L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 8 dicembre 2018

5G - Gli Stati Uniti non sopportano che la Cina con Huawei sia molto più avanti, hanno perso il primato dell'innovazione e allora istericamente sequestrano persone

Chi vincerà la corsa al 5G tra Usa e Cina? Report Eurasia (anche su Huawei)

7 dicembre 2018


Numeri e protagonisti della gara tutta aperta per implementare reti mobili 5G di nuova generazione nel report di Eurasia Group fondato e diretto da Ian Bremmer, che su Huawei dice…

Una nuova Guerra Fredda è in atto. Questa volta contro gli Stati Uniti troviamo la Cina in una corsa all’installazione di reti mobili 5G di nuova generazione. Un report di Eurasia Group, nota società di consulenza del rischio fondata e diretta dall’intellettuale Ian Bremmer, ha analizzato come si sta evolvendo la creazione di standard 5G e l’implementazione in mercati chiave.

LA NUOVA FRONTIERA DEL 5G

Si tratta di uno dei progetti tecnologici più significativi dal punto di vista geopolitico mai intrapreso. Le reti mobili di nuova generazione trasmetteranno dati circa 100 volte più veloci rispetto alle reti 4G di oggi. Il 5G renderà disponibili per la prima volta applicazioni tecnologiche che cambieranno l’economia, come auto senza conducente, città intelligenti e automazione avanzata di fabbrica. Secondo il team di Eurasia, lo sviluppo del 5G avrà un impatto sulla razza per il dominio del 21° secolo tra le più importanti superpotenze tecnologiche del mondo.

IL PRIMATO CINESE

La Cina guadagnerà un vantaggio di first mover nel 5G mentre si muove verso l’implementazione su scala commerciale della sua rete 5G nazionale nel 2020.

“La Cina ha le aziende, la tecnologia, l’obiettivo e la scala del mercato per guidare il mondo nello sviluppo di applicazioni per il 5G”, ha dichiarato Paul Triolo, coautore del report.

A differenza delle reti 3G e 4G, dove la Cina è stata in gran parte relegata ai margini del processo di definizione degli standard, ora il Paese del Dragone è protagonista nel processo degli standard per il 5G. Segno delle sue crescenti ambizioni, capacità e influenza globale.

QUESTIONE DI BREVETTI

Gli sforzi di Pechino per ottenere un ruolo principale nel 5G si traducono come parte di una strategia molto più ampia per ridurre il costo delle licenze di brevetto nei confronti dei maggiori player tecnologici per chip mobili come Qualcomm.

Eurasia riporta che per il 4G LTE, le società LG e Qualcomm detenevano il 23% e il 21% dei brevetti, mentre Zte e Huawei solo il 6% e l’1% rispettivamente. Una volta definiti gli standard e definito il sottoinsieme delle licenze di brevetto, le aziende dovranno adeguarsi agli standard concordati e pagare le royalties ai licenzianti di brevetti, come richiesto.

LO STANDARD 5G MADE IN CHINA?

L’ampia suite di brevetti essenziali standard 5G sta diventando più chiara: i principali detentori saranno i produttori europei Ericsson e Nokia, seguiti dai cinesi Huawei e Zte, poi i giapponesi e sudcoreani come Fujitsu, Panasonic, Samsung e LG. Dietro tutti si collocano le aziende statunitensi come Qualcomm, Interdigital, Intel e Cisco.

Nessuna società di un singolo paese dominerà l’assegnazione di Sep (Standard essential patents) ma è probabile che l’influenza della Cina nel processo di definizione degli standard 5G si espanda notevolmente rispetto al suo ruolo marginale negli standard 4G. Nel 2017 le aziende cinesi, tra cui Huawei, Zte e Lenovo detenevano circa il 10% dei brevetti Sep. Si prevede ora un aumento intorno al 40%, una volta che i brevetti saranno stati concessi.


LO SFORZO AMERICANO

Gli sforzi degli Stati Uniti per escludere i fornitori di apparecchiature tlc cinesi, Huawei e Zte in particolare, dalle reti 5G occidentali e alleate in nome della sicurezza nazionale continueranno. Start Magazine ha seguito tutte le azioni finora intraprese dagli Stati per bandire Huawei nelle scorse settimane.

SPACCATO A METÀ

Una rete divisa 5G aumenterà il rischio che l’ecosistema tecnologico globale lasci spazio a due sfere tecnologiche separate, politicamente divise e non interoperabili: una guidata dagli Stati Uniti e supportata dalla tecnologia sviluppata nella Silicon Valley; un’altra guidata dalla Cina e sostenuta dal suo gruppo di società di piattaforme digitali altamente efficienti.

Ipotesi simile a quella già prevista dall’ex numero uno di Google, Eric Schmidt, convinto che Internet si dividerà in due entro il 2028: una a guida cinese e una a guida statunitense.

A DISCAPITO DEI PAESI TERZI

Secondo Eurasia Group, una divisione in campi cinesi e non cinesi potrebbe portare a problemi di interoperabilità, con minori economie di scala e maggiori costi di transazione.

I Paesi terzi che desiderano accedere a questi sistemi paralleli dovranno far fronte a pressioni concorrenziali e scelte difficili in merito alle tecnologie di rete 5G e ai relativi ecosistemi applicativi da adottare.

Gli ebrei nelle terre di Palestina sono un cancro da estirpare - si sono inventati il tunnel, sangue per coprire le truffe di Netanyahu

Libano contro Israele: "Ci vuole attaccare"

Tensione alle stelle dopo la scoperta di presunti tunnel di Hezbollah
REDAZIONE

La Linea Blu

Il Libano è pronto a presentare formale protesta al Consiglio di sicurezza dell'Onu per le recenti attività israeliane a ridosso della Linea Blu di demarcazione tra i due paesi, affermando che queste azioni sono "un preludio a un attacco israeliano contro il Libano". Lo riferisce l'agenzia governativa libanese Nna, citando un comunicato del ministero degli Esteri di Beirut.

Il comunicato

"E' in corso una vera e propria campagna di diplomatica e politica contro il Libano in preparazione di un attacco contro il Paese", si legge. Le autorità militari israeliane hanno nei giorni scorsi avviato lavori di scavo a ridosso della Linea Blu, affermando di aver trovato dei tunnel sotterranei attribuiti a Hezbollah, il movimento sciita libanese anti-israeliano.

Scavi

Il governo libanese ha per ora dato l'impressione di non esser formalmente al corrente delle presunte attività di scavo da parte di Hezbollah dal territorio libanese verso il territorio israeliano. Nei giorni scorsi una squadra tecnica di Unifil, il contingente Onu schierato nel sud del Libano a ridosso della Linea Blu, si è recata nel lato israeliano ed è stata guidata dal comandante dei caschi blu, il generale italiano Stefano Del Col, per ispezionare il sito dove Israele afferma di aver trovato un tunnel di Hezbollah.

L'aumento dei tassi d'interessi da parte della Fed a dicembre è certo. Se continuano i tre progettati nel 2019 avvallerà l'ipotesi che vogliono la crisi economica e che sperano di controllarla

Lagarde manda un "pizzino" alla Fed, attenzione a non frenare troppo

FINANCIAL TREND ANALYSIS, PUBBLICATO: 7 DICEMBRE 17:40

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Versione con grafici all'indirizzo http://ftaonline.com/blog/lagarde-manda-un-pizzino-alla-fed-attenzione-non-frenare-troppo

Il direttore generale del Fondo monetario internazionale,Christine Lagarde, manda un pizzino alla Fed dicendo "mi aspetto che laFederal Reserve rallenti il passo del rialzo dei tassi ("Fed is probablygoing to slow down its rate increases"). Questo non perché' ci sia ilrischio di una recessione imminente, lo stesso Fmi prevede una crescita globaleinvariata nel 2019 del 3,7% e martedì S&P Global Ratings ha fatto uscire unreport che prospetta sì un rallentamento per la crescita Usa dal 2,9% del 2018al 2,3% nel 2019 e all'18% nel 2020, ma non certo una caduta in recessione, ma solo perchè le attuali condizioni dell'economia non richiedono interventi aggressivi come invece erano ritenuti necessari fino a poco tempo fa.

E poi c'è da considerare il fatto che la Fed, oltre ad essere intervenuta alzando i tassi già sei volte dal 2015, sta anche riducendoil suo bilancio di circa 50 miliardi al mese, un'operazione che di fatto è unintervento restrittivo di politica monetaria. Attualmente i future sui tassiprezzano una possibilità di rialzo del costo del denaro del 66% circa nelprossimo meeting del FOMC (nelle ultime settimane era invece dato per scontatoun intervento), mentre per il 2019 gli stessi future non predicono ulterioririalzi (ne venivano messi in conto fino a 3 di recente). Il presidente dellaFederal Reserve Bank di Atlanta, Raphael Bostic, ha dichiarato martedì che"siamo ormai a portata di voce dalla situazione neutrale, e talesituazione è quella che vogliamo", mentre il presidente della FederalReserve Bank di Dallas President, Robert Kaplan, aveva detto recentemente chein questa fase lui suggerisce di essere pazienti.

