L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

martedì 31 dicembre 2019

NoTav - l'infamia di uno stato rancoroso e vendicativo

post — 31 Dicembre 2019 at 18:18


L’arresto di Nicoletta ha qualcosa di più infame e più dirompente degli altri arresti che abbiamo subito.

Di più infame ha che la Procura ha scelto il 30 di dicembre per fare un dispetto, una cosa da ragazzini, per rendere giorni di festa amara ai notav ma soprattutto a Nicoletta.

Di più infame ha che arrestare Nicoletta, donna di 73 anni dimostra quanto cieco e sordo sia il potere, e pure ingiusto, ma questo lo sappiamo molto bene, ed ogni volta non manca di ribardircelo.

Non dimentichiamoci mai che Nicoletta è stata arrestata per scontare una pena definitiva di un anno, basata tutta sul concorso morale per un’iniziativa di protesta avvenuta in seguito alla caduta di Luca dal traliccio in Val Clarea. Presidio in autostrada senza interruzione del traffico, dove per qualche minuto le barriere del pedaggio sono rimaste alzate e gli automobilisti sono passati senza pagare, perché all’epoca pagava Monti, presidente del Consiglio.

Di infame tra le altre ha ancora la dinamica e le considerazioni della procura che parla di “norme applicate con rigore”…certo infatti non sono solo le norme il problema ma l’interpretazione che ne viene data, infatti arrivare ad un anno di condanna (alcuni due addirittura) per persone che tenevano uno striscione o sostavano in autostrada è il problema primario, che rispecchia la disinvoltura con cui a Torino si chiedono e si applicano le condanne nei confronti dei e delle notav.

Di dirompente invece ha che è proprio perché hanno arrestato Nicoletta, donna notav di 73 anni dimostra quanto la sfida lanciata da tempo da Nicoletta verso tutto il sistema (è da tempo recidiva nelle evasioni agli arresti imposti) sia forte, fastidiosa e vincente.

In questi anni le scelte di Nicoletta hanno messo in difficoltà i procuratori generali, da Spataro in poi, che si sono mossi in ogni occasione goffamente per rispondere ad evasioni e rifiuti di misure applicate.

Di dirompente c’è Nicoletta, che rappresenta con la sua forza e il suo coraggio tutto il movimento notav, che ormai è un movimento di pluripregiudicati, orgogliosi però, perché consapevoli di essere dalla parte del giusto e non dalla parte della legge, perché quella difende gli interessi di chi vuole il Tav, che semplificando al massimo, sono solo più politici e mafiosi.

Si badi bene, non ci serve ribadire l’età di Nicoletta per far intenerire qualcuno! Anzi ci serve per dire quello che siamo: dai minorenni ai pensionati, un movimento che lotta testardamente e non si arresta nemmeno di fronte alle patrie galere!

La solidarietà esplosa dopo l’arresto di Nicoletta ci riempie di gioia e vogliamo impegnarci in ogni modo per trasmetterla a lei, a Giorgio, a Mattia, a Luca e a tutti gli altri e le altre notav alle prese con restrizioni della libertà in ogni modo.

Vogliamo farlo nel modo che conosciamo meglio, quello della lotta, perché qui da noi si parte e si torna insieme, sempre!

Il segnale è forte e chiaro come la tempistica

Iran, sequestrata petroliera nel Golfo

Media Teheran, per contrabbando. Fermati 16 membri equipaggio


Redazione ANSAROMA
30 dicembre 201921:50NEWS

(ANSA) - ROMA, 30 DIC - Le Guardie Rivoluzionarie dell'Iran hanno reso noto oggi di aver sequestrato una petroliera nel Golfo Persico, vicino all'isola di Abu Musa. Lo riporta l'Anadolu, citando la tv di Stato iraniana.
Il cargo sarebbe stato fermato con l'accusa di "traffico di 1,3 milioni di litri di carburante". I media locali riferiscono anche dell'arresto di 16 malaysiani dell'equipaggio. Abu Musa è una delle tre isole del Golfo che sono sotto il controllo iraniano ma rivendicate dagli Emirati Arabi Uniti.
Secondo le Guardie Rivoluzionarie, si tratta della sesta nave confiscata per contrabbando di carburante.
Sullo stretto di Hormuz, dove transita gran parte del traffico mondiale di greggio, la tensione è stata alta negli ultimi mesi, con ripetuti attacchi alle navi che gli Usa hanno attributo all'Iran per destabilizzare l'area. Il 19 luglio l'Iran era arrivato ai ferri corti con il Regno Unito, per avere sequestrato la petroliera battente bandiera britannica Stena Impero, accusata di aver colpito un peschereccio

NoTav - è palesemente un'opera ideologica per distribuire prebende

Tav: Grimaldi (Luv), ‘arresto Dosio farebbe ridere se fosse film’

di AdnKronos
30 DICEMBRE 2019

Torino, 30 dic. - (Adnkronos) - "Continua l’accanimento contro contestatori No Tav". A sottolinearlo in una nota, il capogruppo di Luv in Consiglio regionale, Marco Grimaldi che auspica che "Nicoletta Dosio venga rilasciata al più presto".

"Perquisizioni, arresti, divieti di dimora nei comuni della Valle e obblighi di firma per le marce simboliche al cantiere", continua Grimaldi che aggiunge: "fatemi dire che arrestare una 73enne, per disobbedienza civile, per aver prima occupato simbolicamente l’autostrada e in seguito non aver rispettato obbligo di dimora, farebbe ridere se fosse un film".

In Euroimbecilandia si fanno regole precipue per continuare lo strangolamento dell'economia italiana e i nostri politici tutti dalla Lega al M5S al Pd sono proni e servi non hanno nessuna intenzione di proteggere gli Interessi Nazionali

Uscire dal vortice dell’Unione Europea

Maurizio Blondet 31 Dicembre 2019 

di Guido Salerno Aletta – Milano Finanza

C’è dell’eroismo misconosciuto nel comportamento degli Italiani, cittadini ed imprese, colpevolizzati e bistrattati ad ogni passo. E’ una sorta di cecità rispetto a quel che sta accadendo nel mondo, in Europa ed a casa nostra. Ad una realtà estremamente complessa, per via dei fenomeni divaricanti che la caratterizzano, seguono analisi parziali e ricette viziate da strabismo, se non schizofreniche.

Cominciamo dalla competitività internazionale dell’Italia. L’export continua a macinare record, arrivando nei primi dieci mesi dell’anno ad un attivo di oltre 43 miliardi di euro, che sale a 76 miliardi calcolandolo al netto della bolletta petrolifera. La posizione finanziaria netta (NIIP) è ormai in pareggio: non siamo più prenditori di capitali, ma esportatori, con ben esiguo profitto per la crescita interna. Investiamo all’estero da cui traiamo rendite consistenti con un saldo positivo anche per i redditi primari della bilancia dei pagamenti correnti.

La crescita dell’export italiano deriva dai mercati esterni all’Unione europea, con picchi di incremento negli Usa e Svizzera, seguiti a distanza da Francia e Gran Bretagna, mentre l’OPEC collassa e cede la Germania. Si paga il traino pluriennale come fornitori di manifattura rispetto al settore automobilistico tedesco, che non avrà facile ripresa.

Di converso, cala l’import dell’Italia, un fenomeno che ha pochi precedenti se non in momenti di profonda crisi. E’ la domanda interna che non regge più, per via delle continue politiche fiscali e salariali restrittive. In un anno, le importazioni sono calate del 5,8%.

Le famiglie tendono a risparmiare, a rinviare ogni spesa non strettamente necessaria, abbandonando anche la manutenzione degli immobili, spesso lascati andare in rovina quando richiederebbero interventi straordinari. Nel settore immobiliare, la tassazione patrimoniale sulle seconde case ha ottenuto ben poche entrate fiscali, a fronte di un abbattimento del valore e dell’azzeramento della funzione di garanzia a fronte di prestiti bancari. La persistente richiesta della Commissione europea e del Fmi di reintrodurre l’Imu anche sulla prima casa dimostra l’incapacità di cogliere le relazioni sistemiche.

Come se non bastasse, si registra una caduta della variazione tendenziale anche prezzi all’importazione, del 3,8%, pilotata dalla componente energetica. Nell’Unione europea, la politica fiscale persegue obiettivi contrastanti rispetto a quelli della politica monetaria: mentre i vincoli del Fiscal Compact comportano che il tasso di disoccupazione debba essere mantenuto ad un livello elevato al fine di scoraggiare una pressione inflazionistica dei salari, la Bce continua ad ipotizzare con sempre minore convinzione un aumento annuo dei prezzi al 2%. Quando i prezzi all’importazione calano, la politica fiscale e salariale rimane restrittiva, è già un miracolo che non si ricada in deflazione.

Per quanto riguarda il credito alle imprese italiane, nel silenzio generale continua lo strangolamento: tra il 2011 e l’agosto scorso la contrazione è stata di 260 miliardi di euro, pari al 15% dello stock iniziale. Ad ottobre scorso, rispetto alla fine del 2017, la riduzione è stata di 84 miliardi di euro; in soli dieci mesi, rispetto alla fine del 2018, è stata di 46 miliardi di euro, pari a 3 punti di pil. Sono dati irrilevanti nel dibattito generale.

