L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 14 luglio 2018

Non dite agli omosessuali che sono omosessuali che si offendono. Ma la Appendino non ha altro da fare?

Processo alla De Mari: a rischio le tre libertà dell’uomo

Maurizio Blondet 14 luglio 2018 

Andrea Zambrano

Comparirà il 18 luglio davanti al giudice di Torino. Silvana De Mari, scrittrice fantasy e medico, dovrà rispondere di diffamazione per le sue affermazioni sul “sesso” omoerotico, trascinata in tribunale dal Torino Pride e dal sindaco Appendino. Lei si affida a una memoria difensiva interamente medica e riceve l’appoggio di migliaia di persone. Il suo legale, il penalista Mauro Ronco spiega alla Nuova BQ perché questo processo segna un punto di svolta in Italia: “Per la prima volta nel nostro Paese sono a rischio tutte insieme tre libertà fondamentali per l’uomo: di opinione, di divulgazione scientifica e di religione”.

Silvana De Mari

“Con questo processo per la prima volta in Italia sono in gioco contemporaneamente le tre libertà principali della nostra civiltà: quella di opinione, quella di divulgazione scientifica e quella di religione”. L’avvocato Mauro Ronco commenta così con la Nuova BQ l’imminente udienza che vedrà come imputato la scrittrice, e medico, Silvana De Mari, trascinata in tribunale da un’associazione Lgbt per aver espresso semplicemente una verità scientifica circa la condizione dell’omosessualità. Diffamazione. Questo è il capo di imputazione per il quale la scrittrice fantasy dovrà comparire il 18 luglio prossimo davanti al giudice del tribunale di Torino.

Sotto accusa le dichiarazioni e le prese di posizione che la De Mari ha fatto nel 2016 su diverse testate (tra cui la Zanzara, la Nuova BQ e la Crocequotidiano) e il suo profilo Fb per mettere in guardia gli omosessuali dal rischio sanitario della loro condotta. Parole dure, ma vere, che la De Mari si è sentita di pronunciare principalmente da medico, dopo essere stata tanti anni a contatto con le conseguenze sanitarie di pazienti omosessuali. Ma parole politicamente scorrette, che oggi è vietato ricordare e per le quali d’ora in avanti bisognerà stare attenti dal pronunciare pena appunto il doverne rispondere di fronte al giudice.

La De Mari ha pubblicato una memoria difensiva sul suo blog nella quale entra nel dettaglio delle accuse a lei rivolte e spiega, dati scientifici alla mano perché la sua è un’attività di informazione scientifica incontestabile. Uno scritto nel quale la donna si propone di “di dimostrare che le accuse formulate nel capo di imputazione non hanno alcun fondamento. Io ho sempre inteso esprimere la verità scientifica, peraltro corrispondente alla verità metafisica, riguardante il significato della sessualità umana, nonché le gravi malattie che si trasmettono sessualmente attraverso pratiche di erotismo anale”.

E si affida a Orwell: “Nell’ora dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario. Ora, a stare al fatto che è iniziato un procedimento penale nei miei confronti, sembra addirittura che dire la verità sia un atto criminale”. Nel frattempo è stato lanciato l’hastag #iostoconsilvanademari ed è stato fatto un appello al quale hanno già aderito migliaia di persone.

La De Mari ha chiarito che fino a due anni fa “pensavo che l’omosessualità non fosse genetica e irreversibile. Avevo sempre dato per scontato che fosse costituzionale e mi ero resa conto nella mia carriera di medico dei problemi che dà dal punto di vista fisico e di tipo psicologico. Ma la conoscenza dei casi di Luca Di Tolve, Joseph Sciambra e Richard Cohen, tutti ex omosessuali che grazie alle terapie riparative hanno dimostrato come quella omosessuale non sia una situazione irreversibile, ho deciso di uscire allo scoperto e mettere a disposizione dell’opinione pubblica la verità sui rapporti omoerotici e sulla promiscuità sessuale, che moltiplica le malattie e non ha nulla di allegro”.

Mauro Ronco

La memoria difensiva, che verrà consegnata al giudice, costituisce il grosso della difesa della De Mari, che è seguita dagli avvocati Mauro Ronco e Fabio Candalino. Ed è proprio con Ronco (in foto), avvocato penalista e principe del foro, ma anche giurista di fama e presidente del Centro Studi Livatino, che la Nuova BQ ha cercato di capire perché il processo De Mari che si aprirà a Torino segnerà per certi versi uno spartiacque in Italia.

Professore Ronco, il processo De Mari dunque ha a che fare con tante libertà?
Noi sosterremo la libertà di espressione come livello più elementare di difesa ma sopra questa arriveremo alla libertà scientifica e infine alla libertà religiosa. Il punto è che sembra essersi imposta anche a livello di diritto una assurda pretesa: quella che non si possono muovere critiche o osservazioni di coloro che praticano una determinata attitudine sessuale, che è riprovata dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Se passasse questo concetto vorrebbe dire che in Italia non si può neanche proclamare la verità della Scrittura.

Ma la Scrittura è la Scrittura, la scienza invece…
Ci sono verità naturali che vengono confermate a livello di rivelazione e che le Scritture raccontano. Prendiamo San Paolo dove l’omosessualità è riprovata grandemente perché non è conforme alla natura, la quale è legata alla fecondità. Vietare di dire che questo tipo di genitalità rinnega lo scopo fondamentale della sessualità dunque è anche un attacco alla libertà religiosa.

Ma la De Mari è un medico e non una religiosa…
Per quanto riguarda invece la libertà di divulgazione scientifica, la dottoressa De Mari ha esposto delle realtà di carattere scientifico e non ha offeso nessuno, anzi rispetto alle persone di tendenza omosessuale ha sempre manifestato il massimo rispetto. Nel suo atteggiamento e nei suoi scritti e interviste non c’è nessuna intenzione di diminuire la dignità delle persone. Lei vuole sottolineare il carattere non conforme di queste abitudini sessuali. E ciò è comprovato dalle malattie gravi di cui possono essere veicolo queste relazioni. Inoltre, ha documentato le gravi malattie di carattere infettivologico e lesivo dell’ano che derivano da questo comportamento sessuale.

Opinioni, dunque? Tali da meritare una denuncia per diffamazione appoggiata non solo dall’estensore, il Torino Pride, ma anche dal sindaco sotto la Mole Chiara Appendino?
Siamo di fronte a qualche cosa di più di opinioni, ma fondamentali nozioni scientifiche e verità sulla natura umana. Ciascuno conserva la sua libertà di esprimere determinate tendenze, ma il medico ha la libertà e il dovere di esprimere tutte le contrarietà del caso e anche di mettere in guardia rispetto ai rischi per la salute. Tutta la sua opera e le dichiarazioni rese in quelle determinate occasioni sono state per mettere in luce ciò che il sesso anale comporta. Ecco perché è a rischio la libertà scientifica: proprio perché così facendo si impedisce a un medico di esercitare il suo dovere di informazione.

Ma che cosa oppone il Pride di Torino? Avanza ad esempio controprove scientifiche che quello che scrive lei è sbagliato o non pienamente condiviso dalla comunità scientifica?
No, niente di tutto questo. E non potrebbe essere altrimenti perché non esiste qualche cosa di scientifico che si possa opporre. Il Pride ha detto semplicemente che abbiamo violato la libertà di queste persone che loro rappresentano e violato il loro onore, ma in tutta verità non si capisce che cosa avremmo discriminato o leso dal momento che l’attività della De Mari è sempre stata animata da evidenze scientifiche e non da quel livore ideologico-politico che invece si ravvisa dalla denuncia.

Perché si è arrivati al processo?
Il Pm aveva chiesto l’archiviazione. Ma davanti al Gip c’è stata l’opposizione del movimento Lgbt e il giudice, secondo il rito ha deciso che il pm dovesse esercitare coattivamente l’azione penale. Così siamo arrivati alla prima udienza il 18 luglio.

Avete sentito la pressione delle cosiddette lobby gay?
Indiscutibilmente. Questa operazione è portatrice di un interesse volto a rafforzare l’intangibilità delle critiche in modo da tacitare ogni tipo di libertà. L’azione lobbistica è evidente. Ma è un modo per farsi forza che produce come effetto l’impossibilità di esercitare un’influenza di carattere medico per impedire la manifestazione di verità scientifiche. Questo è molto grave.

Ritiene che questo processo segni un punto di svolta?
Assolutamente sì. In tanti anni di carriera è la prima volta che mi trovo ad affrontare un caso del genere in cui sono messe in discussione contemporaneamente tre delle libertà fondamentali dell’uomo.


