967. C'è poi il nodo della successione a Mario Draghi, per il quale in molti vedono la Germania intenzionata a piazzare il proprio fuoriclasse, ovvero il numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann ma personalmente ritengo che, visto il profilo eccessivamente da falco e la notorietà del personaggio, alla fine la Germania punterà su un candidato proxy, ovvero un nordico - probabilmente finlandese - sconosciuto ai più, ma che operi in base a un'agenda di rigore sui conti. 

Il tutto, ovviamente, se l'Ue sarà ancora quella che conosciamo oggi e se, soprattutto, davvero la Bce punterà a un processo di normalizzazione, ovvero se chiuderà davvero il Qe a inizio 2019, limitandosi magari a swap sulle scadenze dei bond in detenzione all'atto del rinnovo. E il fatto che l'altro giorno, le solite fonti anonime abbiano fatto filtrare alle agenzie l'indiscrezione in base alla quale molti membri del board Bce, di fatto, ritengano troppo lontano come arco temporale per il primo rialzo dei tassi il mese di dicembre 2019, facendo già partire speculazioni al riguardo su settembre, la dice lunga sulla guerra che si scatenerà nei prossimi mesi. 

E l'Italia, cosa fa? Come si muove in questa battaglia? Qual è la sua agenda? Davvero punta al posto della Nouy oppure resta in attesa di alleanze da compiersi, arrivando come sempre buon'ultima ai tavoli che contano? E i nostri giornali, perché invece di riempire paginate con idiozie sesquipedali o gossip politico da quattro soldi, non informano i cittadini sulle battaglie, quelle vere, in atto nell'Europa che viene sempre più stereotipata e sempre meno raccontata e capita? Perché se è vero che la Germania può contare su alleati e su numeri come quelli di questo grafico per perorare la sua causa contro la nostra candidatura alla Vigilanza, è altrettanto vero che un governo serio la smetterebbe di fare le battaglie di retroguardia sul Brennero e manderebbe un paio di sherpa di livello a Bruxelles e Berlino, facendo notare che mentre a noi veniva imposta manu militari la riforma delle banche popolari e di credito cooperativo, ovviamente spacciata dagli yes men dei governi a guida Pd come la rivoluzione copernicana che avrebbe salvato il sistema produttivo e del credito italiano, in Germania il sistema bancario è all'80% formato da Landesbanken e Sparkasse, di fatto statali e soprattutto non soggette alla vigilanza Bce da cui, guarda caso, Berlino vorrebbe esentarci come potenziali referenti. 


Ma, ripeto, questo la farebbe un governo serio. Quindi, non è il nostro caso. Poi, però, smettiamola di lamentarci e dare la colpa all'Europa matrigna o alla Germania cattiva per tutto: se le battaglie nemmeno le si combatte, poi è vietato per obbligo di dignità lamentarsi delle sconfitte.

al Qaeda è l'interfaccia dell'Isis. Sono gli strumenti della Strategia del Caos e della Paura, che per il momento è stata sospesa sostituita dall'abbattimento delle regole internazionali per favorire gli Stati Uniti

http://www.occhidellaguerra.it/al-qaida-pericolosa-sfidaisis/

Siria - si combatte nel Golan e non è un caso, gli ebrei sovvenzionano tutti per continuare a usurpare le alture


La situazione nel sud della Siria: in rosso il regime (?!?!) di Assad e alleati, in grigio gruppi affiliati allo Stato Islamico, in verde i ribelli siriani, in viola le Alture del Golan, al confine tra Siria e Israele (Liveuamap)

Diego Fusaro - Eliminare gli Stati eliminando le identità che sono alla loro base, il Capitalismo Globalizzato Totalizzante ha bisogno di omologare tutti

Il capitalismo globale contro le identità nazionali-popolari

-5 luglio 2018

Roma, 5 lug – Il «globalitarismo», ossia il totalitarismo glamour della mondializzazione capitalistica, aspira a destrutturare le identità tanto dei popoli, quanto degli individui. Procede mediante la prassi dell’inclusione neutralizzante, ossia «inglobalizzando» i popoli, inghiottendoli nel baratro del nichilismo mondialista. Quest’ultimo, spesso per vie esplicitamente violente, impone ai popoli la loro ridefinizione neutra in termini di aggregati atomistici di individui senza identità che non sia quella globale del consumo e dello scambio di merci. Il globalismo del mercato avversa palesemente le identità, ossia ogni estrinsecazione visiva, culturale e simbolica di una vita collettiva radicata in una cultura nazionale-popolare storica.