L’economia reale, intanto, continua a finanziare la rendita, attraverso il pagamento degli interessi sul debito pubblico che vengono accollati alla tassazione. Il saldo primario di bilancio pubblico rappresenta ormai da decenni un fattore recessivo: nel 2020, secondo il Nadef presentato lo scorso 30 settembre, il rapporto deficit/pil sarà del 2,2%, il peso degli interessi del 3,3% ed il saldo primario dell’1,1%. Negli anni scorsi, il rapporto interessi/pil è caduto di mezzo punto percentuale, passando dal 3,8% del 2017 al 3,3% del 2020. Il saldo primario si è contratto di quattro decimi di punto passando dall’1,5% del 2018 all’1,1% del 2020.

Il risanamento del debito pubblico attraverso l’aumento del saldo primario, che è stato teorizzato sin dal 1992, è una ricetta usurata
che va completamente ripensata. 
Per azzerare il deficit del 2020, pari al 2,2% del pil, si dovrebbe incrementare dello stesso ammontare il saldo primario, portandolo dall’1,1% al 3,4% . Gli effetti sul pil sarebbero disastrosi, facendoci tornare in recessione: il rapporto debito/pil peggiorerebbe per via della caduta del denominatore della frazione, come è già accaduto dal 2012. Una cura che uccide il malato, dopo averlo dissanguato da decenni.

Occorre un meccanismo di riequilibrio: così come viene imposto il criterio della severa condizionalità per gli Stati che chiedono aiuti, è indispensabile che quelli che seguono i criteri di convergenza si vedano riconosciuta la giusta premialità attraverso l’azzeramento dello spread: questo è il Qe che serve. L’Italia, facendo il paragone con l’onere per interessi pagato dalla Francia che ha un volume di debito praticamente identico, risparmierebbe 20 miliardi di euro l’anno. Si arriverebbe al sostanziale abbattimento del deficit, che dipende solo ed esclusivamente dal maggior costo del debito.

Neppure più soddisfacente sembra essere alla prova dei fatti la strategia normativa seguita in Europa per evitare l’azzardo morale nella gestione bancaria. Non è mai stato considerato neppure plausibile l’obiettivo di evitare aggregazioni bancarie eccessivamente ampie, quelle che in passato avevano garantito una indiretta protezione per via del fatto di essere too big to fail, in quanto il confronto con i giganti americani e cinesi avrebbe svantaggiato in partenza i competitor europei. Neppure lontanamente è stata ravvisata la possibilità di introdurre limiti al trading in proprio ed alle attività finanziarie rispetto al credito, attraverso una sorta di Volker Rule. Si è optato sin dal 2013 per il bail-in: da una parte, è stato introdotto il divieto di aiuti di Stato al sistema bancario, e dall’altra il sistema di risoluzione unificato (BRRD), che accolla il costo del fallimento bancario agli azionisti, agli obbligazionisti ed ai depositanti per le somme ulteriori rispetto ai 100 mila euro.

La riforma del MES costituisce una rete di garanzia a favore del Fondo di Risoluzione bancaria: il bail- out, cacciato dalla finestra, rientra dal portone principale: d’altra parte, una dotazione complessiva nell’Eurozona di 55 miliardi di euro, all’orizzonte degli otto anni dalla sua attivazione, è una inezia.

In Italia, l’esperienza brevissima della direttiva BRRD ha già dimostrato la insufficienza dei due Fondi apprestati al fine garantire da una parte la risoluzione ordinata (FRB) e dall’altra tutela dei depositi (FITD). Nel novembre 2015, nel caso della risoluzione delle quattro banche locali (Banca Marche, Popolare Etruria, CaRiFerrara e CaRiChieti). il FRB si è subito dimostrato incapiente, ed ha dovuto finanziarsi sul mercato per 4 miliardi, prima di essere rimpinguato con contribuzioni straordinarie. Nel caso delle Banche Venete, dopo un generoso tentativo fatto con il Fondo Atlante che ha invano proceduto ad una loro ricapitalizzazione, è stato indispensabile procedere con l’intervento finanziario dello Stato al fine di corrispondere alle consistenti richieste formulate dal cessionario della parte in bonis e di accollarsi la gestione delle partite deteriorate che solo nel lungo termine potranno essere recuperate.

Nel caso della Banca Popolare di Bari, di questi giorni, la Banca d’Italia ha escluso recisamente la possibilità di procedere alla risoluzione tout-court, ipotizzando un costo di circa 4,5 miliardi di euro a carico del FITD, che presenta una disponibilità di appena 1,7 miliardi. La cessione di attività e passività sarebbe comunque impossibile (per carenza di controparti interessate) senza un “consistente aiuto di Stato a fondo perduto, al fine di coprire lo sbilancio di cessione e, in funzione delle richieste del cessionario, anche gli oneri di riorganizzazione, il fabbisogno di capitale a fronte degli assorbimenti patrimoniali da parte delle attività acquisite, secondo lo schema della liquidazione delle banche venete”. Ci rimettono solo gli azionisti e gli obbligazionisti della Popolare, probabilmente vittime di un ennesimo caso di miselling.

C’è dell’altro: la decisione di penalizzare le obbligazioni bancarie subordinate, nel caso di bail-in, ha indotto i depositanti italiani a trattenere i propri depositi in forma liquida, a vista. Ciò comporta una maggiore difficoltà da parte delle banche di operare la trasformazione delle scadenze e la necessità di acquisire in contropartita asset altrettanto liquidi come i titoli Stato o di accrescere le riserve libere presso la Bce. La decisione di penalizzare queste ultime detenzioni applicando un tasso negativo, per quanto ora parzialmente mitigata, riduce i margini di intermediazione. Anche qui, si è creata una morsa: i depositi presso la Bce, pur essendo risk free per definizione come lo sono i titoli di Stato, comportano margini negativi mentre i secondi producono rendimenti. Ma l’immissione di liquidità con il Qe ha reso negativi anche questi impieghi, in alcuni casi per tutto l’arco delle scadenze. Un riequilibrio al ribasso che scassa i conti delle banche.

Considerando il solo profilo degli impieghi bancari, la ipotesi di attribuire ai titoli di Stato un gradiente di rischio comporterebbe conseguenze drammatiche: per mantenerli in portafoglio occorrerebbe procedere ad aumenti di capitale, oppure ridurre il credito ai privati.

Per quanto riguarda il funzionamento dell’Unione economica e monetaria, per il momento è tutto. C’è davvero del metodo, in questa follia.


Moneta Complementare emissione di Titoli di Sconto Fiscale per gli investimenti necessari. Ma ne Salvini prima ne il M5S prima e adesso ne il Pd hanno intenzione di farlo, il loro progetto è quello di essere succubi del Progetto Criminale dell'Euro e di essere accettati in Euroimbecilandia

Non solo Popolare di Bari

Intervento dello Stato e moneta pubblica per rilanciare l’economia

di Enrico Grazzini
28 dicembre 2019


La brutta storia della Banca Popolare di Bari dice chiaramente che 
le banche sono “troppo importanti per essere lasciate in mano ai banchieri”. 
Le indagini giudiziarie sono in corso, ma lo stato è ancora una volta dovuto intervenire per salvare i risparmiatori. Lo stato però non dovrebbe essere costretto a salvare d’urgenza le banche in pericolo con improvvisi decreti notturni spendendo i soldi dei contribuenti: dovrebbe innanzitutto avere una sua autonoma potestà monetaria, un potere monetario almeno pari a quello degli istituti privati di credito. Il caso della banca di Bari è tutto meno che isolato: la crisi riguarda e ha riguardato anche il Monte dei Paschi di Siena, la Banca Carige, o nel recente passato, la Banca del Veneto, o quella di Vicenza, ecc, ecc, ecc. Il problema non è solo che la Banca d’Italia di Ignazio Visco forse ha commesso qualche errore e qualche distrazione di troppo! O che le regole dell’Unione Bancaria e dell’Unione Europea – a favore del bail in e contro l’intervento pubblico, considerato aiuto di stato che distorce la competizione - hanno aggravato pesantemente la crisi bancaria italiana invece di risolverla. 
Il problema strutturale è che, se lo stato non ha nessun potere monetario, allora il bilancio statale, l’economia italiana e gli investimenti pubblici sono bloccati, 
e che tutta l’economia nazionale – non solo le banche, ma anche le industrie, vedi i casi Ilva, Alitalia, Whirpool, AST, ecc. – è ferma ed è sempre sull’orlo del collasso. La questione è strutturale: lo stato dovrebbe potere intervenire sia in campo bancario che più in generale nell’economia con le sue banche pubbliche e con una sua (quasi)moneta per sviluppare l’economia italiana, svoltare e finalmente portarla fuori dalla crisi.

E questo è già attualmente possibile, anche emettendo titoli fiscali convertibili in euro nel pieno rispetto delle regole e dei vincoli dell’eurozona e dell’Unione Europea. Il governo dovrebbe prendere urgentemente tutti i provvedimenti per risolvere la questione dell’autonomia monetaria e del credito alle imprese.

Il problema delle banche italiane deriva dalla profonda crisi economica nazionale; ma la crisi è anche e soprattutto sistemica. La crisi dei subprime ha mostrato che il sistema bancario e finanziario privato ha fatto fallimento negli USA, in Gran Bretagna, in Germania e in tutto il mondo occidentale. 
La crisi globale ha ampiamente dimostrato che il sistema del credito e della finanza lasciato a sé stesso genera speculazione, e che il libero mercato del credito è destinato strutturalmente a provocare crisi e debito. 
Le banche prima della crisi hanno fatto profitti a palate ma poi lo stato è dovuto intervenire per salvarle quando sono andate in perdita. La moneta pubblica dello stato è stata costretta a salvare la moneta privata delle banche.

