L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 15 settembre 2018

Gli ebrei nelle terre di Palestina sono un cancro da estirpare - Sono preoccupati un conto sono gli omicidi perpetuati dai cecchini su ragazzi disarmati e un conto è vedersela con il gigante Cina

Perché Israele è preoccupato delle infiltrazioni cinesi nel Mediterraneo

15 Settembre 2018


Cina nel Mediterraneo. Gli israeliani sono preoccupati che l'infiltrazione commerciale, economica e logistica cinese sui loro porti possa compromettere la cooperazione con gli Stati Uniti

Parlando a fine agosto in una conferenza oganizzata dal Research Center for Maritime Policy and Strategy dell’Università di Haifa, il suo direttore, Shaul Chorev, ha sganciato una bomba: occhio ai cinesi nel Mediterraneo, noi israeliani dobbiamo fare di più per difendere le nostra sicurezza nazionale dalle penetrazioni di Pechino.

Chorev è un alto ufficiale dei riservisti che ha servito, tra vari ruoli, come comandante della Marina e presidente della Commissione per l’Energia atomica: se si aggiunge al suo ruolo che il suo intervento è stato tenuto nell’ambito di un workshop internazionale sulla sicurezza futura nel Mediterraneo orientale, allora il peso delle sue dichiarazioni assume una certa dimensione (e spesso capita che i governi facciano uscire preoccupazioni o policy anticipandole tramite centri studi).

Quel tratto di mare è di estremo interesse strategico: è lì che si trovano i grandi giacimenti scoperti da Eni, su cui l’azienda italiana sta lavorando su concessione egiziana, ma ci sono anche i reservoir israeliani Leviathan e Tamar, o Afridite al largo di Cipro. Aree in cui gli interessi energetici materializzano l’essenza geopolitica: da lì partono per esempio i gasdotti con cui Israele ha chiuso un deal storico con gli egiziani qualche mese fa; Roma e Cairo stanno andando oltre la crisi creata dal caso Regeni; le partnership commerciali dettano le posture dei governi; tutto nel tratto di mare che sfiora la Siria, bacino colturale di dinamiche politiche globali.

Parlando di un’impresa cinese che inizierà a gestire il porto di Haifa (la Shanghai International Port Group, che ha ampliato i moli e ha un cronoprogramma per essere operativa nel 2021 con un contratto venticinquennale), Chorev ha detto che Israele deve creare “un meccanismo che esamini gli investimenti di Pechino per garantire che non mettano a rischio gli interessi di sicurezza di Israele” – nei giorni scorsi, il quotidiano Haaretz ha scritto di un’altra ditta cinese che ha vinto la gara d’appalto su un altro porto israeliano, ad Ashdod, nel sud.

“Quando la Cina acquisisce i porti”, ha detto Chorev, “lo fa con il pretesto di mantenere una rotta commerciale dall’Oceano Indiano attraverso il Canale di Suez verso l’Europa, come il porto del Pireo in Grecia. Ma un orizzonte economico come questo ha un impatto sulla sicurezza? Noi in Israele non stiamo valutando sufficientemente questa possibilità”.

L’interesse sulla presenza cinese è argomento piuttosto attuale: da quando l’espansione discreta promossa dal presidente Xi Jinping negli anni passati, nell’ottica infrastrutturale della Nuova Via della Seta (i calcoli del CSIS dicono che Pechino ci investirà circa 8 trilioni di dollari), ma anche nella dimensione geopolitica, è diventata più evidente e soprattutto più dibattuta – complice anche l’allarme alzato dall’amministrazione Trump, che con la Cina sta combattendo per mantenere il ruolo di potenza globale di riferimento.

Invitata alla conferenza c’era anche una delegazione del governo americano. Uno dei funzionari senior inviati da Washington, Gary Roughead, ex capo delle operazioni navali, ha ventilato un’ipotesi: la Sesta Flotta statunitense in futuro avrebbe anche potuto pensare ad Haifa come hub, ma alla luce dell’acquisizione cinese, la questione non è più all’ordine del giorno (è per certi versi una buona notizia per l’Italia, visto che finora la Sesta, che è la flotta della Us Navy che gestisce il Mediterraneo, ha la sua base principale alla Naval Support Activity situata a lato dell’aeroporto Capodichino di Napoli, ndr).

Per Chorev l’argomento è stringente, visto che ad Haifa si trova la flotta di sottomarini strategici israeliani, e la presenza cinese potrebbe mettersi di traverso alla cooperazione tra Israele e Stati Uniti. È del tutto logico pensare che la Cina possa sfruttare Haifa anche come scalo per attività di carattere militare, e gli americani non intendono sovrapporsi in modo così ravvicinato nello stesso bacino.

Gli Stati Uniti temono che le loro navi finiscano sotto la lente, fisica e cyber, cinese: “I sistemi di informazione e le nuove infrastrutture integrate nei porti e la probabile presenza di sistemi di sorveglianza elettronica metterebbero a repentaglio le informazione e la sicurezza informatica della Us Navy “, ha spiegato Roughead. “Questi fattori non escludono visite in porto, ma impediscono l’homeporting e altri progetti e iniziative protratti nel tempo” tra Israele e Usa ad Haifa.

Chorev s’è lamentato: ha ammonito gli americani che si stavano concentrando troppo sul Persico (dove c’è un confronto con l’Iran piuttosto spinto dai paesi del Golfo, soprattutto Emirati Arabi e poi i sauditi) e sul Mar Cinese (dove Pechino rivendica diritti territoriali contro altri alleati americani per isolotti apparentemente insignificanti, che però segnano le rotte di tratte commerciali super-nevralgiche tra Pacifico e Indiano).

Posizionamenti che vanno a discapito del Mediterraneo, che hanno permesso l’ingresso anche della Cina nel bacino, dove ormai la Russia è stanziale, con il rafforzamento in Siria alla base navale di Tartus. Pechino da sempre è contraria alla creazione di basi all’estero (la prima è stata costruita a Gibuti e inaugurata da non molto, a poca distanza da un’importante istallazione americana): le attività mediterranee non sono finalizzate semplicemente alla presenza armata, ma Chorev fa notare che le infiltrazioni commerciali-logistiche-economiche possono creare un contesto ibrido per la Cina in cui muoversi anche militarmente e giocare la propria dissuasione.

(Foto: US Navy, un ingresso del cacciatorpediniere USS Porter al porto di Haifa)

Mattarella Mattarella non ti accorgi che l'Euroimbecillità ci sta insultando ormai quotidianamente. Il tuo popolo sono gli italiani e non gli euroimbecilli. L'architettura dell'Europa è sbagliata e Savona ha fatto delle proposte, Mattarella Mattarella le sostieni o fai finta di non capire?

Merde Alors a Salvini. L’ultima moda in Europa è insultare l’Italia

di Gaetano Pedullà

Abituato com’è ad abitare sul Colle, il Presidente Mattarella vola alto e forse fatica a vedere cosa accade giù, in basso, dove prolificano i nazionalismi, e di certa Europa non si vuole più sentir parlare. L’integrazione – dice il Capo dello Stato – ci ha portato benefici, i sovranismi sono un pericolo e non è una bella cosa stare a mercanteggiare sugli spiccioli del bilancio Ue. Premesso che gli spicci di cui parla sono una ventina di miliardi l’anno, l’inquilino del Quirinale deve essere ingannato dalla sua nobile vocazione europeista per non vedere quanto questa istituzione abbia tradito le aspettative dei cittadini dei Paesi membri. Ad eccezione della moneta, di integrazione se n’è vista ben poca. Non abbiamo in comune una politica estera, un esercito, le regole fiscali e una strategia economica, mentre a partire dal dramma dei migranti è evidente quanta poca solidarietà ci sia sull’accoglienza. Certo, non tutto è andato storto e quell’idea di Europa lasciata da De Gasperi, Monnet e Spinelli è ancora attuale e prodigiosa. Ma a parte il gigantismo della burocrazia di Bruxelles, troppo poco è stato realizzato e troppo alto è il prezzo che ancora adesso ci si chiede di pagare. I vincoli sul deficit e la costante pressione sulla spesa pubblica ci hanno costretto a tagli sanguinosi nei servizi essenziali, dalla sanità alla sicurezza. Gli italiani hanno espresso chiaramente l’indicazione di riforme come il reddito di cittadinanza e la Flat tax, e ogni giorno c’è qualcuno che si alza per dirci che non si può fare.