Roberto Pecchioli - Conoscere la Cina

LA CINA FA PAURA (il dirigismo funziona)

Maurizio Blondet 7 dicembre 2018 
di Roberto PECCHIOLI

La Cina è diventata la fabbrica del mondo, ma la sua presenza aggressiva in tutto il pianeta risveglia l’allarme. Pechino ha accelerato la sua politica di influenza globale: in Africa acquista pezzi di economia, controlla regimi e porzioni di territorio in cui fonda città, costruisce infrastrutture, sfrutta risorse energetiche, prepara un futuro prossimo di potenza planetaria egemone. Il Ventunesimo sarà sempre più il secolo del Dragone. Alibaba e Huawei, due giganti tecnologici, sono ormai in grado di competere con i colossi di Silicon Valley. La sua ricerca scientifica, all’insaputa dei ricercatori del resto del mondo, è pervenuta all’inquietante modifica del patrimonio genetico di due gemelline.

La Cina, dopo la storica apertura all’esterno di Deng Xiaoping, si è presto trasformata in opificio universale, ma da circa dieci anni ha accelerato verso l’obiettivo – una novità nella sua lunghissima vicenda storica – di conseguire una presenza determinante a livello globale concentrando gli investimenti nei settori strategici e non solo vendendo prodotti a buon mercato. In ciò è sostenuta da una forte centralizzazione politica, dal dirigismo economico, dal controllo sull’emissione monetaria e gli investimenti. La sua strategia silenziosa, a fuoco lento con una recente netta accelerazione ha investito non solo gli Stati Uniti e l’Africa, trasformata in avamposto strategico, serbatoio energetico, colonia a medio termine per milioni di cinesi, ma anche il Giappone, Singapore e naturalmente l’Unione Europea.

La Cina da tempo non è impegnata solo a garantirsi materie prime ed energia a basso costo per il suo apparato industriale, ma fa molto di più, come dimostra il gigantesco megaprogetto della nuova Via della Seta, volto a costruire una rete di infrastrutture portuali e ferroviarie verso occidente sino all’Atlantico che coinvolgerà anche l’Italia (Trieste e Genova soprattutto). La Cina ha impresso un netto cambio di rotta alla sua politica estera, dapprima concentrata sullo sviluppo economico interno, incominciando a sfidare l’attuale ordine mondiale.

La svolta è più evidente dal 2012, da quando è al potere l’attuale presidente Xi Jinping. L’ americano Hoover Institute, legato al partito repubblicano, ha pubblicato un ponderoso studio sulla presenza cinese negli Stati Uniti. L’elenco degli interessi cinesi in America è lunghissimo, il loro impatto economico assai importante. Comincia a diventare rilevante anche l’aspetto culturale, con 350 mila studenti che seguono corsi di laurea negli Stati Uniti, mentre la madrepatria forma nei suoi atenei giovani africani e asiatici, le future classi dirigenti. Il deficit commerciale americano nei riguardi della Cina è enorme, circa 350 miliardi di dollari annui. Una parte notevole del pesante debito pubblico americano è in mani cinesi, tanto che il vice presidente Mike Pence ha invitato il sistema finanziario americano a rifiutare ulteriori acquisti. Inoltre, molti cinesi emigrano negli Usa acquisendo notevole influenza economica e politica. La strategia della penetrazione del Dragone, lo sappiamo, non risparmia l’Italia, con una rete fittissima di imprese non solo commerciali e artigiane che realizzano una sorta di economia chiusa, circolare con la patria e le aziende dei connazionali residenti.

Lo studio non ha rilevato interventi diretti sulla vita politica e le scelte elettorali americane, ma è preoccupato per la crescente influenza cinese nelle università, nei “pensatoi” (think tanks), l’intenso lavoro di lobby in ogni canale utile per orientare o contrastare decisioni finanziare, economiche, politiche, geostrategiche. Le università cominciano a ricevere pressioni per annullare o sterilizzare gli eventi potenzialmente critici verso il regime cinese, con vere e proprie rappresaglie da parte dell’ambasciata e dei consolati presenti nel paese.

La penetrazione cinese è particolarmente significativa nel settore tecnologico, la chiave per rafforzare il potere economico e la forza militare. Utilizza largamente lo spionaggio industriale e il trasferimento di tecnologie (know how) attraverso l’acquisto di imprese. Gli americani, paladini del libero scambio, non mettono in discussione ufficialmente l’entrata di capitali cinesi nelle loro industrie, ma lamentano l‘impossibilità di distinguere quale parte del capitale è pubblica e quale privata, tenuto conto del ruolo strategico dello Stato, della finanza pubblica e del Partito Comunista.

In effetti l’ircocervo cinese è un enigma difficile da interpretare: comandano i mandarini scelti dal Partito Comunista, i cui vertici hanno in mano lo Stato, il sistema bancario e dirigono l’economia secondo piani decisi dall’alto. Contemporaneamente, hanno promosso un forte sviluppo del sistema privato. Monta la preoccupazione per la natura opaca delle compagnie cinesi, socie e spesso proprietarie di industrie e grandi infrastrutture anche in Europa. L’ Olaf, l’agenzia antifrode comunitaria, ha confermato l’ampiezza della ben nota pratica della sottofatturazione all’importazione, con il triplo obiettivo di evadere le imposte, praticare concorrenza sleale e regolare parte delle transazioni in patria (cosa che fanno puntualmente tutte le multinazionali occidentali e quindi di che lagnarsi) I canali privilegiati di ingresso sono il porto greco del Pireo – controllato da società cinesi- quello di Costanza, ma anche Rotterdam e gli approdi del Regno Unito, in cui le indagini hanno provocato sanzioni per due miliardi di euro.

Il dibattito si è esteso in Germania e Francia, dove l’allarme delle autorità è crescente, per quanto espressa prevalentemente in incontri riservati e sedi confidenziali, e riguarda la penetrazione cinese in settori strategici. Si sta ripristinando l’antico sistema delle autorizzazioni ministeriali preventive per l’importazione e l’esportazione di determinati prodotti, un meccanismo considerato un residuo protezionista del passato, ma che è concordato a Bruxelles e verrà presumibilmente esteso in ambiti come la proprietà intellettuale e i mezzi di comunicazione.

La preoccupazione ha scosso la mercantilista Germania nell’anno 2017 dopo l’acquisto da parte cinese di Kuka, uno dei massimi produttori mondiali di robot. Un affare da circa 4,5 miliardi di euro in un comparto decisivo per la ricerca e la sicurezza, destinato a improntare le politiche industriali e del lavoro dei prossimi decenni. Ciò che preoccupa è la mancanza di reciprocità, principio base delle relazioni commerciali. Le barriere in entrata nell’economia cinese, le cui imprese sono finanziate con denaro pubblico e se ne infischiano delle “sacre” regole del mercato, sono tali da impedire l’accesso per le imprese europee e americane sgradite, i cui investimenti spesso falliscono per gli ostacoli di varia natura frapposti dalle autorità del Dragone. Il paradosso è che, con la presidenza Trump e il suo approccio protezionista, la Cina si è adesso erta a sostenitrice del libero commercio privo di dazi e divieti che viola sistematicamente in casa propria.

Le reazioni sono timide e balbettanti; il gigante asiatico è troppo forte, troppo importante per l’economia globale e non si può prenderlo di petto. E’ un socio scomodo ma dal quale non si può prescindere, lo dimostra il silenzio sui diritti umani violati, mancanza di libertà di pensiero e di religione, come sa bene la Chiesa cattolica. Il profumo degli affari fa chiudere gli occhi e tappare le orecchie, specialmente nei paesi il cui debito sovrano è finanziato dall’imponente avanzo commerciale cinese.

La nuova aggressiva posizione cinese è al centro della globalizzazione, ne mette in luce le contraddizioni e sta diventando un brodo di coltura delle reazioni dell’opinione pubblica internazionale. Ciononostante, e non sarebbe potuto capitare diversamente, il dossier cinese è stato del tutto ignorato a Buenos Aires nelle conclusioni del G20, un organismo internazionale allargato messo in piedi, nel suo disegno attuale, per spegnere i fuochi della grande recessione iniziata dieci anni fa, diventato una retorica vetrina di leaders politici senza alcuna funzione reale, l’apparenza di un inesistente multilateralismo.

L’aggressività economica cinese è uno dei grandi temi della globalizzazione e dà nuovo alimento alle reazioni “populiste” già innescate contro l’austerità imposta dal neoliberismo occidentale. Su questo gli americani ovviamente tacciono, preferendo esortare il concorrente asiatico a “recuperare la sua neutralità nel quadro geostrategico mondiale”. Pia illusione di chi ha sbagliato clamorosamente le previsioni strategiche aprendo le porte del commercio mondiale alla Cina e vuole continuare a controllare e dominare lo scenario mondiale. La radice delle rivendicazioni sovraniste, nonché la crescente richiesta di protezionismo economico, si trova precisamente nella necessità di recuperare lo spazio strappato a colpi di disarmo daziario in nome del libero scambio, con la richiesta di meno immigrazione, più controlli alla frontiera e maggiori barriere finanziarie e tecnologiche.

Non va sottovalutato il ruolo dell’aggressivo nazionalismo economico cinese, che ha lanciato con clamore il MIC 25 (made in China 2025) per promuovere i suoi prodotti di punta e proteggere le sue imprese dalla concorrenza sul mercato interno dopo avere approfittato largamente delle liberalizzazioni tariffarie disposte dal WTO per estendere la sua presenza nei mercati internazionali. Una politica che non è estranea all’inverno della recessione internazionale in arrivo, poiché il commercio non è equilibrato se le regole del gioco, fiscali, ambientali, lavorative, sono ingiuste e unilaterali come la manipolazione del valore dello yuan, la valuta cinese. Alcuni economisti suggeriscono l’attivazione di un protezionismo intelligente, fatto di barriere giuridiche extra doganali, capace altresì di disincentivare l’utilizzo degli avanzi di bilancio per fini di influenza politica, un problema che riguarda la Cina, e in Europa coinvolge la Germania.