Le banche creano moneta dal nulla: ma il libero mercato del credito genera crisi

Lo stato alla fine deve sempre necessariamente sborsare i soldi dei contribuenti per proteggere le banche, i risparmiatori e i clienti, a rischio di fallimento. È inutile che i politici liberali e gli economisti liberisti si lamentino e si straccino le vesti come verginelle violate: anche nei paesi più liberisti, come negli Stati Uniti d’America e in Gran Bretagna, gli stati intervengono direttamente per non far fallire le banche che potrebbero trascinare in rovina intere aree produttive, se non un’intera Nazione. Nonostante quello che pensa Francesco Giavazzi – che esultava quando la Lehman Brothers fallì senza che il Tesoro americano intervenisse per salvarla, gettando l’economia globale sull’orlo del precipizio –, l’intervento diretto dello stato in campo bancario è quasi sempre non solo opportuno ma doveroso (a patto ovviamente di non salvare anche i manager responsabili dei fallimenti delle banche).[1]

Il vero problema non è l’intervento dello stato: 
il problema strutturale è che le banche commerciali hanno il potere legittimo di stampare moneta a fini di profitto privato mentre lo Stato non è sovrano della sua moneta, anzi: deve ricorrere ai mercati finanziari, alla moneta delle banche quando è costretto a fare deficit, magari anche per salvare le banche stesse!

Come ha spiegato su MicroMega Luciano Gallino, il compianto profondo studioso del finanza-capitalismo, troppo spesso non compreso e non ascoltato

“scegliendo di entrare nella zona euro, lo stato italiano sì è privato di uno dei fondamentali poteri dello stato, quello di creare denaro. 
Per gli stati dell’eurozona, in forza del Trattato di Maastricht soltanto la BCE può creare denaro in veste di euro... a fronte, però, del divieto assoluto, contenuto nell’art. 123 di prestare un solo euro a qualsiasi amministrazione pubblica – a cominciare dagli stati membri. Al tempo stesso accade che 
le banche private abbiano conservato intatto il potere di creare denaro dal nulla erogando crediti o emettendo titoli finanziari negoziabili. 
Tutto ciò ha messo gli stati dell’eurozona in una posizione che si sta ormai rivelando insostenibile”.

Il problema è semplicemente che 
le banche private operano principalmente per il loro interesse privato, 
per l’interesse dei manager e degli azionisti, che raramente coincide con quello pubblico, con l’interesse nazionale, con l’interesse degli imprenditori piccoli e medi, delle famiglie e dei cittadini. L’interesse privato è una cosa, l’interesse pubblico è un’altra cosa. Questa affermazione è molto semplice da capire: ma dopo quaranta anni di ubriacatura ideologica neoliberista sembra rivoluzionaria. Invece è una semplice affermazione di buon senso.

Unicredit per esempio ha annunciato recentemente il suo piano al 2023 che taglierà 5.500 dipendenti e 450 filiali in Italia, generando però contemporaneamente «consistente valore» per gli azionisti, pari a 16 miliardi di euro complessivi così suddivisi: 6 miliardi di dividendi cash, 2 miliardi con riacquisti di azioni e 8 miliardi di incremento del patrimonio netto tangibile. Il valore andrà agli azionisti - che tra l’altro sarebbero in gran parte esteri, come gli emirati di Abu Dhabi, i fondi americani BlackRock e Vanguard, la società di gestione statunitense Dodge & Cox, il fondo sovrano norvegese Norges Bank; la Teachers Insurance and Annuity Association of America, ecc –. Ma i disoccupati saranno i lavoratori, italiani e non. Quale è il vantaggio per l’economia italiana?

Quando le grandi banche in Italia erano pubbliche, come la Banca Commerciale Italia, il Credito Commerciale, la Banca di Roma, l’economia italiana viaggiava con tassi di sviluppo cinesi. Anche se infiltrate e talvolta corrotte dai partiti, le banche pubbliche hanno prodotto il miracolo economico italiano, mentre le banche private di oggi costituiscono troppo spesso un rischio per i risparmiatori e i contribuenti.

I governi passati hanno completamente smantellato tutte le banche pubbliche perché “ce lo ha detto l’Europa”. Il danno è stato rovinoso. 
È forse il danno peggiore che i governi italiani ciecamente europeisti potevano fare, e hanno fatto, all’Italia. 
La gestione della moneta, del credito e dei risparmi ha aspetti pubblici sostanziali e non può essere delegata solo ed esclusivamente a banche private che operano per massimizzare il valore per gli azionisti o per aumentare gli stipendi dei manager.

L’interesse privato non dovrebbe prevalere sempre su quello pubblico. L’economia nazionale ha bisogno di istituti di credito pubblici, che però – e questo è tutt’altro che scontato e facile - non siano sottoposti a clientele partitiche e possano offrire credito per promuovere gli investimenti necessari a svoltare e rilanciare un’economia socialmente, economicamente e ecologicamente sostenibile. Senza una svolta l’Italia rischia di soffocare prima e di precipitare poi, magari in mano alla peggiore demagogia populista e fascistoide. Bisognerebbe cominciare a introdurre la democrazia economica anche nel settore bancario.

Lo stato non può emettere moneta ma le banche private sì

Ma le banche pubbliche non bastano: il problema è strutturale. Le banche non gestiscono solo i risparmi delle famiglie e delle imprese, ma 
hanno soprattutto il privilegio esclusivo di creare moneta dal nulla. 
Il vero problema è che le banche hanno piena potestà monetaria, creano moneta, mentre lo stato invece non può emettere moneta ma deve farsela prestare dai mercati finanziari. Le banche possono creare moneta dal nulla per il loro esclusivo profitto: questa asserzione non deriva però da una visione ideologica estremista o di parte, non c’è infatti nessun complotto delle banche “cattive”. Il fatto che le banche commerciali creano denaro dal nulla è empiricamente e scientificamente assodato, ed è stato dichiarato ufficialmente addirittura dalla Banca d’Inghilterra e dalla Bundesbank in documenti ufficiali[2].

Come fanno le banche commerciali a creare denaro dal nulla? Il meccanismo – che ovviamente è perfettamente legale -, è spiegato perfettamente da Luciano Gallino:

"Le banche private creano denaro in due modi. Il modo più noto e discusso, in specie a causa del ruolo che esso ha avuto nello scatenare la crisi del 2007, consiste nel concedere un credito, senza togliere un solo euro ad altri correntisti o al proprio patrimonio. L’operazione consiste semplicemente nell’inscrivere sul conto corrente di qualcuno, con pochi tocchi al computer, una certa somma a titolo di prestito. La stessa somma figurerà nel bilancio della banca da un lato come passivo (la somma che la banca si è impegnata a mettere a disposizione del cliente), dall’altro come un attivo (la somma che il cliente ha promesso di restituire con gli interessi, ndr). Si stima che il denaro così creato rappresenti nella UE (in questo caso l’eurozona più i paesi non euro) circa il 95 per cento di tutto il denaro in circolazione. Al confronto, le banconote stampate dalla BCE, di cui la TV ci ripropone l’immagine dieci volte al giorno, sono bruscolini.

Un altro modo di creare denaro da parte delle banche private, assai meno compreso e discusso del precedente, anche tra gli economisti, consiste nell’emettere prodotti finanziari che possono venire convertiti facilmente in denaro liquido. Si tratti di obbligazioni aventi per collaterale un debito ipotecario (CDO), di titoli garantiti da un attivo (ABS), di certificati di assicurazione del credito (CDS) o di un qualsiasi altro titolo “derivato” (nel senso che il suo valore deriva dall’andamento sul mercato di un’entità sottostante) inventato dagli alchimisti finanziari, esso può venire venduto in qualsiasi momento al suo valore di mercato”.[3]

La stessa Bank of England spiega che – nonostante quello che scrivono i manuali degli economisti accademici, e nonostante quello che la gente comune crede – le banche non intermediano il risparmio delle famiglie per concedere i risparmi alle società che vogliono investire per produrre nuovi beni. Le banche commerciali nel loro complesso non hanno minimamente bisogno del risparmio dei correntisti per erogare prestiti perché creano moneta dal nulla; prese singolarmente hanno invece bisogno dei depositi dei risparmiatori come riserva di liquidità a basso prezzo per i pagamenti interbancari.

Ma, ripeto, i depositi bancari dei risparmiatori non servono per prestare soldi a terzi. Le banche quando fanno dei prestiti non prelevano i soldi dai risparmiatori: creano loro stesse il denaro da prestare con un’operazione contabile, ovvero digitando nel computer al passivo e all’attivo il denaro che prestano a quei richiedenti che la banca ritiene solvibili - cioè in grado di ripagare la stessa somma più gli interessi, come da contratto -.

Ma com’è possibile che le banche commerciali, come la Popolare di Bari, come il Monte dei Paschi di Siena e come tutte le altre banche commerciali del mondo, abbiano il permesso di stampare moneta? La risposta è una sola e molto chiara: lo stato consente alle banche commerciali di creare denaro dal nulla nel momento in cui i depositi creati ex novo dalle banche quando fanno prestiti vengono considerati per legge precisamente come moneta legale, sono cioè immediatamente convertibili in banconote. Caio riceve un prestito dalla banca X e allora può ritirare dal bancomat le banconote legali firmate dalla Banca Centrale. Tutto qui. La moneta bancaria diventa per magia – o meglio, secondo la legge – moneta legale. Ovvero: la moneta privata diventa moneta pubblica, moneta emessa dalla banca centrale per conto dello stato – o nell’eurozona, per conto degli stati che aderiscono all’euro -.