SEMPRE PEGGIO

Anzi, con l’avvicinarsi della manovra finanziaria, siamo arrivati direttamente agli insulti, con il Commissario agli Affari europei Moscovici che ha ridotto i nazionalismi dilaganti in tutta Europa alla comparsa di piccoli Mussolini. Per non parlare dell’ultima perla del ministro lussemburghese Asselborn, che ieri a Vienna ha platealmente offeso il nostro vicepremier Salvini. Gesti che poco si sposano con la ricerca di un destino comune, e al contrario svelano quanta ipocrisia ci sia nelle menti di chi in un contesto di parità tra gli Stati pensa invece di contare più degli altri. E l’Italia, in questo senso, pur con il ruolo di Paese fondatore dell’Unione europea, paga lo scotto di un debito pubblico terrificante, che ci pone in cima alla classifica degli osservati speciali. Un alibi perfetto per imporci da sempre le mortificanti politiche economiche che piacciono tanto ai mercati, ma di cui presto o tardi riceveremo il conto. Basti pensare che malgrado anni di grandissimi sacrifici, il debito dello Stato non ha mai smesso di crescere (grazie ai lauti interessi usurai del Dio mercato in quanto gli euroimbecilli hanno decretato che la Bce non è il prestatore di ultima istanza MA allora cosa ci sta a fare?), e proprio in questi giorni ha raggiunto un nuovo impressionante record storico.

OGNUNO PER SE

A fronte di tutto questo l’Europa non ha fatto il suo dovere fino in fondo. Chi non ricorda infatti l’allora ministro del Tesoro Tremonti che chiedeva alla Merkel di difendere la tenuta stessa degli Stati minacciati dalla speculazione con gli Eurobond o comunque un sistema di tutela solidale? La risposta fu no e ancora oggi siamo un Paese a sovranità limitata sotto la minaccia (e il costo finanziario) dello Spread. Di tutto questo la gran parte dei cittadini ha solo una parziale consapevolezza, mentre invece anche per effetto della rete web in tutto il mondo la creazione del consenso passa dall’affermazione di slogan e iconici impegni elettorali. In Italia, Reddito di cittadinanza e Flat tax non sono perciò solo due promesse politiche, ma il certificato di esistenza in vita delle due forze parlamentari che le hanno proposte: Cinque Stelle e Lega. Il solo fatto che l’Europa, con i suoi vincoli di bilancio, minacci di rendere irrealizzabili queste riforme, trasforma l’Ue in un imperdonabile nemico. E aliena la fiducia da chi testimonia “idiosincrasia” per i nazionalismi, come ha fatto coerentemente con il suo pensiero di sempre il Presidente Mattarella. Un gesto che i domatori di algoritmi da cui passa la comunicazione 2.0 di questa epoca, non avrebbero consigliato, visto che nella massificazione (e banalizzazione) delle informazioni che arrivano al grande pubblico ci sono responsabilità immaginifiche, per cui a fronte delle offese di un leader estero a un nostro vicepremier (che ci piaccia o no) il Capo dello Stato replica a muso duro e rivendica prima di tutto la dignità nazionale. Un silenzio che questa Europa non merita.

Fondi mercato ortofrutticolo nodo delle mafie


Le mafie si dividono il Lazio. Tutti i clan portano a Fondi. Camorra, ‘ndrine e pure Cosa nostra. Al Mercato ortofrutticolo non manca niente 


14 settembre 2018 di Mirella Molinaro


Il grande Mercato ortofrutticolo di Fondi è un approdo irrinunciabile per i clan di mezza Italia. Tra pomodori e melanzane gli affari vanno a gonfie vele e ‘ndrine, Camorra e Cosa Nostra vogliono tutte la loro parte. Ieri la Direzione distrettuale antimafia ha sgominato un giro criminale che ruotava attorno a una società di trasporti, “La Suprema Srl”, i cui introiti arrivavano alla famiglia di Giuseppe D’Alterio detto Peppe ‘o Marocchino e ritenuto vicino ai clan della Camorra. Ma questo è solo l’ultimo dei business delle cosche saltato fuori grazie a un lungo lavoro degli investigatori. Sei le persone arrestate tra Terracina, la stessa Fondi e Mondragone, in provincia di Caserta, e due sono ancora ricercate. Tutti accusati di estorsione, illecita concorrenza con minaccia o violenza, impiego di denaro di provenienza illecita, al trasferimento fraudolento di valori, autoriciclaggio e intestazione fittizia di beni, commessi con l’aggravante del metodo mafioso. Per la Procura antimafia, il loro modus operandi era abbastanza semplice: minacciare e intimidire i concorrenti per monopolizzare i trasporti da e per il mercato ortofrutticolo, fino a imporre una propria tassa sui movimenti effettuati dalle altre ditte. E non solo. D’Alterio avrebbe assunto il controllo della “Suprema srl” utilizzando un prestanome per eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali alle quali era sottoposto.


Convivenza tra cosche – Ma sono diverse le inchieste della Dda che documentano la presenza e l’interesse delle organizzazioni criminali più potenti nel Sud Pontino. In particolare il mercato ortofrutticolo sembra registrare negli anni un “tutto esaurito”. Qui hanno esteso i loro tentacoli, già da tempo, le cosche campane, calabresi e siciliane. Clan radicati e che riescono ad “abitare” insieme. Infatti, in questo territorio è storicamente certificata una convivenza tra le diverse organizzazione criminale. Che hanno deciso di non sgomitare. Infatti, inchieste e operazioni antimafia non hanno mai portato alla luce guerre di mafia o contrasti tra clan nel Lazio. Fondi, poi, ha giocato un ruolo strategico nello scacchiere criminale proprio per l’esitenza del Mof, uno dei più grandi mercati ortofrutticoli d’Italia e d’Europa. Ed è diventato un punto nevralgico per gli affari delle cosche, che sono riuscite a stringere anche accordi con la politica.

Nuova cupola pontina – La convivenza di diverse mafie ha fatto emergere nel tempo la necessità di creare un’organizzazione centrale, ovvero una Cupola pontina composta da ‘ndranghetisti, corleonesi, casalesi e camorristi, per gestire tutti insieme anche il loro consenso sociale ed elettorale. A Fondi, Camorra e Cosa Nostra insieme sono finite più volte nel mirino della magistratura. Il clan degli Schiavone ha fatto sempre affari con i trapanesi guidati da Gaetano Riina, fratello di Totò. La ‘ndrangheta, poi, a Fondi la fa da padrona da anni. I fratelli Venanzio e Carmelo Tripodo, figli del boss reggino don Mico, sono un’istituzione per i clan.

Venezuela - Il Financial Times vuole fortemente vuole il sangue del popolo venezuelano, sempre loro gli statunitensi a fare guerre

ALBA LATINA / Intervento armato contro il Venezuela: il Financial Times dà l'or...

Intervento armato contro il Venezuela: il Financial Times dà l'ordine


di Fabrizio Verde

«Dobbiamo fare qualcosa», l’ennesimo articolo contro il Venezuela confezionato dalla finanza internazionale (Financial Times) riporta le dichiarazioni di Nikki Halley, rappresentante degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Tristemente nota anche per lavorare parallelamente ad un’intervento armato contro la Siria, rea di liberare il suo territorio dai terroristi foraggiati dall’occidente. Nell’articolo del Financial Times si indica espressamente come l’opzione militare contro Caracas sia ancora sul tavolo. Dopo quanto trapelato rispetto alle intenzioni di Trump che nello scorso anno aveva chiesto ai propri collaboratori di studiare un’eventuale invasione del Venezuela. La frase della dirigente statunitense risulta davvero inquietante. Perché è vero il contrario. Gli Stati Uniti e i suoi vassalli, interni ed esteri, hanno fatto fin troppo in Venezuela.

A questo proposito è interessante leggere il pensiero di Alfred de Zayas, esperto indipendente nominato dall’ONU, che ha potuto toccare con mano la realtà in Venezuela. Afferma che le sanzioni imposte al paese da Obama e Trump hanno arrecato molti danni al governo di Caracas, impedendogli finanche di acquistare medicinali. Inoltre, secondo l'esperto indipendente delle Nazioni Unite «sanzioni e blocchi economici di oggi sono paragonabili agli assedi medievali delle città con l'intento di costringerle alla resa. Nel XXI secolo, tuttavia, sono destinati a piegare non solo città, ma paesi sovrani». La differenza è che ora nel XXI secolo sono «accompagnati dalla manipolazione dell'opinione pubblica attraverso notizie false, pubbliche relazioni aggressive e una pseudo-retorica dei diritti umani per dare l'impressione che i diritti dell'uomo giustifichino i mezzi criminali». Un esempio perfetto del tentativo di manipolazione dell’opinione pubblica è rappresentato proprio dall’articolo del Financial Times. Il quotidiano economico britannico, infatti, infarcisce il proprio scritto contro il Venezuela con l’opinione dei soliti noti in servizio permanente contro il governo di Caracas.

