L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 22 giugno 2019

Rai - La Lega solo a caccia di prebende. Marcello Foa che fine che hai fatto una poltrona e il pensiero logico e coerente buttato via


Doppia poltrona a Viale Mazzini. Foa rischia di fare la fine di Meocci. Laganà ricorda il precedente caso di incompatibilità. Determinante diventa la decisione dell’Ad Salini 

22 giugno 2019 di Fausto Tranquilli

La doppia poltrona di Marcello Foa sembra ormai appesa a un voto. Quello dell’amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini. E se la posizione del presidente di Viale Mazzini continua ad essere difficile, nonostante cerchi di resistere in ogni modo anche dopo la pesante bocciatura ricevuta dalla Commissione Vigilanza, non è più semplice quella dell’Ad, che da una parte cerca di difendere a tutti i costi le sue scelte e dall’altra rischia di finire in rotta di collisione con il Movimento 5 Stelle che l’ha voluto come manager. Una previsione tutt’altro che azzardata dopo le prese di posizione di ieri dei consiglieri Rita Borioni e Riccardo Laganà.

L’AFFONDO. La risoluzione presentata dal pentastellato Primo Di Nicola, vice presidente della Vigilanza, contro il doppio incarico di Foa, presidente sia della Rai che della controllata RaiCom, dunque controllore e controllato al tempo stesso, è stata approvata dai Cinque Stelle insieme al Pd e a Leu. Un brutto colpo per la Lega, dopo che Matteo Salvini ha voluto con forza Foa in viale Mazzini. Ma non è bastato a far cedere al presidente la poltrona di RaiCom, per cui non percepisce neppure stipendio. Tra assunzioni, un nuovo canale in inglese e un ricco budget da gestire sono tanti i motivi che spingono i leghisti a non mollare la controllata.

Sul caso dovrà pronunciarsi il prossimo 5 luglio il Consiglio di amministrazione. E nell’attesa ieri il consigliere Laganà, espresso dai dipendenti di Viale Mazzini, ha paventato il rischio che con Foa possa finire come in passato con Alfredo Meocci, direttore generale e consigliere dell’Agcom, un’incompatibilità che costò alla Rai una multa milionaria. “Corsi e ricorsi storici – ha scritto Laganà sul suo profilo Facebook – sembrano non insegnare nulla. Ad esempio, ricordo che il caso Meocci costò diversi pareri legali per maturare l’unica decisione che non andava presa: Meocci era infatti incompatibile”.

A dargli manforte il consigliere Rita Borioni, espressione del Pd: “Temo che si dovranno percorrere le vie formali”. A votare contro Foa, nel CdA, oltre ai due dovrebbe essere sicuramente il consigliere in quota M5S, Beatrice Coletti. A questo punto, oltre al suo voto, il presidente potrà contare su quelli del leghista Igor De Biasio, che si trova tra l’altro nella sua stessa situazione, e di Giampaolo Rossi, di FdI. A fare da ago della bilancia finirebbe così l’AD.

TRA DUE FUOCHI. Salini cerca da giorni di difendere la doppia poltrona di Foa, avendo dato lui l’ok al doppio incarico. Dopo il voto della Vigilanza l’azienda ha anche diramato un comunicato stampa, specificando che “i vertici aziendali, convinti della correttezza del proprio operato, effettueranno tutte le valutazioni conseguenti nel prossimo consiglio di amministrazione”. L’amministratore delegato è però anche lo stesso manager voluto dal M5S e votare per l’uomo forte della Lega corrisponderebbe a votare contro i pentastellati. Una vicenda particolarmente spinosa e che rappresenta anche una delle ferite aperte all’interno della maggioranza gialloverde di governo.

Ma se anche il presidente dovesse resistere nell’incarico in RaiCom rischia di perdere direttamente quello in Viale Mazzini. Il Movimento 5 Stelle, davanti a tale resistenza, potrebbe infatti decidere di sfiduciarlo come presidente Rai dopo averlo votato. E in quel caso la risoluzione sarebbe vincolante. Molto più di un’ipotesi stando a diversi rumors. Del resto sulla Rai si gioca ormai una partita a scacchi.