Immigrazione di Rimpiazzo - Per quanto riguarda la nave italiana, il Viminale deve coordinarsi con il governo tutto, per quanto riguardo la nave di Frontex giusto non farla approdare in Italia

lA TENSIONE

Migranti, la nave di Frontex in rada davanti a Pozzallo. Salvini: «Distribuiti in Ue o non sbarcano»

Svuotato il barcone: 442 migranti su navi militari (una della Gdf, e un pattugliatore di Frontex ora davanti a Pozzallo).

di Silvia Morosi e Fiorenza Sarzanini



È arrivata nella rada di Pozzallo, in Sicilia, la nave `Protector´ di Frotex con a bordo 176 migranti trasbordati la scorsa notte dal barcone proveniente dalla Libia. Il pattugliatore della Gdf, con a bordo gli altri 266 migranti, si trova, invece, al momento al limite delle acque territoriali. Le due imbarcazioni attendono disposizioni. Intanto a bordo delle due navi arriveranno viveri e medicine oltre ad una equipe di medici. Otto persone, tutte donne e bambini, sono invece state trasportate a Lampedusa a bordo di motovedette della Guardia Costiera per motivi sanitari: due donne sono incinte. Il barcone era partito venerdì mattina dalle coste libiche di Zuara ed era entrato nella zona Sar (Search and Rescue) italiana. Alle 22 di venerdì sera si trovava a poche miglia da Lampedusa e da Linosa, poi i pescatori della zona lo hanno visto cambiare rotta e puntare verso la costa siciliana. «Sicuramente posizione ferma e decisa da parte dell’Italia» perché «non si può arretrare. Sono contento che Giuseppe Conte oggi abbia avviato la volontà di dare seguito alle conclusioni del Consiglio europeo chiedendo che chi arriva in Italia arriva in Europa e quindi è auspicabile che chi arriva e chi sta arrivando venga redistribuito in tutti gli altri Paesi», ha detto il vicepremier Luigi Di Maio, a Matera, riferendosi alla telefonata tra il premier e l’altro vicepremier Matteo Salvini.

Direzione? Malta o Libia

A meno di 24 ore dallo sbarco a Trapani dei 67 migranti a bordo della nave Diciotti, è stato di nuovo braccio di ferro con Malta. Il ministro dell'Interno Matteo Salvini e Danilo Toninelli, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti della Repubblica italiana, già ieri avevano intimato alle autorità della piccola isola nel Mediterraneo d'intervenire quando l'imbarcazione si trovava in acque di salvataggio e ricerca maltesi. Da La Valletta, però, avevano replicato che le persone a bordo avrebbero espresso il desiderio di procedere verso Lampedusa. Salvini non ha ceduto, ma anzi ha rilanciato e informato il premier che «occorre un atto di giustizia, rispetto e coraggio per contrastare i trafficanti di esseri umani e stimolare un intervento europeo» (Mattarella cerca una linea univoca sul tema). Per questo ha insistito affinché alle due navi (Frontex e Guardia di Finanza) con a bordo gli immigrati arrivati ieri nelle vicinanze di Lampedusa venga data indicazione di fare rotta verso Sud.

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi


Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi

Migranti dalla Vos Thalassa alla Guardia Costiera: i messaggi
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Salvini: «In Italia solo con mezzi legali»

«In Italia si arriva solo con mezzi legali», ha spiegato il ministro dell’Interno. «Si nutrono e curano tutti a bordo, mettendo in salvo donne incinte e bambini, ma non si arriva in nessun porto. Non possiamo cedere, la nostra fermezza salverà tante vite e garantirà sicurezza a tutti». A Conte, Salvini ha anche aggiunto: «Da quando siamo al governo, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ci sono stati oltre 27mila sbarchi in meno! Se vogliamo mantenere questi risultati positivi, non possiamo mostrare debolezze». Il ministro ha informato della situazione dei migranti a bordo delle navi della Gdf e di Frontex il premier Giuseppe Conte, ribandendo la sua linea: nessun porto italiano per i migranti. «Occorre un atto di giustizia, rispetto e coraggio per contrastare i trafficanti e stimolare un intervento europeo», avrebbe sottolineato Salvini a Conte, insistendo sull'opportunità che alle due navi venga data indicazione di fare rotta verso Malta o la Libia. Dunque, avrebbe ribadito, non verrà dato accesso ai porti italiani.

Stop sulla decisione del porto

Secondo fonti del Corriere della Sera la decisione del trasbordo è stata presa per non essere accusati di mancato soccorso. Il porto di sbarco dovrà essere scelto da Salvini e Toninelli: avendo la Guardia Costiera completato l’attività di coordinamento, adesso è il Viminale a dover decidere che cosa fare. La rotta dove portare i migranti trasbordati dal barcone arrivato ieri sera dalla Libia non la decidiamo noi, è un'operazione della Guardia costiera e noi seguiamo il loro comando», aveva detto la portavoce di Frontex, Ewa Moncure. «Si tratta di un'operazione italiana e Frontex non può prendere decisioni».
C’è un precedente che risale al governo Berlusconi (con Roberto Maroni al Viminale) quando una nave della Guardia di Finanza riportò migranti in Libia e questo fu ritenuto un respingimento che è vietato dalle convenzioni internazionali e dai trattati ai quali l’Italia aderisce.

14 luglio 2018 (modifica il 14 luglio 2018 | 18:16)

Diego Fusaro - Mattarella quando interviene d'imperio deve sempre difendere gli interessi dell’Italia, quello dei lavoratori e del popolo sovrano

Nave Diciotti, parla Fusaro: “Migranti ormai privilegiati, perché coerenti con mondialismo”


La nave Diciotti della Guardia Costiera italiana ha potuto sbarcare il suo carico di migranti, sessantasette in tutto, raccolti dal mercantile Vos Thalassa che li aveva soccorsi in mare. Il premier Giuseppe Conte ha infatti concesso semaforo verde allo sbarco nel porto di Trapani su richiesta del Presidente della Repubblica Mattarella. Ma resta il grave sospetto che a bordo della Vos Thalassa siano stati commessi reati da parte di alcuni migranti che avrebbero obbligato con la violenza e le minacce, l’equipaggio del mercantile a fare rotta verso le coste italiane invece che in Libia. Il Ministro dell’Interno Salvini per questa ragione aveva deciso di impedire lo sbarco della Diciotti nei porti italiani. A questo punto non c’è il rischio di creare un pericoloso precedente, fino a far passare il messaggio che con la violenza si possa ottenere ciò che non è lecito? Le indagini lo diranno. Intanto Lo Speciale ha parlato con il filosofo Diego Fusaro.


Sembra che la vicenda della nave Diciotti si sia sbloccata grazie all’intervento di Mattarella. Ma così non si rischia di far passare il messaggio che basta essere violenti per averla vinta?

“Credo che il Presidente Mattarella dovrebbe tutelare, sempre e solo, l’interesse nazionale se interviene d’imperio. In questo caso è intervenuto sicuramente d’imperio, e spero che abbia tutelato gli interessi dell’Italia quindi. La mia tesi credo sia chiara a tutti. Ritengo che l’immigrazione cui assistiamo oggi sia in realtà una deportazione di massa tesa a schiavizzare il lavoro e la classe lavoratrice nel suo complesso”.

Salvini ha criticato il fatto che non siano state disposte misure cautelari verso i migranti accusati dei presunti atti di violenza compiuti a bordo della Vos Thalassa. Filosoficamente parlando, in quest’epoca, quanto è reale il rischio che i reati assumano valore diverso a seconda di chi li compie? 

“Certamente, non tutti i reati e non tutte le morti sono considerate uguali. Pensiamo all’operaio italiano che muore a Carrara o a Milano e rischia di ricevere minore attenzione e minore cordoglio rispetto ad altre vittime che comunque vanno ugualmente onorate. Anche l’italiano che muore sul lavoro credo vada rispettato al pari del migrante che annega in mare. Per quanto riguarda i reati è evidente la sensazione che spesso vengano giudicati con pesi diversi sulla base di categorie privilegiate che vengono a soprapporsi alla realtà facendo valere un punto di vista ideologico. Ci sono sicuramente dei privilegiati nell’attuale scenario, non in quanto tali, ma perché coerenti con il progetto mondialista e turbo capitalista in atto”. 

Si è tornato ad evocare lo spettro del fascismo con riferimento all’alto consenso di cui godrebbe in questo momento Salvini. C’è chi fa osservare che anche Mussolini aveva grande popolarità. Così però non si rischia di accreditare il principio secondo cui ad avere ragione è sempre e solo chi porta avanti principi ritenuti giusti a prescindere, indipendentemente dal giudizio del popolo?

“Il fascismo non c’entra nulla, è morto e sepolto nel 1945, ma oggi viene riesumato come risorsa ideologica di addomesticamento dell’opinione pubblica. In questo modo, tutto ciò che non piace all’ordine mondialista dominante è squalificato a prescindere e in quanto tale delegittimato in blocco verso l’opinione pubblica. Si aggiunga poi che il fascismo, che ripeto non esiste più, serve oggi come strumento di strategico consenso per le sinistre, che sono antifasciste in assenza di fascismo e possono così non essere anti-capitaliste in presenza del capitalismo. L’antifascismo giusto e buono negli anni del fascismo reale, diventa così oggi una bieca e vile politica di adattamento al capitalismo mondialista”. 