Ci riferiamo a Ricardo Hausmann e Moses Naim, già esponenti di governo in Venezuela, nel periodo precedente l’avvento del chavismo e della Rivoluzione Bolivariana. Vale la pena ricordare che in quel periodo di certo l’economia di Caracas non viaggiava a gonfie vele. Tutt’altro. L’inflazione era a tre cifre senza guerra economica; la povertà in costante crescita; il popolo costretto a languire nella miseria senza alcun sostegno sociale da parte dello Stato. La rivolta repressa nel sangue, conosciuta come il Caracazo, è il simbolo della ‘larga noche neoliberal’ in Venezuela. Solo grazie al chavismo e alla Rivoluzione Bolivariana la situazione è mutata radicalmente. Un dato su tutti: sono state costruite e consegnate oltre 2 milioni di case popolari già arredate. Riguardo alla narrazione che vuole il Venezuela in crisi umanitaria. Questa è funzionale ai venti di guerra che soffiano da Washington a Caracas. Il pretesto da dare in pasto all’opinione pubblica per scatenare l’invasione.

A tal proposito, il rapporto vergato da Alfred de Zayas ha rimarcato che in Venezuela «c’è una crisi economica che non può essere paragonata alla crisi umanitaria in Yemen, Libia, Siria, Iraq, Haiti, Mali, Repubblica Centrafricana, Sudan, Somalia o Myanmar», secondo i dati della Commissione Economica per l'America Latina e i Caraibi (CEPAL) e l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Secondo de Zayas, questa affermazione si basa, inoltre, sul fatto che nei rapporti della FAO di dicembre 2017 e 2018, «il Venezuela non compare nelle 37 crisi alimentari del mondo considerate dall'organismo». In questo contesto, per lui siamo in presenza di una «campagna mediatica che cerca di forzare la percezione che ci sia una crisi umanitaria nel paese», che può essere usata impropriamente come pretesto per l'intervento militare.
Il quotidiano britannico rende conto inoltre della posizione di Marco Rubio. Senatore statunitense sempre schierato contro i governi progressisti e socialisti latinoamericani. Fiancheggiatore delle peggiori destre estreme e fasciste della regione. Per non parlare degli ambienti mafiosi di Miami. Insomma, un estremista guerrafondaio e reazionario. Però puntualmente dipinto come un uomo che ha a cuore la ‘libertà’ dei popoli latinoamericani. Forse si riferisce alla libertà di essere sfruttati come limoni o di venire uccisi se osano alzare la testa come accade sistematicamente in Colombia.

Lo stesso paese da cui repressione violenta e politiche neoliberiste hanno espulso oltre 5 milioni di cittadini, adesso ospitati in Venezuela. Paese dove godono anche di tutte le protezioni sociali negategli dal proprio paese d’origine. Caracas non ha mai strepitato in cerca d’aiuto e fondi per questa generosa accoglienza. Come ricordato in una recente conferenza stampa dal presidente Nicolas Maduro, che ha poi informato come il governo da lui presieduto stia studiando di chiedere un indennizzo al governo colombiano per tutti i migranti accolti in Venezuela negli anni. In conclusione, il vergognoso articolo del Financial Times, si vede costretto ad ammettere che ovunque vi sia stato un intervento armato statunitense adesso regna il caos e la vera emergenza umanitaria. Afghanistan, Libia e Iraq rappresentano esempi lampanti in tal senso.

Ma che importa alla finanza internazionale: i paesi che dicono no all’imperialismo prima si distruggono ma dopo i milioni tra morti e profughi scatta l’ora della speculazione. Vero Financial Times?

Notizia del: 14/09/2018

Paolo Becchi - Mattarella continua nel suo ruolo di entrare scompostamente nell'azione di governo

ANTI-ITALIANI
Paolo Becchi sbugiarda Sergio Mattarella: "Di quali valori dell'Europa parla"

15 Settembre 2018


Mattarella non rispetta a fondo la terzietà e l'imparzialità che la Costituzione prevede per il suo delicato ruolo di Capo dello Stato. Non perde mai occasione per entrare a gamba tesa nelle vicende della politica. Il caso recente si è palesato al vertice del gruppo Arraiolos a Riga - che riunisce i presidenti di tredici Paesi Ue - dove il Presidente della Repubblica ha ricordato che "l'Italia è un contributore attivo dell'Unione. Ma mi sono sempre rifiutato di considerare questi rapporti sul piano del dare e avere, anche perché i benefici dell'integrazione non sono quasi mai monetizzabili interamente. Non è attraverso il calcolo contabile che si definisce il vantaggio che l'Unione assicura a tutti i suoi componenti", lanciando alla fine il monito: "Non c'è movimento che possa mettere in discussione questo valore storico".


Di quali valori storici della Ue parla il Presidente? I Trattati europei, nel delineare gli obiettivi dell'Unione, fanno riferimento alla pace, al progresso e al benessere dei popoli, ma all'interno della cornice della stabilità dei prezzi e di una economia di mercato fortemente competitiva. E come c*** si può essere competitivi in un regime di cambi fissi (cioè con l'euro)? Non potendo scaricare il peso della competitività sulla moneta, siamo stati costretti a scaricarla sul lavoro riducendo i salari, quindi sui diritti fondamentali costituzionalmente garantiti!

E ancora, per “valori” il Capo dello Stato si riferisce per caso al Fiscal compact, cioè quel trattato capestro che impone zero spesa a deficit e riduzione a ritmi serrati del rapporto debito pubblico/Pil? O si riferisce al pareggio di bilancio vigliaccamente inserito in Costituzione nel 2012 che impedisce ogni tipo di politica economica espansiva?

In fondo i “valori” della Ue questi sono, se non di peggio. Nella Ue non c’ è democrazia ma eurocrazia. Ricordiamo a Mattarella che gli unici valori ch'egli deve richiamare sono quelli della Costituzione, l'unica Carta sulla quale ha prestato solenne giuramento. E non deve entrare nell'agone politico sentenziando ogni volta contro il "sovranismo" e i “sovranisti”.

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Ponte Morandi - Il governo c'è

DECRETO LEGGE SUL PONTE MORANDI

Genova, Conte ricorda il crollo del Morandi tra gli applausi: «Tornerò presto per inaugurare nuovo ponte»

Arrivo tra gli applausi della folla: in un clima di grande emozione e unità, la città si è stretta nel ricordo delle 43 vittime del crollo, un mese dopo: «Non abbiamo ceduto al ricatto di offrire ad Autostrade la ricostruzione del ponte»

14 Settembre 2018


«Il mio primo pensiero lo voglio rivolgere al dolore che ancora soffre chi ha subito la perdita di affetti cari, all'ingiustizia di chi si è dovuto allontanare repentinamente dalla propria abitazione e dal proprio luogo, e a chi soffrirà i postumi di questa immane tragedia». Con queste parole Giuseppe Conte è salito sul palco allestito in piazza De Ferrari a Genova, in occasione della commemorazione organizzata a un mese dal crollo del ponte Morandi. Accolto dagli applausi (e da qualche fischio), il premier ha aggiunto: «Un secondo pensiero lo rivolgo a tutti coloro che hanno partecipato alla macchina dei soccorsi. Dopo qualche ora sono arrivato anch'io, sono testimone di come siano intervenuti tempestivamente, di come abbiano alacremente lavorato giorno e notte». «A dieci giorni dall'entrata in vigore del decreto ci sarà il commissario per la ricostruzione. Sarà nominato un commissario, con un mio decreto, ed è un commissario che avrà pieni poteri».







«Tornerò per il nuovo ponte»

Dopo il crollo del ponte Morandi di Genova, «non abbiamo ceduto al ricatto di offrire ad Autostrade la ricostruzione del ponte. Lo faremo a spese di Autostrade con questo decreto ma la procedura per la revoca della concessione rimane in piedi e si completerà». «Sono qui a nome del Governo, che ha dato una risposta corale, abbiamo presto adottato misure per l'emergenza, e avrei detto che oggi non sarei venuto a mani vuote. Ho portato fogli pieni di fatti, di misure concrete. Qualcuno ha detto che ieri siamo stati a litigare nel Consiglio dei Ministri. No, siamo stati a operare nel Consiglio dei Ministri». «Avevo detto che sarei tornato presto, sono qui, eccomi. E tornerò presto per inaugurare il nuovo ponte». Così il presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla cerimonia in ricordo delle vittime del Ponte Morandi. Il premier ha mostrato dei fogli alla piazza e sventolandoli ha detto: «Ho portato dei fogli, non sono bianchi, sono pieni di fatti, di misure concrete» . «Non mi sarei limitato a rendere oggi una testimonianza, non sarei venuto a mani vuote - continua - ho portato fatti. Qualcuno ha detto che siamo stati a litigare ieri durante il Cdm, invece no, stiamo stati a operare nel Cdm».