La guerra si avvicina velocemente - La Cina e la Russia non si possono permettere di perdere l'Iran nell'attuale gioco geopolitico


Perché l’Iran

Davide 22 Giugno 2019 , 12:14 

DI FEDERICO DEZZANI


Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture.

Ferrovie dall’altopiano iranico al Mediterraneo

Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia. “Persa la guerra” in Siria, per gli USA è tornata prioritaria la caduta del regime iraniano, caduta che si spera di facilitare strangolando la sua economia e impedendo l’esportazione di idrocarburi.
Inizialmente, gli USA avevano concesso una “esenzione” di 180 giorni ai principali acquirenti di greggio iraniano, poi non rinnovata nell’aprile scorso: chi avesse continuato a fare affari con Teheran, sarebbe incappato nelle contromisure americane. L’ennesimo round di sanzioni (che, in sostanza, affliggono l’Iran dal 1979), colpisce duro soprattutto i Paesi industrializzati o in via di industrializzazione dell’Asia: Turchia, India, Cina, Giappone e Sud Corea. Tokyo, quarta consumatrice mondiale di greggio e decisa a non appiattirsi completamente alla strategia angloamericana, si è fatta protagonista di una singolare iniziativa: benché il suo governo si sia impegnato a tagliare gli acquisti di greggio iraniano, Shinzo Abe è volato a Teheran (la prima visita di un premier giapponese nella Repubblica Islamica!) per stemperare le tensioni e, ovviamente, mettere in sicurezza gli approvvigionamenti energetici del Giappone, che sarebbe duramente colpito da uno choc petrolifero.

“L’insubordinazione” giapponese, proprio mentre gli angloamericani erano impegnati a fare terra bruciata attorno all’Iran, è stata punita col classico attacco piratesco delle potenze marittime: mentre Shinzo Abe ed il presidente Hassan Rouhani erano a colloquio, due petroliere, di cui una giapponese (la Kokuka Courageous) sono state colpite il 13 giugno nello stretto di Homuz, davanti alle coste iraniane. Inizialmente si è parlato di siluri, ma i danni sopra la linea di galleggiamento fanno propendere per l’impiego di missili: con un’incredibile sfacciataggine, il segretario di Stato Mike Pompeo ha prontamente accusato l’Iran. Il crescendo di tensioni e provocazioni (tra cui l’invio aggiuntivo di 1.000 soldati in Medio Oriente) è culminato con l’abbattimento, il 21 giugno, di un drone americano sopra i cieli iraniani. Il mondo, ora, aspetta col fiato sospeso gli sviluppi della vicenda: un attacco all’Iran, afferma il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe “catastrofico”. Il sogno angloamericano sarebbe, ovviamente, che il regime iraniano implodesse sotto il peso delle sanzioni o, perlomeno, attaccasse per primo: è, tuttavia, uno scenario irrealistico, vuoi per la comprovata resilienza del regime alle sanzioni, vuoi per la rinomata prudenza iraniana. Un attacco militare angloamericano, magari innescato da qualche “incidente di frontiera”, resta quindi una realistica opzione, di qui al 2020. L’Iran, intanto, ha dichiarato di voler procedere con l’arricchimento dell’uranio dopo il naugrafio degli accordi dell’era Obama.