Da italiano che appello si sente di lanciare al presidente Mattarella?

“Il mio giudizio conta ben poco. Da italiano mi sentirei di suggerirgli come tanti, l’esigenza di difendere gli interessi dell’Italia, quello dei lavoratori e del popolo sovrano. Questo e non altro dovrebbe fare a mio modesto giudizio. E sarebbe già tanto, sarebbe una grande cosa”.

Siria - al ridosso del Golan i mercenari terroristi tagliagola sono forti perchè hanno un retroterra ebraico. Daraa è stata ripresa in quanto gli Stati Uniti hanno smesso di sostenerli, per le anime candite, sono i paesi stranieri che hanno voluto i cinquecentomila morti

12 luglio 2018
Come cambia la guerra in Siria con la riconquista di Daraa

L'esercito di Damasco ha negoziato la resa con i ribelli nella fascia di territorio a ridosso della Giordania e del Golan. Cade così la culla della rivolta del 2011. Ma nell'area l'Isis è ancora forte.

Dopo sei anni e mezzo il governo siriano ha ripreso il controllo militare e amministrativo di tutta la città di Daraa, capoluogo al confine con la Giordania e culla della rivolta popolare scoppiata in Siria nella primavera del 2011. Nel più ampio contesto di una guerra civile e regionale che finora ha ucciso almeno mezzo milione di persone e ha causato lo sfollamento e la fuga di 13 milioni di civili, dal marzo del 2012 Daraa era rimasta divisa in due parti: una sotto controllo lealista e una in mano alle opposizioni armate.

LA CONQUISTA: OFFENSIVA INIZIATA IL 19 GIUGNO

La tv di Stato siriana il 12 luglio ha mostrato le immagini in esclusiva del tricolore siriano issato su un'alta torre di trasmissione elettrica nel centro cittadino, nella zona a lungo rimasta sotto il controllo degli insorti. Questi hanno accettato le condizioni della resa, negoziata da giorni da emissari militari russi direttamente con i capi delle milizie delle opposizioni.

Durante l'offensiva governativa, lanciata da Damasco e Mosca il 19 giugno scorso, Daraa è stata gradualmente accerchiata e isolata dal resto del suo hinterland, rientrato tutto già da giorni sotto il controllo delle forze governative e della polizia militare russa. I miliziani hanno potuto scegliere di arrendersi e di chiedere un'amnistia al governo, oppure di trasferirsi nel nord-ovest, nella regione di Idlib, ancora fuori dal controllo governativo e di fatto gestita in parte dalla Turchia e dalle milizie filo-Ankara col benestare della Russia e dell'Iran, alleati chiave di Damasco, e in parte sotto il controllo di gruppi ribelli e jihadisti.

Per il momento, hanno fatto sapere fonti locali a Daraa, gli insorti non hanno lasciato la città, dove non sono ancora entrati l'esercito e la polizia militare russa ma soltanto emissari governativi siriani e delegati militari russi. Attorno a Daraa e nella vicina regione di Qunaytra, a ridosso con le Alture del Golan controllate da Israele, la guerra comunque continua.


COSA HA PORTATO I RIBELLI AD ARRENDERSI: NESSUN SOSTEGNO DAGLI USA

La Siria meridionale è stata relativamente tranquilla nell'ultimo anno soprattutto grazie all'accordo di "de-escalation" mediato tra Usa e Giordania che sostengono i ribelli e la Russia, ferreo alleato di Bashar al-Assad. Ma il regime ha cambiato la sua posizione dopo la riconquista di Ghouta, nei sobborghi di Damasco, decidendo di continuare le operazioni per riprendere tutti i suoi territori. Allo stesso tempo Washtington ha fatto sapere ai ribelli che non sarebbe intervenuta in loro soccorso. In un tale contesto diverse città e villaggi hanno preferito negoziare una tregua con le truppe lealiste ancora prima che i capi ribelli aprissero un canale negoziale con le truppe regolari. A questo punto nel corso della prima settimana di luglio i ribelli hanno accettato di consegnare le armi pesanti nelle zone est della città e lungo il confine giordano.

I RAID DI ISRAELE E IL DRAMMA DEGLI SFOLLATI: ANCORA 240 MILA IN FUGA

Qualche ora prima che la resa venisse confermata, Israele aveva compiuto una serie di raid aerei contro postazioni siriane vicino a Qunaytra dopo che l'11 luglio un drone, partito dalla Siria, si era infiltrato sui cieli del Golan israeliano. Nella regione di Qunaytra e Daraa, l'Onu continua a registrare decine di migliaia di sfollati, sparsi tra l'area a ridosso del confine con la Giordania e le pendici orientali del Golan, ancora in mano a insorti anti-governativi. Una stima parla di circa 234 mila persone in fuga dai combattimenti, altri invece hanno deciso di rientrare dopo la resa. Nella vicina cittadina di Tafas, fonti locali hanno fatto sapere che i civili hanno manifestato contro la presenza delle forze lealiste siriane, affermando che nonostante la resa «l'esercito di Assad non è benvenuto».


IL FUTURO: ISIS ANCORA FORTE LUNGO IL CONFINE CON IL GOLAN

La guerra dell'esercito regolare però non è ancora finita. Le truppe di Damasco, insieme alle forze ribelli, a suo tempo hanno ingaggiato violenti scontri con un gruppo jihadista affiliato allo Stato Islamico, Khalid Ibn al-Walid Army che controlla una lingua di territorio adiacente alle alture occupate del Golan. Questi miliziani ovviamente non rientrano negli accordi con il governo centrale quindi i combattimenti andranno avanti. L'Osservatorio siriano per i diritti umani ha fatto sapere che il gruppo ha strappato ai ribelli alcuni villaggi, segno che l'insorgenza è ancora molto attiva.

PERCHÈ LA RICONQUISTA È COSI' SIGNIFICATIVA: CADE LA CULLA DELLA RIVOLTA

A Tafas si è dispiegata la polizia militare russa, dai locali considerata meno ostile rispetto all'esercito di Damasco, accusato di atrocità durante la repressione delle proteste nel 2011 e 2012. Daraa era stata sin dal marzo del 2011 l'epicentro delle proteste popolari scoppiate nel più ampio contesto delle rivolte in Tunisia, Egitto e altri Paesi del Nord Africa. Le prime manifestazioni erano state innescate dall'arresto da parte dei servizi di sicurezza di Damasco di alcuni giovani studenti, alcuni dei quali figli di influenti clan locali, colpevoli di aver scritto sui muri della loro scuola slogan anti-governativi.

Immigrazione di Rimpiazzo - Se la progettualità è governare per trent'anni, bisogna fare squadra, la Lega intenda

IL RETROSCENA

Migranti, il piano di Salvini: usare una nave militare per inviarli a Malta

Il ministro dell’Interno prosegue sulla linea dura dei porti chiusi. Nuovi contatti con il Quirinale, e una promessa: far prevalere il ruolo istituzionale rispetto a quello di leader di una forza populista



Salvini va avanti, sulla linea porti chiusi. Avanti contro l’ultimo barcone in balìa delle onde tra la Libia e l’Italia, «con 450 clandestini a bordo». Avanti, a colpi di faccine e strizzatine d’occhio, per sferzare i «buonisti col Rolex». Avanti contro tutti, a dispetto di tutto: «Io tengo duro. Siamo in tanti a pensarla così». E alle nove di sera, con il barcone carico di anime a cinque miglia dall’isola di Linosa, il ministro dell’Interno lancia l’ultima sfida. Fa sapere di essere «pronto a tutto per difendere la dignità di questo Paese» e dal Viminale filtra l’idea di rilanciare ancora. Fino a usare una nave militare per caricare gli immigrati e fare rotta verso Malta. È questa la sfida che Salvini ha confidato ai collaboratori al termine di una lunga, nervosa, giornata che lo ha visto rammaricato, deluso che «il successo italiano» portato a casa da Innsbruck sia stato offuscato dal maremoto politico sulla nave Diciotti. E anche «un filino arrabbiato». I parlamentari a lui più vicini lo raccontano così, dopo l’energico «buffetto» ricevuto dal capo dello Stato.

Un leader in cerca di rivincita grazie al sostegno crescente di tanti italiani: #insiemesipuò, è l’hashtag con cui il ministro dell’Interno ha scandito le ore a colpi di di tweet, post e dirette radiofoniche: «Come promesso io non mollo, anzi!». La strategia della fermezza sui migranti ha spiazzato lo storico alleato Silvio Berlusconi e risvegliato dal suo torpore la sinistra, che invoca le dimissioni e raccoglie firme per una (improbabile) sfiducia in Parlamento. Tanto che per la prima volta, dietro i proclami e i titoli a effetto, Salvini sembrava aver accusato il colpo. Al punto, nel timore di restare isolato, di affidare ai suoi il mandato di «ridimensionare» il cortocircuito tra poteri dello Stato.