La lotta tra la grande potenza finanziaria, economica e tecnologica americana e il suo avversario orientale ha un campo di battaglia grande quanto il pianeta. La globalizzazione libero scambista è squilibrata, non funziona, impoverisce una parte crescente del mondo. Rende l’Europa una periferia senza prospettive, non garantisce libertà, benessere, sviluppo. Non sono in gioco solo i dazi, la finanza e la tecnologia, ma un assetto del mondo che divide l’umanità in prede e predatori.

Il lavoro è la vera ricchezza di ogni Nazione - Hitler, in economia, molto ma molto più bravo di Roosevelt. Il governo italiano ha vita solo fino a maggio 2019 dopo l'elezioni europee poi se non introduce una Moneta Complementare può andare a casa perchè incapace a mettere l'Italia in Sicurezza il mandato cardine che gli italiani gli hanno dato con il voto del 4 marzo 2018

UN PIANO PER BATTERE LA DISOCCUPAZIONE

Maurizio Blondet 7 dicembre 2018 

“L’eliminazione della disoccupazione in Germania durante la Grande Depressione senza inflazione è un successo notevole. Questo è raramente riconosciuto. L’idea che da Hitler non può venire che male si estende anche alla sua politica economica”. Non sono parole di un nostalgico. Ma di John Kenneth Galbraith, uno degli economisti più importanti del ventesimo secolo e consigliere di vari presidenti Usa. Parole di eccezionale autorità per gli stessi dirigenti tedeschi che stanno imponendo all’area euro le loro ricette di austerità e deflazione – le stese che impiegò o il cancelliere Bruening, col risultato di ottenere 6 milioni di senza-lavoro, e milioni di voti ai nazional-socialisti.

Galbraith: la politica economica dei nazionalsocialisti consisté “in un ricorso su vasta scala al debito [il deficit!] per finanziare la spesa pubblica, e all’inizio per progetti civili: ferrovie, canali, le Autobahnen [autostrade]. L’effetto sulla riduzione della disoccupazione è stato molto più forte che in qualunque altro paese industriale” [America di Roosevelt compresa, dr.].

“A fine 1935 la disoccupazione era scomparsa in Germania. Nel 1936, gli alti redditi tiravano i prezzi verso l’alto – Hitler si mostrò precursore delle moderne politiche economiche moderne riconoscendo che un approccio rapido al pieno impiego non è possibile senza un controllo dei salari e dei prezzi. Alla fine degli anni Trenta, la Germania conosceva il pieno impiego e la stabilità dei prezzi”.

Come? A quelli che oggi propongono timorosamente i mini-bot per uscire dalla scarsità artificiale di moneta prodotta dalla BCE, bisogna ricordare che il banchiere centrale di allora, l’ariano d’onore Schacht, introdusse non i mini, ma i mega-bot: gli “effetti MeFo”, tratte emesse da una impresa metallurgica fittizia, che gli industriali si scambiarono fra loro come moneta – senza mai portarli all’incasso, il che avrebbe obbligato la banca del Reich a stampare moneta e creare inflazione – anche perché davano un interesse del 4%.

Due giorni dopo essere insediato, Hitler si rivolse alla nazione per radio: “La miseria del nostro popolo è orribile a vedersi: ai milioni di senza lavoro affamati dell’industria si aggiungono i milioni della classe media e degli artigiani che s’impoveriscono – se questo collasso arriva a compimento, gli agricoltori affronteranno una catastrofe di proporzioni incalcolabili”.

Poi annunciò “il grande sforzo per riorganizzare l’economia in due piani quadriennali. L’agricoltore tedesco deve esser salvato per mantenere l’approvvigionamento alimentare della nazione e così preservare i suoi fondamenti vitali. Entro quattro anni la disoccupazione deve essere superata in modo decisivo … I partiti marxisti e i loro alleati hanno avuto 14 anni per mostrare ciò di cui erano capaci. Il risultato è un mucchio di rovine. Oggi il popolo tedesco ci ha dato quattro anni, e allora ci giudicheranno”.

Se qualcuno trova che questa descrizione si attaglia all’Italia di oggi, la coincidenza è puramente casuale. Anche se quelli che hanno adesso il governo farebbero bene a studiare quel che fecero allora in Germania.

“Immediatamente stimolarono l’industria privata con sussidi e sconti fiscali, incentivando la spesa al consumo come, ad esempio, concedendo prestiti matrimoniali, e si lanciarono in un massiccio programma di opere pubbliche che vide la costruzione di autostrade, alloggi, ferrovie e progetti di idrovie navigabili ”

(John A. Garraty, “The New Deal, National Socialism and the Great Depression, The American Historical Review, Ottobre 1973 (Vol. 78, No. 4), pag. 909-910

Nel mondo della finanza non fu posta alcuna restrizione sulle attività di società ebraiche alla Borsa di Berlino (mercato azionario) e fino al 1937 gli istituti bancari di Mendelssohn, Bleichroeder, Arnhold, Dreyfuss, Straus, Warburg, Aufhaeuser e Behrens erano ancora attivi “. (27). Cinque anni dopo che Hitler prese il potere, il ruolo ebraico nella vita economica era ancora rilevante e gli ebrei possedevano ancora considerevoli beni immobili, specialmente a Berlino. Tutto ciò cambiò radicalmente nel 1938 e alla fine del 1939 gli ebrei erano stati ampiamente rimossi dalla vita economica tedesca. (SI NOTI LA DATA:1933 e già la Judaea aveva dichiarato guerra alla Germania. La notte dei Cristalli è del 1938)

Fra il 1937 I sei milioni di disoccupati del 1933 erano scesi, nel 1936, a un milione
3 ’38 si registrò una penuria di manodopera.

(. Gordon A. Craig, Germany 1866-1945 (New York: Oxford, 1978), pag. 620 )

Contrariamente a quel che dirà poi la propaganda, “la ripresa economica della Germania, già completata nel 1936, non si basava sul riarmo; è stato causato principalmente da una spesa ingente di lavori pubblici, in particolare sulle autostrade, e questa spesa pubblica ha stimolato anche la spesa privata, come aveva teorizzato l’economista britannico John Maynard Keynes.

(Burton H. Klein, Germania Economic Preparations For War (Harvard Univ. Press, 1959)

Fra il 1932 e il 1938 i redditi settimanali lordi dei lavoratori aumentarono del 21%. Al netto, detratte le ritenute fiscali e delle assicurazioni sociali, l’aumento fu del 14%. Il reddito dei lavoratori continuò a crescere persino dopo lo scoppio della guerra. Nel 1943 il reddito orario medio dei lavoratori tedeschi era cresciuto del 25% e quello settimanale del 41%.

( R. Grunberger, The Twelve-Year Reich (1971), pag. 187; David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (la rivoluzione sociale di Hitler) (Norton, 1980) (edizione economica), pag. 100

Risultati che vanno messi a confronto con quelli, miserevoli, del New Deal di Roosevelt: la disoccupazione americana resta attestata al 19% fino al 1938 – e prima della crisi del 1929, era al 3 per cento. Fra ottobre 1937 e il marzo ’38 l’economia USA ha una gravissima ricaduta in recessione, e si aggiungono altri 4,5 milioni di senza lavoro. “L’economia americana non riesce a riprendersi con le sue sole forze, e resta dipendente dalle iniezioni costanti di potere d’acquisto alimentate dai deficit di bilancio”. Solo l’entrata nella seconda guerra mondiale darà agli americani il sospirato pieno impiego.

Nel frattempo, in Germania le condizioni lavorative in fabbrica erano decisamente migliorate: migliori condizioni sanitarie e di sicurezza, mense con pasti caldi sovvenzionati, campi di atletica, parchi, concerti e rappresentazioni teatrali sovvenzionate, gruppi sportivi ed escursionistici, balli, corsi educativi per adulti e turismo sovvenzionato.

(David Schoenbaum, Hitler’s Social Revolution (Norton, 1980) (edizione economica), pag. 100, 102, 104)

Fra il 1932, ultimo anno dell’epoca pre-hitleriana, e il 1938, l’ultimo anno intero prima dello scoppio bellico, il consumo di alimentari aumentò di un sesto, mentre abbigliamento e tessili incrementarono di più di un quarto, mobili e articoli casalinghi del 50%. Anche il consumo di vino aumentò di altrettanto.

La produzione tedesca di veicoli a motore, comprese le auto fabbricate in Germania dalle americane Ford e General Motors (Opel), raddoppiò nel periodo 1932-1937, mentre le esportazioni di veicoli a motore tedeschi aumentarono di otto volte. I proprietari di auto triplicarono. Triplicò anche il traffico aereo passeggeri in Germania dal 1933 al 1937.
Frey (Hg.), Deutschland wie es wirklich war (la Germania com’era realmente) (Monaco: 1994), pag. 38, 44

In questo miracolo economico (il Pil crebbe di circa l’11 per cento annuo) ovviamente i profitti netti delle grandi aziende quadruplicarono. Pur mantenendo il generale impianto privatistico del sistema economico (nessun esproprio né alcuna statalizzazione di tipo “sovietico”) lo Stato limitò per legge, ad esempio, i dividendi agli azionisti: non potevano superare il6 per cento l’anno. . I profitti non distribuiti erano investiti in titoli di stato del Reich: avevano un tasso d’interesse annuo del sei percento, ridotto dopo il 1935 al quattro e mezzo percento. Con ciò fu incoraggiato il reinvestimento dei profitti nelle aziende, quindi il loro autofinanziamento, e di conseguenza – ecco il punto – ha ridotto il ricorso all’indebitamento bancario e, più in generale, ha diminuito l’influenza del capitalismo finanziario, fin quasi ad annullarlo.