Lo stato ha completamente delegato alle banche private la gestione della moneta. 
Le banche commerciali hanno il privilegio unico di potere creare moneta dal nulla. Ma paradossalmente quando lo stato ha bisogno di moneta, deve chiederla ai mercati finanziari, alle banche, agli operatori finanziari, che ovviamente lucrano sui debiti di stato. La situazione è davvero paradossale, anche perché lo stato è il garante ultimo della moneta grazie alle entrate fiscali. Le monete nazionali sono infatti garantite dai ricavi dello stato, che sono le tasse dei cittadini. Ma lo stato, garante della moneta, non può – o non potrebbe, secondo le teorie liberiste – gestire una sua moneta a favore dei cittadini. Secondo le teorie liberiste e della Public Choice, secondo la scuola della Bocconi, i politici sono troppo poco responsabili per potere concedere loro forme anche parziali di sovranità monetaria[4]. Spenderebbero troppo e farebbero crescere l’inflazione. Come se invece tutti i banchieri gestissero bene la moneta e il credito, e fossero delle mammolette dedite al bene comune!

Quindi lo stato è sottomesso alla moneta bancaria e ai mercati finanziari, e non ha risorse sufficienti per risolvere le gravissime e crescenti crisi bancarie e industriali che attanagliano il Paese. La situazione appare senza sbocchi e senza alternative. Certamente è impossibile rivoluzionare completamente dall’oggi al domani il sistema e togliere alle banche commerciali il potere di creare moneta. Del resto questa non è certamente la proposta che qui si avanza.

Le possibili riforme del sistema monetario e bancario

Tuttavia le alternative di riforma esistono: innanzitutto bisognerebbe creare banche pubbliche che si affianchino a quelle private, come del resto accade anche in Germania e Francia, che non sono certo regimi sovietici. In Germania per esempio il 45% circa del sistema bancario è in mano al settore pubblico. Il caso più famoso è la banca pubblica KWF: questa è al 80% di proprietà del governo federale e al 20% dei diversi lander. KFW raccoglie circa 500 miliardi e li reinveste concedendo prestiti a tassi irrisori alle piccole e medie imprese, e inoltre controlla forti quote di capitale di società come Deutsche Post e Deutsche Telekom. lo Stato tedesco partecipa con una quota del 17% in Commerzbank, una delle principali banche tedesche, e poi partecipa nelle Landersbanken, le banche regionali tedesche. Sono sei, sono tutte pubbliche, e non sono minori: LbBerlin, la più piccola, ha attività per 130 miliardi di euro; la più grande, la Lbbw, 337 miliardi (una volta e mezzo MPS). Come è noto, il sistema bancario tedesco non è privo di difetti, anzi … ma funziona forse meglio che in Italia per sostenere produzione e occupazione, nonostante che la maggiore banca privata tedesca, la Deutsche Bank, sia in gravissima difficoltà per le sue passate speculazioni finanziarie.

Ma non basta: lo stato italiano potrebbe anche emettere dei titoli facilmente convertibili in euro, e quindi dei titoli molto liquidi (in gergo quasi-moneta) validi per pagare le tasse. 
Lo Stato potrebbe emettere Titoli di Sconto Fiscale che consentirebbero di alimentare gli investimenti e di uscire finalmente dall’austerità che sta impoverendo il Paese, 
abbruttendo la società civile e rovinando la democrazia. Lo stato dovrebbe distribuire questi titoli a enti pubblici, famiglie e imprese in modo da rivitalizzare la domanda aggregata, cioè gli investimenti pubblici e privati, i consumi e la spesa pubblica. Tutto questo si può fare senza sborsare un solo euro, senza abbandonare l’eurozona e senza fare deficit – cioè in maniera perfettamente legale in base alle regole dell’eurozona e della Unione Europea -. 
Basterebbe che un governo coraggioso e competente lanciasse l’iniziativa:
e il governo giallorosa di Conte, Di Maio, Zingaretti, Renzi e Speranza dovrebbe dimostrarsi all’altezza della grave situazione in cui versano l’economia e la politica italiana.

Come scrisse Gallino:

“la questione centrale è che questa proposta (quella della quasi-moneta fiscale, ndr) rappresenta nella UE il primo tentativo concreto di togliere alle banche il potere esclusivo di creare denaro in varie forme, per restituirlo almeno in parte allo stato. È una delle maggiori questioni politiche della nostra epoca. Di essa si discute sin dall’esplosione della Grande Crisi Globale del 2007, e il nucleo della discussione è la necessità di procedere a drastiche riforme del sistema finanziario, inclusa la sua parte in ombra”.[5]

Emettere titoli fiscali per rilanciare l’economia (e quindi salvare anche le banche in crisi)

I Titoli di Sconto Fiscale sarebbero utilizzati dai possessori – famiglie, imprese, enti pubblici - per ottenere riduzioni fiscali pari all’importo del loro valore nominale dopo tre anni dalla loro emissione; tuttavia, essendo subito convertibili in euro, metterebbero subito in circolazione moneta pubblica in grado di rilanciare la produzione. Alla loro maturità, al quarto anno, quando verrebbero finalmente utilizzati per la riduzione delle tasse, non provocherebbero nessun buco fiscale: infatti la forte crescita del PIL nominale - legata al moltiplicatore del reddito e all’aumento dell’inflazione che si verificherebbero nei tre anni dall’emissione – coprirebbe totalmente l’importo dei titoli emesso tre anni prima. Essendo titoli e non moneta, e non provocando deficit pubblico, i titoli di sconto fiscale sono perfettamente compatibili con le regole dell’eurozona.[6]

Spieghiamo meglio il funzionamento dei Titoli di Sconto Fiscale. I TSF sono dei titoli che danno diritto ai loro possessori di ridurre i pagamenti dovuti allo stato (fisco, tariffe, contributi, ecc.) dopo tre anni dall’emissione. I TSF verranno distribuiti gratuitamente, e quindi senza debito, a famiglie, enti pubblici e imprese. Lo stato non chiederà nulla al mercato finanziario e ai primary dealer – le grandi banche d’affari che comprano all’ingrosso il nostro debito pubblico – e si affrancherà così dalla loro dominanza; e gli operatori finanziari da parte loro non correranno alcun rischio perché non sborseranno soldi per finanziare il bilancio pubblico italiano.

I TSF andrebbero assegnati a famiglie, imprese ed enti pubblici in maniera aggiuntiva – e non sostitutiva – ai redditi in euro per alimentare la domanda aggregata. Lo stato potrebbe così finanziare finalmente i consumi, gli investimenti e la spesa pubblica. Anche le banche, grazie alla ripresa dell’economia reale, uscirebbero dal tunnel dei crediti deteriorati. I TSF potrebbero inoltre conquistare un ruolo strategico non solo per l’Italia, ma per tutti i paesi periferici dell’eurozona e potenziare la moneta unica garantendo maggiore flessibilità ai singoli Paesi e governi.

I TSF non saranno MAI rimborsabili in euro da parte dello Stato e quindi non costituiscono debito pubblico. Come tutti i titoli di Stato, come i BOT e i BTP, sono negoziabili sul mercato finanziario e quindi subito convertibili in euro. Aumentano perciò immediatamente la domanda aggregata. I TSF faranno crescere rapidamente il PIL (che è l’unica vera maniera di ridurre il debito pubblico) nei tre anni prima della loro scadenza, e così alla maturità, al quarto anno, si “autoripagheranno”.

Non solo i TSF rispettano le regole dell’euro, ma lo rafforzano. L’emissione di questi “buoni fiscali” potrebbe finalmente ridare ossigeno all’economia e fare uscire i Paesi dell’eurozona dalla trappola della liquidità che li soffoca.

Più in dettaglio: la proposta è che il governo italiano emetta TSF per qualche decina di miliardi di euro in tre anni (2-3% del PIL) e li assegni gratuitamente in base a criteri prestabiliti ai soggetti pubblici e privati dell’economia reale. I TSF potranno essere ceduti immediatamente dai loro possessori sul mercato finanziario in cambio di euro. Vende TSF chi ha bisogno di euro; compra TSF chi vuole sconti fiscali. Il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di stato zero-coupon a tre anni. In pratica 100 euro di TSF saranno pari (quasi) a 100 euro di moneta sonante e subito spendibile. Dopo la loro conversione in euro, nell’economia reale circoleranno solo (più) euro e non strane monete parallele che nessuno accetterebbe volentieri.

In via preliminare e ipotetica, si può suggerire che una quota importante dei TSF (per es. 60%) venga utilizzata all’amministrazione pubblica e agli locali per un Piano del Lavoro finalizzato a creare piena occupazione per realizzare infrastrutture immateriali (ricerca, università, insegnamento, ecc) e materiali (riassetto idrogeologico, trasporti, reti in fibra ottica, energia verde, risparmio energetico, ecc) e rafforzare il welfare (pensioni, reddito di inclusione, ecc).

Alle famiglie i TSF saranno attribuiti (per es. il 25% delle assegnazioni totali) in proporzione fortemente inversa al reddito, privilegiando ceti sociali disagiati e lavoratori a basso reddito per incentivare i consumi e per ragioni di equità sociale.

Alle aziende le assegnazioni (15% circa del totale) saranno attribuite principalmente in funzione dei costi di lavoro, per tagliare il cuneo fiscale, migliorare la loro competitività ed evitare che l’effetto espansivo dei TSF sulla domanda crei un peggioramento dei saldi commerciali esteri (in pratica l’assegnazione dei TSF alle aziende equivarrà a una svalutazione). Ovviamente tutti i soggetti saranno entusiasti di ricevere titoli di stato che possono essere subito convertiti in euro. Il consenso del pubblico sarà quindi elevato ed entusiastico.