La scelta di Orlando di non partecipazione è ideologica vuota e priva si senso

Il premier a Brancaccio, Orlando diserta l'incontro: "Da Conte parole prive di significato"

Il premier a Brancaccio, scintille con Orlando: "Parole vuote", "Scorretto" 

Il presidente del Consiglio ha scelto di inaugurare l'anno scolastico all'istituto intitolato a Padre Pino Puglisi, ma il sindaco diserta l'incontro criticando la decisione di Roma di tagliare i fondi per scuole e legalità. La replica del Capo del governo non si fa attendere. Musumeci delega l'assessore Lagalla 


Redazione
14 settembre 2018 09:21

Il premier c'è, il sindaco no. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha scelto la scuola don Puglisi di Brancaccio per inaugurare l'anno scolastico, ma ad accoglierlo non c'è il primo cittadino. Assente "per un impegno improvviso" anche il governatore Nello Musumeci, che ha delegato l'assessore regionale all'Istruzione Roberto Lagalla. Per il Comune c'è l'assessore alla Scuola Giovanna Marano, ma senza fascia tricolore. L'Amministrazione, cioè, non sarà presente in modo formale. Nessun impegno istituzionale inderogabile, come si direbbe in questi casi, ma una decisione presa in risposta alle politiche adottate da Roma. In particolare Orlando critica la decisione di tagliare i fondi per scuole e legalità facendo sfumare diversi progetti. "Non credo che questo sia un comportamento corretto tra le istituzioni. Ho assicurato il modo per recuperare quei finanziamenti per consentire, ai progetti già deliberati, di essere realizzati", il gelido commento di Conte.

"Da Conte oggi - tuona Orlando - arrivano parole vuote di significato". Il riferimento è soprattutto ai tagli previsti per Brancaccio, in particolare al centro postale Cavallacci di via Cirincione (nella foto) "per la cui trasformazione in complesso scolastico e sportivo stanotte sono stati tagliati 17 milioni". 

A sfumare però sono anche i lavori previsti per le stazioni dei carabinieri di Acqua dei Corsari (400 mila euro) e Brancaccio (390 mila euro) e per il commissariato di polizia Brancaccio (200 mila euro). I due progetti presentati per la città e l’area metropolitana di Palermo, prevedono in totale 98 interventi, con un investimento complessivo di circa 158 milioni di euro, di cui 58 a carico del Bando Periferie, e altri 100 fra cofinanziamento di altri enti pubblici e dei privati. 

"Spero che oggi - dice Orlando - il presidente Conte colga l’occasione per trovare la giusta ispirazione e comprendere il grave, gravissimo errore commesso nel cancellare i fondi del bando periferie. Oggi a Brancaccio si parlerà certamente di scuola e vicinanza a studenti e docenti; parole che suonano vuote dopo che il Governo ha appena cancellato, fra gli altri, il finanziamento per realizzare proprio lì, in via Cirincione, un complesso scolastico polivalente con strutture sportive. Oggi a Brancaccio si parlerà certamente di legalità e vicinanza alle forze dell’ordine; parole che suonano vuote dopo che il Governo ha appena cancellato, fra gli altri, i fondi per la manutenzione di due stazioni dei carabinieri e del commissariato di polizia che operano proprio in quel territorio. Oggi a Brancaccio si spenderanno molte parole, che temo però non spiegheranno un provvedimento che non ha spiegazione se non quella di capovolgere il senso delle cose, del togliere a chi non ha per dare a chi ha".

E Conte, pungolato dai cronisti, replica secco: "Ah, il sindaco Orlando non c'è? Io sono il presidente del Consiglio e rappresento il governo che è di tutti. Di tutti i sindaci, di tutti i colori. Se il sindaco di Palermo non accoglie il suo presidente del Consiglio, faccia pure. Non credo che questo sia un comportamento corretto tra le istituzioni". 

Poi la precisazione: "Abbiamo lavorato tanto e trovato una soluzione rispetto a un provvedimento che era incostituzionale, stiamo recuperando un profilo di costituzionalità e abbiamo trovato un percorso. In più ho assicurato il modo per recuperare questi finanziamenti. Se il sindaco Orlando ha nella sua testa progetti che non ha realizzato non è colpa mia. Solo per la precisione, però, è corretto anche essere trasparenti con i propri cittadini, con la propria comunità locale di Palermo. L'altra sera, lavorando sino a tardi, al termine della giornata, ho prontamente incontrato una delegazione dell'Anci molto rappresentativa. C'erano una ventina di sindaci - ha concluso Conte -ma non ricordo il volto del sindaco Orlando. Abbiamo lavorato fino a tardi per trovare una soluzione che è molto proficua per chi vuole fare opere concrete, non per chi vuole fare chiacchiere, e le dichiatrazioni del presidente delll'Anci De Caro lo dimostrano”. “



Aspettiamo il governo verde-oro sulla politica economica del Def

DIRETTORE FILIPPO ASTONE


Buffagni e le intenzioni del Movimento 5 Stelle in campo economico ed industriale

14 settembre 2018
di Filippo Astone♦

Intervista al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, uomo chiave delle scelte economiche del partito di maggioranza al Governo. Cdp? Deve essere il direttore di orchestra della politica industriale. Tav? Inutile. Reddito di cittadinanza? Una priorità? L’Impresa privata? Si, ma prima deve venire l’interesse generale

«Bisogna contemperare le promesse elettorali con la coperta troppo corta delle risorse. Credo che sia necessario un utilizzo migliore dei fondi sociali europei e della formazione per dare vita a politiche attive del lavoro che sostengano il reddito di cittadinanza, che resta una nostra priorità. E bisogna investire nelle infrastrutture “utili”, conferendo alla Cdp un ruolo strategico da direttore di orchestra nella politica industriale del Paese». Questo è il pensiero in pillole di Stefano Buffagni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega sugli Affari Regionali e, soprattutto, uomo chiave per l’economia, l’industria e, di conseguenza, le nomine pubbliche. Buffagni è l’anima economica dei pentastellati. Anche perché, con un passato da consigliere regionale molto attivo e molto concreto in Lombardia, e un titolo da dottore commercialiste, di queste cose ne capisce. E tanto. Non sono in molti, come lui, nel Movimento 5 Stelle. Un altro è il giovanissimo Luca Carabetta, vice presidente della commissione Attività Produttive della Camera, ed appassionato di start-up e innovazione. Industria Italiana lo aveva incontrato a luglio. Riproduciamo la sua intervista qui e, anche, nella sezione “sotto i riflettori” del nostro giornale.

Nel suo cv Buffagni sottolinea come, per mantenersi agli studi, abbia fatto molti lavori “umili” (in un call center, all’Ikea in stage, nelle assicurazioni,) e poi sia diventato commercialista specializzato in “bilanci, valutazioni di aziende, valutazioni di opere pluriennali (appalti), fiscalità nazionale ed internazionale”. Certamente Buffagni non è tipo da usare un linguaggio felpato. La sua franchezza gli è costata, tanto per fare un esempio, una querela da parte dell’attuale alleato Matteo Salvini: era l’estate del 2016 e il delfino dei 5 Stelle scrisse che i metodi di governo del Carroccio – riferendosi a quanto accadeva in Regione – fossero simili a quelli di Mafia Capitale, concretizzandosi in «una “ragnatela leghista”, fatta di “una fitta rete di contratti” e in un“sistema marcio che sta infettando le istituzioni”, con “yes man che possano, quando serve, aprire porte e stendere tappeti rossi”» (vedi Repubblica). Del resto, quando era in Regione Lombardia, all’opposizione, diede parecchio filo da torcere a Roberto Maroni e alla giunta Lega-Forza Italia che all’epoca governava il Pirellone. Chi scrive lo incontrò per la prima volta all’epoca della redazione del libro “La Disfatta del Nord. Corruzione, clientelismo e malagestione“, pubblicato nel 2013 .

Ma Buffagni è anche uno che, al di là dei toni, ha le idee chiare e il coraggio di schierarsi su posizioni non sempre facili. Lo ha dimostrato nel corso del Forum The European House Ambrosetti a Cernobbio, convegno annuale dove si riunisce tutto il Gotha domestico dell’industria e della finanza: discutendo delle strategie del Movimento, Buffagni è riuscito a strappare applausi a una platea non certo amica. Ecco l’intervista che abbiamo realizzato in quella occasione.

STEFANO BUFFAGNI

D. Voi vi definite il governo dei cambiamento. Eppure il M5S non ha mai smesso di fare annunci choc in cui dichiara che sarà possibile sforare i vincoli del Patto di Stabilità. Lei non crede che questo sia un modo di mettere in pericolo lo spread e, anche, la credibilità del Paese?

R. Abbiamo chiarito questo aspetto. La credibilità al Paese la ha fatta perdere chi in questi anni ne ha fatto carne da macello. E mi riferisco a tutti i governi che ci hanno preceduto e che non ci hanno lasciato un paradiso terrestre. Stiamo raccogliendo i cocci.