Le imposte sulle società passarono dal 20% del 1934 al 25% nel 1936, e salirono al 40 % nel 1940. Il reddito imponibile degli imprenditori e direttori generali aumentò del 148% fra il 1934 e il 38, ma i prelievi fiscali crebbero del 232 %.

L’Austria attraversò una fenomenale ripresa dopo che fu annessa al Reich tedesco nel Marzo del 1938. Immediatamente dopo l’Anschluss (annessione), i responsabili del governo si diedero rapidamente da fare per alleviare l’indigenza sociale e rivitalizzare l’economia moribonda. Investimenti, produzione industriale, costruzione di alloggi, spesa dei consumatori, turismo e standard di vita crebbero velocemente. Fra il Giugno e il Dicembre del 1938 soltanto, il reddito settimanale degli operai dell’industria austriaci crebbe del 9%. Il successo del regime nazionalsocialista nel combattere la disoccupazione fu così rapido che lo storico americano Evan Burr Bukey arrivò a definirlo: “ uno dei successi economici più notevoli nella storia moderna”. Il tasso dei senza lavoro in Austria scese dal 21,7% nel 1937 al 3,2% nel 1939. Il Prodotto Interno Lordo crebbe del 12,8% nel 1938 e di uno stupefacente 13,3% nel 1939. (31)

Una notevole espressione di fiducia nazionale stava alla base del netto aumento delle nascite. Entro l’anno in cui Hitler salì al potere, l’indice di natalità ebbe un balzo del 22%, arrivando ad un livello alto nel 1938. Rimase tale persine nel 1944, l’ultimo intero anno di guerra. (32) Secondo lo storico John Lukacs, il balzo dell’indice di natalità era un espressione di ” ottimismo e fiducia ” da parte dei tedeschi durante gli anni di Hitler. “ Per ogni due bambini nati in Germania nel 1932, quattro anni dopo ne sarebbero nati tre “, afferma. “ Nel 1938 e 1939, il più alto tasso di matrimoni in Europa fu registrato in Germania, soppiantando persino quelli dei più prolifici popoli dell’Europa dell’Est. L’aumento fenomenale nel tasso di natalità tedesco fu persino più consistente dell’incremento del tasso dei matrimoni “. (33) “ la Germania nazionalsocialista, sola fra le nazioni popolate da bianchi, riuscì a raggiungere un incremento nella fertilità “, evidenzia l’eminente storico americano di origine scozzese Gordon A. Craig, ” con un forte aumento della natalità dopo che Hitler arrivò al potere e con un costante aumento negli anni che seguirono “. (34)

In un lungo discorso rivolto al Reichstag agli inizi del 1937, Hitler ricordò gli impegni che aveva preso quando il suo governo assunse il potere. Egli spiego anche i principi sui quali erano basate le sue politiche e guardò indietro a ciò che era stato fatto in quattro anni. (35) “ Colore che parlano di ‘democrazie’ e ‘dittature’”, disse, ” semplicemente con comprendono che in questo paese è stata fatta una rivoluzione, i cui risultati possono essere considerati democratici nel più alto significato del termine, sempre che la democrazia abbia un qualsiasi vero significato. La rivoluzione nazionalsocialista non ha avuto come obiettivo di trasformare una classe privilegiata in una classe che non avrebbe avuto diritti in futuro. Il suo scopo è stato quello di dare uguali diritti a coloro che non avevano diritti. Il nostro obiettivo è stato reso raggiungibile per l’intero popolo tedesco, non solo in campo economico ma anche in quello politico e assicurato dal coinvolgimento delle masse in modo organizzato. Negli ultimi quattro anni abbiamo aumentato la produzione tedesca in tutti i settori fino a raggiungere livelli straordinari. E questo aumento produttivo è andato a beneficio di tutti i tedeschi “.

In un altro discorso, due anni dopo, Hitler parlò brevemente dei successi in campo economico del suo regime (36): “ Vinsi il caos in Germania, restaurai l’ordine, aumentai enormemente la produzione in tutti campi della nostra economia nazionale, con enormi sforzi produssi surrogati di varie materie prime che non abbiamo, ho incoraggiato nuove invenzioni, sviluppato gli scambi, costruito nuove strade e canali navigabili, trasformato fabbriche enormi e nel contempo mi sono impegnato a promuovere l’istruzione e la cultura del nostro popolo per lo sviluppo della nostra comunità sociale. Riuscii a trovare un lavoro utile per tutti e sette milioni di disoccupati che ci facevano così tanta pena, a far restare il contadino sulla sua terra nonostante tutte le difficoltà e a risparmiare la terra stessa per lui, a ripristinare un commercio tedesco prospero e a promuovere al massimo gli scambi “.

Lo storico americano John Garraty paragonò le risposte americane e tedesche alla Grande Depressione in un articolo molto discusso pubblicato sulla Rivista di Storia Americana. Scrisse (37): “ I due protagonisti (cioè gli Stati Uniti e la Germania) reagirono tuttavia alla Grande Depressione in modi simili, diversi da quelli di altre nazioni industriali. Dei due, i nazionalsocialisti ebbero maggior successo a curare le ferite economiche degli anni 30. Essi ridussero la disoccupazione e stimolarono la produzione industriale più velocemente di quanto fecero gli americani e, considerando le loro risorse, affrontarono i loro problemi commerciali e monetari con maggior riuscita, sicuramente in modo più fantasioso. Questo in parte perché i nazionalsocialisti usarono il finanziamento in disavanzo su più vasta scala e in parte perché il sistema totalitario si presta meglio alla mobilitazione della società, sia con la forza che con la persuasione. Nel 1936 la depressione era praticamente finita in Germania, ma ancora lontana dalla fine negli Stati Uniti “.

Infatti, il tasso dei senza-lavoro negli Stati uniti rimase alto finché non si arrivò a stimolare la produzione bellica su vasta scala. Persino nel Marzo del 1940, la disoccupazione americana era ancora sul 15% della forza lavoro. Fu la produzione di guerra, e non i programmi del “New Deal” di Roosevelt , a portare la piena occupazione. (38)

Il Prof. William Leuchtenburg, uno storico americano di fama, meglio conosciuto per i suoi libri sulla vita e sulla carriera di Franklin Roosevelt, riassunse l’operato misto del Presidente in uno studio molto acclamato. “Il New Deal lasciò molti problemi irrisolti e ne creò altri nuovi e sconcertanti “, conclusa Leuchtenburg, “ Esso non dimostrò mai di poter raggiungere la prosperità in tempo di pace. Ancora nel 1941 i disoccupati erano ancora sei milioni e non fu che durante l’anno di guerra 1943 che l’esercito dei senza lavoro scomparse “. (39)

Il contrasto fra i successi economici tedeschi e americani durante gli anni 30 è ancora più evidente se si prende in considerazione che gli Stati Uniti avevano ricchezze e risorse naturali immensamente maggiori, incluse grandi riserve petrolifere, nonché una minore densità di popolazione e nessun vicino ostile e bene armato.

Un interessante confronto tra l’approccio americano e tedesco alla Grande Depressione apparve in una edizione del 1940 del settimanale berlinese “Das Reich”. Il titolo era: “ Hitler e Roosevelt: un successo tedesco, un tentativo americano “. L’articolo citava il “ sistema democratico parlamentare” degli Stati Uniti come un fattore chiave nel fallimento degli sforzi dell’amministrazione Roosevelt di ripristinare il benessere. “ Noi tedeschi iniziammo con una idea e mettemmo in atto misure pratiche senza curarci delle conseguenze. L’America iniziò con molte misure pratiche che, senza coerenza al loro interno, misero un cerotto su ogni ferita ” (40)

Sebastian Haffner, un influente giornalista e storico tedesco e che fu anche un feroce critico del Terzo Reich e della sua ideologia, riconsiderò la vita e il lascito di Hitler in un libro molto discusso. Sebbene il suo ritratto del leader tedesco nel libro ” Il Proposito di Hitler ” sia aspro, l’autore scrive tuttavia: (45)

“ Fra questi successi positivi di Hitler, quello che supera tutti gli altri fu il suo miracolo economico. Mentre il resto del mondo era ancora in preda alla paralisi economica, Hitler fece della Germania un isola di prosperità. Nel giro di tre anni, continua Haffner, i bisogni urgenti e le sofferenze di massa furono trasformati in semplice ma comoda prosperità. Altrettanto importante: l’impotenza e la mancanza di speranza avevano dato spazio alla fiducia e alla sicurezza nelle proprie capacità. Persino più miracoloso fu il fatto che la transizione dalla depressione al boom economico fu raggiunta senza inflazione, con salari e prezzi completamente stabili. E’ difficile descrivere in modo adeguato la riconoscente sorpresa con la quale i tedeschi reagirono a questo miracolo, il quale, fece sì che moltissimi operai tedeschi social-democratici o comunisti passassero dalla parte di Hitler dopo il 1933. Questa riconoscente sorpresa dominò completamente l’umore delle masse tedesche nel periodo 1936-1938 “.