In nome dei popoli plurali, dotati di storie e di culture, il ritmo livellante della mondializzazione capitalistica genera, con le sintassi di Heidegger, il «Si» (man) planetario, l’indistinto universale, l’indifferenziato su scala globale: un unico popolo sradicato, un’unica visione del mondo, un’unica cultura deculturalizzata, un’unica prospettiva aprospettica. Tale è l’essenza della nuova plebe policroma post-identitaria globalizzata. Il turbomondialismo sussume l’umanità intera sotto la forma merce e, dunque, ridefinisce l’uomo – ogni singolo uomo – come mero consumatore sradicato e anglofono, senza simboli e religione, senza storia e prospettiva, senza cultura e senza radici. In ciò risiede l’essenza del nuovo profilo soggettivo post-identitario o, se si preferisce, a identità decostruita: i cui tratti peculiari diventano la frammentazione, l’assenza di memoria e di prospettiva, la saturazione, la mancanza di centro. Permanentemente aperto alla negoziazione e al mutamento, il sé prende a essere inteso come mero costrutto, come semplice frutto di accordi, di convenzioni e di esigenze dettate dal momento.

Gli alfieri del verbo multiculturale della monocultura del capitalismo assoluto convincono le plebi in fase di pauperizzazione materiale e di postmodernizzazione immateriale circa il carattere progressivo dell’abbandono di ogni identità, per favorirne la sussunzione integrale sotto il nuovo ordine mondialista. Per portare a compimento l’annichilimento delle identità, i padroni del discorso impongono con ogni mezzo di comunicazione disponibile quello che potremmo definire come il teorema anti-identitario: fondativo dell’antropologia mondialista, esso si basa sul presupposto fallace secondo cui essere se stessi significa non rispettare l’altro e, di più, aggredirlo. Sicché – questa la sillogistica conseguenza – occorre cessare di essere se stessi, affrancandosi dalla propria identità e aprendosi incondizionatamente all’altro.

Immigrazione di Rimpiazzo - Una volta si diceva, per combattere il terrorismo, bisogna togliere l'acqua in cui navigano, ora la medesima operazione fatta sui trafficanti di schiavi viene definita, capiamo da chi, togliere la testimonianza di quello che accade. I trafficanti posti in Libia e chi li comanda devono sapere che mettere quei tipi di barcone significa solo far morire gli schiavi destinati, per quella via, all'Europa

Migranti
Le Ong sono state rimosse chirurgicamente dal Mediterraneo

di Ottavia Spaggiari 20 ore fa

Con Open Arms approdata a Barcellona per lo sbarco dei 60 naufraghi salvati nell’ultima operazione di soccorso, nelle acque internazionali al largo della Libia non rimane più nessuna nave umanitaria e nessun soggetto non governativo a testimoniare ciò che sta accadendo, eppure le persone continuano a partire, il numero delle vittime aumenta e anche il Consiglio d'Europa condanna l'ostruzionismo dell'UE nei confronti delle Ong in mare

Alla fine, nel Mare Nostrum tra Italia e Libia non è rimasto nessuno a soccorrere chi rischia la vita cercando di fuggire dall’inferno libico e raggiungere l’Europa. È stata una rimozione chirurgica di ogni soggetto non governativo, iniziata un anno e mezzo fa con una campagna di screditamento nei confronti delle Ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo e culminata con la chiusura dei porti italiani, a inizio giugno. Un braccio di ferro tra Italia, Malta ed Europa che ha reso il nostro Paese protagonista di ripetute violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani.

· 3 Lug

(BREAKING) DEAD AND MISSING AT SEA: Since June 1st, #migrant attempted crossings from #Libya have become THE RISKIEST since accurate public recordings started in 2016.

ALMOST 1 IN 10 died or went missing upon departure from the Libyan coast bettween June 1st and July 2nd. pic.twitter.com/r6SdQqkFqr


(BREAKING) After the sudden drop in #migrant departures from #Libya since 16 July 2017, the absolute number of dead and missing had abated.

Astoundingly, we are now BACK to pre-drop levels.
679 persons have died or gone missing upon leaving Libya since June 1st. pic.twitter.com/HwJf5ZQxUq

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Un numero record di vittime

Nessuna nave umanitaria si trova attualmente nelle acque internazionali al largo della Libia. Un’assenza che si è tradotta nel tragico bilancio record delle persone morte nel Mediterraneonell’ultimo mese. Secondo una stima dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) tra il 1 giugno e il 2 luglio di quest’anno circa una persona su dieci partita dalla Libia ha perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare. Sono infatti almeno 679 le vittime annegate dal 1 di giugno, una cifra che, purtroppo, è da considerare per difetto, poiché comprende solo il numero di perdite che si è riusciti a registrare.