D. Ancora, il M5S è spesso associato a una visione anti-impresa o passatista: sposa l’idea di un’industria dannosa perché inquina, concetti new age come quello della decrescita felice. E ha manifestato la volontà di chiudere realtà produttive importanti, come nel caso dell’Ilva, anche se la partita poi si è conclusa molto diversamente rispetto alle attese. Quanto c’è di vero in questa rappresentazione? Come stanno le cose in realtà sul vostro rapporto con industria e produzione?

R. Le cose sono molto semplici: siamo a favore dell’impresa privata ma mettiamo in cima l’interesse pubblico. Da un lato, se non garantisci il funzionamento delle imprese non hai il lavoro, e un decreto legge non può sopperire in questa funzione creativa di posti di lavoro. Tuttavia noi crediamo che si possa e si debba fare impresa nel rispetto dell’ambiente sostenibile. Non possiamo continuare a barattare lavoro e salute. Nel caso dell’Ilva abbiamo contribuito a far migliorare l’offerta di Mittal propendendo per una scelta pragmatica: le quote di mercato, le potenzialità e la capacità produttiva di Ilva sono asset importanti e andavano salvaguardati, il gioco valeva la candela. Tuttavia continueremo a monitorare il piano ambientale perché ogni anno nell’area di Taranto muoiono migliaia di persone per tumori collegati in molti casi alle acciaierie, e questo non è un dato che si possa ignorare. A Taranto ci sono i wind-day, ovvero giorni di vento forte in cui scuole e uffici pubblici chiudono per via delle polveri che si diffondono rendono l’aria irrespirabile. Questo non è accettabile ed è questo semmai che rimanda a una visione di fabbrica dell’Ottocento, non certo le idee del Movimento.


D. Il risultato recentemente ottenuto dal Governo su Ilva la soddisfa?

R. Su Ilva c’è ancora molto da fare, ma viste le condizioni di partenza, ovvero una gara viziata e un contratto già firmato pronto a partire, abbiamo ottenuto il massimo. Inoltre i wind-day non ci saranno più dalla fine del 2019, in quanto si effettuerà la copertura anticipata dei parchi minerari (50% già ad aprile) da cui si sollevano le polveri che da anni soffocano il quartiere Tamburi. Di più, Mittal potrà aumentare la produzione solo e soltanto se è in grado di dimostrare allo Stato che non aumenterà le emissioni. Ora vigileremo attentamente sull’applicazione degli impegni presi e siamo già al lavoro su azioni legislative mirate per rilanciare la città di Taranto attraverso una vera riconversione economica. Ribadisco: dobbiamo comunque difendere il bene supremo degli italiani.

D. In effetti, i wind day di Taranto sono un vero obbrobrio, una cosa da Paese del Terzo Mondo. Non si è mai vista una città del mondo occidentale chiedere alla gente di non andare in giro e non andare a lavorare perché c’è un vento mortifero prodotto da una fabbrica. Parliamo ora della Tav. Cosa accadrà: si farà questa opera straordinaria e si potrebbe davvero fermare i lavori arrivati al punto in cui siamo?


R. Il contratto di governo prevede di verificare il rapporto costi-benefici per ogni singola infrastruttura. L’analisi costi-benefici ci dice, per esempio, che la Pedemontana, i cui costi sono lievitati dagli iniziali 1,5 miliardi ai 3,2 miliardi, ha generato ritorni economici minimi. Dunque, è uno strumento di valutazione cruciale. Rimango allineato con il governo su questo tema. Se vuole la mia opinione personale, però, le dico che ritengo la Tav inutile, un’opera che non risponde alle esigenze del Paese e sono certo che si possano ancora fermare i lavori. La Tav è obsoleta e il nostro Paese, che è l’hub del Mediterraneo, non ha di certo bisogno di una una mobilità che va verso la Francia, mentre avrebbe la necessità di una via su ferro che porta al Nord Europa. Il nostro maggior “cliente” è la Germania, per servire il quale non si usa certamente la Tav. Stiamo sprecando tempo e risorse in un’opera che non avrà alcun valore aggiunto, invece di dedicarci a infrastrutture utili.

D. Parliamo della Cdp: con il nuovo amministratore delegato Fabrizio Palermo, la Cassa Depositi e Prestiti diventerà di fatto la banca pubblica per gli investimenti, come recita il contratto di governo?

R. La Cdp è un’azienda importante del Paese che gestisce i risparmi degli italiani e che garantisce una visione di insieme dello sviluppo delle imprese di Stato che possano fare da volano allo sviluppo di tutte le imprese. Sarà il perno della politica industriale del Paese. Io sono convinto che con una visione di sistema l’Italia potrà essere di nuovo un player capace di giocare in un contesto globale: e si eviterebbero situazioni come quella in cui eccellenze domestiche entrano in competizione – mi riferisco alla vicenda che in questi giorni ha visto contrapposte Leonardo e Fincantieri sulla partita Vitrociset, per cui i due colossi della Difesa invece avrebbero potuto lavorare in sinergia. La Cassa depositi e prestiti deve agire sul modello delle strutture omologhe francesi e tedesche, anche per sostenere l’export: per cui varrebbe la pena che la controllata Sace (che si occupa di fornire servizi assicurativi e finanziari per l’internazionalizzazione, ndr) avesse una presenza più capillare sul territorio.

D. In pratica volete chiedere alla Cdp di remunerare il risparmio degli italiani e fare allo stesso tempo politica industriale. Non potrebbero essere due missioni in contraddizione?

R. No, perché lo Stato è un investitore paziente: fa investimenti che diano un ritorno ma non ha l’esigenza di fare speculazioni in tre mesi, guarda su un orizzonte temporale più ampio, di anni. Dunque gli obiettivi non entrano in conflitto.

Il mandato è chiaro, l'Interesse Nazionale e stare nei parametri dell'Euroimbecillità non lo è

L'ANALISI SUL GOVERNO
Franco Bechis: "Lega e Movimento 5 stelle non divorzieranno"

14 Settembre 2018


Lega e Movimento 5 stelle non divorzieranno a breve. Anzi. Secondo Franco Bechis i due partiti sono molto più vicini di quanto non si voglia far credere. Per esempio la dichiarazione di Alessandro Di Battista da Lilli Gruber forse "è stata un pizzico strumentalizzata, ma nella sostanza ha risposto a una specifica domanda della Gruber nella maniera più semplice: certo che la Lega deve restituire quei 49 milioni fino all'ultimo centesimo". E siccome "è un politico assai pratico, non credo nemmeno che la cercherà e anzi, eviterà di amplificare troppo i toni sulla vicenda", specifica Bechis su ItaliaOggi. "Con lo stesso senso pratico il leader della Lega ha appoggiato il taglio dei vitalizi". 


Insomma Lega e M5s "non sono affatto uguali, e lo sapevano dal giorno che si sono messi insieme". Ma non ci sono "troppe differenze nella sensibilità dei loro elettorati che, in fondo, volevano la stessa cosa: un cambiamento netto con il passato. Se non si tiene presente questa esigenza si capisce assai poco di quel è che avvenuto nelle urne mesi fa e del consenso notevole di cui sta godendo il governo pure fra imperizia e qualche pasticcio. Gran parte degli elettori non ne poteva più del sistema politico che ha fatto loro vivere questi anni, e voleva staccare radicalmente con il passato".

Matteo Salvini, conclude Bechis, "non era ancora percepito come una novità, ha iniziato ad esserlo andando al governo e conquistando consensi inimmaginabili anche nel Centrosud: gli ha fatto un gran bene mettersi insieme al M5s (poi, certo, mediaticamente, è anche bravo). Questa saldatura nel desiderio degli elettori di staccare dal passato penso che resisterà e non si sfalderà per qualche contrasto più o meno amplificato".

Tria, Salvini, Di Maio pavidi. Il mandato è chiaro mettere in Sicurezza l'Italia che significa investimenti pubblici e Moneta Complementare

Manovra e veleni, Tria resiste sul deficit. E scoppia il caso Savona

Tesoro in trincea, il premier media con l'Ue. Di Maio insiste: "Il reddito di cittadinanza deve partire subito. Non è plausibile rinviarlo fino a luglio 2019"

di CLAUDIA MARIN
Pubblicato il 14 settembre 2018 
Ultimo aggiornamento: 14 settembre 2018 ore 14:01

Il ministro dell'Economia Giovanni Tria (Newpress)

Roma, 14 settembre 2018 - Doveva essere un summit per presentare il conto al ministro dell’Economia, ma, dopo l’avvertimento di Mario Draghi (e la moral suasion del Colle), il vertice serale di Palazzo Chigi tra il premier, i vice premier e il responsabile di Via XX Settembre si è trasformato in un appuntamento per calmierare le richieste giallo-verdi su pensioni, flat tax , reddito di cittadinanza.