Joachim Fest, un altro illustre giornalista e storico tedesco, riconsiderò la vita di Hitler in una esauriente e acclamata biografia. “ Se Hitler fosse deceduto in un assassinio o in un incidente alla fine del 1938, pochi avrebbero esitato a descriverlo come uno dei più grandi statisti tedeschi, il compitore della storia della Germania “. (46) “ Nessun osservatore obiettivo della situazione tedesca potrebbe negare i considerevoli successi di Hitler “, affermò lo storico americano John Toland. “ Se Hitler fosse morto nel 1937, nel quarto anniversario della sua ascesa al potere, egli sarebbe indubbiamente diventato uno dei più grandi personaggi della storia te


Novembre 2011

Traduzione a cura di: Gian Franco SPOTTI

Recessione in arrivo è quello che voleva la Fed aumentando i tassi d'interessi in un contesto profondamente malato

Inversione curva dei rendimenti, BofA: mercati iniziano a scontare una recessione

7 dicembre 2018, di Daniele Chicca


Il possibile intensificarsi delle tensioni commerciali e la paura di una recessione in America sono tra i fattori all’origine delle liquidazioni di posizioni nei fondi azionari e dei cali di Borsa di questa settimana. Lo dicono gli strategist di Bank of America Merrill Lynch, che citano l’inversione della curva dei rendimenti Usa come un segnale di recessione in arrivo.

Il nervosismo degli investitori è evidente se si guarda ai flussi in uscita dai fondi azionari e obbligazionari: ben 5 miliardi e 200 milioni e 8 miliardi e 100 milioni di dollari, rispettivamente, sono stati ritirati, secondo i dati di EPFR citati dalla banca.

“I mercati iniziano a scontare una possibile recessione in Usa, ma le autorità politiche e la Fed devono invece ancora farlo”, dicono gli analisti di Bank of America.

Gli antagonisti prima di tutto c'è l'hanno con se stessi, con la loro identità, su cosa sono e cosa vogliono essere e fanno danni su danni. Sono sfruttati, utilizzati, manovrati, carne da cannone, strumenti per tutti gli usi, e ... non se ne rendono conto eccetto i furbi che li comandano

Prima alla Scala: il corteo degli antagonisti con lancio di uova e vernice


A un’ora e mezza dall’inizio della prima della Scala, con l’opera di Verdi Attila, gli antagonisti hanno manifestato con lancio di uova e ortaggi di fronte alla Società del Giardino, alle spalle di Palazzo Marino, location prescelta per la cena di gala a conclusione dello spettacolo. Alcuni attivisti del Centro sociale cantiere hanno lanciato uova e verdura (LaPresse)

Huawei 5G - i cinesi e i britannici contrattano come si fa tra persone civili e non sequestrano i concorrenti come fanno quegli imbecilli degli statunitensi

Huawei è pronta ad accettare le richieste britanniche per non essere esclusa dal 5G

La mossa dei cinesi fa seguito alle pressioni del governo degli Stati Uniti, che ha indicato la possibilità che Huawei sia coinvolta in attività di spionaggio informatico e soprattutto arriva dopo l'arresto in Canada, su richiesta Usa, di Meng Wanzhou, responsabile finanziario di Huawei e figlia del fondatore Ren Zhengfei. 

07 dicembre 2018,08:52


Il colosso cinese delle tlc Huawei è pronto ad accettare le richieste del National Cyber Security Center britannico per non essere escluso dallo sviluppo della rete 5G nel Regno Unito.

Lo rivela il Financial Times, citando fonti che seguono da vicino la vicenda, secondo le quali il gruppo si è riunito questa settimana con i dirigenti del Ncsc britannico e avrebbe accettato di introdurre una serie di richieste tecniche, proposte da Londra, per risolvere le falle identificate nei propri dispositivi e nel proprio software.

La mossa dei cinesi fa seguito alle pressioni del governo degli Stati Uniti, che ha indicato la possibilità che Huawei sia coinvolta in attività di spionaggio informatico e soprattutto arriva dopo l'arresto in Canada, su richiesta Usa, di Meng Wanzhou, responsabile finanziario di Huawei e figlia del fondatore Ren Zhengfei.

Huawei avrebbe accettato di sottoporre i termini dell'accordo in una lettera formale al Ncsc. Londra, da parte sua, secondo il Ft, avrebbe sostenuto che come le preoccupazioni britanniche siano legate a carenze tecniche e non alle origini cinesi di Huawei. 

Huawei 5G - Gli Stati Uniti fermi al palo, incapaci di produrre sviluppo sequestrano chi è più bravo di loro e con la violenza del ricatto obbligano i paesi servi ad allinearsi

Lady Huawei arrestata, il dominio della rete 5G è la vera posta in gioco

Venerdì 7 Dicembre 2018 di Flavio Pompetti


L'arresto della direttrice finanziaria della Huawei in Canada segna non solo un significativo sconfinamento della guerra commerciale tra Usa e Cina nel campo della giustizia internazionale, ma anche un affronto che la procura di New York si è sentita di lanciare ai massimi vertici della nomenclatura di Pechino. Se il Paese asiatico non ha risposto con la stessa intensità al danno di immagine di cui è stata fatta segno, è perché la vera partita in atto è di portata ancora più grande delle regole che governano lo scambio tra i due Paesi, e il suo esito è ben più determinante per il futuro. La vera posta in ballo è il dominio delle comunicazioni globali.

PASSAGGIO
La fase che stiamo vivendo è il passaggio tra la rete 4G che finora ha fatto da supporto alla telefonia mobile, a quella 5G: un potenziamento poderoso della velocità di trasmissione dei dati, e della riduzione dei tempi necessari per accedere a quelli memorizzati. Una volta installato (tra il 2019 e il 2022 per una piena diffusione nei principali Paesi avanzati) lo standard 5G permetterà di rinnovare l'intero pacchetto commerciale degli smartphone oggi in circolazione, e di realizzare il mitico Internet delle cose, una società assistita e fondamentalmente amministrata dai logaritmi del web: dall'autopilota all' automatizzazione dei processi lavorativi.
Huawei è una delle industrie cinesi che si è mossa con maggiore rapidità nella conquista dei mercati esteri, e la sua rete 4G è già oggi dominante in Asia ed Europa. Sulla strada della ricerca di nuovi standard 5G, la Huawei detiene il 12% dei brevetti già depositati; la statunitense Qualcomm ne ha il 15%, la Nokia l11% e la Ericson l'8%. A differenza delle concorrenti, la Huawei opera però in un Paese nel quale il controllo statale dell'industria è molto forte. Gli anni della liberalizzazione e dell'avvicinamento al modello capitalista, non hanno prodotto un parallelo distacco della politica dal business.

Anzi, a distanza di vent'anni dallo strappo, il partito comunista è oggi ancora più potente e compenetrato nell'economia del Paese. Gli Usa temono giustamente che l'avanzata della Cina sottragga loro il primato tecnologico che oggi detengono, così come temono l'avanzata commerciale che ha permesso alla Huawei di scalzare la Apple al secondo posto delle vendite di smartphone, alle spalle della Samsung. L'amministrazione di Washington è però anche terrorizzata all'idea che un 5G dominato dai cinesi possa essere usato come arma di spionaggio. Una denuncia era già stata lanciata nel 2012 da un rapporto congressuale, e quest'anno è divenuta il motivo ufficiale con il quale il Tesoro di Washington ha bloccato l' acquisizione della Qualcomm da parte dell'azienda cinese.

IL RIFIUTO
Spinti dalla pressione statunitense negli ultimi mesi, alcuni Paesi hanno annunciato che rifiuteranno di essere serviti dalla Huawei per lo sviluppo del 5G, o hanno detto che ne stanno valutando l'opportunità. Non a caso tra loro ci sono Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Canada, che dalla fine della II Guerra mondiale costituiscono con gli Usa la rete dei Five Eyes (i cinque occhi che spiano per proteggere gli interessi comuni). Giappone, India e Italia che sono clienti attuali della Huawei, stanno negoziando con Washington le loro decisioni future. In questo quadro, l'arresto della direttrice finanziaria Meng Wanzhou si può considerare la cattura di un ostaggio di primo piano, per far sì che il tema dello spionaggio industriale e civile entri nel cuore del dibattito sugli scambi commerciali tra Usa e Cina, più di quanto i riottosi negoziatori cinesi abbiano finora acconsentito a fare.

Energia pulita - è sull'eolico off shore che si dovrebbe puntare, questo darebbe sviluppo e autonomia energetica altro che un buco in una montagna, gli industrialotti la guerra ideologica e la mancanza di coraggio vogliono solo assistenza non gli bastano i 30 miliardi anno che noi stato con i contributi delle tasse dei lavoratori dipendenti e pensionati li forniamo ogni anno per arricchirsi sulle nostre spalle. MA loro creano lavoro, mah

7 dicembre 2018 
Il primo progetto eolico collettivo che parla italiano
Il primo impianto eolico a proprietà diffusa nel nostro paese sarà realizzato a Candela in Puglia e sarà gestito dalla cooperativa “ènostra”. Le caratteristiche del progetto, costi e i benefici per i soci finanziatori. Le modalità di partecipazione.


Aggregare il maggior numero di cittadini, imprese, associazioni, comunità attorno ad un progetto di energia rinnovabilie è un esempio di comunità energetica che potrebbe a breve vedere la luce anche in Italia.

Perché nel 2019 verrà realizzato il primo impianto eolico a proprietà diffusa nel nostro paese. Sarà gestito dalla cooperativa “ènostra”, un progetto che, sul modello di esperienze già avanzate in alcuni paesi del nord Europa, permette alle comunità locali di acquisire parte della proprietà degli impianti a fonti rinnovabili.