La manovra è in linea con i trattati europei poiché in campo fiscale ogni stato è sovrano, almeno fin tanto che non aumenta il suo debito pubblico. Ma i TSF non generano deficit, anzi. All’emissione lo stato non sborsa soldi e, come indicato sopra, non chiede neppure soldi ai primary dealers. Al quarto anno, alla maturità dei TSF, grazie all’effetto combinato del moltiplicatore dei redditi e dell’aumento dell’inflazione (dovuto certamente all’aumento della domanda) la forte crescita del PIL nominale darà luogo a un gettito fiscale tale da compensare pienamente il deficit legato agli sconti fiscali, e da produrre anche surplus. Basta infatti che l’inflazione aumenti annualmente in più tra il mezzo punto percentuale e l’un per cento del PIL, perché i ricavi fiscali dopo tre anni crescano in misura tale da coprire il valore iniziale di emissione dei TSF.

Lo shock monetario-fiscale renderà nuovamente vitale l’economia nazionale. Le emissioni di TSF potrebbero partire da un livello pari al 2% circa del PIL annuo - circa 30 miliardi di euro - e essere modulate e calibrate nel tempo in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza però produrre una inflazione superiore al 3-4%, né scompensi nei saldi commerciali esteri.

La versione che propongo insieme ad altri studiosi ha il vantaggio fondamentale che i TSF sarebbero certamente accettati dalla BCE e dalle banche perché verranno classificati dalle agenzie di rating come investment grade. Infatti è chiaro che i TSF potrebbero essere utilizzati per ridurre le tasse dovuto allo stato anche se lo stato italiano fallisse sul suo debito in euro. I TSF sono quindi più sicuri dei BTP per gli investitori e, come tali, sono certamente investment grade. Ed è noto che la BCE accetta come collaterale, cioè come garanzia per i suoi prestiti alle banche, tutti i titoli di stato investment grade.

Quindi, dopo l’avvio del sistema TSF, la BCE e le banche acquisteranno i TSF senza problemi, e l’adesione del sistema bancario alla manovra costituirebbe la migliore garanzia del suo successo anche presso i mercati finanziari. Se l’economia italiana ritorna a crescere senza aumento del debito pubblico, allora anche gli spread possono diminuire. Società come Blackrock avrebbero assai poco da temere.

In conclusione: questo progetto di helicopter money nazionale è innovativo e radicale ma è forse l’unico fattibile in tempi brevi per risolvere urgentemente la crisi sociale ed economica. Emettere moneta fiscale è una decisione che il governo giallo-rosa potrebbe prendere autonomamente senza rompere con l’euro e con la UE, e con grande consenso sociale. Finalmente lo stato potrebbe aumentare il reddito delle famiglie e nel contempo rivitalizzare l’economia.

Il progetto di Moneta Fiscale offre inoltre l’enorme vantaggio di potere essere attuato mantenendo la moneta unica europea di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro, yen, yuan, pound. In effetti l’emissione di Titoli di Sconto Fiscale nei singoli paesi dell’eurozona potrebbe diventare il rimedio principale per affrontare la possibile (e probabile) nuova crisi finanziaria e valutaria che ormai tutti gli economisti e gli operatori economici considerano imminente.

NOTE
[1] Francesco Giavazzi, lavoce.info “Una vittoria del nercato” 16.09.08
[2] Bank of England “Money creation in the modern economy”, Quarterly Bulletin 2014 Q1, By Michael McLeay, Amar Radia and Ryland Thomas of the Bank’s Monetary Analysis Directorate; Deutsche Bundesbank “The role of banks, non-banks and the central bank in the money creation process”.Monthly Report April 2017 Vol 69 No 4
[3] Prefazione di Luciano Gallino all’e-book di Micromega “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini.
[4] Vedi per esempio Francesco Daveri “Far piovere denaro dal cielo non basta a risolvere la crisi”, Corriere della Sera, 21 aprile 2016
[5] Prefazione di Luciano Gallino all’e-book di Micromega “Per una moneta fiscale gratuita”, già citata
[6] Enrico Grazzini, Micromega on line “Come l’helicopter money potrebbe rilanciare l’economia italiana”, 11 settembre 2019

I neoliberisti a piangere reclamare pretendere le prebende, cialtroni è dire poco

Quelli che il liberismo lo predicano per gli altri, ma campano di soldi pubblici

di Gilberto Trombetta
29 dicembre 2019

Dopo la Fondazione Luigi Einaudi che abbiamo scoperto intascarsi quasi un quarto di milione di euro di fondi pubblici, dopo l'Istituto Bruno Leoni, dopo Il Foglio che vuole vivere al di sopra delle copie vendute nonostante per anni abbia accusato noi di aver vissuto al di sopra dei nostri mezzi, andiamo a fare i conti in tasca alla scuola di Chicago di noantri: la temibile Bocconi di Milano.

Ebbene l’università liberale più rinomata d’Italia, quella che ci ha regalato i vari Monti, Alesina, Giavazzi, Bonino, Boeri, Boccia, Giorgetti, Sala e tanti altri campioni del liberismo nostrano, si becca ogni anno una bella quota di finanziamenti pubblici.

Sì, proprio quelli brutti e improduttivi.

Solo nel 2018, su un totale di circa 68 milioni di euro* di finanziamento pubblico agli atenei privati, la Bocconi se ne è intascata 8.677.281 (tabella).

Tenendo conto che la Bocconi ha circa 14.000 studenti l’anno, il costo per noi contribuenti è di 620 euro per ogni studente che si forma nella tana del liberismo.

Per fare un confronto, secondo gli ultimi dati di Federconsumatori**, il costo medio annuo delle tasse universitarie, per uno studente il cui reddito familiare rientra nella I fascia, ammonta a 477,88 euro, a 525,33 euro l'anno per la II fascia, 768,52 euro per la III, 1.197,69 euro per chi rientra nella IV fascia e 2.265,32 euro per quanto riguarda gli importi massimi, ovvero di chi percepisce un reddito superiore a 30mila euro. Una media di 1.046 euro l’anno.

Meno del doppio di quanto costa alle casse pubbliche uno studente che si forma privatamente alla Bocconi.

Come al solito, i liberali sono fatti così: 
predicano il libero mercato per gli altri mentre loro si godono al calduccio l’intervento dello Stato che gli garantisce una vita dignitosa.

Almeno rendessero come sostengono di fare, loro che non fanno altro che parlare - a sproposito - di produttività.

Perché vedete, se per farsi del male si andassero a vedere le più importanti classifiche degli atenei al mondo***, la Bocconi non compare. Mai. A differenza di molte università pubbliche italiane che sono eccellenze riconosciute a livello mondiale.

Ma anche questo non dovrebbe stupire.

Già Federico Caffè sul finire degli anni 70 ci aveva avvertito che il rigurgito neoliberista non avrebbe portato niente di nuovo né di utile.

«Vi è poi un aspetto della "affermata" crisi della scienza economica che investe direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorate di recente orientamenti di pensiero che, contrapponendo "lo Stato" al "mercato" (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzatore.

[...] si sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell'assetto sociale, senza tenere conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il tempo, dei "fallimenti del mercato". Poiché il mercato è una creazione umana, l'intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente reflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore».
Note
* https://www.miur.gov.it/…/criteri-di-riparto-dei-finanziame…
** https://www.adnkronos.com/…/universita-quanto-costa-laurear…
*** https://www.roars.it/…/le-imprecisioni-di-alesina-e-giavaz…/


Libia - Spostare i nostri soldati dall'Afghanistan a Misurata, velocemente

L’Italia e la Libia: forse serviva un po’ di sovranismo

di Fulvio Scaglione
29 dicembre 2019

La Libia, per l’ennesima volta sta vivendo giorni drammatici e decisivi. E l’Italia, in relazione con gli eventi libici, una fase a dir poco complicata. Per il nostro Paese (che con la Libia ha un rapporto profondo come nessun altro può vantare) e per la sua influenza diplomatica (nessuno si è impegnato quanto noi nel sostegno al premier Fayez al-Sarraj, l’unico legittimato dall’Onu) si è parlato più volte di “umiliazione”.

Prima quando, in occasione del vertice Nato di Londra, Francia, Germania, Regno Unito e Turchia si sono ritrovati a parlare di Libia tagliando fuori il nostro governo. Poi quando Turchia e Libia hanno siglato un accordo bilaterale che potremmo definire “gas e petrolio per armi”: la Libia concede alla Turchia di esplorare giacimenti in acque che interessano anche da altri Paesi (l’Italia, appunto, ma anche Grecia, Cipro ed Egitto) e la Turchia si impegna ad appoggiare militarmente il governo di Al-Sarraj. Erdogan si è spinto ad annunciare che cinquemila soldati turchi sono pronti a intervenire in Libia, se fosse il caso. Gravi smacchi, cui ha posto solo parziale rimedio il vertice a tre, tra Italia, Francia e Germania, che ha chiesto a Erdogan e a Vladimir Putin (che con l’Egitto invece appoggia il generale golpista Haftar) di astenersi dall’intervenire. Cosa che, ovviamente, non avverrà.