Tanto che fonti beninformate, alla fine della riunione, fanno sapere che Giovanni Tria andrà a trattare con Bruxelles un surplus di flessibilità di uno 0,1-0,2% in più. Il che, tradotto, vuol dire che non solo non ci sarà nessuno sforamento del rapporto deficit/Pil, ma che quest’ultimo si attesterà all’1,6, al massimo all’1,7%. E, dunque, che gli interventi-bandiera di Lega e 5 Stelle potranno solo essere avviati nel 2019 con una dote complessiva non superiore a 10 miliardi: una sorta di assaggio che non dovrà mettere a repentaglio i conti italiani. Un punto di caduta che, almeno per quel che riguarda il rapporto con l’Europa, non sarebbe andato giù al ministro Paolo Savona, il cui malcontento negli ultimi giorni ha raggiunto il massimo livello di guardia.

Insomma, Tria entra ed esce dal gabinetto di guerra di Palazzo Chigi super blindato da Draghi e ben sostenuto dallo stesso Conte. Il ministro dell’Economia, che l’altro ieri aveva minacciato le dimissioni di fronte al nuovo pressing soprattutto dei grillini, non esita a ricorrere alle parole del governatore Bce sia con Matteo Salvini sia con Luigi Di Maio per spingere sul freno delle richieste. "Serve equilibrio – ha spiegato – perché le parole eccessive fanno danni». E serve equilibrio e prudenza con Bruxelles, perché è con questa Commissione che si dovrà negoziare la flessibilità da utilizzare in manovra. I due capi politici cercano di fare buon viso a cattivo gioco, ma solo fino a un certo punto. Tanto che il leghista in serata non manca di criticare lo stesso Draghi. Più cauto il leader M5S che fin dalla mattina frena nettamente sulle voci di ultimatum verso il titolare del Mef. Il che non gli impedisce di insistere: «Il reddito di cittadinanza sarà al centro della legge di Bilancio, insieme al tema delle pensioni e del fisco. Per noi è imprescindibile".

Il punto, però, è proprio il contenuto della manovra finanziaria. Le ultime indiscrezioni parlano di un punto di caduta di 5 miliardi per la Lega e la sua flat tax e 5 miliardi per il reddito di cittadinanza di marca pentastellata. Misura che potrebbe partire non a inizio anno (in tal caso costerebbe 9 miliardi) ma dal mese di maggio e non oltre, con Di Maio che definisce "non plausibile" l’ipotesi che il reddito di cittadinanza parta da luglio. E si attingerebbe certamente al "tesoretto" impiegato finora per il Reddito di inclusione. Allo stesso modo, la flat tax potrebbe partire con un primissimo step al quale si accompagnerebbe la riforma delle pensioni "quota 100".

Nell'agenda dei prossimi appuntamenti, però, ci sarà anche il nodo Savona.La non partecipazione all’ultimo Ecofin e la reazione, tiepida, al documento inviato a Bruxelles sembrano aver aumentato il suo malessere. E ieri il forfait al question time al Senato è stato interpretato, da qualcuno in maggioranza, come un plateale segno di protesta. Anche se, assicura chi lo ha sentito in queste ore, un suo passo indietro è per ora escluso.

Venezuela - mentre Maduro chiude accordi commerciali con la Cina i paesi succubi degli Stati Uniti vogliono sangue e invadere il paese

ALBA LATINA / Maduro incontra Xi. Venezuela e Cina firmano 28 accordi di cooper...

Maduro incontra Xi. Venezuela e Cina firmano 28 accordi di cooperazione


"La Cina sosterrà gli sforzi del governo venezuelano per la stabilità e sviluppo"

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha incontrato questo venerdì il presidente cinese Xi Jinping e il premier cinese Li Keqiang in una visita che lo terrà in Cina per 4 giorni complessivi.

Secondo quanto riporta Telesur, Li ha detto al presidente Maduro che la Cina sostiene gli sforzi del Venezuela per sviluppare la sua economia e migliorare i mezzi di sussistenza della popolazione. Pechino, a tal fine, è disposta a fornire l'aiuto possibile. Il presidente cinese Xi, riporta sempre Telesur, ha detto a Maduro che i due paesi dovrebbero promuovere una cooperazione reciprocamente vantaggiosa per portare le relazioni in una nuova fase e consolidare la fiducia reciproca. Xi ha anche confermato che la Cina sosterrà gli sforzi del governo venezuelano per cercare stabilità e sviluppo.

Prima degli incontri istituzionali, Maduro aveva visitato il mausoleo di Mao Zedong per rendere omaggio al leader cinese. Il presidente venezuelano ha onorato Mao inchinandosi tre volte davanti a una corona di fiori al grande mausoleo che si affaccia su piazza Tiananmen e ha lodato il fondatore della Cina comunista, secondo quanto riporta Channel Asia News. "Stiamo iniziando questa visita di stato nel migliore dei modi perché siamo venuti a rendere omaggio al grande timoniere Mao Zedong ... Sono molto commosso perché parliamo davvero di uno dei grandi fondatori del sistema multipolare del XXI secolo", ha detto Maduro.

che ha definito Mao come un "gigante della patria dell'umanità" e un "gigante di idee rivoluzionarie".

La visita di Maduro in Cina arriva su invito di Jinping. Maduro ha dichiarato che la visione del leader cinese di un "destino comune per l'umanità" è più che benvenuta da chi cerca un mondo "senza un impero egemonico che ricatta, che domina, che attacca le persone del pianeta".

Venezuela e Cina hanno firmato 28 accordi di cooperazione che stimoleranno l'economia e lo sviluppo di entrambi i paesi nei prossimi anni nel settore petrolifero e minerario. La cerimonia si è svolta durante la chiusura del XVI Incontro della Commissione congiunta di alto livello Cina-Venezuela (CMAN). All'evento conclusivo hanno partecipato il presidente venezuelano Nicolás Maduro e il ministro degli esteri cinese Wang Yi. Durante il suo discorso, il presidente Maduro ha detto che la firma degli accordi "ratifica il percorso di sviluppo degli investimenti condivisi per realizzare lo sviluppo delle nostre joint venture nel settore petrolifero" e che grazie agli accordi della commissione mista e alla forte relazione Cina-Venezuela, il paese potrebbe affrontare le sue circostanze e ha assicurato che "oggi il Venezuela è in piedi e siamo in condizioni migliori che mai".

Notizia del: 14/09/2018

Maledetti - Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi e Massimo D’Alema regalarono le concessioni autostradali ai Benetton

Vi ricordo come i Benetton acquistarono Autostrade ai saldi



L’approfondimento di Giuseppe Oddo, ex giornalista finanziario del Sole 24 Ore, tratto dal suo blog “Finanza e potere”

Un affare d’oro realizzato dalla famiglia Benetton durante il governo D’Alema.

L’acquisizione della società Autostrade dal gruppo Iri, tornata tristemente d’attualità dopo il crollo del ponte “Morandi” a Genova il 14 agosto 2018, è stata l’operazione più lucrosa mai realizzata da Edizione, la cassaforte finanziaria della famiglia imprenditoriale di Ponzano Veneto.

I particolari dell’acquisizione sono descritti in modo sintetico nell’Analisi trimestrale dei bilanci di R&S-Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2009, la pagina dedicata ai conti dei grandi gruppi quotati in Borsa che curai in modo continuativo dal 2001, anno di prima pubblicazione, al 2015, quando in seguito alla mia uscita dal giornale di Confindustria fu lasciata stupidamente morire. La fonte dei dati è dunque la società di studi e ricerche di Mediobanca, che deve la sua autorevolezza al talento, alla competenza e alla professionalità di Fulvio Coltorti.

L’acquisizione avvenne nell’ottobre 1999 tramite una scatola finanziaria appositamente costituita, Schemaventotto. Per aggiudicarsi il 30% di Autostrade, Edizione investì attraverso Schemaventotto 2,5 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi di mezzi propri e 1,2 miliardi presi a prestito.

Il secondo passaggio avvenne nel gennaio 2003, quando un altro veicolo finanziario controllato da Schemaventotto, denominato NewCo28, rilevò con un’Opa il 54% di Autostrade per 6,5 miliardi. In tal modo NewCo28 incorporò Autostrade scaricandole il debito che aveva contratto per finanziare l’Offerta. Per i Benetton l’operazione si chiuse a costo zero. Schemaventotto tra il 2000 e il 2009 prelevò infatti da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi, tutti generati da utili, e ne collocò in Borsa il 12% con un incasso di altri 1,2 miliardi. Il ricavato totale fu di 2,6 miliardi di euro.