Il progetto ha l’obiettivo di svincolarsi dall’attuale mercato elettrico. Come ha spiegato ènostranel corso di una recente presentazione del progetto a Key Energy di Rimini, con questo progetto collettivo si vuole riuscire, tramite un apposito accordo con un trader (PPA in immissione e PPA in prelievo), a garantire una fornitura per il cliente finale a prezzo fisso, quindi indipendente dalle fluttuazioni del mercato per così dire “fossile”, e a prezzo di costo, affinché tutti i benefici del progetto siano ribaltati sul socio consumatore.

Come sappiamo oggi, invece, nell’attuale mercato elettrico quasi tutti i contratti di fornitura ad energia rinnovabile hanno un approccio diverso, sul modello appunto dell’energia fossile, con un prezzo variabile che viene definito in funzione della domanda e dell’offerta su un mercato ancora in gran parte basato sulle fonti tradizionali.

Il risultato è quello di un’energia rinnovabile al costo di un’energia fossile. Ma, come spiegano da ènostra, le fonti rinnovabili, oltre ad essere a emissioni zero, sono “gratuite” e il prezzo finale deve riflettere esclusivamente il costo necessario per coprire l’investimento e i costi della filiera.

Come si aderisce al progetto e con quali costi e benefici?

L’adesione è aperta a tutti: nuovi soci, soci cooperatori e/o sovventori. Richiede la sottoscrizione di capitale di sovvenzione del Fondo di sviluppo Tecnologico «Produzione Enostra» con le seguenti caratteristiche:
La durata minima del conferimento è di 10 anni.
L’importo dell’emissione è di 2.500.000 €.
L’importo minimo dei conferimenti è di 500 € a socio.

La remunerazione delle azioni di sovvenzione del “Fondo Produzione” verrà specificata nei prospetti informativi.

Per i sottoscrittori del Fondo si potranno proporre contratti di fornitura di energia elettrica a condizioni agevolate. Ad esempio un quantitativo di kWh a prezzo fisso per 10 anni che permette così di sganciarsi dal prezzo stabilito dal mercato elettrico.

Il valore della tariffa a prezzo fisso che sarà corrisposta dipenderà dall’entità delle sottoscrizioni da parte dei soci (più i soci contribuiscono alla realizzazione del progetto, più il prezzo potrà essere abbassato) e da specifici accordi con il dispacciatore.

La copertura dell’investimento è già in fase avanzata e l’impianto, che sarà situato a Candela, un’area in provincia di Foggia non vincolata, con un’Autorizzazione Unica di prossima chiusura, dovrebbe essere ultimato entro la seconda metà del 2019.


La potenza della turbina che sarà scelta è di 850 kW (una macchina da 2 MW depotenziata), con un’altezza di 90 metri e una producibilità di circa 3.000 MWh/anno, circa un terzo del fabbisogno dei soci della cooperativi forniti nel 2018. Il progetto dovrebbe partecipare al primo Registro del decreto Fer1 di prossima pubblicazione. Nella foto l’area dove verrà installata la turbina eolica.

Il coinvolgimento della popolazione e le istituzioni del territorio sarà il presupposto essenziale per la riuscita e la condivisione di questo progetto collettivo.

Per ènostra questa iniziativa dal basso significa anche un passaggio da cooperativa di utenza a cooperativa di produzione condivisa. I rappresentanti di ènostra hanno tenuto a ricordare nella loro presentazioni che un progetto come questo non ha scopo di lucro, perché per definizione una cooperativa deve sempre fare l’interesse del proprio socio e inoltre i soci della Cooperativa sono anche proprietari e azionisti del proprio fornitore di energia.

Vedremo nei prossimi mesi come evolverà questo progetto pioneristico di energia rinnovabili spinta dal basso.

Tutte le informazioni sul progetto eolico collettivo: ènostra

Il lavoro è la ricchezza di ogni Nazione - è dal 1992 che il corrotto Pd alternandosi con lo zombi Berlusconi ci ha propinato disoccupazione, precariato a vita, e abbassamento dei redditi, siamo stati un popolo più che paziente direi santo

IL RAPPORTO

Censis, sfiorita la ripresa economica gli italiani adesso si sono incattiviti
Presentato venerdì il cinquantaduesimo rapporto dell’Istituto con poche luci e molte ombre, abbiamo smarrito la fiducia e non riconosciamo più miti e divi. Boom dei single
7 dicembre 2018 (modifica il 7 dicembre 2018 | 13:47)


C’è una parola chiave che il Censis sceglie quando presenta il suo rapporto annuale. Quest’anno è: la cattiveria. E viene dopo il rancore del 2017. Ci rende cattivi l’economia che non decolla, il patto sociale che si è rotto, l’ascensore sociale che non funziona: meno di un italiano su 4 (il 23%) pensa di avere una situazione socio economica migliore di quella dei propri genitori. Di più: il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle con basso reddito sono convinte che la loro condizione non cambierà mai. Così come il 56,3% di tutti gli italiani pensa che le cose nel nostro Paese non sono affatto cambiate. Ed è difficile farle cambiare quando abbiamo smarrito anche i miti, gli eroi, forse anche i santi. Un italiano su due (il 49,5%) è convinto che chiunque può diventare famoso, basta internet, e dunque i modelli a cui ispirarsi non servono più.

Il «sovranismo psichico»

Al Censis adottano spesso frasi e perifrasi per descrivere la nostra situazione sociale, il nostro sentire anche politico. Quest’anno è la volta del «sovranismo psichico» usato per raccontare la nostra subordinazione mentale alla ricerca di un sovrano autoritario a cui chiedere stabilità. Questo sovranismo psichico è il risultato della cattiveria che gli italiani provano, un sentimento che si basa su un ascensore sociale che si è rotto o, forse, non ha mai funzionato.

Non crescono i salari

Forse basterebbe un solo dato a riassumere la crisi di un’Italia dove l’economia non soltanto non decolla ma è stagnante da davvero tropo tempo: in 17 anni il salario medio degli italiani è aumentato di 400 euro l’anno, che poi sarebbero 32 euro se calcolati su 13 mensilità. Un paragone con i vicini europei? In Francia nello stesso lasso di tempo si sono trovati oltre 6 mila euro in più l’anno, in Germania quasi 5 mila.

Pessimisti e ostili

È facile capire come tutto questo generi un pessimismo che si è strutturato negli anni. Il Censis ci dice che oggi più di un italiano su tre, il 35,6%, è pessimista perché scruta l’orizzonte con delusione e paura e soltanto il 33,1% ha un po’ di ottimismo. Facile capire anche come a fronte di tante difficoltà venga spontaneo cercare un capro espiatorio. C’è un’ostilità diffusa verso lo straniero nel nostro Paese: più di sei italiani su dieci (il 63%) la dichiarano apertamente, contro il 52% della media europea. Di più: in Italia il 45% è ostile anche verso gli immigrati comunitari, e quasi il 60% è convinto che tra dieci anni nel nostro Paese non ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse.

I politici tutti uguali

Siamo cattivi e disincantati, dunque. Non solo miti e santi, ma nemmeno i politici ci ispirano più: per il 49,5% degli italiani i politici sono semplicemente tutti uguali , ma questo purtroppo lo pensa il 73 dei giovani under 35. Del resto lo si vede nelle urne: in cinquant’anni, dal 1968 ad oggi, gli astensionisti si sono triplicati (passando dall’11,3% al 28,4%) e oggi sono un popolo di 13,7 milioni alla Camera e 12,6 milioni al Senato.

Un mondo di single

Ci si sposa sempre meno e ci si separa sempre di più. Insieme al patto sociale, l’Italia registra la rottura delle relazioni affettive stabili. Dal 2006 al 2016 i matrimoni sono diminuiti del 17,4% e le separazioni sono aumentate del 14%. Aumenta la «singletudine»: le persone sole non vedove negli ultimi dieci anni (dal 2007 al 2017) sono aumentate del 50% e oggi sono più di 5 milioni.

«Lavoro, lavoro, lavoro»

«Abbiamo visto sfiorire la ripresa e l’atteso cambiamento miracoloso non è stata una palingenesi», dice Massimiliano Valerii direttore generale del Censis, spiegando come l’Italia sia anche «orfana di una narrazione forte entro la quale costruire la nostra identità e radicare il nostro benessere». Oggi purtroppo prevalgono «una coscienza infelice, una speranza senza compimento». E Valerii si chiede: da dove e da cosa ripartire, per poi rispondersi, senza alcun dubbio: «lavoro, lavoro, lavoro».

Quando l'imbecillaggine diventa regola - Apple, Microsoft, Samsung tutte possono contenere elementi che minano la sicurezza di ogni Nazione. La verità è che Huawei produce sviluppo e si è evoluta più rapidamente di Apple e sul 5G è imbattibile e questo è inaccettabile per gli Stati Uniti e i suoi servi

IL CASO

Caso Huawei, perché gli Usa hanno paura della Cina (tra sicurezza e controllo globale)
Dietro le accuse e i duelli, lo scenario di una tecnologia 5G usata per scopi politici

(Reuters)

L’acuirsi dello scontro su Huawei alimenta i venti di guerre commerciali. Per i cinesi l’America ora prende ostaggi mentre le Borse, spaventate, arretrano ovunque. Ma dietro le accuse Usa al gruppo asiatico di aver violato l’embargo all’Iran e i tentativi di convincere i governi amici a non usare più tecnologia cinese Huawei e ZTE nelle loro reti di telecomunicazione, c’è ben più di una rappresaglia economica o politica.