In questa sede, però, ci interessa soprattutto inquadrare lo scontro in un’ottica geopolitica, cioè nel più ampio scontro tra Terra e Mare. È indubbio che l’amministrazione Trump sia sensibilissima alle esigenze di sicurezza di Israele: abbattuto l’Iraq bahatista, fallito il tentativo di impiantare un “Sunnistan” tra Siria e Iran, Teheran è ormai in grado di proiettarsi sino al ridosso di Israele. La distruzione del regime iraniano è una priorità israeliana e, quindi, americana. Tuttavia, non bisogna mai scordare che Israele assolve anche a un’importante funzione per le potenze marittime: quella cioè di mantenere in costante instabilità il Medio Oriente ed impedire che qualche potenza continentale “organizzi” la regione. Turchia e Iran, due potenze dell’Heartland in termini mackinderiani, sono gli storici “organizzatori” del Levante e della Mesopotamia: un elemento che sicuramente ha contribuito alla decisione angloamericana di aumentare la pressione sull’Iran è stato, in parallelo al suo rafforzamento militare in Siria, la sua volontà, annunciata lo scorso aprile, di costruire una ferrovia transnazionale dall’altopiano iranico sino al Mediterraneo. Poco importa se su questa ferrovia dovessero viaggiare solo merci o turisti, in ogni caso l’Iran espanderebbe la sua influenza sino al mare, attirando nelle propria orbita i vicini, e, presto o tardi, renderebbe irrilevante Israele (e gli angloamericani).

La natura geopolitica dello scontro in atto (dove per “geopolitico” si intende specificatamente la dialettica Terra-Mare) spiega anche la convergenza in atto dell’Iran verso le altre due potenze dell’Heartland per eccellenza, Russia e Cina. Mosca, impegnata nelle operazioni militari in Siria, ha sinora cercato di mantenere un certo equilibrio tra Israele e Iran: tuttavia, non c’è alcun dubbio che, qualora quest’ultimo fosse attaccato, la Russia fornirebbe assistenza militare attraverso il Mar Caspio per sostenere l’urto angloamericano. Il fronte meridionale della Russia è ora relativamente “in sicurezza”, lo sarebbe molto meno se il regime iraniano dovesse cadere. Un discorso analogo vale per la Cina: non solo l’Iran è una preziosa fonte di approvvigionamento di petrolio per Pechino, ma è anche un tassello chiave del corridoio centrale della Via della Seta, che dovrebbe portare i treni cinesi fino a Istanbul passando proprio per Teheran. Un attacco all’Iran, con il suo immediato contagio di caos e violenza a tutto il Medio Oriente, rischierebbe di ritardare per anni il corridoio centrale; un’implosione del regime per decenni. Ecco perché anche Pechino ha interesse a sostenere l’Iran in questo difficilissimo momento.

Zbigniew Brzezinski aveva già previsto nel 1997, nel suo The Grand Chessbord, la possibile nascita di un’alleanza “anti-egemonica” (ossia anti-angloamericana) tra Russia, Cina e Iran. “ Theresult could, at least theoretically, bring together the world’s lead-ing Slavic power, the world’s most militant Islamic power, and theworld’s most populated and powerful Asian power, thereby creat-ing a potent coalition.” Quest’alleanza è in nuce e gli USA stanno facendo di tutto per spingere verso la guerra il membro più debole del “blocco continentale”: se guerra sarà, Cina e Russia non staranno sicuramente a guardare.

Federico Dezzani



un piccolo squarcio sul Sistema massonico mafioso politico che tiene sotto una cappa l'Italia

LA TESTIMONIANZA

Processo "Gotha" a Reggio, l'asse 'ndrangheta-politica e massoneria svelato dal pentito

22 Giugno 2019


Accuse a tutto campo. Il pentito Consolato Villani si è sottoposto ieri in tribunale a Reggio a una lunga, e impegnativa, testimonianza nel processo “Gotha”, l'inchiesta della Dda che sta ricostruendo la cappa oppressiva della presunta cupola mafioso-politico-imprenditoriale che teneva in pugno la città dello Stretto decidendo affari, gestendo appalti e pilotando nomine e carriere nelle Istituzioni.

Ieri ha affrontato una serie di argomenti dal ruolo di cosche e servizi segreti nel tritolo piazzato e fatto ritrovare a Palazzo San Giorgio quando sindaco era Giuseppe Scopelliti; alla sinergia ed alle intese della politica con gli emissari delle cosche; ai rapporti privilegiati tra le le intelligenze della 'ndrangheta con i servizi segreti e la massoneria.