I Benetton sono pertanto rientrati dal debito, hanno recuperato i mezzi propri investiti, e la loro partecipazione nella società vale oggi svariati miliardi. Dal canto suo Autostrade, nonostante l’elevata esposizione finanziaria, continua ad avere una forte redditività e a generare profitti in misura superiore ai dividendi.

La privatizzazione di Autostrade, ossia il trasferimento di un monopolio naturale in mani private realizzato dalla maggioranza di centro-sinistra, porta su di sé il marchio di Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi e Massimo D’Alema. Il processo di privatizzazione maturò durante il primo governo Prodi e proseguì e si concluse senza soluzione di continuità con il governo D’Alema, con Ciampi ministro del Tesoro di entrambi gli esecutivi, Draghi direttore generale e Gian Maria Gros-Pietro presidente dell’Iri.

Guarda caso Gros-Pietro, il venditore diretto di Autostrade, è andato a presiedere in seguito per un lungo periodo Atlantia, la holding cui oggi fa capo il 100% di Autostrade.

Maggio 2019 elezioni europee - L'Italia con Savona la proposta l'ha fatta e l'euroimbecillità sta rispondendo con gelo e silenzio, silenzio e gelo. Lo stregone maledetto della Bce tace è stato stanato. La Bce non è una banca centrale non è prestatore di ultima istanza, l'Europa è un abominio, dobbiamo sfasciarla

Perché sono lugubri i silenzi europei sulle proposte di Paolo Savona



L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta su reazioni e silenzi al documento che il ministro Savona ha inviato a Bruxelles

È sempre così: non se ne parla nemmeno. Gelo e silenzio, silenzio e gelo: quando vengono presentate proposte strutturate per l’abbattimento del debito pubblico italiano con procedure straordinarie, si erige un muro. Sembra che accada anche stavolta, nonostante si tratti di una iniziativa ufficiale del Ministro per gli Affari Europei Paolo Savona, che l’ha formalizzata nell’ambito di un documento assai più complesso, intitolato “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Diplomaticamente parlando, è il consueto fin de non-recevoir: non si entra neppure nel merito della questione.

Ripercorriamo gli eventi. Mercoledì è stata annunciata la trasmissione a Bruxelles del documento in questione, sottolineando che il Governo italiano assumerà tutte le iniziative utili per dare vita a un Gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei Trattati. Il Gruppo di lavoro ha lo scopo di sottoporre al Consiglio europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune, la politeia che manca al futuro dell’Unione e alla coesione tra gli Stati membri.

Il giorno dopo, giovedì, come se nulla fosse, i l Commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici, ha affermato che «C’è un problema nella zona euro, che è l’Italia».

Eppure, sempre mercoledì, a Bruxelles, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker aveva ammonito tutti del pericolo di uno sbriciolamento dell’edifico europeo. Tutti in coro, pronti a stracciarsi le vesti contro il demone del risorgente nazionalismo; ma non appena si tratta di esaminare le cause di tanto disastro e di proporre i rimedi adeguati, come ha fatto Paolo Savona, c’è solo mutismo. Ben lo aveva previsto, però: non per caso ha premesso al documento una citazione tratta da Il Principe di Machiavelli: “Non esiste cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo e introdurre nuovi ordini, perché lo introduttore ha per nimici, tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tepidi defensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene”.

Le regole attuali vanno bene solo ad alcuni Paesi europei, i più forti, prima fra tutti la Germania che non ha evidentemente alcun interesse a metterle in discussione.

Del documento, estremamente ampio, prendiamo in considerazione solo due questioni, quelle relative alle regole per la fissazione del disavanzo ed alla riduzione del rapporto debito/Pil.

Dietro i debiti pubblici non c’è solo la speculazione finanziaria che guadagna, e non poco, giocando spesso al ribasso: ci sono i soldi veri, quelli che girano: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.

Abbattere il debito pubblico con misure straordinarie, e soprattutto contenerne drasticamente i tassi di interesse, è una condizione indispensabile per consentire all’Italia di riprendere a crescere, insieme agli altri Paesi che hanno un elevato rapporto debito/Pil: ma era una questione che andava risolta già nel 1992, ai tempi del Trattato di Maastricht.

Su questo punto, l’analisi di Savona è tagliente: se si pone a carico dell’applicazione del divieto di disavanzo eccessivo il principio di produrre avanzi di bilancio al fine di ridurre il rapporto debito pubblico/pil con effetti deflazionistici, la divaricazione degli itinerari di sviluppo dei paesi che si trovano al di sotto della soglia del 60% del rapporto debito pubblico/PIL e di quelli che si trovano al di sopra comporta conseguenze pericolose per la stabilità dell’euro e la coesione socio-politica.

Giova ricordare ancora una volta i numeri italiani, confrontando il pil reale del 2008 con quello di quest’anno: era di 1.664 miliardi di euro all’inizio della crisi, ed alla fine di quest’anno sarà ancora più basso rispetto ad allora di una cinquantina di miliardi. Se tutto va bene, rispettando le previsioni di crescita, arriverà a 1.619 miliardi. Se si riflette poi sull’ammontare del prodotto perso nel frattempo, cumulando la perdita di ciascun anno rispetto al 2008, si arriva alla terrificante cifra di 904 miliardi di euro. Al costo spaventevole della crisi, va aggiunto anche il peggioramento del rapporto debito/Pil accresciutosi per via della deflazione monetaria, passato dal 102,4% al 129,7%.

Le regole europee in materia di politica di bilancio sono sbagliate, perché la loro applicazione allontana anche dall’obiettivo della stabilizzazione finanziaria. Siamo più poveri e più indebitati. Ecco perché l’Europa è a pezzi.

Occorre dunque rimediare, secondo Savona, al primo vizio di origine nella costruzione dell’eurosistema: quello di non aver sistemato subito gli eccessi di debito pubblico rispetto al Pil, invece di introdurre il criterio di convergenza verso il parametro del 60%. I danni di questa impostazione sono stati enormi: chi era in eccesso rispetto al limite h dovuto ricorrere a politiche restrittive, pena l’esposizione alla speculazione e l’emergere degli spread tra i propri titoli sovrani e quelli di riferimento. Di conseguenza, il costo del danaro si è differenziato anche in misura rilevante, divaricando ulteriormente le performance economiche e sociali dell’eurozona e alterando le condizioni di corretta competizione tra imprese.

In secondo luogo, e qui si viene alla questione del deficit pubblico, non basta agire dal lato dell’offerta: va sollecitata anche la domanda, in particolare attraverso la spesa pubblica per investimenti. A questo fine, deve valere la regola aurea di un sistema di crescita stabile: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta. Non c’è bisogno, però, di modificare subito le regole vigenti, visto che sono state adottate deroghe in altre occasioni di crisi conclamata.

La proposta di abbattere strutturalmente il debito pubblico è tanto semplice quanto dirompente: se i timori dei paesi membri creditori che ostacolano la definizione di una politica fiscale fossero dovuti al rischio temuto da alcuni paesi di doversi accollare il debito altrui, esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quelle di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia della Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Secondo Savona, occorre decidere oggi quello che si sarebbe dovuto fare prima dell’avvio dell’euro. Ovviamente, conclude, tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del PIL e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil.

Sull’intero documento predisposto da Savona, che riguarda numerosi altri aspetti dell’architettura europea, dai poteri della Bce in materia di cambio dell’euro alla istituzione di una Scuola europea, c’è davvero tanto su cui riflettere.

Ci sono state solo due prese di posizione, in questi giorni, che vale la pena considerare.

  • A chi nel governo sollecitava un aumento del deficit, Il Ministro dell’economia Giovanni Tria ha obiettato che, verosimilmente, il mercato reagirebbe richiedendo un aumento generalizzato dei tassi. Ciò comporterebbe una maggiore spesa per interessi, per un importo più volte superiore all’entità del maggior deficit. Si avrebbero effetti negativi sul rapporto debito pil in quanto ad un moltiplicatore del reddito determinato dalla maggiore spesa, che è solo di qualche decimale superiore all’unità, corrisponde un aumento più che proporzionale della spesa per interessi. Si spenderebbe 1 euro in più, in deficit, per ottenere un reddito di 1,5 euro; ma con un costo sugli interessi che sale di 3-4 euro. Un inferno.
  • Il Governatore della Bce Mario Draghi, rispondendo ad una domanda nella conferenza stampa a conclusione dell’ultimo Consiglio, ha affermato che il mandato della Bce si limita alla stabilità della moneta e non implica la garanzia del finanziamento degli Stati in qualsiasi condizione. Concludendo sull’Italia, ha affermato che il nostro Presidente del Consiglio, il Ministro dell’economia e quello degli esteri hanno tutti confermato che saranno rispettate le regole sui bilanci pubblici. Silenzio e gelo, gelo e silenzio.