Bisogna ora osservare gli sviluppi militari: Haftar sembrava sul punto di conquistare Tripoli, ma gli armamenti turchi hanno rinsaldato la roccaforte di Al-Sarraj. E quelli politici: è probabile che, come hanno fatto altre volte (l’ultima sulla questione curda nella Siria del Nord), Erdogan e Putin partano da sponde opposte per poi trovare un’intesa a mezza strada. Ma per quanto riguarda l’Italia, è ormai di assoluta necessità una riflessione seria e profonda su ciò che chiamiamo interesse nazionale e sulle strade per perseguirlo.

Il “caso Libia” è da manuale. L’Italia ha sempre partecipato alle decisioni della comunità internazionale, nelle sue diverse declinazioni, facendole proprie. Nel 2008 avevamo formato con la Libia di Gheddafi un Trattato di amicizia e collaborazione ma nel 2011 ci allineammo alle decisioni Onu e alle azioni Nato che portarono alla caduta e morte del Colonnello. Da quel momento in poi il nostro Paese (che, giova ripeterlo, aveva e ha con la Libia rapporti politici ed economici che nessun altro può vantare, oltre a una vicinanza strategica che la questione dei migranti ha ben riproposto) ha con grande disciplina partecipato a tutte le proposte Onu per la pacificazione della Libia. E anche quando ha preso iniziative particolari, come il tanto criticato “piano Minniti” per intervenire sui flussi migratori, restava l’intesa che le Nazioni Unite avrebbero dovuto giocare un ruolo fondamentale.

Perché nulla ha funzionato? Perché la Libia non è stata pacificata e, anzi, sembra sul punto di tornare sotto un Gheddafi di diverso nome e uguale sostanza? Perché mentre noi affidavamo la difesa del nostro interesse nazionale, in Libia forte e preciso, gli altri Paesi facevano da soli. Male, con scarso successo. Ma infischiandosene altamente delle alleanze e delle istituzioni internazionali.

Francia e Regno Unito furono in prima linea nell’attacco alla Libia di Gheddafi. Poi, soprattutto la Francia, non hanno smesso per un solo istante di sostenere il generale Haftar, nemico giurato del governo di Tripoli e del premier Al-Sarraj a favore del quale, in sede Onu, Francia, Regno Unito e Russia avevano comunque votato. 
Dal 2011 a oggi la Francia non ha smesso mai di fornire ad Haftar armi e consiglieri militari, ben sapendo di pugnalare alle spalle l’interesse italiano
E ora pretende che Erdogan e Putin facciano i gentiluomini e lascino fare a Macron?

Il tema vero, per quanto riguarda l’Italia, è venire a patti con quello che, con un termine efficace per la polemica politica ma inutile per una riflessione seria, viene chiamata “sovranismo”. 
Ci si può affidare totalmente alle istituzioni internazionali quando gli stessi Paesi che le animano non esitano a fare da soli quando lo ritengono opportuno? 
In Libia, abbiamo visto Francia, Regno Unito, Usa, Russia e Turchia (per non parlare di alleati dell’uno o dell’altro, tipo Egitto e Arabia Saudita) dire una cosa di volta in volta all’Onu, alla Nato, alla Ue, per poi fare tutt’altro sul terreno. E tra il dire e il fare…

Nessuno ha voluto realmente agire per stabilizzare il governo di Al-Sarraj, al quale è stato fornito un appoggio morale e politico ma poco concreto. Avremmo forse potuto provarci noi (come la Francia ha fatto con Haftar) ma non è nella nostra cultura né nella nostra strategia. Il risultato l’abbiamo sotto gli occhi: Haftar rampante, Al-Sarraj a rischio. E comunque, un enorme buco politico in cui, per restare alla parte di cui l’Italia è sostenitrice, si è ora infilata la Turchia, che punta a lucrare anche sui giacimento di gas e petrolio off shore. Per non parlare del problema migranti su cui Al-Sarraj, se fosse stato più forte e quindi più capace di tenere a bada le bande di trafficanti, avrebbe forse potuto intervenire in maniera migliore, più efficace e più umana.

C’è una vasta porzione dell’opinione pubblica e politica italiana che rifiuta a priori di affrontare il tema. E che lo respinge usando l’argomento delle alleanze internazionali. Che esistono, vanno rispettate e gestite con la massima attenzione. Quando compriamo gli F35, per fare un solo esempio, compriamo non solo degli aerei ma la permanenza all’interno di un sistema di difesa che è poi anche politico, commerciale e finanziario. Magari gli aerei fanno pena, ma il resto ci fa comodo. La politica è lì appunto per dirimere questioni come questa. Ma le alleanze non possono essere la scusa per l’ignavia e l’inazione.

Volendo la Francia ci fornisce un ottimo esempio. Nel 1962, quando scoppiò la crisi dei missili sovietici a Cuba, il generale De Gaulle, all’ambasciatore americano che voleva mostragli le fotografie e le prove della presenza dei missili russi sull’isola, rispose: “Sono con voi, non voglio nemmeno vederle”. Il che non impedì allo stesso generale, nel 1966, di far uscire la Francia dal comando integrato della Nato. E anche l’Italia può attingere dal proprio recente passato. Nel 1985 il duo Craxi-Andreotti, primo ministro e ministro degli Esteri, mandò i Vam e i carabinieri a circondare gli uomini della Delta Force Usa all’aeroporto di Sigonella, dopo il dirottamento della nave “Achille Lauro”. Un caso lampante di “sovranismo” che non ha impedito all’Italia, in seguito, di restare fedele alle proprie alleanze, compresa quella con gli Usa.

la piazza di quel coacervo di interessi che scaturisce dai clan, consorterie, mafie, massonerie, clientele, famigli, cordate a favore del neoliberismo, di Euroimbecilandia che gli ha dispensato, dispensa, dispenserà privilegi, prebende, nulla di nuovo è successo, succede, succederà. Una minoranza arrogante che vuol far credere di essere maggioranza e che odia chi non è servo come loro sono

Sardine: l'arroganza di una minoranza

di Leonardo Mazzei
29 dicembre 2019

Né ridere né piangere. Né sopravvalutare né sottovalutare. Torniamo a fare analisi del "movimento delle sardine". Che sia "spontaneo" oppure un prodotto di laboratorio non cambia la sostanza: Salvini è il bersaglio, il fine è debellare "populismo" e "sovranismo". Per questo esso è funzionale al regime dell'élite euro-liberista

Sardine a natale

Le sardine manifesteranno a Bologna il prossimo 19 gennaio, cioè esattamente una settimana prima del voto regionale in Emilia Romagna. Forse basterebbe questo a chiudere il discorso su quale sia la loro funzione. Ma di questi tempi ci si emoziona per poco, specie quando entra in campo la piazza.

Secondo il modo di ragionare di certuni, il fatto che la gente manifesti sarebbe di per sé positivo. E questo indipendentemente dalle motivazioni, dai contenuti, dagli obiettivi, dai settori sociali realmente coinvolti nella mobilitazione. Il buffo è che queste argomentazioni vengono spesso da quella "sinistra" che considera i cortei della destra salviniana come redivive adunate fasciste dell'Italia che fu. Eppure anche quella è gente che scende in piazza...

Ma lasciamo perdere queste corbellerie. Il fatto è che la grande stampa continua ad enfatizzare il fenomeno in tutti i modi, segno inequivocabile di come ci si trovi di fronte ad un movimento sistemico, gradito come nessun altro alle neoliberali oligarchie dominanti. Tutto ciò è chiaro come il sole, ma siccome la confusione sotto il cielo è grande, non sarà male provare a fissare in alcuni punti un giudizio più netto su queste piazze benpensanti. Ecco perché ci occuperemo delle sardine a Natale.

Le sardine: un movimento neo-conservatore

Come tutte le cose del mondo, anche le sardine hanno le loro contraddizioni. Ma questo non significa che non abbiamo un'anima. O, come dice qualcuno (magari per criticarle), che non abbiano contenuti. L'anima c'è, ed è quella della conservazione. I contenuti ci sono, e sono quelli della delega alle istituzioni e ancor più ai "competenti", cioè di fatto ai funzionari del capitale, ai tecnici delle oligarchie finanziarie che dominano il nostro tempo.

Esageriamo? A leggere i sei punti delle sardine sembrerebbe proprio di no:
«1. "Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a fare politica invece che fare campagna elettorale permanente". 
2. "Pretendiamo che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente su canali istituzionali". 
3. "Pretendiamo trasparenza nell'uso che la politica fa dei social network". 
4. "Pretendiamo che il mondo dell'informazione protegga, difenda e si avvicini il più possibile alla verità". 
5. "Pretendiamo che la violenza, in ogni sua forma, venga esclusa dai toni e dai contenuti della politica". 
6. "Chiediamo alla politica di rivedere il concetto di sicurezza e, per questo, di abrogare i decreti sicurezza attualmente vigenti"».

Comincio ad avere una certa età, ma non ricordo una piattaforma più conservatrice di questa. Forse un precedente si può trovare nella cosiddetta "maggioranza silenziosa" degli anni settanta del secolo scorso, ma quel movimento aveva almeno la dignità di presentarsi per quel che era: un raggruppamento conservatore, e financo reazionario, animato da una borghesia lombarda spaventata dalle lotte sociali di quegli anni. Ma adesso?

Adesso è il momento del politicamente corretto all'ennesima potenza. Un trucco per far passare contenuti ultra-conservatori senza neppure doverli dichiarare. O meglio, dichiarandoli in forma obliqua e grillesca come oggi si conviene.