Immigrazione di Rimpiazzo - la strategia buonista è confusa perchè basata solo sulla malafede

SI PUÒ DEFINIRE "SOCCORSO" IL RECUPERO DI UN PASSEGGERO PAGANTE CHE SI È VOLONTARIAMENTE IMBARCATO SU DI UN GOMMONE?


(di Walter Raleigh)
21/06/19 

A scanso di equivoci, premettiamo subito che andremo contro corrente; analizzare e raccontare imparzialmente quanto accade non conduce a nessuna captatio benevolentiae, ma preferiamo lasciare ad altri il rischio di interpretare il ruolo del Nerone di Petrolini ("Bravo! Grazie!").

La vicenda ricattatoria della Seawatch3, che si sta protraendo in questi giorni al largo di Lampedusa, porta a diverse considerazioni. Nessuna piacevole, beninteso. Innanzi tutto si fa un gran parlare, da più parti, di legge del mare: al netto delle reminiscenze dei film da cinema dopolavorista, alzi la mano chi conosce davvero la materia e, soprattutto, le sue applicazioni in ambito marittimo, tenuto conto che si danno della norma interpretazioni che, basate su una opinabile geometria variabile, privilegiano punti di vista e considerazioni che, con il diritto hanno poco a che vedere e, soprattutto, saltano a piè pari tutti gli altri obblighi previsti da quella stessa legge che, incensata fino a pochi attimi prima, diventa invisa già al primo comma successivo.

Diciamo che la libera prassi ha spogliato di significato il diritto, per cui i concetti di area SAR, porto sicuro e più vicino, bandiera della nave di primo soccorso, rientrano nell’aspetto equestre di un circo istituzionale che, non avendo saputo reagire alle circostanze in quanto privo di vis ma ricco di levantine contraddizioni, ha preferito mercanteggiare il problema con clienti più smaliziati e soprattutto coesi, non disposti ad acquistare dal primo Totò di passaggio la Fontana di Trevi.

Diritto e certezze


I soccorsi in mare sono regolati operativamente da accordi e convenzioni che, tra l’altro, stabiliscono le delimitazioni delle aree SAR; primo problema: chi strepita conosce il diritto internazionale? Il comandante della Seawatch3 sembra apparentemente di no, e si lascia andare, ben supportata, ad interpretazioni che stanno al diritto come la stagione estiva sta all’ottimismo delle adolescenti svedesi. È pur vero che anche le elaborazioni diplomatiche tendono a presentarsi talvolta dense di significati paradossali, se è vero, come è vero, che Malta si è fatta carico di coprire un’estensione marittima grande 750 volte la sua area terrestre pur non avendo mai disposto, neanche nel suo momento di maggior fulgore prenapoleonico, di una flotta mediamente presentabile, e lasciando al Gigante Buono Italiano, l’incombenza di garantire soccorsi per uno spazio che, oltre a La Valletta, arriva fino a Tunisia e Libia.

Preveniamo le domande, Malta come fa? Come il famoso coccodrillo della filastrocca per bambini: non risponde alle chiamate, e quando lo fa arresta equipaggi e passeggeri, abominio questo per cui, presi da gretesco riscaldamento globale, non abbiamo occupato nemmeno il sagrato parrocchiale. Considerazioni spicciole: l’Italia soffre della perdurante mancanza di politica estera e di strategia, cosa che ha condotto il Ministro dell’Interno e non degli Esteri a relazionare in proposito l’alleato d’oltre Oceano, e che porta a ricercare l’altro famoso termine di paragone che fa il paio con grandezza e grossezza: divertitevi, trovatelo voi, è facile come rinvenire un porto sicuro italiano per la Seawatch3.

Un elemento che potrebbe aiutare i lettori risiede nella facoltà concessa ai mezzi aerei delle ONG interessate di levarsi in volo per pattugliare lo specchio d’acqua antistante Lampedusa da un altro italico Ministero, quello delle Infrastrutture, coperto da esponente della stessa maggioranza partita per l’America. Di fatto si è venuta a creare una situazione inconciliabile tra diritto e contingenze reali, che ha creato una serie aberrante di precedenti, dove il confine tra naufragio accidentale e rischio artificiosamente creato, come quello tra naufrago, perseguitato e migrante economico o climatico, è diventato impercettibile.