Il richiamo con il quale Sergio Mattarella giovedì sera aveva imposto l’attracco della nave italiana Diciotti ha inflitto al «Capitano» la prima botta sul piano dell’immagine, registrata come «lo schiaffo del Quirinale». Un ceffone istituzionale, che sembrava averlo convinto ad abbassare i toni e, alla prova dei fatti, evitare futuri contrasti con gli altri corpi dello Stato. L’entourage del ministro conferma che ieri ci sono stati contatti con il Colle, durante i quali Salvini avrebbe ammesso di dover ancora prendere le misure dei diversi abiti che si ritrova ogni giorno a indossare, vicepremier, leader di partito e responsabile della sicurezza degli italiani.

Insomma, d’ora in avanti, questa la promessa, si sforzerà di far prevalere il ruolo istituzionale su quello di «capo» di una forza populista in perenne campagna elettorale: «Non ci sono scontri in atto con il Quirinale, io non litigo con nessuno...». Nonostante l’ultima crisi, i rapporti con Mattarella vengono definiti «buoni, dal punto di vista umano». E nonostante Salvini abbia subìto la telefonata sulla linea Quirinale—Palazzo Chigi come una mossa «un po’ affrettata e non del tutto pesata», il vicepremier assicura che non ci sia nulla da chiarire, nessun contrasto diretto o «interferenza» del presidente: «Non esiste un caso Quirinale». E non c’è alcuna tensione con la magistratura, assicurano nello staff del vicepremier. Resta, tra i dirigenti leghisti, una scia di irritazione: perché Mattarella ha scelto la linea del non intervento sui 49 milioni di euro di rimborsi che mettono a rischio la sopravvivenza del partito «e poi si è messo a fare la torre di controllo della Diciotti»? Mario Borghezio dai microfoni di Radio Radicale auspica di «non dover assistere ad altri interventi così pesanti della massima carica dello Stato su questioni che attengono alla piena autonomia dell’esecutivo». Mentre Claudio Borghi ammette: «Siamo un filo arrabbiatini». Lo sono anche i pentastellati, tra i quali cresce la preoccupazione per la tenuta del governo. E per quanto Salvini derubrichi attriti e conflitti di competenze a «sensibilità differenti» e si senta «in asse» con Di Maio, Toninelli, Moavero e Savona, nel governo c’è chi lavora per placare e «normalizzare» il vicepremier leghista.

13 luglio 2018 (modifica il 14 luglio 2018 | 11:12)

Messico - il limite del prossimo governo è che “il nuovo Presidente vuole rinnovare le élites che governano, non il capitalismo che praticano”

La rivoluzione del Messico

13 luglio 2018


Non si tratta di retorica nazionalista, bensì dell’unico orizzonte su cui può operare una politica che pretenda di essere seria e credibile: quello di una rifondazione della più grande nazione di lingua spagnola del mondo, uno dei due maggiori interlocutori economico-commerciali dell’Italia in America Latina. E’ più necessità che ambizione. Le difficoltà da superare sono ciclopiche. Ma in un Occidente percorso da rigurgiti di autarchia e fremiti entropici, il Messico si presenta come un proposito aperto in se stesso e all’esterno, all’Europa in particolare, dove cerca testimoni e partner. Può divenire un esempio.
E’ il progetto che il sessantaquattrenne Andrés Manuel Lopez Obrador, il leader di centro-sinistra eletto da una maggioranza senza precedenti, sta assemblando pezzo a pezzo per cominciare a porlo in atto nel prossimo dicembre, quando assumerà la presidenza della Repubblica. C’è anche questo richiamo in quel grande ritratto di Benito Juarez, primo Presidente indigeno d’America (1861), che AMLO aveva alle sue spalle nell’ufficio da sindaco di Città del Messico e il solo oggetto che ha portato a casa lasciando l’incarico. L’indio Juarez aveva vissuto negli Stati Uniti, ne aveva studiato il sistema istituzionale e cercato vanamente il sostegno.
La via che si propone d’intraprendere il nuovo Messico è una prova del destino, come nei miti antichi: obbligata e cosparsa di ostacoli mortali. Solo una visione complessiva e integrata dei fattori di crisi che lo stanno soffocando può consentire di predisporre e portare avanti la sua salvezza. Alle centinaia di migliaia di assassinati, sequestrati, desaparecidos, ai loro familiari e amici che ora rivendicano giustizia, corrisponde una caduta della ricchezza prodotta che solo l’anno scorso è stata del 21 per cento. La paura come stato d’animo quotidiano è sconosciuta a ben pochi dei 130 milioni di messicani e un affare solo per i caciques dei cartelli della droga.
L’aggressivo protezionismo di Trump è l’ultima sciagura. Per la salute dell’economia era già veleno la vertiginosa polarizzazione, che come una faglia a rischio sismico squarcia la società; al punto che 4 pluri-miliardari in dollari hanno sul ciglio opposto del burrone sessantadue milioni di poveri dichiarati tali dall’ufficio nazionale di statistica. Il riformismo di Obrador deve perciò intervenire a 360 gradi e per farlo ha bisogno di un nuovo paradigma, capace di sopportare altezza e densità delle speranze che hanno messo insieme i 25 milioni di voti ricevuti. Una massa di suffragi inevitabilmente eterogenea. Dunque tutt’altro che facile da mantenere unita.
AMLO sta promuovendo ampi comitati di esperti convocati dalla società civile e dall’estero (ha preso contatto anche con Papa Francesco), oltre che dal proprio Movimento di Rigenerazione Nazionale (MORENA). Sommati dovrebbero configurare un dibattito generale sulle problematiche più urgenti. Dalla corruzione dello stato alla violenza del narcotraffico, alla recessione economica, all’emarginazione dei popoli originari. E attraverso fasi aperte alternate ad altre ristrette e riservate, aspirano a mobilitare l’opinione pubblica nei 4 mesi e mezzo che mancano all’entrata in funzione del governo. Alcuni ministri potrebbero anche uscire da queste convenzioni, altri vengono designati in questi giorni da Obrador. I primi contrasti interni all’universo popolare scaturiscono però da valutazioni politiche opposte.
Sebbene significativo, il primo non ha sorpreso. L’auto-denominato Esercito Zapatista di Liberazione (EZLN) e il suo Comandane Marcos, storici e vivaci protagonisti del pacifico insurrezionalismo indigeno nel Chiapas, hanno confermato le critiche a Obrador, già espresse in campagna elettorale: “il nuovo Presidente vuole rinnovare le élites che governano, non il capitalismo che praticano”. A sinistra, più di un esponente storico del comunismo messicano (che in un momento fu vicino al cosiddetto Eurocomunismo) pronuncia parole analoghe. Il dissenso più concreto in termini politico-istituzionali, che potrebbe portare a una frattura multipla nella base più militante, è avvenuto invece sul terreno della democrazia sostanziale.
Obrador ha respinto la richiesta del vasto e attivissimo associazionismo (oltre 300 gruppi) che da anni si batte per una riforma costituzionale capace di garantire alla Procura Generale della Repubblica, cioè alla magistratura inquirente, l’assoluta indipendenza dal potere esecutivo. In definitiva -a questo punto- da lui stesso. La questione è di principio. Ma è anche molto diffusa la preoccupazione che la dilagante vittoria del partito del Presidente, MORENA, e della coalizione che lo ha affiancato, possa richiamare nelle sue file i profittatori in fuga dal vecchio regime sconfitto. Il trasformismo politico non conosce frontiere. E il grado di autonomia del potere giudiziario in una situazione compromessa come quella messicana è un dato fondamentale.
Ma la visione di AMLO è d’opportunità oltre che di principio. E’ anche quella di un leader non privo di personalismi. La priorità dichiarata è il riconoscimento dei diritti storici delle dimenticate 68 etnie indigene messicane. Sta intanto trattando un patto con i grandi imprenditori che nella quasi totalità gli sono stati ostili, per rilanciare produzione e occupazione. Intende ridurre il costosissimo e fallimentare impegno militare nella lotta ai cartelli della droga, per concentrarne lo sforzo sulla persecuzione dei loro stratosferici profitti. Prevede una generosa amnistia: offrire una possibilità di riscatto non ai capi e ai killer del narcotraffico e della criminalità comune, bensì alle migliaia di emarginati complici o contigui. E in qualche modo comprendervi i reati minori di corruzione.
Il nuovo Presidente è uno sperimentato esploratore della società e della politica messicane, di cui conosce debolezze e pericolosità. Pertanto ben consapevole d’essere sul punto d’inoltrarsi in un’intricatissima giungla d’interessi contrastanti ma profondamente radicati; popolata da protagonisti potenti e feroci, organizzati per clan e abituati a vedere come una preda lo stato, a sua volta ostaggio delle corporazioni. Egli mira adesso a rovesciargli contro la pratica del dividi et impera da essi finora perseguita attraverso la corruzione e la minaccia. La sua maggioranza controlla il Congresso e 29 dei 31 stati della Federazione, ha fama di abilissimo negoziatore e non rinuncia a nessuna delle sue prerogative, vuole mani libere.

arriva il cigno nero e non parlarne non ne allontana la possibilità

IL CONSIGLIERE DELLA MERKEL
Hans Werner Sinn: "Paolo Savona ha ragione, non è da escludere l'Italexit"

12 Luglio 2018

Hans Werner Sinn: "Paolo Savona ha ragione, non è da escludere l'Italexit"

L'incubo "cigno nero" prospettato da Paolo Savona - ovvero una eventuale uscita dell'euro dell'Italia - non è da escludere. Per la Germania anzi è praticamente un destino inevitabile. Dopo l'allarme del nostro ministro per le Politiche europee che aveva sottolineato che "dobbiamo essere pronti a ogni evenienza", Hans Werner Sinn, consigliere di Angela Merkel, in una recente intervista in tv, riporta il Giornale, tracciato i possibili scenari sulla crisi economica italiana. Sono quattro. E non lasciano speranza.