Peter Martin, volontario dell’Ong tedesca Sea-Eye, ha raccontato su New Statesment della notte difficilissima dello scorso 18 giugno quando l’equipaggio di cui faceva parte, seguendo l’ordine di non interferire con la cosiddetta Guardia Costiera libica, ha rinunciato a soccorrere un’imbarcazione in difficoltà con a bordo circa 120 persone che però non sarebbero state salvate da nessun altro, visto che il mercantile che era stato inizialmente incaricato di intervenire, non l’ha fatto. «La campagna di criminalizzazione delle Ong ha funzionato. Eravamo una nave di salvataggio che aveva paura di fare operazioni di salvataggio. Ci hanno intimidito e così ci siamo allontanati mentre, con tutta probabilità, 120 persone sono annegate». Secondo il volontario quelle 120 persone non sarebbero nemmeno state contate nel bilancio delle 220 vittime redatto da Unhcr di quella settimana, definita come la più terribile del 2018.

Dove sono le navi umanitarie

L’ultima imbarcazione attiva, quella dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms è approdata ieri mattina a Barcellona portando le 60 persone salvate venerdì scorso al largo della Libia, avendo ricevuto l’ok a procedere dalla cosiddetta guardia costiera libica, in un Place of Safety (luogo sicuro), dopo che l’Italia aveva annunciato la chiusura dei porti venerdì scorso.

Il Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Danilo Toninelli aveva annunciato che: «In ragione della nota formale che mi giunge dal Ministero dell'Interno e che adduce motivi di ordine pubblico, dispongo il divieto di attracco nei porti italiani per la nave Ong Astral, in piena ottemperanza dell'articolo 83 del Codice della Navigazione».

Per capire esattamente su quali basi è stata resa esecutiva questa decisione, il giornalista Andrea Tornago ha reso noto di aver inviato una richiesta di accesso agli atti per “ottenere il provvedimento con cui il 29 giugno il ministro avrebbe negato accesso a Open Arms al porto di Pozzallo”, ma di non avere ancora avuto risposte a riguardo.

Con la nave di Open Arms a Barcellona, nelle acque internazionali al largo della Libia non rimane più nessuna imbarcazione umanitaria nel Mediterraneo centrale.

Aquarius è al momento ancora ferma a Marsiglia, dove è stata costretta a dirigersi per il rifornimento e il cambio di equipaggio dopo che, il 26 giugno scorso, Malta, abitualmente utilizzata come base dalla nave gestita da SOS Mediterranee e da Medici senza frontiere e dalle altre navi umanitarie, aveva respinto l’ingresso.
«L’Aquarius rimane nel porto di Marsiglia, per seguire lo scalo abituale. Viste le attuali politiche in mare e la criminalizzazione delle navi di ricerca e soccorso delle Ong, ci obblighiamo a prendere un po’ di tempo per analizzare la situazione», ha dichiarato via Twitter Medici senza frontiere.

· 1 Lug


A distanza di due giorni il provvedimento del ministro @DaniloToninelli per chiudere il porto di Pozzallo a #OpenArms è ancora un atto fantasma. I legali di @openarms_fund confermano di non averlo mai visto. È un atto segreto? Oppure basta un proclama per chiudere un porto? #Ong pic.twitter.com/gtDEor8NNo


Ho inviato una richiesta formale di accesso agli atti al @mitgov per ottenere il provvedimento con cui il 29-6 il ministro avrebbe negato accesso a #OpenArms al porto di #Pozzallo. @DaniloToninelli ha dichiarato di aver “disposto la chiusura” ma il documento non si trova. pic.twitter.com/iGX1mSfq79




UPDATE: The #Aquarius remains in the port of #Marseille following our regular scheduled port call. Given the current politics at sea, and the criminalisation of #NGO search & rescue vessels, we force ourselves to also take some time to assess the situation.

Le imbarcazioni umanitarie delle altre tre organizzazioni rimaste in mare sono invece bloccate a La Valletta.

Sea-Eye è infatti ferma a Malta dopo che le autorità olandesi hanno chiesto a Seefuchs, il peschereccio dell’Ong, di rimuovere la bandiera olandese, mettendone in discussione la legittimità di utilizzo, nonostante i documenti dell’imbarcazione, che naviga da quasi due anni, siano stati approvati dall’Agenzia federale marittima e idrografica tedesca (BSH) e prima d’ora non avessero mai sollevato dubbi. «Un chiaro tentativo di tenerci lontani dall’acqua», dicono dall’Ong che dichiara però l’intenzione di ripartire per una nuova missione il prima possibile, «non appena le cose saranno chiarite».