Passiamo allora brevemente in rassegna questi sei punti. Il primo — chi è stato eletto se ne stia chiuso nelle istituzioni — è certo pensato contro Salvini, ma esprime un concetto gravissimo, quello di una politica che deve stare nel Palazzo, sorda e distante dal popolo e dai suoi problemi. Il secondo — chi è al governo comunichi solo attraverso i canali istituzionali — è un rafforzativo del primo, che fa però da battistrada al terzo sull'uso del social network e, soprattutto, ad un quarto punto che mira chiaramente all'istituzione di un controllo dall'alto sull'informazione. Queste pretese, viste nel loro insieme, configurano di fatto la richiesta di un orwelliano Ministero della Verità, rafforzato peraltro da quella di equiparare la violenza verbale a quella fisica.

Su tutto ciò ha scritto assai acutamente una persona solitamente ben distante dal mio modo di pensare, Barbara Spinelli. La quale, oltre a picchiar duro sui cinque punti di cui sopra, ha così liquidato pure il sesto sull'abrogazione dei "decreti sicurezza":
«È l’unico punto veramente sensato, ma se la pretesa sulla violenza contenuta nel numero 5 (applicata in vari ambiti: media online e offline, manifestazioni pubbliche etc.) viene inserita nei decreti riscritti, è meglio forse tenersi quelli di Salvini».

Qui, al di là dell'analisi di dettaglio, quel che conta è il messaggio che le sardine vogliono trasmettere. Un messaggio che narra un Paese immaginario, un'Italia senza problemi (nessuna questione sociale viene mai citata, nemmeno di striscio) se non fosse per la comunicazione politica troppo urlata dai "populisti" e dai "sovranisti". Roba da non credere, ma è così.

Leggiamo, ad esempio, quel che ha detto Mattia Santori nel comizietto del 14 dicembre a Roma:
«Da sempre abbiamo chiesto un linguaggio politico più rispettoso delle vite degli italiani e che rispecchi la complessità della politica. Vogliamo che la politica torni ad essere qualcosa di complesso e andiamo a parlare dove e prima che il sovranismo arrivi. Noi cerchiamo di arrivare ai cervelli prima che si arrivi alle pance».

Ora, un movimento si giudica da tante cose, ma i primi elementi di giudizio non possono che essere il programma e l'ideologia del suo gruppo dirigente. E questi elementi ci dicono solo una cosa, che siamo di fronte ad un movimento neo-conservatore, con aspetti chiaramente reazionari. Ovviamente — ça va sans dire — stiamo qui parlando di un conservatorismo di tipo nuovo, del tutto opposto non a caso a quello salviniano, fatto invece di croci e madonne.

E' il conservatorismo di chi non vuol neppure immaginare una crisi della globalizzazione capitalista, figuriamoci la sua messa in discussione. E' il conservatorismo di chi non vede altra strada al di fuori del dogma europeista. Ma è anche, e bisogna dirlo con la durezza necessaria, il conservatorismo di chi sta meglio, di chi ha pagato meno la crisi, di chi sente meno l'austerità, di chi certo non ha il problema del lavoro e della precarietà. Detto in sintesi, quello delle sardine è un "popolo" largamente sovrapposto a quello delle Ztl che ancora vota Pd.

Le sardine: l'arroganza di una minoranza

Non sempre va in piazza chi sta peggio, chi è più oppresso, più sfruttato. Oggi, siccome certe piazze son chiamate dai media di lorsignori, 
talvolta ci va proprio chi vuol difendere i propri privilegi, 
piccoli o grandi che siano, reali o percepiti che siano, attuali o solo potenziali e di prospettiva. Privilegi non solo economici e di classe, ma legati anche all'appartenenza al club degli abilitati all'esercizio del potere - piccolo o grande, anche qui poco importa - per una sorta di grazia divina che da un quarto di secolo accompagna l'area larga del super-partito piddino.

Su cosa sia questo super-partito abbiamo già scritto due settimane fa:
«Il problema è che il Pd non è banalmente un partito. E' qualcosa di meno — si pensi alla patetica figura del suo segretario politico —, ma è soprattutto qualcosa di più: il vero perno di un sistema che fa della sua sudditanza all'oligarchia eurista l'alfa e l'omega della propria ragion d'essere. Prodi, uno dei padri dell'euro, non è iscritto al Pd ma è Pd. Monti non è del Pd, ma è Pd. Mattarella non è iscritto al Pd, ma è Pd. E si potrebbe a lungo continuare con una lunga sfilza di nomi, oggi tutti — guarda caso — spinti sostenitori delle sardine. E questo per il semplice motivo che le sardine non sono semplicemente ascrivibili al Pd come partito, ma sono senza dubbio Pd nel senso del super-partito sistemico della conservazione eurista».

A questo c'è da aggiungere che l'attuale partito di Zingaretti è solo l'ultima mutazione di quello che il grande Costanzo Preve definiva come "serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd". Una mutazione, quella che ha portato da Gramsci e Togliatti a Renzi e Veltroni, che non ha bisogno di particolari commenti. Idem per quella che ha visto il passaggio dalla difesa degli interessi dei lavoratori alla diretta promozione del loro schiavismo tramite il jobs act.

Se tiriamo in ballo l'azzeccata metafora del serpentone previano è perché questa incessante trasformazione non è ancora finita. E non è finita perché non può finire. Non solo perché, notoriamente, al peggio non c'è limite, ma soprattutto perché nuovi travestimenti sono necessari affinché l'inganno possa continuare. Che le sardine abbiano qualcosa a che fare con questa esigenza lo dirà solo il tempo, ma sospettarlo è più che lecito.

Quel che è certo è che il movimento delle sardine rappresenta in tutto e per tutto gli interessi del blocco dominante. 
Ma così come quel blocco non è più da tempo maggioritario nel Paese, neppure le sardine che stanno lì solo per rivitalizzarlo, lo sono. E' questo un altro punto su cui bisogna essere chiari.

Le sardine non sono pura invenzione. La società non è spaccata, come narrano alcuni confusionari, tra un 99% che sta sotto ed un modesto 1% che sta sopra. Questa semplificazione è ridicola. E, se presa davvero sul serio, foriera di drammatici errori. In realtà la punta della piramide è ben più ristretta dell'1%. Ma tra quel vertice ed il grosso del popolo lavoratore c'è un consistente strato — anch'esso assai variegato al suo interno — che identifica ancora i propri interessi (ed avrà qualche buon motivo per farlo) con quelli della ristrettissima cupola che comanda. E' questo il blocco sociale da cui sono spuntate le sardine. Un blocco che ha ancora una forza consistente, ma che — repetita iuvant — non è più maggioritario. Che se invece lo fosse, le sardine sarebbero rimaste tranquille nelle loro Ztl.

Quando, come nei sei punti citati, le sardine pretendono di dettare il bon ton della comunicazione politica, esse mostrano non la gioiosa speranza trasformatrice dei movimenti popolari, bensì l'arroganza tipica di chi è avvezzo se non a comandare, quantomeno a stare sempre dalla parte di chi il potere lo ha. Un'arroganza sempre da respingere, tanto più oggi che è oltretutto minoritaria nella società.

Le sardine: il falso buonismo di chi odia il popolo

Tante sarebbero ancora le cose da dire. Ma ci soffermiamo su una, particolarmente diffusa. Per alcuni il momentaneo successo di questo pittoresco movimento ittico starebbe nel suo buonismo, nel suo essere "per" anziché "contro" qualcosa. Questo modo di vedere le cose mi pare un abbaglio assai clamoroso.

Le sardine dicono di essere in piazza contro l'odio, ma in realtà sono lì per esprimere il loro odio verso Salvini. Il quale - sia detto con la massima chiarezza - è assai spesso veramente odioso, ma è una strana lotta contro l'odio quella che muove proprio dal disprezzo per una forza politica (che in Salvini si riconosce) che ha il consenso del 30% degli italiani.

Senza scomodare l'odio, si può tranquillamente lottare contro Salvini contestandone l'impostazione culturale, le posizioni politiche, le singole proposte. Si può farlo anche (ed a ragione) criticandone il linguaggio becero e tracotante, ma perché farne il tema esclusivo di una mobilitazione come quella attuale? L'unica spiegazione di questa monotematicità sta nel fatto che i signorini che han dato vita alle sardine con Salvini hanno in comune assai più cose di quel che sembra. Di certo ne condividono la visione neoliberista, mercatista e privatizzatrice. Quel che non gli piace, invece, è la sua torsione nazionalista, sia pure di un nazionalismo ancora bizzarramente confuso con le origine padane della Lega.

Ma c'è di più. Questa ossessione per Salvini è un comodo alibi per non parlare d'altro. Ad esempio delle malefatte di chi è attualmente al governo. Meglio ancora delle cause più profonde — dall'appartenenza all'Unione europea, al cappio rappresentato dall'euro 
— del degrado del Paese. Di tutto ciò non si parla perché proprio non se ne vuol parlare, ma la collocazione nel campo dell'euro-dittatura è ben rappresentata dal fatto che (a differenza delle altre) le bandiere dell'Ue sono sempre ben accette nelle piazze sardinate. Per giunta proprio nelle settimane in cui si è finalmente aperta la discussione sulla trappola del Mes, altro tema che per le sardine non esiste.

La lotta all'odio è dunque solo un'odiosa messinscena, e l'odio per Salvini nasconde invece l'odio per un popolo che non ne può più di un politicamente corretto che è servito solo a coprire il massacro sociale degli ultimi dieci anni, a rendere indiscutibili le verità dei dominanti.