Ma il punto è anche un altro: perché Malta si sobbarca di tutte queste responsabilità? Semplice: quota parte della zona di interesse della SAR è regolamentata dalla Convenzione di Chicago del 1944 sulla sicurezza dell’aviazione civile, fonte di guadagni cospicui, senza contare diritti di pesca, prospezione petrolifera, nonché le attività di contrabbando di carburante libico, benignamente definibili border line, ed effettuate nelle proprie acque territoriali; questo, forse, potrebbe spiegare la ritrosia maltese a riconsiderare l’estensione delle zone SAR, anche se non riesce a dare alcuna spiegazione valida circa l’assenza politica della UE. Quando si dice la certezza del diritto, eh?


Lucro ed Organizzazioni sparse

Il tamburo della propaganda pro ONG suscita l’invidia degli incipit romanzeschi dell’800, anche se individua solo nell’Italia l’inevitabile Regno della cattiveria, attribuendo lo status di Repubblica della bontà a chi, apertamente, ricaccia indietro i migranti impedendone l’accesso sul proprio territorio. Se è vero che sono stati posti paletti alle attività di navi registrate in un paese e battenti bandiera di un altro, è altrettanto vero che, dolosamente, altre unità continuano ad inerire nella vita politica nazionale, infischiandosene del diritto vigente e ponendo a rischio la vita dei passeggeri raccolti, NON sbarcati nel primo porto sicuro, e di fatto, spesso oggetto di sviluppi fisiologici inspiegabili per cui un lattante, raccolto in Libia, una volta giunto dopo 10 giorni a Pozzallo è alto 180 cm e si rade quotidianamente, altro che Novecento di Baricco.

Quel che è certo, è che i percorsi migratori, grazie anche alle possibilità offerte dalle unità delle ONG che navigano fraudolentemente con i transponder disattivati, hanno visto scemare i rischi e aumentare i flussi, tanto da permettere anche a bengalesi e pakistani, notoriamente mediterranei, di giungere via aereo in Libia per intraprendere una traversata garantita dall’intervento di soccorsi che, pronti al limitare delle acque territoriali libiche, permettono addirittura di far risparmiare il gasolio necessario.

Si può definire soccorso il recupero di un passeggero pagante che si è volontariamente imbarcato su di un gommone? Praticamente una farsa. La mancanza di strategia, sul piano internazionale, ha lasciato l’Italia in balia delle politiche altrui, Vaticano compreso, con il coinvolgimento di apparati interni come la Guardia Costiera, che non hanno potuto fare altro svolgere i propri compiti istituzionali, creando un effetto distorsivo ed incentivante delle migrazioni, amplificato da una politica dell’accoglienza mal gestita e dispendiosa. Una piccola nota sul nostro atavico autolesionismo: invece di premere per riconsiderare le aree SAR, l’Italia ha solamente accresciuto, a suo carico, la rilevanza di obblighi ed oneri.


Ritorniamo sulla Seawatch3: si tratta di tutte ONG? No, parliamo anche di ONLUS, ovvero di organizzazioni non lucrative di utilità sociale, che comprendono tutte le associazioni della cooperazione, nate con regolamentazione del 1997 tesa a disciplinare le esenzioni fiscali, ed ormai proliferate ovunque. Non più di 6 anni fa, più di 4 milioni di italiani lavoravano per queste organizzazioni; finanziariamente parlando, andarle a toccare significa intaccare un indotto prezioso come i diritti maltesi sulla sua paradossale SAR senza contare che le donazioni private non vietano alle ONLUS di fruire di fondi pubblici.

Non sappiamo se sulla Seawatch3 sappiano tutto ciò: noi propendiamo per un incondizionato SI, aspetto che ci fa considerare l’attività caritatevolmente navale come connivente e destabilizzante, dato che il business, cominciato a bordo, si perfeziona a terra dove le sventure umane diventano strumento per incassare denaro pubblico.