Leggi anche: "Flat tax e reddito di cittadinanza?". Savona, la lezione all'Europa

Le 4 possibilità - Il primo è una manovra di rigore da realizzare attraverso "una politica di risparmi" che affosserebbe l'economia. Ma l'Italia non la accetterebbe. Il secondo è che i Paesi del Nord Europa "diventino più cari. È la politica della Bce di dare gas per fare aumentare l'inflazione verso il 2% nella speranza che nei paesi del Nord sia ancora più alta, lasciando indietro i paesi del Sud. Potrebbe funzionare, ma i tedeschi sono pronti ad accettare questa inflazione intorno al 4% con gli italiani a zero?". No. Quindi, il terzo scenario: una condivisione europea dei rischi (vedi i salvataggi delle banche). Di questa opzione fa parte anche l'ipotesi minima, una delle richieste dell'Italia: la garanzia europea sui depositi bancari. Il quarto è la "svalutazione" sulla quale Sinn sorvola. Ma è l'Italexit, ha commentato l' economista esperto di Germania, Vladimiro Giacchè.

Italexit - La soluzione ideale "non c'è", conclude Sinn. Tutti gli scenari hanno pessimi effetti collaterali. Ergo, sarebbe meglio che l'Italia uscisse dall'Euro. Anche perché il progetto Merkel-Macron è penalizzante per il nostro Paese sia sul fronte dei conti pubblici sia sul fronte dell'unione bancaria. Paolo Savona ha provato a correggere il tiro: "Nessuna intenzione di lasciare la moneta unica". Il "cigno nero" è un evento inaspettato, "può nascondersi anche dietro una fake news".

Africa - la stiamo rapinando in tutte le sue risorse anche con lo strozzinaggio il medesimo a cui è sottoposto l'Italia. Interessi interessi interessi

Aiutarli a casa loro?

Maurizio Blondet 13 luglio 2018 

Dove sono finiti i miliardi di dollari degli aiuti all’Africa?

Ingenti prestiti da parte delle organizzazioni finanziari internazionali, consistenti sgravi del debito statale, fondi raccolti da iniziative private, che hanno mobilitato tutti, dai singoli cittadini occidentali attraverso forme organizzate di beneficenza alle star dello spettacolo, che si sono spese per i diritti dei più deboli attraverso concerti ed esibizioni.

Fiumi di miliardi di dollari che non sembrano aver intaccato per nulla il problema del sottosviluppo e della povertà endemica del Terzo Mondo. Anzi. E’ stato riscontrato che, dalla metà degli anni Novanta, circa 60 paesi in via di sviluppo siano diventati più poveri in termini di reddito pro-capite rispetto a 15 anni prima. Entro il 2030 i due terzi dei poveri di tutto il mondo proveranno dall’Africa.

L’Africa dunque è sempre più povera, ma di una povertà nuova rispetto a quella del passato coloniale. Il continente africano annovera infatti i paesi con i più alti livelli di disuguaglianza al mondo, in cui il divario tra una ristretta élite dedita al lusso e il resto della popolazione che vive in uno stato di miseria è abissale.

Dunque, cosa non ha funzionato? Dove sono finiti i fiumi di miliardi di dollari?

La risposta in realtà è alquanto intuitiva: hanno seguito la stessa corrente che trascina la ricchezza collettiva su scala mondiale. Sono finiti in conti offshore, hanno arricchito a dismisura élite locali consenzienti e complici dei grandi speculatori internazionali e soprattutto hanno arricchito loro, i Signori del debito. Dopo essere finita nella spirale micidiale dei prestiti per il pagamento del debito e degli interessi maturati su di esso a seguito della crisi del debito del 1982 che ha coinvolto i paesi del Terzo Mondo, l’Africa post coloniale ha definitivamente perso ogni possibilità di sviluppo. Si stima che per ogni dollaro preso a prestito da banche e organizzazioni finanziarie internazionali ne abbia restituiti 13! Un Piano Marshall al contrario, che ha dirottato i soldi stanziati per il Terzo Mondo verso i finanziatori del debito del Primo Mondo. La stessa depredazione da parte della finanza attraverso l’arma del debito che sta oggi asfissiando il nostro paese (in 20 anni abbiamo pagato ben 1700 miliardi di euro di soli interessi!).

Il passaggio dal colonialismo imperialista al post-colonialismo del debito è stato brutale per il Continente Nero e ha soffocato quei timidi tentativi di sviluppo economico nazionale avviati attraverso la politica di sostituzione delle importazioni. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale sono intervenuti attraverso i cosiddetti “programmi di aggiustamento strutturale” (PAS): in cambio di prestiti e assistenza hanno imposto il controllo economico, monetario e politico dell’Africa. Contravvenendo a ogni logica e a ogni esempio di percorso di sviluppo economico nazionale, hanno imposto l’apertura incondizionata alle liberalizzazioni e al libero scambio a paesi che non avevano ancora avviato la creazione di un tessuto industriale e produttivo su base locale. Il modello coercitivamente introdotto ha previsto l’utilizzo dei prestiti per incentivare le esportazioni, senza nessun investimento nello sviluppo tecnologico e del capitale umano, al fine di ottemperare gli oneri del debito. Sono state abolite tutte le forme di protezionismo necessarie a tutelare l’economia locale e sfruttare le potenzialità di sviluppo industriale nazionale. Così in Ghana nel 2002 sono state abolite le tariffe sull’importazione di prodotti alimentari, con una conseguente impennata di importazioni di prodotti alimentari dall’Unione Europea, come i famosi scarti di pollo congelati che costano un terzo di quelli prodotti localmente. Nello Zambia l’abolizione dei dazi sulle importazioni dei capi di abbigliamento ha soffocato una piccola rete di ditte locali a favore delle importazioni dei capi di abbigliamento usati dall’Occidente.

I programmi del Fondo Monetario hanno inoltre imposto tagli alla spesa sanitaria e all’istruzione, i cui livelli erano già molto carenti, e la privatizzazione di servizi pubblici essenziali – come la fornitura idrica- in gran parte dei paesi.

Sebbene le due istituzioni di Bretton Woods (FMI e BM) abbiano spesso imputato la causa dell’evidente fallimento dei propri “piani di aggiustamento strutturale” al fenomeno radicato della corruzione dei governanti africani, il loro coinvolgimento è ineludibile. Così, nonostante fosse risaputa l’indole cleptomane di Mobutu nello Zaire, che rubò oltre la metà degli aiuti economici ricevuti dal paese, essi continuarono a concedergli prestiti. Non a caso i programmi di privatizzazione del Fondo Monetario sono altresì conosciuti come “programmi di tangentizzazione”.

Il presidente dell’ex Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) Mobutu

Gran parte di questi fondi sono finiti nelle offshore, dove gran parte dei trilioni di denaro sporco che ogni anno vengono versati provengano dal Terzo Mondo. In questo immenso flusso di denaro “è stato stimato che almeno metà dei fondi presi in prestito dai principali debitori siano tornati indietro dalla porta di servizio, di solito nello stesso anno -se non nello stesso mese- in cui arrivano prestiti” (James S. Henry, “Where the money went”).

Non dobbiamo dunque stupirci se la povertà e sottosviluppo dell’Africa sono peggiorati e se al flusso di denaro fanno seguito gli attuali flussi migratori di esseri umani. Il colonialismo mondiale del debito prevede anche questo.

Fonte :


Ceta - Le multinazionali non possono dettare le regole che sovrastano quelle statali

Bene il No al CETA annunciato da Di Maio, ora incontro urgente sugli accordi tossici


Ora occorre coinvolgere la società civile nella costruzione di un percorso verso la bocciatura del CETA e degli altri accordi di liberalizzazione commerciale nell’agenda della Commissione europea


La Campagna Stop TTIP/Stop CETA accoglie con favore la dichiarazione odierna del Ministro Di Maio, secondo cui “A breve il CETA arriverà in Aula per la ratifica e questa maggioranza lo respingerà e non lo ratificherà”. La presa di posizione arriva dopo le forti pressioni della Campagna e di tante realtà della società civile. Un impegno che si aggiunge a quelli del Ministro dell’Interno Salvini e dell’Agricoltura Centinaio, rappresentando dunque un proposito di tutta la maggioranza.