Quel che è certo è che il successo delle sardine si spiega proprio con la chiara identificazione del nemico, altro che buonismo! In quanto poi all'essere "per" anziché "contro", proprio non si capisce di cosa si stia parlando. Se i "per" sono i sei punti di cui ci siamo occupati (ed altro al momento non ci è noto) c'è solo da rabbrividire, dato che 
si tratta del più osceno sostegno alle oligarchie dominanti che si abbia avuto il coraggio di pubblicare negli ultimi decenni.

Chiudiamo sul punto con una semplice osservazione di buon senso. Come non vedere come tanto antisalvinismo sia in realtà la miglior benzina per la propaganda salviniana? Alle sardine il Salvini truce ed offensivo fa comodo - una conferma perfetta di quanto pericoloso sia il nemico contro il quale si manifesta. Al tempo stesso è del tutto evidente come queste manifestazioni a senso unico, tanto più in quanto mute sulle vere questioni che assillano la maggioranza delle persone, facciano la fortuna di Salvini, facendolo così apparire come il vero nemico delle èlite anche quando - come in queste settimane - elemosina un posto nel PPE e si pronuncia per Draghi al Quirinale o (via Giorgetti) a Palazzo Chigi.

Le sardine: perchè non prenderle a pesci in faccia?

Veniamo adesso alla questione di quale sia il modo migliore di rapportarsi alle sardine, un tema che sta animando una certa discussione. Prima di farlo, però, due parole vanno spese sulla lettera scritta dai quattro promotori bolognesi e pubblicata da la Repubblica del 20 dicembre scorso.

Nella lettera, i quattro si presentano come anime candide momentaneamente sottratte al normale scorrere della loro vita. Ci raccontano delle fatiche dell'ultimo mese, perfino del sonno che hanno perso, poverini! Tutto ciò per concludere che (per ora, aggiungiamo noi) non faranno un partito. Per dirlo scelgono il solito linguaggio ambiguo tipico dei nostri tempi:

«Le sardine non esistono, non sono mai esistite. Sono state solo un pretesto. Potevano essere storioni, salmoni o stambecchi. La verità è che la pentola era pronta per scoppiare. Poteva farlo e lasciare tutti scottati. Per fortuna le sardine le hanno permesso semplicemente di fischiare»

Un "pretesto", ovvio che è così. Ma un pretesto per fare che cosa? Altrettanto ovvio che non ce lo dicano. Nel frattempo, l'abbiamo scritto all'inizio, la mobilitazione è pronta per il 19 gennaio a dar manforte a Bonaccini nella piazza di Bologna. D'altronde, la frase

centrale delle conclusioni dei quattro è chiara quanto mai: «La condivisione dello stesso male ci ha resi alleati coesi, ha unito il fronte». Altro che movimento "per"! Ciò che li rende uniti è proprio la condivisione del nemico, che ovviamente non è rappresentato dalle oligarchie dominanti, ma da quella particolare variabile populista - ma tutt'altro che anti-sistemica - rappresentata dalla Lega. Insomma, per le sardine l'attuale dominio di classe del blocco dominante è sacrosanto, bisogna solo assicurarsi che esso possa proseguire con le "buone maniere" dei Monti e dei Draghi.

Che di fronte ad un simile programma ci sia chi a sinistra prende fischi per fiaschi non stupisce, ma neppure può essere passato sotto silenzio. Questo pittoresco fenomeno della sinistra sardinata spiega in realtà molte cose dell'attuale egemonia della destra. Del resto, quando si perde la bussola dell'analisi concreta della situazione concreta, tutto può capitare.

Leggiamo, ad esempio, l'entusiastico commento di Sinistra Anticapitalista sulla manifestazione di Roma:
«Quella del 14 dicembre è stata una grande manifestazione, come non se ne vedevano da troppi anni a sinistra, una manifestazione di popolo che ha riempito piazza S. Giovanni di decine di migliaia di persone (più di centomila secondo gli organizzatori) animate da sentimenti antifascisti e antirazzisti. Tanti e tante lavoratori e lavoratrici nativi e migranti, giovani, si sono incontrate/i dalle prime ore del pomeriggio con le variopinte sardine per riprendersi la piazza storica della sinistra, dopo la manifestazione del 19 ottobre delle destre reazionarie».

Non solo (e qui non ridete troppo, che è Natale e bisogna essere buoni):
«Vicino alla statua di S. Francesco si erano dati appuntamento le sardine anticapitaliste di Sinistra Anticapitalista, le sardine rosse di Rifondazione, i migranti delle sardine nere organizzati con Potere al popolo, il coordinamento per il ritiro di ogni autonomia differenziata e diversi altri pezzi della sinistra radicale romana».

Ammazzate oh!

Bene, se Sinistra Anticapitalista ha almeno il merito di rendere evidente ciò che non si deve fare, come rapportarsi allora a questo movimento?

Naturalmente, e questo vale in generale, chi ha buone ragioni e validi argomenti (come pensiamo di averli noi della sinistra patriottica) deve parlare con tutti, al limite (se lo si reputa utile) perfino col carceriere e col boia. Figuriamoci se non lo si può fare con le sardine o con la base leghista! Il problema è cosa pensiamo di tirarne fuori. Se puntare ad una conversione anticapitalista, tramite apposita e variopinta infiltrazione come quella poc'anzi citata, è semplicemente patetico, cos'altro di concreto si può fare?

Bene, in proposito le idee hanno da essere piuttosto chiare. Se è certo vero che un movimento allo stato iniziale è sempre inevitabilmente magmatico e contraddittorio, il modo migliore di separare il grano dal loglio non è l'acquiescenza, tantomeno la subalternità. Il modo migliore è la piena autonomia di giudizio, nel caso specifico l'aperta denuncia dell'operazione politica in corso.

Per aprire gli occhi a chi eventualmente fosse disposto a farlo, la scelta migliore è dire le cose come stanno. A volte un (metaforico) pugno nello stomaco è più salutare di tante ed ambigue carezze. La verità talvolta è dura, ma la verità è pur sempre la verità. Le sardine vanno dunque prese a pesci in faccia. Sempre metaforicamente, beninteso, anche se per il loro tribunale speciale — vedi il punto 5 — questa precisazione non mi salverebbe comunque dalla condanna.

A pesci in faccia. Denunciando la loro funzione sistemica, la loro connivenza con le oligarchie, il loro silenzio sui drammi sociali, la loro indifferenza per il popolo che soffre, il loro programma elitario e conservatore. Con calma, tranquillità e financo con un tocco di quel bon ton cui tanto tengono. Ma a pesci in faccia.

A Nicoletta un anno di carcere il boschi anche se condannato nulla. Giustizia malata

post, top — 30 Dicembre 2019 at 19:03

Nicoletta Dosio è appena stata arrestata. I carabinieri sono venuti a prelevarla nella sua abitazione poco dopo le 18. Stamattina all’attivista 73enne era stata notificata la revoca delle sospensioni. In questo momento cittadini di Bussolenbo scesi in strada alla spicciolata stanno rallentando l’arresto bloccando la strada. Seguiranno aggiornamenti.



La procura di Arezzo va incontro al Sistema e per ben due volte proscioglie il Boschi su Banca Etruria, lo tiene in un processo minore per cui non andrà mai in carcere anche se condannato. Magistratura malata

AREZZO

Crac di Banca Etruria, padre di Maria Elena Boschi a processo con altri 13
È il filone delle super-consulenze, per il padre dell’ex ministro è il primo processo
di Marco Gasperetti


Dopo essere stato prosciolto per due volte nella vicenda giudiziaria del fallimento di Banca Etruria, Pier Luigi Boschi sabato è finito sotto processo nel terzo filone dell’inchiesta: quello dedicato alle presunte «consulenze d’oro» decise dall’ultimo consiglio della banca nel quale, il padre dell’ex ministro Maria Elena, ricopriva l’incarico di vice presidente. Boschi è stato citato a giudizio davanti al giudice monocratico del tribunale di Arezzo per bancarotta colposa, un reato minore per il quale non è prevista l’udienza preliminare ma l’immediato giudizio con pene in caso di condanna da sei mesi a due anni, con condizionale e non menzione. Insieme a lui saranno processati altri tredici ex dirigenti e consiglieri dell’ultimo cda dell’istituto di credito prima del fallimento. Secondo l’accusa i manager e dirigenti di Banca Etruria rinviati a giudizio non avrebbero vigilato su consulenze ritenute inutili e ripetitive.

Tra le decisioni contestate dalla procura di Arezzo ci sono gli incarichi con parcelle per 4,5 milioni di euro affidati secondo l’accusa a Mediobanca e Bain e agli studi legali Zoppini di Roma e Grande Stevens di Torino. Secondo i pm Andrea Claudiani e Angela Masiello, i membri del Cda sotto accusa furono carenti nella sorveglianza, ma non agirono con dolo. Restano fuori da questo processo l’ex presidente Lorenzo Rosi, l’ex direttore generale Luca Bronchi e l’ex vicepresidente Alfredo Berni perché già rinviati a giudizio in altro dibattimento per lo stesso reato.

Contatto telefonicamente, Pier Luigi Boschi ha detto di non aver ancora ricevuto dai magistrati alcun provvedimento e che si riserverà di commentare la decisione della procura eventualmente una volta lette le carte. Prima del rinvio a giudizio Boschi era stato prosciolto dalla contestazione di falso in prospetto e successivamente dall’accusa di bancarotta fraudolenta per la mancata fusione tra Banca Etruria e Popolare di Vicenza, l’istituto di credito del quale era presidente Gianni Zonin

30 dicembre 2019 (modifica il 30 dicembre 2019 | 21:54)