Se infatti trovare un “place of safety” disposto ad accogliere le navi umanitarie è ormai difficilissimo, per chi fa ricerca e soccorso è diventato altrettanto difficile uscire dal porto e tornare in acque internazionali.

Dopo sei giorni di navigazione e un infinito rimpallarsi delle responsabilità tra Italia e Malta, la nave dell’Ong tedesca Lifeline è riuscita portare in salvo i 224 naufraghi salvati a La Valletta ma l’imbarcazione è stata bloccata e l’equipaggio sottoposto ad un’investigazione da parte delle autorità Maltesi.
Domenica anche a Sea-Watch è stato negato il permesso di lasciare il porto, come ha spiegato l’Ong in un comunicato: « Sea-Watch ha ricevuto risposta negativa dall’autorità portuale di Malta la quale riferisce tramite il nostro agente che “in base alle attuali istruzioni, la nave Sea Watch 3 non è autorizzata a partire dal porto.” La spiegazione addotta è la seguente: “La situazione e lo status della nave sono in corso di revisione e torneremo sulla questione a tempo debito”».

L’Ong ha sottolineato che «A seguito del rientro dalla sua ultima missione, la Sea-Watch 3 ha stazionato a Malta per un processo di revisione e ispezione in programma da mesi che è stato superato con successo con il passaggio di classe della motonave. La Sea-Watch 3 risultava comunque già regolarmente iscritta al Registro nazionale delle navi battenti bandiera olandese. L’organizzazione è inoltre membro della Federazione Internazionale per il Soccorso Marittimo IMRF».



BREAKING Sea-Watch hindered from leaving port - Cpt. Pia Klemp: "While we are hindered from leaving port, people are drowning. Any further death at sea is on the account of those preventing rescue from taking place. Saving lives at sea is non-negotiable" https://sea-watch.org/en/321/ 

L’ultimo tassello: la rimozione dell’aereo di avvistamento e soccorso Moonbird

L’Ong tedesca Sea-Watch ha annunciato mercoledì notte che anche a Moonbird, velivolo utilizzato per l’avvistamento delle imbarcazioni in difficoltà è stata negata l’autorizzazione di volare. L’aereo, gestito dalla Sea-Watch e dall’organizzazione Swiss Humanitarian Pilots Initiative (HPI) e sostenuto dalla Chiesta evangelica tedesca, ha contribuito all’avvistamento e al salvataggio di circa 20mila persone.
Il comandante, Ruben Neugebauer, ha raccontato che le autorità maltesi non hanno comunicato a Sea-Watch le ragioni o le motivazioni legali per cui al velivolo sia stato negato il permesso di volare, dopo che da un anno e mezzo a questa parte è sempre decollato da Malta, operando in collaborazione con le autorità maltesi e con il Centro di coordinamento della Guardia costiera di Roma.



About 1000 would have drowned for sure, if our #Moonbird would not have found their sinking boats at the last second. Now this life saving asset is blocked as well by #EU authorities, even if we face the deadliest days since records started. Witnesses are obviously not welcome.

«Ovviamente non devono esserci testimoni oculari indipendenti in grado di documentare le violazioni dei diritti umani», ha dichiarato Neugebauer a Malta Today. «Il pubblico europeo non deve sapere come sia barbara questa politica di isolamento. Non devono esserci prove di come le persone stiano annegando in mare e di come la cosiddetta Guardia Costiera Libica si stia comportando».

Proprio oggi Dunja Mijatović, commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa, l'organizzazione internazionale che ha lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti umani e l'identità culturale europea ha condannato le politiche di respingimento: «Purtroppo diversi Paesi membri del Consiglio d'Europa stanno ostacolando il lavoro delle Ong, il che mette a rischio la vita di molte persone. Quando gli Stati membri coordinano delle operazioni di soccorso, dovrebbero fare pieno utilizzo di tutti gli strumenti di ricerca e soccorso disponibili, incluse le navi delle Ong. Le autorità di coordinamento dovrebbero assicurare che le istruzioni date durante le operazioni di soccorso rispettino pienamente i diritti umani dei migranti salvati, evitando che siano messi in situazioni in cui il loro diritto alla vita sia minacciato, o in cui siano soggetti a tortre, trattamenti degradanti o disumani, o all'arbitraria privazione della libertà». Un evidente riferimento a ciò che avviene in Libia, Paese che la scorsa settimana ha dichiarato ufficialmente la propria SAR zone, zona di ricerca e soccorso ma che, secondo il diritto umanitario, non può essere considerato POS (Place of Safety).

Foto: Hermine Poschmann (Lifeline)