Ora occorre coinvolgere la società civile nella costruzione di un percorso verso la bocciatura del CETA e degli altri accordi di liberalizzazione commerciale nell’agenda della Commissione europea. Infatti, nel Contratto di governo è citato quanto segue: “Per quanto concerne Ceta, MESChina, TTIP e trattati di medesimo tenore intendiamo opporci in tutte le sedi, in quanto determinano un eccessivo affievolimento della tutela dei diritti dei cittadini”.

Per questo abbiamo scritto una lettera al Ministro Di Maio, chiedendo un incontro urgente nel quale discutere non solo del CETA, ma di tutti gli accordi in fase negoziale da parte dell’Unione europea, il cui impianto è sostanzialmente analogo: indebolimento del principio di precauzione, meno diritti sul lavoro, messa sul mercato dei servizi pubblici e meno vincoli ambientali. Il tutto, per offrire benefici economici alle grandi imprese che già operano su scala mondiale, mentre le centinaia di migliaia di PMI che compongono il nostro tessuto economico vengono esposte ad una forte concorrenza, anche sleale.

Per un pieno coinvolgimento del Parlamento, inoltre, abbiamo convocato insieme all’Intergruppo Parlamentare No CETA – che raduna deputati e senatori di tutti gli schieramenti – un incontro alla Camera dei Deputati per il prossimo 17 luglio, aperto alla partecipazione di tutti i parlamentari.

Siria - è un fatto che l'Iran ha combattuto i mercenari terroristi tagliagola mentre gli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Qatar, Arabia Saudita ed ebrei li hanno forniti di armi, merci, appoggi logistici e strategie militari

Iran: "Se gli USA non abbandoneranno il Medio Oriente li costringeremo a partire"


Il consigliere per gli affari internazionali del leader iraniano, Ali Akbar Velayati, afferma che alla fine le forze statunitensi saranno costretti a lasciare la Siria e l'Iraq.

"Se gli americani non lasceranno il Medio Oriente, li costringeremo a partire", ha avvertito Ali Akbar Velayati Consigliere per gli affari esteri della Guida suprema dell'Iran, al Valdai Discussion Debate Club in Russia.

Il consigliere del leader iraniano ha fatto riferimento alla richiesta di Washington di ritirare l'Iran dalla Siria e dall'Iraq, affermando che Teheran non è venuto in questi due paesi su richiesta degli Stati Uniti e meno per agire secondo la loro volontà.

"I consiglieri militari iraniani lasceranno la Siria solo se le autorità di questo paese dicono che non ne hanno bisogno ... Penso che una volta ci saremo ritirati e poi anche la Russia si ritirerà, i terroristi torneranno", ha aggiunto.

L'alto funzionario iraniano ha anche reagito alle affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sottolineando che le politiche dell'Iran e "la sua presenza in Siria non hanno nulla a che fare con Israele".

In un'altra parte delle sue dichiarazioni, Velayati ha rivelato un progetto della Casa Bianca per dividere i territori iracheno e siriano spiegando "gli Stati Uniti cercano di dividere l'Iraq in tre parti e la Siria in cinque parti."

Dall'inizio della crisi siriana nel 2011 e dell'Iraq nel 2014, l'Iran ha fornito consulenza militare e aiuti umanitari a questi due paesi. Damasco e Baghdad hanno più volte ringraziato l'Iran per il suo sostegno.

Le autorità irachene, così come quelle siriane, hanno applaudito il ruolo di Teheran e dei consiglieri militari del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane (IRGC) nello sradicamento del terrorismo dai loro rispettivi paesi.

Fonte: Hispantv
Notizia del: 13/07/2018

Immigrazione di Rimpiazzo - Salvini, giustamente continuerà a prendere schiaffi, se non fa lavoro di squadra

POLITICA
13/07/2018 16:52 CEST | Aggiornato 19 ore fa

Salvini cerca riscatto dopo lo schiaffo del caso Diciotti: "Nuovo barcone con 450 migranti non può attraccare in Italia"

L'imbarcazione è entrata in acque italiane e naviga verso Lampedusa. Il ministro alle autorità maltesi: "Non può e non deve arrivare qui, ci siamo capiti?"


By Huffington Post


STEFANO RELLANDINI / REUTERS

Matteo Salvini in cerca di riscatto, nel contrasto agli sbarchi "io non mollo, anzi" scrive in un post su Facebook. Dopo lo schiaffo subito ieri sul caso della nave Diciotti, sbarcata a Trapani senza che nessuno mettesse le manette richieste dal ministro dell'Interno ai due presunti scafisti ghanesi imbarcati dalla Vos Thalassa, promette di nuovo battaglia. Stavolta a finire nel mirino del leader del Carroccio è un barcone con a bordo 450 migranti, che dopo aver stazionato nelle acque di soccorso e ricerca maltesi è entrato in acque italiane.

Già prima che l'imbarcazione cambiasse rotta puntasse verso Lampedusa Salvini ha scatenato la sua ira in un post su Facebook e ha avvisato le autorità maltesi, ma anche quelle italiane: "Sappiano Malta, gli scafisti e i buonisti di tutta Italia che questo barcone in un porto italiano non può e non deve arrivare. Ci siamo capiti?".

La Farnesina e il ministro delle Infrastrutture Toninelli concordano con Salvini. Dal ministero degli Esteri è stata inviata una nota all'ambasciata maltese in Italia: "La responsabilità del soccorso al barcone con 450 migranti a bordo, individuato in acque Sar maltesi, spetta a Malta e lo sbarco dovrà avvenire in territorio maltese", si legge. Poi la richiesta: "Le autorità della Repubblica di Malta ottemperino con la massima urgenza alle proprie responsabilità in materia Sar, attivando gli appropriati interventi operativi ai quali la Guardia costiera italiana potrà fornire assistenza, ai sensi della Convenzione di Amburgo. A questo scopo è essenziale che il porto di sbarco sia identificato sul territorio maltese, in quanto il coordinamento è correntemente in capo al RCC Malta e che l'evento si è verificato nell'area Sar maltese".

Toninelli interviene sulla questione con un tweet: "Per la legge del mare è Malta che deve inviare proprie navi e aprire il porto. La nostra guardia costiera può agire in supporto ma Malta faccia il suo dovere", scrive il ministro.


Danilo Toninelli
✔@DaniloToninelli

Da alcune ore c'è un'imbarcazione con 450 persone a bordo che naviga nel Sar maltese. Per la legge del mare è Malta che deve inviare proprie navi e aprire il porto. La nostra Guardia Costiera potrà agire, se serve, in supporto, ma Malta faccia subito il suo dovere.
17:42 - 13 lug 2018
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https://www.huffingtonpost.it/2018/07/13/salvini-cerca-riscatto-dopo-lo-schiaffo-del-caso-diciotti-nuovo-barcone-con-450-migranti-non-puo-attraccare-in-italia_a_23481451/?ref=nl-huff

Possibile probabile prodotto della Johnson& Johnson' produce cancro

CANCRO ALLE OVAIE, IL TRIBUNALE CONDANNA ‘JOHNSON & JOHNSON’ A MAXI-MULTA

- 13/07/2018


Guai per ‘Johnson & Johnson’: un tribunale condanna l’azienda perché i suoi prodotti avrebbero fatto insorgere il cancro

L’azienda ‘Johnson & Johnson’ sotto accusa per la connessione tra i suoi prodotti e diversi casi di cancro alle ovaie, c’è la condanna del tribunale.

Grossi guai per l’azienda di cosmetica ‘Johnson & Jhonson’. Un giudice di St. Louis, negli Stati Uniti, ha accolto il responso della giuria chiamata ad esprimersi riguardo ad un caso di presunta connessione tra l’utilizzo di alcune sostanze nei prodotti del famoso marchio di cura per il corpo e l’insorgere del cancro. Ed ora ‘Johnson & Johnson’ è stata condannata a versare quasi 4,7 miliardi di dollari a titolo di risarcimento a diverse donne che avevano incolpato la casa per i loro casi di tumore. La sostanza incriminata è l’asbesto, un derivato dell’amianto, presente nel talco. L’utilizzo di questo prodotto avrebbe fatto sorgere il cancro alle ovaie a tutte coloro che adesso puntano il dito contro l’azienda. Per arrivare al giudizio finale, giudice e giuria si sono anche avvalsi del parere di diversi esperti.

