02 mag 2019
by Redazione
Solo un anno dopo la “Giornata della terra” Israele emanò una legge che vietava la raccolta dello zaatar perché “pianta protetta”. Facendo così però, osserva la giornalista Hammud, Tel Aviv non solo ha giustificato il suo furto delle terre dei palestinesi, ma si è anche appropriata dei loro elementi culturali
Za’atar
di Bayrot Hammud* al-Akhbar
* (Traduzione dall’arabo a cura di Fidaa Abu Hamdiyyah)
“Perché hai questo sacchetto?
Perché se un giorno non potrò comprarmi da mangiare a Londra, avrò il mio cibo zaatar, e gli ho chiesto: Do you know zaatar?
Si sono allontanati e mi hanno lasciato da sola nel mio silenzio e le mie perplessità: come hanno occupato il nostro paese per trent’anni e non sanno distinguere il timo macinato (lo zaatar) dalla polvere da sparo? O hanno paura dello zaatar perché fa bene alla memoria, e vogliono eliminarla totalmente?” (“Viaggio dopo viaggio”, Salman Natur).
Roma, 2 maggio 2019, Nena News – Nel 1976 le autorità israeliane emisero un decreto per lo “sviluppo della Galilea” (giudeizzazione della Galilea), che permetteva di confiscare migliaia e migliaia di dunam (unità di misura terriera pari a 2.500 m² di terra) che erano di proprietà dei palestinesi. Questo costituì anche la causa principale della Giornata della terra: la confisca di 21 dunam dei villaggi palestinesi di Arraba, Der Hanna, Arab Assawaed e altri per costruire colonie israeliane, fabbriche e basi militari.
Il comitato palestinese per la “protezione della terra” decise di proclamare uno sciopero generale il 30 marzo e scese in strada per manifestare contro il decreto. In risposta alle mobilitazioni di quel giorno, Israele invase i villaggi palestinesi con i carri armati e sparò sui manifestanti, uccidendone sei di loro e facendo decine di feriti e prigionieri. Quella data è passata alla storia come il primo scontro tra i palestinesi (rimasti nella loro terra dopo il 1948) e i soldati e la polizia dell’Occupazione israeliana. Si ebbero manifestazioni in tutta la Palestina, dalla Galilea fino al deserto del Negev (Israele e Cisgiordania). Anche i palestinesi nei campi profughi nei paesi attorno manifestarono. Tuttavia, né gli scontri di quel giorno né quelli successivi hanno fermato il nemico dal confiscare terre palestinesi e a demolire le loro case con il pretesto che sono costruite senza licenze, e a utilizzare poi i beni confiscati ai palestinesi per dare forma ai loro progetti di insediamento e di giudeizzazione chiamati “pianificazione”, “sviluppo” e “protezione della natura”.
Con queste pratiche Israele mira a tagliare qualsiasi relazione dei palestinesi con la loro terra, arrivando persino ad impedire ai palestinesi di allevare alcuni tipi di animali (la pecora nera) e a raccogliere delle piante di cui un palestinese non può fare a meno nella sua vita quotidiana e che ne rappresentano anche la sua cultura sia nel campo letterario che in quello gastronomico. Solo un anno dopo la “Giornata della terra” Israele ha emanato una legge che vieta la raccolta dello zaatar, classificandolo come pianta considerata “protetta”, poi hanno impedito la raccolta della salvia e del cardo selvatico (akkub); sono tutte piante che crescono sui terreni del Levante da centinaia di anni. Più di 550 dunam confiscati sono stati utilizzati per la coltivazione dello zaatar da parte dei coloni israeliani i quali, pertanto, non solo hanno preso la terra dei palestinesi, ma anche il loro guadagno e il lavoro dei contadini arrivando al punto di proclamare lo zaatar una spezia israeliana. Cosa già fatta con molti altri piatti palestinesi, come l’hummus, la shakshuka e i falafel, di cui si sono impadroniti attribuendoli falsamente alla “cultura culinaria israeliana”.
Recentemente l’avvocato palestinese Rabe Ighbariah ha preparato uno studio dettagliato su questo argomento ed è giunto alla conclusione che il divieto israeliano di raccogliere le piante prima menzionate “non ha basi scientifiche se mira a proteggere l’ambiente e le piante”, ma è uno strumento legale per incriminare i palestinesi e il loro legame con la terra e la natura”. Lo studio si basa sulle analisi compiute su 60 casi di “timo e cardo (akkub)” di cui si sono occupati i tribunali israeliani tra il 2004 e il 2016: la maggior parte degli imputati è stata condannata a pagare multe salate per aver raccolto del timo e del cardo perfino se traportato in piccole quantità (anche inferiori a un kg). “Non è sorprendente che tutti gli imputati siano palestinesi laddove gli israeliani, anche se raccolgono le piante protette come ad esempio gli anemoni, non vengono puniti o incriminati” racconta Ighbaria.
I dati “dell’Autorità israeliana per la protezione ambientale e dei parchi” mostrano che tra il 2010 e il 2016 sono state emesse circa 780 multe per raccolta di timo: nella maggior parte dei casi questo era stato raccolto per essere utilizzato in casa. Tuttavia, la “polizia verde”, che fa parte dell’autorità israeliana per la protezione ambientale e i parchi, applica “il diritto” penale: i suoi poteri consistono nel comminare nell’immediato una multa, nel presentare delle accuse verso coloro che raccolgono le piante, nell’emettere un’ordinanza amministrativa che vieta l’utilizzo del veicolo associato al reato e infine anche nel confiscare tutto il materiale legato al reato.
I dati mostrano che con la scusa della “Protezione Ambientale” si copre soltanto un atto politico repressivo che strumentalizza un’abitudine e un elemento proprio della cultura palestinese per raggiungere tale scopo. A confermarlo è Margarita Valchik, scienziata ambientale al dipartimento Scienze dell’autorità israeliana dell’ambiente e dei parchi: “È difficile stabilire quanto abbia fatto l’autorità israeliana ambientale per proteggere queste piante”, ha dichiarato al giornale israeliano Haaretz sottolineando poi come l’Autorità impegnata nella protezione delle piante “non ha un piano e nemmeno un programma di monitoraggio pratico”. Nena News
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