Conclusioni?

Difficile chiudere su una vicenda in corso, e che lo sarà prevedibilmente ancora a lungo. I DEF degli ultimi anni presentano dati finanziari spaventosi in termini di spesa, una spesa che l’Italia ha potuto solo considerare come da detrarre (pelosa carità europea) dal totale complessivo in termini di debito, disavanzo, e con un mercato del lavoro impossibilitato ad assorbire un capitale umano spesso impreparato, di passaggio e soprattutto refrattario a permanere, lavorando, nella propria terra di origine.

Impatto sociale: potenzialmente devastante, con servizi pubblici carenti quantitativamente e qualitativamente, assicurati sia ai cittadini paganti ed aventi diritto, sia a soggetti che, pur non avendo mai contribuito e non godendo di alcuno status riconosciuto, avanzano rumorosamente pretese sempre più onerose.

È inevitabile prendere atto che il re, ormai, è nudo, e che il buonismo d’accatto ancora inalberato da una sinistra ridimensionata dagli ultimi risultati elettorali, che tanto si sta adoperando a partire dai croissant estivi della Diciotti, che infinita disperazione addussero ai migranti fuggitivi, non tiene conto della stanchezza di un popolo che, non razzista di elezione, sta diventando esasperato di necessità.

Massimo Fini - i Cinque Stelle. Il vero nemico in Italia, per tutti coloro che non stanno con gli “umiliati e offesi”

Il caso. Massimo Fini spiega perché una certa destra sociale ha votato M5S

Pubblicato il 21 Giugno 2019 da Massimo Fini

Massimo Fini


E adesso sappiamo che non c’è solo la magistratura italiana a essersi corrotta, immersa in un marciume di lotte intestine, di scambi di favori che nulla hanno a che fare con la giustizia, di rapporti equivoci con esponenti politici della cosiddetta sinistra per indirizzare le inchieste, c’è anche una magistratura brasiliana corrotta con conseguenze ancor più politicamente devastanti per quel Paese: l’eliminazione degli esponenti del chavismo bolivariano, la forma che il socialismo ha preso in Sudamerica, Dilma Rousseff e Luiz Inacio Lula, la prima estromessa dal potere con procedure molto simili a quelle con cui in Venezuela si è cercato di far fuori Maduro, il secondo messo in galera con accuse di corruzione. Sull’eliminazione politica, attraverso il braccio giudiziario, di Rousseff e Lula avevamo espresso molti dubbi già un anno fa (Fatto11.4.2018, “Non ci provate: il caso Lula non c’entra niente con Berlusconi”). Ora questi dubbi sono confermati da un’inchiesta del sito investigativo The Intercept che ha accertato che le principali accuse nei confronti di Rousseff e di Lula sono frutto di una macchinazione giudiziaria e che il principale capo d’accusa contro Lula, l’essersi fatto regalare un lussuoso appartamento, è falso perché quell’appartamento non risulta di proprietà né di Lula né di persone a lui vicine. Alle spalle di tutto questo ci sono i soliti americani che già nel 2014 facevano spiare dai Servizi l’ex presidente Rousseff e i suoi uomini perché interessati al grande giacimento petrolifero del Presal.