‘Johnson & Johnson’ non ci sta: “Faremo ricorso”

Ma ‘Johnson & Johnson’, che già in passato aveva dovuto attraversare delle controversie legali, alcune delle quali finite con delle condanne a risarcire i propri clienti, ha annunciato ricorso in appello ritenendo questa sentenza a lei sfavorevole “profondamente ingiusta”, come dichiarato dalla sua portavoce, Carol Goodrich. “Nei nostri prodotti non c’è asbesto e non c’è nulla che possa causare cancro alle ovaie.Questo processo fin dall’inizio è stato pieno di errori, così come in altri che abbiamo superato in passato ma che poi si sono conclusi a favore della nostra società”.

Le vittime riceveranno milioni e milioni

Per la giuria di St. Louis a ciascuna delle 22 donne che hanno intentato causa a ‘Johnson & Johnson’ spetta un corrispettivo di 25 milioni a testa a titolo di risarcimento danni. Cifra che è stata aumentata poi addirittura a 4,69 miliardi di dollari considerando anche i danni punitivi. Tutta l’accusa ha agito unitamente, rappresentata da un unico avvocato. Il quale sostiene che “l’azienda era consapevole che all’interno dei suoi prodotti c’erano sostanze cancerogene, ma ha nascosto questa informazione al pubblico avvalendosi di immagini amichevoli per pubblicizzarli. Inoltre abbiamo prove certe che i test condotti sugli stessi sono stati truccati”.

Gli euroimbecilli si prendono in giro da soli

PRESIDENTE IN DIFFICOLTÀ
Juncker barcolla al vertice Nato. 
Il portavoce: era sciatica, basta 
speculare
13 luglio 2018
l'equilibrio prima della cena di gala di mercoledì al vertice Nato.
 Viene sostenuto da altre persone, ma il suo incespicare è evidente. 
Sono stati i presidenti di Finlandia e Ucraina, e il premier olandese 
Mark Rutte a mantenere in piedi il 63enne Juncker, che ha fatto 
sapere di soffrire di sciatica. Versione confermata dal primo 
ministro portoghese Antonio Costa, secondo cui il giorno dopo 
Juncker si è lamentato del mal di schiena. «Non ha un serio 
problema di salute, per quanto ne so, ma ha un problema alla 
schiena da qualche tempo», ha detto a sua volta Rutte.

Prima della cena di gala della Nato di mercoledì sera il 
presidente Juncker ha avuto «un attacco molto doloroso di 
sciatica accompagnato da crampi. Un dolore che non auguro 
a nessuno di provare». Il portavoce dell'esecutivo Ue Margaritis 
Schinas, nel corso dei suoi annunci per la prossima settimana, 
durante il briefing di mezzogiorno, coglie l'occasione per spiegare 
perché Juncker mercoledì sera sia stato visto inciampare, ondeggiare 
e perdere l'equilibrio diverse volte.
Alla domanda di una giornalista tedesca («Juncker era ubriaco?»),
il portavoce replica così: «È oltremodo privo di gusto che qualche
media abbia cercato di fare titoli oltraggiosi sfruttando il dolore
del presidente Juncker. Non penso sia né elegante, né giusto».

13 luglio 2018

Jean-Claude Juncker è stato eletto presidente della Commissione
europea nel luglio 2014, dopo le elezioni del Parlamento europeo, 
ed è entrato in carica nel novembre di quell’anno. Il suo mandato
scade quindi dopo le elezioni dell’Europarlamento del maggio 2019.

Versioni che tuttavia non hanno bloccato la diffusione del video e 
le polemiche. Restando in Italia, scrive su twitter Giorgia Meloni, 
leader di Fratelli di Italia: «Ubriacone sorretto da due persone per 
evitare che stramazzi al suolo, è il presidente della Commissione
 europea #Juncker, dal quale dipendono le sorti delle nostre aziende, 
di milioni di lavoratori italiani e il futuro della nostra Nazione. 
Vi sentite tranquilli?».

Berlino: fiducia in Juncker 
Steffen Seibert, il portavoce di Angela Merkel, ha detto stamane 
che la cancelliera ha grande fiducia nelle capacità di lavoro 
del presidente della Commissione. «Trovo molto inusuale - ha detto 
Seibert - che io debba rispondere a una domanda sulle condizioni 
di salute del presidente della Commissione. Al massimo, nel caso 
in cui debbano esser rivolte domande di questo tipo, vanno rivolte 
a Bruxelles». La fiducia della cancelliera nelle capacità di lavoro 
del presidente «è molto alta», ha aggiunto.

Immigrazione di Rimpiazzo - deve intervenire Mattarella perchè Salvini NON vuole fare squadra, così non va molto lontano

Mattarella ordina a Conte lo sbarco degli immigrati dalla Diciotti

-13 luglio 2018

Roma, 13 lug – Una telefonata del presidente della Repubblica Sergio Mattarella bypassa gli ordini del Viminale: gli immigrati a bordo della Diciotti possono sbarcare nel porto di Trapani. Si è conclusa così la vicenda della nave della Guardia costiera a cui il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva dato ordine di non sbarcare i clandestini, viste le indagini in corso sulle responsabilità dell’ammutinamento a bordo del rimorchiatore Vos Thalassa – perché alcuni immigrati temevano di essere riconsegnati alle autorità libiche – , da cui gli immigrati erano stati trasferiti proprio per via delle minacce all’equipaggio italiano. Ieri infatti i primi a scendere, accompagnati dalla polizia, sono il sudanese Ibrahim Bushara e il ghanese Hamid Ibrahim, probabilmente due scafisti, indagati dalla procura di Trapani per violenza privata continuata e aggravata nei confronti dell’equipaggio e del comandante della Vos Thalassa.

Dopo di loro, sei bimbi e tre donne, infine gli altri 56 immigrati. Destinazione: le strutture d’accoglienza della provincia, secondo le disposizioni della prefettura.

Salvini chiedeva che i clandestini scendessero dalla nave in manette. Ma così non è stato. La ricostruzione dei fatti contenuta nelle informative di polizia, basate sulle testimonianze dell’equipaggio, raggiunto ieri a bordo dagli investigatori, e dagli stessi immigrati a bordo della Diciotti, ha al momento escluso che a bordo del rimorchiatore possa essersi consumata una rivolta o addirittura un tentativo di dirottamento, come ipotizzato dal Viminale. A quanto pare, a chiamare la Guardia costiera era stato il comandante della Vos Thalassa, preoccupato di non poter più gestire l’ordine a bordo dopo che i clandestini avevano capito che sarebbero stati riportati indietro.

Poi ieri lo sblocco dello stallo. Mentre la Diciotti era al largo delle coste italiane, in attesa di ordini dal Viminale, dal Quirinale è arrivata una chiamata al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il quale poco dopo ha annunciato l’imminente sbarco, eseguendo di fatto l’ordine del Colle. “Sono state completate le procedure di identificazione delle persone che erano a bordo, con particolare riguardo a quelle a cui risulterebbero imputabili le condotte che configurano ipotesi di reato”, hanno spiegato da Palazzo Chigi.
“Sto aspettando da ministro e da cittadino che vuole ospitare gente perbene, il riscontro delle indagini della polizia e procura sui violenti”, aveva detto in serata il vicepremier Salvini, a Zapping su Radio1 dopo aver bloccato lo sbarco, “prima di far sbarcare chiunque, vorrei sapere se c’è qualche delinquente a bordo”. E il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli aveva aggiunto che si stava aspettando che la magistratura avviasse le indagini. Stessa linea tenuta dal leader della Lega, secondo cui lo sbarco sarebbe avvenuto “in nottata”, “appena si saranno raccolti tutti gli elementi che permetteranno di indagare e poi di arrestare chi ha commesso episodi di violenza”. “Anche perché prima scendono prima testimoniano su chi ha commesso violenza”, aveva aggiunto Salvini.
Invece, Mattarella (in qualità di capo delle Forze armate) ha sparigliato le carte, interferendo nelle decisioni del governo. Dal Viminale trapela “stupore” per la telefonata del Colle e “rammarico” per la decisione della procura di Trapani di non emettere alcun provvedimento restrittivo. “Due indagati, scafisti individuati, tutti fermati e interrogati. E’ finita la pacchia”, ha comunque esultato Salvini su Facebook. Ma la frittata è fatta: il governo non ha una linea netta sul fronte immigrazione. Anzi.

Adolfo Spezzaferro

Renzi in Tv, se qualcuno aveva dubbi sulla sua euroimbecillità è servito

Renzi in tv, auguri al veleno di D'Alema: "Felicità e successi, basta che non si occupi più di politica"

Renzi in tv, auguri al veleno di D'Alema: "Basta che non si occupi più di politica, troppi danni" 

"Se fa televisione benissimo, purché non si occupi più di politica perché lì ha fatto danni incalcolabili", dice l'esponente di Leu. Poi l'affondo: "Uno che va a fare un programma alle televisioni di Berlusconi essendo stato il capo della sinistra fino a ieri si prende in giro da solo" 

Redazione
13 luglio 2018 12:02


C'è qualcuno che sembra essere molto felice per un eventuale passaggio di Matteo Renzi da politico a presentore tv. Dopo aver ricevuto la "benedizione" del grande vecchio Piero Angela, l'ex segretario del Partito Democratico e ora senatore di Scandicci incassa ora anche gli auguri di Massimo D'Alema. Fatti ovviamente a modo suo. 