Guerre commerciali e e sicurezza nazionale

Stavolta un grosso peso lo hanno davvero le questioni di sicurezza: nel mondo digitale tutto ciò che è gestito elettronicamente è esposto a spionaggio e sabotaggi informatici. Che possono addirittura partire dall’interno dei propri sistemi se qualche componente viene da industrie di un Paese avversario. Huawei afferma di non aver mai spiato né sabotato. È possibile, ma il gruppo è, comunque, sotto l’influenza del governo di Pechino. Le aziende cinesi, anche quelle private, devono rispondere al Partito comunista. E il PCC ha più volte usato la mano pensante contro i governi che provano a ostacolare l’espansione della Cina o anche solo le sue politiche nei confronti delle minoranze. Basti pensare alle minacce (a volte accompagnate da rappresaglie commerciali) contro i Paesi che hanno ricevuto il Dalai Lama o hanno contrastato le pretese territoriali di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

L’allarme di Obama

Non sono dispute iniziate con Trump: gli Usa hanno smesso di comprare sistemi di telecomunicazione cinesi dal 2012, quando la minaccia per la sicurezza nazionale venne denunciata dall’Amministrazione di Barack Obama. Né sono problemi che allarmano solo gli Usa: dopo Australia e Nuova Zelanda, anche la Gran Bretagna ha deciso di chiudere la porta alla tecnologia Huawei. Certo, sono i Paesi più vicini a Washington per rapporti di intelligence e politiche per la sicurezza, ma l’allarme non è nuovo. Già cinque anni fa i servizi segreti britannici avvertirono il governo di Londra che l’uso di componenti di un Paese potenzialmente avversario nei suoi sistemi di tlc era molto pericoloso.

La nuova sfida delle reti

Secondo molti esperti, peraltro, individuare un chip alterato a fini di intelligence in apparati di rete complessi è come cercare un ago in un pagliaio: il fatto che non siano stati denunciati fin qui casi di sabotaggi non esclude che in questi sistemi ci siano spie «dormienti». Huawei vende in Occidente non solo telefonini, ma anche centralini, router e altri sistemi di trasmissione. Anno dopo anno, ha conquistato interi mercati. In Italia, ad esempio, c’è tecnologia Huawei in tutti i 16 mila uffici postali. Ora stiamo entrando nel mondo 5G: le reti di quinta generazione, ancora più integrate e vulnerabili che governeranno tutto, dai letti degli ospedali alle auto senza pilota. In un mondo sempre più informatizzato nel quale sensori e intelligenza artificiali saranno ubiqui, il problema si pone, insomma, in modo più grave e urgente.

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Usa-Cina: il volto digitale del duello

Oltre a quelle di sicurezza, sull’irrigidimento Usa nei confronti di Huawei e ZTE probabilmente pesano anche considerazioni politiche ed economiche. È possibile che Trump, duro sul piano commerciale tanto con gli avversari quanto con gli alleati, voglia colpire in modo particolare aziende che hanno copiato per anni, indisturbate, le tecnologie Usa. Ma nel tentativo di evitare che la Cina diventi il leader planetario nelle tecnologie più avanzate c’è una sfida di civiltà, prima ancora di una disputa sul trade: Pechino sta già sperimentando modelli di controllo dell’intera società basati su sistemi di big data e di intelligenza artificiale capaci di analizzare i comportamenti sociali (e politici) di ogni cittadino distribuendo premi e punizioni. E ora punta addirittura a diventare la potenza mondiale dominante attraverso una rivoluzionaria fusione dell’intelligenza delle macchine con la manipolazione genetica.

6 dicembre 2018 (modifica il 7 dicembre 2018 | 09:05)

Immigrazione di Rimpiazzo - gli euroimbecilli non si riescono a mettere d'accordo e la responsabilità è di Salvini, vivono in un mondo tutto loro. Continua la paraculaggine di portare avanti piccoli passetti senza inserimento in un contesto più organico lasciando indietro le decisioni che pesano. In questo modo non vanno, non si va da nessuna parte

Lite su Frontex, quote e asilo. Migranti, l’Ue torna all’anno zero
Nessuna intesa sulla modifica delle regole. Un ambasciatore: a Salvini questo stallo conviene

ANSA
La manifestazione di ieri dei migranti e movimenti antirazzisti contrari al Decreto legge Sicurezza davanti alla questura di Napoli

Pubblicato il 07/12/2018
MARCO BRESOLIN
INVIATO A BRUXELLES

Non c’è intesa sul potenziamento di Frontex. Non c’è intesa sulla riforma dell’asilo. Non c’è intesa sul rinnovo del mandato dell’operazione Sophia. Non c’è intesa nemmeno sulle soluzioni-ponte per redistribuire su base volontaria i migranti sbarcati sulle coste europee. E l’ipotesi delle quote immigratorie sembra ormai tramontata definitivamente. Sulla gestione dell’immigrazione l’Ue è all’anno zero. Si va dunque avanti con le regole attuali, quelle che l’Italia contesta perché lasciano sulle coste dello Stivale tutto il peso dei flussi che arrivano dal Mediterraneo Centrale.

«Abbiamo come l’impressione che Matteo Salvini non abbia alcun interesse a risolvere la questione. Evidentemente considera che questa situazione di stallo sia molto più conveniente elettoralmente». È l’ambasciatore di un importante Paese europeo a sfogarsi con questa riflessione al termine del Consiglio Affari interni, terminato con l’ennesimo nulla di fatto. Alla delicata e tesa riunione di ieri non c’era il ministro dell’Interno a rappresentare l’Italia, ma il suo sottosegretario Nicola Molteni. Spetterà ora al premier Giuseppe Conte affrontare il nodo al tavolo del Consiglio europeo in agenda giovedì prossimo.

Liti sulle missioni

Ieri mattina i ministri hanno cercato di trovare un compromesso sul potenziamento di Frontex, ma non è stato possibile fare grandi progressi. Il Consiglio ha raggiunto soltanto un’intesa parziale per dare alla nuova Guardia Costiera e di Frontiera Ue un maggior ruolo sul fronte dei rimpatri e nella collaborazione con i Paesi extra-Ue. Ma restano due grandi nodi irrisolti. Da un lato non c’è accordo sulle tempistiche per il potenziamento delle pattuglie Frontex, dall’altro permangono i dubbi sull’ampliamento del mandato, che per alcuni Paesi pone un conflitto in termini di sovranità. L’Italia è tra i Paesi più critici su questo fronte.

La Commissione aveva proposto di portare a diecimila il numero degli agenti già entro il 2020, ma l’Austria - presidente di turno dell’Ue - ha definito «irrealizzabile» questo obiettivo: «Non prima del 2027», dice il ministro dell’Interno, Herbert Kickl. La Germania propone di arrivarci nel 2025. Ma una sintesi non c’è.

La riforma di Dublino

Stesso discorso per la riforma del diritto d’asilo, che comprende sette diverse proposte legislative. La Commissione preme per andare avanti con le cinque su cui c’è l’accordo e lasciare in sospeso i due più divisivi, tra cui la riforma di Dublino. Francia e Germania hanno spinto in questa direzione, ma l’Italia insiste nel dire «no» allo spacchettamento. In questa battaglia ha trovato la sponda dei Paesi del Sud, come Malta, Spagna, Grecia e Cipro. A cui si sono aggiunte - con motivazioni opposte - Polonia e Ungheria. Il blocco di Paesi contrari alla redistribuzione obbligatoria, però, non ha alcuna intenzione di mollare. E la stessa Commissione ha ammesso che «la discussione sulle quote obbligatorie è ormai esaurita».

Dimitris Avramopoulos ha insistito sulla necessità di trovare «soluzioni-ponte» attraverso accordi temporanei. L’Austria ha fatto circolare un piano che prevede interventi mirati su base regionale e ricollocamenti solo su base volontaria, anche in casi di forti flussi migratori. Non ha riscosso grande successo.

Oggi il Comitato politico e di sicurezza affronterà invece la grana Sophia. Non c’è un’intesa sulla revisione del mandato (che prevede gli sbarchi solo in Italia), in scadenza il prossimo 31 dicembre. Il Servizio per l’azione esterna dell’Ue vuole una proroga tecnica di sei mesi per poter continuare i negoziati, ma Salvini ha già minacciato lo stop all’operazione. Uno scenario che a questo punto non è da escludere.

Enasarco - il privato è più efficiente del pubblico, dipende

L'Enasarco è la cassa di previdenza integrativa di agenti e rappresentanti. Pur essendo integrativa, l'iscrizione e il versamento dei contributi sono obbligatori.

06/12/2018
di Redazione AdvisorHIGHLIGHTS

È il momento di prendere atto della gravità della situazione e dei rischi di sostenibilità della Fondazione.LA NEWS


L’attuale governance di Enasarco ha fallito. Ora serve un cambiamento. È questo il messaggio trasmesso lo scorso 4 dicembre dai consiglieri di Enasarco Nino Marcianò, Presidente di Fiarc, Luca Gaburro, Segretario Generale Federagenti, Davide Ricci, membro di Federagenti, Gianni Triolo, membro di Confesercenti, ed Alfonsino Mei, membro di Anasf, nel corso di una conferenza stampa svoltasi presso il Centro Congressi Cavour di Roma.