Tutti i quotidiani italiani hanno dato rilievo a questa vicenda, tranne Il Giornale stretto nell’imbarazzante morsa dei suoi attacchi alla magistratura, in qualsiasi Paese del mondo, si trattasse anche della Nuova Zelanda, in funzione pro Berlusconi e il fatto che uno dei principali totem dell’estrema destra mondiale, Bolsonaro, sia arrivato al potere proprio grazie alle mene dei magistrati. C’è un dettaglio che riporta le vicende brasiliane a quelle nostrane: i magistrati carioca esultarono per il successo delle manifestazioni di piazza che aiutarono a far cadere Rousseff come, lo abbiamo ricordato sempre sul Fatto, tutta la ricca e ricchissima borghesia italiana esplose in uno scomposto tripudio dopo i risultati delle elezioni europee non tanto per la vittoria di Salvini ma per il tonfo dei Cinque Stelle. Il vero nemico in Italia, per tutti coloro che non stanno con gli “umiliati e offesi” ma dall’altra parte, compresi i dem, sono i Cinque Stelle, perché è l’unico partito italiano che, sia pur a modo suo, ha un’ispirazione socialista. Non è certamente un caso che quello italiano, per volontà dei Cinque Stelle e non certo di Salvini, sia stato l’unico governo europeo a non prendere partito per il fantoccio americano Guaidò. Numerose sono le misure di tipo socialista già prese dai Cinque Stelle, dal reddito di cittadinanza a quota 100 in comproprietà con la Lega, al decreto dignità, al taglio dei vitalizi, mentre altre bollono in pentola come il taglio alle pensioni d’oro. Nell’ideologia dei Cinque Stelle ci sono, per usare una terminologia di cui ho fatto piazza pulita a partire dalla Ragione aveva Torto? (1985), fattori sia di sinistra sia di destra, e altri che sono specifici di questo movimento. In ogni caso l’ideologia ‘grillina’ ha preso una strada tutta sua che nulla ha a che vedere con le categorie partorite dall’Illuminismo, sia in chiave liberista che marxista, con la loro mitologia della produzione, del lavoro, della scienza tecnologicamente applicata. E’ significativa l’opposizione alle grandi infrastrutture di cui il no alla Tav è il simbolo perché non si può avere nello stesso tempo un mondo ecologicamente ed esistenzialmente equilibrato e un modello di sviluppo basato sulla produzione e il consumo compulsivo. Particolarmente interessante, in senso esistenziale, è la distinzione espressa, sia pur in modo un po’ confuso, da Grillo fra ‘tempo libero’ e ‘tempo liberato’. Il ‘tempo libero’ è destinato sempre al consumo, senza il quale il modello di sviluppo occidentale collasserebbe su se stesso, il ‘tempo liberato’ è invece il tempo della riflessione, della contemplazione e delle cose che ci piace veramente fare. In Occidente si è utilizzata la tecnologia in modo assurdo. Le macchine avrebbero potuto lavorare, almeno in parte, per noi, invece siamo noi a lavorare per le macchine e addirittura per gli algoritmi finanziari sfuggiti di mano agli stessi apprendisti stregoni (si veda il libro di Alexandre Laumonier “6/5. La Rivolta delle macchine”) che sbattono le persone fuori dal mondo del lavoro mandandole nella caienna della disoccupazione. E’ ovvio che un’impostazione di questo genere mandi fuori dai gangheri le élites e i mercati internazionali in cui l’Italia non ha certo una parte di rilievo. Ed è questo il vero motivo dell’omnicomprensiva ostilità nei confronti dei ‘grillinos’ come li chiamano in Spagna. (Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2019)

Il fanfulla abbaia alla Luna credendosi un lupo ma è un cane

Tasse, Di Maio punge Salvini: “Bisogna tagliarle veramente, non sui giornali”


21 Giugno 2019 - 17:25 

Dopo che Matteo Salvini ha ribadito come senza un taglio delle tasse è pronto ad abbandonare il governo, è arrivata la replica di Luigi Di Maio: “La Lega ha vinto le Europee, non si può sempre dire che è colpa degli altri”.


La situazione all’interno del governo sta iniziando a diventare paradossale, con Luigi Di Maio che però sceglie l’ironia invece che i toni duri per richiamare all’ordine un Matteo Salvini che sembrerebbe non capire, o meglio far finta di non capire, la complessità dell’attuale momento.

Succede quindi che in una giornata dove il premier Giuseppe Conte si è visto rispondere in Europa che, per evitare la procedura d’infrazione, l’Italia dovrà fare una manovra correttiva e non soltanto portare in dote qualche miliardo trovato nel cassetto, il leader della Lega continua a ripetere il suo mantra del o si tagliano le tasse oppure saluto il governo.