C’è poco da fare: il problema non sono tanto i vincoli parametrici al deficit ed al debito pubblico, quanto l’impotenza degli Stati rispetto al mercato. Per rimediare, bisognerebbe tornare assai più indietro, al regime che vigeva prima del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, quando i tassi di interesse sui titoli erano fissati dal primo e la seconda procedeva immediatamente all’assorbimento dell’inoptato dal mercato. Ma, questa, è davvero tutta un’altra storia.

Brasile - Il partito dei Giudici, con l'avallo dei mass media hanno perpetuato un colpe

ALBA LATINA / Emozionante lettera di Lula al popolo brasiliano

Emozionante lettera di Lula al popolo brasiliano
13 Settembre 2018


Sicuramente saprete ormai che i tribunali mi hanno vietato di candidarmi alla Presidenza della Repubblica. In realtà, hanno vietato al popolo brasiliano di votare liberamente per cambiare la triste realtà del nostro paese.

Non ho mai accettato l'ingiustizia, e mai lo farò. Per più di 40 anni ho camminato a fianco del popolo brasiliano, sostenendo l'uguaglianza e la trasformazione del Brasile in un paese migliore e più giusto. Ed è stato camminando lungo tutto il nostro paese che ho potuto vedere da vicino la sofferenza che brucia l'anima e la speranza che brilla di nuovo negli occhi del nostro popolo. Ho visto l'indignazione per le molte cose sbagliate che stanno accadendo e il desiderio di migliorare la propria vita di nuovo.

Era per correggere tanti errori e rinnovare la speranza in futuro che ho deciso di essere un candidato alla presidenza. E nonostante le menzogne ??e le persecuzioni, il popolo ci ha abbracciati per le strade e ci ha portato in testa a tutti i sondaggi d'opinione.

Sono stato in prigione ingiustamente per oltre cinque mesi. Non ho commesso alcun crimine e sono stato condannato dalla stampa molto prima che venissi processato. Continuo a sfidare i procuratori di Lava Jato, il giudice Sérgio Moro, e la corte d'appello TRF-4 a presentare una singola prova contro di me, poiché uno non può essere giudicato colpevole per crimini non commessi, per denaro non distratto, per atti non determinati.

La mia convinzione è che si tratti una farsa giudiziaria, una vendetta politica, che ricorre sempre a misure eccezionali contro di me. Non vogliono arrestare e bandire solo il cittadino Luiz Inácio Lula da Silva. Vogliono arrestare e bandire il progetto del Brasile che la maggioranza ha approvato in quattro elezioni consecutive, e che è stato interrotto solo da un colpo di Stato contro un presidente legittimamente eletto - che non ha commesso alcun "crimine di responsabilità" - che alla fine ha gettato il paese nel caos .

Mi conoscete e sapete che non rinuncerei mai a combattere. Ho perso la mia compagna Marisa, addolorata per tutto quello che aveva visto accadere alla nostra famiglia, ma non mi sono arreso, anche in onore della sua memoria. Ho affrontato le accuse sulla base della legge. Ho denunciato le bugie e gli abusi dell'autorità in ogni tribunale, compreso il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto il mio diritto a candidarmi.

La comunità legale, in patria e all'estero, si è indignata con le aberrazioni commesse da Sergio Moro e dalla Corte di Porto Alegre. I leader di tutto il mondo hanno denunciato il tentativo contro la democrazia in cui il mio processo è stato trasformato. La stampa internazionale ha mostrato al mondo cosa [il conglomerato dei media] Globo ha cercato di nascondere.

Tuttavia, i tribunali brasiliani mi hanno negato il diritto garantito dalla Costituzione a qualsiasi cittadino, a condizione che non si faccia chiamare Luiz Inácio Lula da Silva. Hanno respinto la decisione dell'ONU, mancando di rispetto al Patto Internazionale sui diritti civili e politici, a cui un Brasile sovrano aveva aderito.

Per azione, omissione e protrazione, la magistratura brasiliana ha privato il paese di un processo elettorale con la presenza di tutte le forze politiche. Hanno annullato il diritto del popolo di votare liberamente. Ora vogliono impedirmi di parlare alla gente e persino di apparire in televisione. Mi censurano, proprio come hanno fatto durante la dittatura.

Forse non sarebbe successo nulla se non fossi in testa in tutti i sondaggi sulle intenzioni di voto. Forse non sarei in prigione se avessi accettato di rinunciare alla mia candidatura. Ma non baratterei mai la mia dignità per la mia libertà, per l'impegno che ho con il popolo brasiliano.

Sono stato inserito artificialmente nella ‘Lei da Ficha Limpa’ per essere arbitrariamente escluso dalla corsa elettorale, ma non permetterò loro di fare di questo per imprigionare il futuro del Brasile.

È di fronte a queste circostanze che devo prendere una decisione entro una scadenza arbitrariamente imposta. Raccomando al PT e alla coalizione "O Povo Feliz de Novo" la sostituzione della mia candidatura con quella di mio fratello Fernando Haddad, che finora ha svolto lealmente la posizione di candidato alla vicepresidenza.

Fernando Haddad, ministro dell'Istruzione nel mio governo, è stato responsabile di una grande trasformazione nel nostro paese. Insieme, abbiamo aperto le porte dell'università a quasi 4 milioni di studenti provenienti da scuole pubbliche, neri, popoli indigeni, figli di lavoratori che mai prima avevano avuto questa opportunità. Insieme, abbiamo creato i Prouni, i nuovi Fies, le quote, Fundeb, Enem, il piano nazionale di istruzione, Pronatec, e abbiamo avviato quattro volte più scuole tecniche di quante ne fossero state avviate negli ultimi cento anni. Abbiamo creato il futuro.

Haddad è il coordinatore del nostro piano di governo progettato per far uscire il paese dalla crisi, ricevere contributi da migliaia di persone e discutere ogni punto con me. Sarà il mio rappresentante in questa battaglia per ripristinare il corso verso lo sviluppo e la giustizia sociale.

Se vogliono mettere a tacere le nostre voci e sconfiggere il nostro progetto per il paese, si stanno prendendo in giro da soli. Siamo ancora vivi, nei cuori e nei ricordi delle persone. E il nostro nome ora è Haddad.

Al suo fianco, candidata alla vicepresidenza, avremo la nostra sorella Manuela D'Ávila, confermando la nostra storica alleanza con il PCdoB, e altre forze come PROS, PSB, leader di altri partiti e, soprattutto, con i movimenti sociali, con i lavoratori nelle città e nelle campagne, esponenti delle forze democratiche e popolari.

La nostra lealtà, la mia, quella di Haddad e quella di Manuela, è in primo luogo con il popolo. È con i sogni di coloro che vogliono vivere di nuovo in un paese in cui tutti hanno cibo sul tavolo, in cui c'è lavoro, salari dignitosi, protezione legale per chi lavora; in cui i bambini hanno scuole e i giovani, un futuro; in cui le famiglie possono permettersi di comprare un'auto, una casa e continuare a sognare e realizzare. Un paese in cui tutti avranno opportunità e nessuno avrà alcun privilegio.

So che un giorno la vera giustizia sarà fatta e la mia innocenza sarà riconosciuta. E quel giorno sarò con Haddad per portare avanti il governo del popolo e della speranza. Saremo tutti lì, insieme, per rendere il Brasile felice di nuovo.

Desidero ringraziare la solidarietà di coloro che mi hanno inviato messaggi e lettere, che hanno pregato e organizzato manifestazioni per la mia libertà, che protestano in tutto il mondo contro la persecuzione e per la democrazia, e in particolare quelli che mi tengono compagnia quotidiana fuori dal luogo dove sono.

Un uomo può essere ingiustamente incarcerato, ma le sue idee no. Nessun oppressore può essere più grande del popolo. Ecco perché le nostre idee raggiungeranno tutti attraverso la voce del popolo, più potente e più forte delle bugie diffuse da Globo.

Pertanto, è dal mio cuore che desidero chiedere a tutti coloro che voteranno per me di votare a mio fratello Fernando Haddad come Presidente della Repubblica. E chiedo di votare i nostri candidati governatori, i nostri candidati in corsa per rappresentanti e senatori, in modo da poter costruire un paese più democratico, con sovranità, senza privatizzazione di aziende pubbliche, con più giustizia sociale, più istruzione, cultura, scienza e tecnologia, più sicurezza, alloggi e salute, con più occupazione, salari dignitosi e con la riforma agraria.

Oggi siamo diventati milioni di Lula e, d'ora in poi, Fernando Haddad sarà Lula per milioni di brasiliani.

A presto, amici miei. Hasta la victoria!

Un abbraccio dal tuo compagno di sempre,

Luiz Inácio Lula da Silva

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)