"Se fa televisione benissimo, purché non si occupi più di politica perché lì ha fatto danni incalcolabili", dice l'esponente di Leu. "Io gli auguro molta felicità e grandi successi, può darsi che sia un ottimo presentatore televisivo. Anzi, me lo auguro per lui e anche per i telespettatori". 

Il conduttore Luca Telese obietta: "Questo è sarcasmo, lei lo sta dicendo per prenderlo in giro". La replica di D'Alema è netta: "Non voglio prendere in giro nessuno, d'altro canto uno che va a fare un programma alle televisioni di Berlusconi essendo stato il capo della sinistra fino a ieri si prende in giro da solo. Non ha bisogno che lo faccia io". 

Renzi in tv con un programma sulle bellezze di Firenze?

Renzi "ha sbagliato lavoro, avrebbe dovuto fare il presentatore tv e io lo avrei assunto subito", aveva detto Silvio Berlusconi mesi fa, a poche settimane dal referendum sulle riforma costituzionali il cui esito ha poi portato alle dimissioni di Renzi. E dopo aver ricevuto un "no, grazie no" da parte sia di Discovery sia di Sky al suo format culturale sulle bellezze di Firenze, Renzi sarebbe tutt'ora impegnato in una trattativa proprio con Mediaset, per una eventuale collacazione su Rete4 o sul canale Focus per mandare in onda la sua serie a puntate sulla città del giglio.

Il programma c'è, come aveva confermato il produttore televisivo Lucio Presta, e da Mediaset Pier Silvio Berlusconi ha fatto sapere che le reti del Biscione potrebbero "essere interessati" (secondo Lucia Annunziata e Alessandro De Angelis a Mediaset avrebbero già visionato almeno "un paio di mesi di 'girato' e già 'lavorato'" di quello che un progetto ormai "già in stato avanzato di lavoro").

“Questo progetto televisivo su Firenze ha l’ambizione di parlare ai cuori delle persone, cercando di raggiungerle anche oltre i confini nazionali. Sono emozionato al pensiero di lavorare su una sfida così affascinante ma è tutta un’altra cosa rispetto alle fake news sul trasformarmi in uno showman di provincia", aveva scritto Renzi poco dopo che la notizia del format tv era iniziata a circolare. 

Piero Angela, chiamato in causa quasi subito quando si è saputo che Renzi sembrava intenzionato a sbarcare in tv nelle vesti di divulgatore culturale, con la classe e la signorilità che lo contraddistingue aveva rilasciato un unico commento: "Che consiglio darei all'ex premier? Nessuno, non ne ha bisogno, è uno che la sa abbastanza lunga e ce la può fare", ma se lo stile dell'ex premier trionferà in tv "lo deciderà il pubblico". “


venerdì 13 luglio 2018

Claudio Borghi - l'euroimbecillità dei mass media è esilarante, travisano consapevolmente le parole e i pensieri di Paola Savona


Cigno nero di Savona, parla Borghi (Lega): “Ovvio un piano B, come fanno tutti”


Rispunta il piano B dell’uscita dall’euro dopo l’audizione in Parlamento del ministro degli Affari europei Paolo Savona. Di fronte alla Commissione sulle politiche Ue di Camera e Senato ha detto: “Dobbiamo essere pronti a ogni evento. In Banca d’Italia ho imparato che non ci si deve preparare a gestire la normalità, ma l’arrivo del cigno nero, lo shock”. Sull’uscita dall’unione monetaria ha poi aggiunto: “Possiamo trovarci nelle condizioni in cui non siamo noi a decidere ma siano altri. La mia posizione del piano B, che ha alterato la conoscenza e l’interpretazione delle mie idee, è essere pronti a ogni evento”. Posizione ovviamente che sta facendo molto discutere. Interviene a Lo Speciale il presidente della Commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi,economista e parlamentare della Lega, da sempre favorevole all’uscita dell’Italia dall’euro.


Savona ha avvertito l’Italia: “Sia pronta al ‘cigno nero. Altri potrebbero decidere la nostra uscita dall’euro”. E nei prossimi giorni incontrerà Mario Draghi. Condivide la posizione del ministro?

“Savona ha detto una cosa ovvia, ma come spesso avviene quando si sostiene ciò che è ovvio, parte subito la corsa a travisare le parole, il discorso tra l’altro è stato ampio. Se un nuovo capitano sale su una nave e controlla le scialuppe di salvataggio, compie un gesto doveroso, rivolto a garantire la sicurezza di tutti i viaggiatori. La nostra stampa però sarebbe capace di scrivere che lo ha fatto perché si augura il naufragio. Savona ha detto una cosa di assoluto buon senso”.

Ma quindi esiste davvero il rischio ‘cigno nero’?

“Nonostante quello che sostiene la retorica, non esistono le monete irreversibili, altrimenti avremmo ancora il sesterzio di epoca romana. Mi permetta per l’ennesima volta di ribadire che l’uscita dall’euro non è contemplata in nessuna forma – possibile ed immaginabile – nel programma di governo, quindi l’Italia non intende abbandonare l’unione monetaria. Qualcuno continua a non capirlo, o forse molto più credibilmente, finge di non comprenderlo. Questo non significa che io non continui ad essere convinto che sia la soluzione migliore per l’Italia, ma poiché quando ci siamo seduti al tavolo con il M5S è stato subito chiaro che su questo argomento non c’erano margini di intesa con la controparte, nel contratto di governo questa eventualità non è stata contemplata. Ma esiste anche l’ipotesi che l’uscita non dipenda da noi”. 

Quali potrebbero essere le situazioni evocate da Savona in cui “potremmo non essere noi a decidere”?

“La Germania in questo momento non ha una posizione molto stabile a livello di governo. Potrebbe capitare che per interessi loro, i tedeschi decidano di abbandonare l’unione monetaria e tornare al marco? Chi potrebbe impedirlo? A quel punto se dovesse verificarsi uno scenario del genere, dovremo essere pronti a gestire la transizione. Tutto qui, ipotesi che sono sempre esistite. Saremo in grado di farlo? Spero che la risposta sia affermativa, perché dovrebbe essere interesse di ogni Paese avere dei piani alternativi con delle procedure di emergenza per fronteggiare eventuali situazioni potenzialmente pericolose. Savona fa dunque bene ad indagare, e se non lo facesse lui andrei a farlo io personalmente, chiedendo alla Banca d’Italia quale sarebbe lo stato delle nostre procedure qualora uno scenario del genere dovesse realmente concretizzarsi. Non ha mai detto invece che lo scenario si verificherà sicuramente o che lo prospetti”. 

Però non può negare che il Governo italiano sia una sorta di sorvegliato speciale da questo punto di vista. O la Lega ha forse rinnegato le posizioni euroscettiche che lei, insieme al collega Bagnai, incarnate da sempre?

“Chi mi conosce sa bene come la penso. La mia posizione sulla moneta unica è nota a tutti, ho scritto articoli e libri in cui spiego chiaramente che l’Italia starebbe meglio fuori che dentro l’euro. Non rinnego nulla di ciò che ho sempre sostenuto, anche se poi mi sono allineato alle regole del gioco e farò il possibile per lavorare all’interno di questa maggioranza, supportando l’azione del Governo Conte, pur senza portare avanti questa eventualità. Ad ogni modo basta andare sulla rete per rendersi conto di come tutti i Paesi europei si siano dotati di piani B per fronteggiare una eventuale crisi dell’euro. Dalla Germania all’Olanda hanno tutti pianificato delle procedure emergenziali da attivare. Quindi, chi si ostina a ripetere che i mercati sono in allarme e che lo spread sale perché il nostro Governo ha un piano B per l’uscita dall’euro, dice una fake news”.

Le parole di Savona però hanno innescato molte polemiche. C’è chi denuncia il rischio di una corsa ai risparmi e di un blocco della crescita. Come smentire queste paure?

“Se i mercati possono essere influenzati in modo così netto da certe fake news, allora mi domando cosa potrà accadere quando non ci sarà più il Quantitative easing (l’acquisto da parte della Bce dei titoli di stato dei paesi dell’eurozona ndr.) che Draghi ha annunciato di sospendere da gennaio 2019. A quel punto non saremo forse ancora di più in balia di speculazioni potenzialmente inventate? Penso sia il caso di rifletterci seriamente. Se si metterà in giro la falsa notizia che un Paese della Ue vuole uscire dall’euro, se detta notizia verrà presentata in maniera catastrofica, cosa accadrà con i detentori di titoli di Stato di quel Paese? Nell’incertezza saranno inevitabilmente spinti a vendere. Questo significa che un Paese dell’eurozona rischierà di essere tagliato fuori dal mercato soltanto sulla base di speculazioni. Penso sia un problema molto serio da affrontare, ancora prima di discutere di cambi alla governance europea”.