“Vogliamo rendere pubblico il nostro malcontento sull’attuale governance dell’Enasarco, abbiamo dichiarato il nostro voto contrario al budget 2019, potrebbero verificarsi segnali di disequilibrio per la Cassa. Avvieremo un percorso condiviso in vista delle prossime elezioni Enasarco a tutela delle pensioni di categoria e per risolvere diversi e seri problemi”, ha affermato Luca Gaburro, Segretario Generale Federagenti nel chiarire i motivi di una conferenza stampa nata per sottolineare come le elezioni Enasarco 2016 non abbiano portato al cambiamento organizzativo auspicato dagli iscritti e dai rappresentanti degli operatori. Secondo i fautori della conferenza stampa la nuova gestione Enasarco si è rivelata inefficace nel risolvere i problemi strutturali della Fondazione relativi al settore immobiliare, all’area Finanza e alla razionalizzazione delle spese; così come ha fallito nella tutela delle categorie rappresentate e nella trasparenza decisionale nella governance delle risorse disponibili.

“Le questioni centrali di Enasarco non sono state affrontate e sono dunque peggiorate, a partire dalla gestione immobiliare e finanziaria. E la prima pesa per il 40%, con un rendimento negativo. E’ necessaria più trasparenza nei processi decisionali, soprattutto per il bilancio. Ma anche procedere a una riorganizzazione della struttura, anche per valorizzare le risorse del personale. Le nostre richieste però, sono rimaste inascoltate”, ha ribadito con forza Gianni Triolo, consigliere in quota Confesercenti. Gli ha fatto eco Antonino Marcianò, consigliere e Presidente nazionale di Fiarc: “Abbiamo tentato di sollecitare più volte il cambiamento, senza successo. Noi non vogliamo chiudere Enasarco, noi vogliamo governarlo in maniera efficiente, renderlo una Fondazione solida e strutturata per svolgere al meglio la sua funzione a servizio degli iscritti. Per questo siamo qui insieme, per perseguire una strategia di discontinuità che punti ad avviare un cambiamento epocale e reale di Enasarco”.

La risposta della Fondazione non si è fatta attendere e nella giornata di oggi, giovedì 6 dicembre, Enasarco, tramite una nota ufficiale, ha affermato che il progetto di budget non evidenzia alcun saldo previdenziale negativo al 2021, precisando che: "allo stato attuale i contributi previdenziali al netto delle prestazioni erogate di pari natura presentano un saldo attivo pari a circa 40 milioni di euro, mentre il saldo assistenza che, come noto, contribuisce alla sostenibilità previdenziale, evidenzia un +140 milioni di euro circa". "Dagli studi attuariali in corso - si legge inoltre nella nota di Enasarco- sempre in tema di sostenibilità, non emergono elementi significativi riferibili all'anno 2021.

venerdì 7 dicembre 2018

Salvini disarmante nella sua ignoranza, che cosa è la democrazia per lui?

Salvini: la Cina fa concorrenza sleale a Italia, Usa ed Europa
Per il vice premier la Cina sta combattendo ad armi impari con strumenti che Italia, Stati Uniti e Unione europea non possono usare, comprandosi mezza Africa per svuotarla di ricchezze


Senza "commentare l'indagine" sulla responsabile finanziaria di Huawei fermata in Canada, il vicepremier, Matteo Salvini, intervistato a Radio anch'io (Rai1), ha detto che la Cina è "una realtà, sicuramente non una democrazia, che fa concorrenza sleale con i suoi prodotti partendo da un piano di vantaggio nei confronti delle imprese italiane e di tutto il mondo" e "sta combattendo ad armi impari" con "strumenti che Italia, Stati Uniti e Unione europea non possono usare, comprandosi mezza Africa per svuotarla di ricchezze, e domani sarà un problema nostro e non cinese, perché dall'Africa arrivano in Italia non in Cina". Bisogna, per questo, "cambiare le regole commercio" e "ridiscutere" la globalizzazione.

I giornalisti giornaloni Tv hanno sempre sostenuto che i contributi all'editoria erano stati tolti e ora si disperano e protestano. Una cosa è certa devono fare pace con se stessi

POLITICA
06/12/2018 19:57 CET | Aggiornato 06/12/2018 19:57 CET

Luigi Di Maio: "Taglio all'editoria sarà graduale, zero fondi nel 2022"

Fnsi e Odg protestano: "Il Movimento 5 stelle vuole colpire il pluralismo"

ASSOCIATED PRESS

"Faremo un taglio graduale all'editoria, nostra grande battaglia. Si farà un primo taglio del 25% nel 2019 di fondi per l'editoria, il 50% nel 2020 e il 75% nel 2021. Fino a che nel 2022 non ci saranno più fondi per l'editoria, in modo tale che tutti i giornali possano stare sul mercato e non godere più di concorrenza sleale da alcuni giornali che prendono invece soldi pubblici". Lo annuncia il vicepremier Luigi Di Maio come esito del vertice di governo sulla manovra, parlando all'uscita da Palazzo Chigi. L'emendamento sarà presentato "al Senato".

Fnsi-Odg: "M5s vuole colpire il pluralismo". "Il trionfalismo con cui il vicepremier Luigi Di Maio e il sottosegretario con delega all'Editoria, Vito Crimi, annunciano il taglio del fondo per l'editoria sono l'ennesima conferma della volontà del Movimento 5 Stelle di colpire l'informazione". Lo affermano, in una nota, Federazione nazionale della Stampa italiana e Ordine dei giornalisti.

"Di Maio e Crimi hanno gettato la maschera: vogliono ridurre le voci, indebolire il pluralismo, nell'illusione di cancellare le voci critiche e manipolare il consenso dei cittadini - proseguono Fnsi e Odg -. L'unico risultato di questa operazione sarà la chiusura di alcuni giornali e la perdita di numerosi posti di lavoro. In questo scenario diventa sempre più chiara la portata strumentale e propagandistica del tentativo del vicepremier Di Maio di discutere di lavoro precario con Fnsi e Ordine. Non si può discutere di lotta al precariato con chi, con i suoi provvedimenti, creerà altri precari. Una ragione in più per rispondere alla convocazione del ministro con un'assemblea davanti alla sede del Mise, lunedì prossimo, 10 dicembre, a partire dalle 11".

Derivati - l'ultima notizia era un valore di 700 mila miliardi, dopo un lungo silenzio ora si parla che sono 2,2 milioni di valore nozionale

DATI R&S-MEDIOBANCA
Banche, allarme derivati: valgono 33 volte il Pil mondiale

06 dicembre 2018

(AdobeStock)

Il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mondiale potrebbe sfiorare la strabiliante cifra di 2,2 milioni di miliardi di euro, vale a dire 33 volte il Pil mondiale e quattro volte tanto quello che si pensava finora, amplificando in modo allarmante il rischio sistemico di prodotti per loro natura interconnessi. Rischio che ancora sfugge in gran parte ai tentativi di controllarlo. Basti pensare che la stessa regolamentazione di vigilanza bancaria è tuttora concentrata più sui rischi di credito tradizionali che sui rischi connessi all’innovazione finanziaria che - vedi il caso dei mutui subprime Usa - hanno dimostrato di essere in grado di seminare recessione sul scala globale.

Fino a ottobre la mappa del rischio-derivati era spiegata all’80% dall’attività delle prime 55 banche dei tre blocchi Europa-Usa-Giappone, come risulta dal data base di R&S-Mediobanca. Gli unici dati “ufficiali” sull’entità del fenomeno erano quelli raccolti dalla Banca dei regolamenti internazionali tra 70 grandi dealer (principalmente le banche centrali), che segnalavano a fine 2017 532mila miliardi di dollari di derivati Otc e 90mila miliardi trattati sui mercati regolamentati per un totale di 622mila miliardi di dollari, pari a poco meno di 550mila miliardi di euro. La prima indagine annuale dell’Esma, pubblicata il 18 ottobre scorso, ha però evidenziato che nei soli 28 Paesi Ue l’entità delle transazioni in derivati è superiore a quanto ipotizzato: 660 trilioni di euro (660mila miliardi) a fine 2017. Se è corretta l'assunzione della Bri secondo la quale i derivati trattati sui mercati europei rappresenterebbero meno di un quarto dei derivati di tutto il mondo, ciò significa che l’ammontare effettivo - se censito con metodi più capillari – potrebbe sfiorare appunto i 2,2 milioni di miliardi di euro.

LA FOTOGRAFIA DEI DERIVATI 
Valore nominale derivati. Anno 2017. In miliardi di euro (Nota: Per Commerzbank ultimo valore 2015; Fonte: R&S Mediobanca)


La maggior concentrazione resta appannaggio delle banche europee. Dai dati R&S-Mediobanca risulta infatti che a fine 2017 alle prime 27 banche continentali facevano capo derivati per un valore nozionale di ben 283mila miliardi, pari al 42% dei derivati Ue quantificati dall’Esma. Prese singolarmente, la sola Deutsche Bank (48,26 trilioni) e la sola Barclays (40,48 trilioni) hanno molti più derivati di tutte le principali banche giapponesi messe assieme (32,44 trilioni).

Aggiungendo anche i derivati della terza banca europea più attiva - i 24,53 trilioni del Credit Suisse - si arriva a un importo di 113,3 trilioni, superiore a quello delle prime 14 banche Usa, che, tutte insieme, arrivano a 112,75 trilioni.

La prima banca Usa per ammontare di derivati è JPMorgan con 40,34 trilioni di euro, seguita da Citigroup con 38,4 e Bank of America con 25,57.

Tra le 27 big del credito europeo rientrano anche Intesa (2,94 trilioni di derivati) e UniCredit (2,5 trilioni), che sono però ben lontane dai livelli del top continentale.