Trump Vs Cina: i dazi USA sono un trionfo di autolesionismo
FMI: il costo della guerra commerciale lo pagano i consumatori statunitensi. Il Made in China costa di più, il deficit non scende.
Abbattere il deficit con la Cina è un'idea folle. Ma Trump, almeno a parole, non può rinunciare alla retorica protezionista. Ecco perché
L’allarme dell’FMI
A chiarirlo ci ha pensato
un rapporto del Fondo Monetario Internazionale. La guerra commerciale tra USA e Cina ha già penalizzato entrambe le parti, sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta. Un gioco a somma negativa in cui nessuno vince e qualcuno potrebbe perdere più degli altri. È il caso dei consumatori costretti a pagare un prezzo più alto per i beni soggetti ai dazi.
In principio furono
lavatrici e pannelli solari. Poi la lista si è allungata e le tariffe sono arrivate a colpire scambi complessivi per 360 miliardi di dollari: 250 soggetti ai dazi USA, 110 colpiti dalle contromosse cinesi. Trump ha minacciato futuri interventi su altri 325 miliardi di transazioni.
Pannelli solari a Hong Kong. Foto: WiNG Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)
Il conto? Lo pagano anche i consumatori USA
«Sono senza dubbio i consumatori americani e cinesi a uscire perdenti dalle tensioni commerciali», scrive l’FMI. Lo confermano i numeri di
una recente ricerca dell’Università di Harvard. Secondo l’indagine, condotta utilizzando i dati sui prezzi del Bureau of Labor Statistics USA sulle importazioni dalla Cina, «il peso dei dazi sarebbe caduto in larga parte sulle spalle degli Stati Uniti».
A subirlo le aziende che importano da Pechino e i consumatori, vittime designate, secondo la ricerca, di un’ulteriore escalation del conflitto. Un’ipotesi che confermerebbe, tra le altre, la vecchia profezia del presidente cinese Xi Jinping sulla guerra
«che nessuno può vincere». Ma gli USA, è noto, hanno scelto fin da subito
la via dell’isolamento.
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I dazi premiano il Messico
E non è tutto. Dall’introduzione dei dazi, osservano i ricercatori, le importazioni americane dalla Cina si sono ovviamente ridotte. Dopo l’intervento di agosto che ha riguardato operazioni stimate per 16 miliardi di dollari, gli acquisti USA dai produttori cinesi sono diminuiti di 850 milioni. Peccato però, si fa per dire, che il calo delle importazioni Made in China sia stata compensato pressoché per intero da una crescita degli approvvigionamenti in Messico.
Il tutto in un contesto di cosiddetta trade diversion, che in economia consiste nella sostituzione di una fonte di scambio commerciale efficiente (Pechino and friends) con una meno conveniente (il vicino centroamericano, i cui prodotti sono più costosi degli omologhi cinesi). Morale: il deficit commerciale è rimasto relativamente stabile; gli americani, in compenso, hanno pagato di più.
La battaglia della soia premia il Brasile
Nel 2018 il deficit statunitense con la Cina ha raggiunto la quota record di
419 miliardi di dollari. Nei primi tre mesi del 2019, osserva il FMI, «si osserva una lieve diminuzione», ma ciò non toglie che anche le esportazioni USA verso la seconda economia del mondo siano calate. Danneggiando così gli stessi produttori a stelle e strisce. Emblematico l’esempio offerto dal mercato della soia. In risposta alla sfida americana, già nel 2018 Pechino aveva imposto i suoi dazi su quella proveniente dagli USA. Da allora, le spedizioni americane nel Paese si sarebbero praticamente azzerate lasciando campo libero all’altro leader di mercato: il Brasile, ormai primo fornitore.
In seguito gli Stati Uniti si sono ripresi a fatica parte della quota di mercato originaria. «Ma i coltivatori americani – si legge nel rapporto – hanno sofferto mentre i loro colleghi in Brasile hanno beneficiato della segmentazione (leggi “apertura”, per lo meno dal loro punto di vista, ndr) del mercato».
Paghiamo tutti
Infine, repetita iuvant, c’è il problema delle conseguenze ad ampio raggio. Perché gli effetti distorsivi della guerra commerciale, non ci si stancherebbe mai di ricordarlo, interessano tutti. Europa e Italia
comprese. I dazi più recenti, sostiene il FMI, potrebbero bruciare da soli lo 0,3% del Pil mondiale. Ma il peggio sarebbe dietro l’angolo. Un’ulteriore accelerazione del processo, infatti, potrebbe interessare altri settori chiave come
l’industria dell’auto finendo poi per intaccare i mercati finanziari e avere un impatto negativo «sugli spread delle obbligazioni e sulle valute dei mercati emergenti, rallentando gli investimenti e gli scambi commerciali».
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Inoltre, conclude l’analisi, «l’aumento delle barriere commerciali colpirebbe le catene di approvvigionamento globali e rallenterebbe la diffusione di nuove tecnologie, riducendo in ultima analisi la produttività e il welfare a livello mondiale». Tecnicamente una tempesta perfetta.
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