“Tagliare le tasse è come la pace nel mondo, tutti la vogliono - è stata la replica di Luigi Di Maio come riporta l’agenzia Agi - Il tema è che bisogna tagliarle non sui giornali ma veramente”.

Più in generale il capo politico dei 5 Stelle vuole cercare di stanare Salvini che, in una situazione complicata per l’esecutivo, si comporta come se stesse “all’opposizione e non al governo”.
Tasse, Di Maio replica a Salvini

Fin dalla nascita del governo del cambiamento i 5 Stelle hanno avuto uno spiacevole sentore: un doppio gioco della Lega che punta a far ricadere tutte le problematiche sulle spalle del Movimento e, contemporaneamente, cercare di portare a casa quanti più provvedimenti possibile.

Questo perché i pentastellati, forti della maggiore rappresentanza parlamentare, hanno espresso (anche se tecnico) il Presidente del Consigliooltre ad aver ottenuto quasi tutti i ministeri più importanti, eccezion fatta per l’Interno finito a Matteo Salvini.

In sostanza nel primo anno è stato un governo più giallo che verde ma, dopo le elezioni europee, la Lega ha chiesto più spazio iniziando a imporre la propria agenda programmatica agli alleati grillini.

“La Lega ha vinto le europee, sembra che stia all’opposizione e non al governo, non si può sempre dire che è colpa degli altri - è stata la tirata d’orecchie da parte di Di Maio - Salvini non può dire o mi trovate i 10 miliardi o me ne vado”.

In sostanza la Lega nella partita del governo con l’Europa sembrerebbe volersi tirare fuori, lasciando in prima linea il premier Conte e il ministro Tria per far cadere su di loro ogni responsabilità in caso di fallimento.

Salvini quindi come non curante di quanto sta accadendo a Bruxelles parla solo di riforma fiscale. “Io voglio abbassare le tasse - ha continuato Di Maio - ma dobbiamo lavorare seriamente perché dobbiamo fare una legge di Bilancio che deve soddisfare le richieste dei cittadini”.

L’invito del leader 5 Stelle quindi appare essere molto chiaro: Matteo Salvini deve prendersi le sue responsabilità e lavorare in sinergia con il governo, senza fare infantili aut aut visto il momento più che delicato per il paese.

Proposte concrete invece di continue dichiarazioni, questo è quello che Di Maio chiede all’alleato, ma Salvini finché riesce a far passare i propri provvedimenti senza esporre la Lega alle critiche di governo difficilmente cambierà strategia.

Facebook crea moneta mentre il governo pagliaccio italiano non paga le aziende creditrici con i MiniBot


“Libra”, la moneta di Facebook: i privati scavalcano gli Stati


Libra: la moneta di Facebook

All’interno del sistema capitalista, il cui aggettivo stesso è parlante ed in sé pienamente esplicativo, il privato va alla ricerca del profitto. Nel modello neoliberista che ha assurto a propria divinità panteista la libera circolazione dei capitali (e tutte le nefaste conseguenze sociali che questa liberalizzazione senza freni ha portato in seno), questa ricerca è stata esacerbata, ed ha prodotto povertà molto più diffusa, allargamento della forbice sociale, finanziarizzazione dell’economia e concentrazione oligopolistica della ricchezza.
Il che significa: omologazione dei prodotti, augumento senza limitazioni del profitto (facilitato da un capitale, il cui flusso è stato deregolamentato), schiavizzazione progressiva e silente ad un modello consumistico, capace di travolgere ogni resistenza e di “glebalizzare” i popoli. Del resto: «Quando tutto sarà privato, saremo privati di tutto».

Tutti questi fattori – storici, economici, culturali – stanno dietro all’iniziativa di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, di creare la Libra, ovverosia una criptovaluta con funzionamento blockchain (struttura dati condivisa, immutabile e protetta da un sistema crittografico efficiente) attraverso la quale raggiungere oltre due miliardi di utenti nel mondo. Il suo White Paper ne enuclea il funzionamento, anche se in maniera piuttosto “grigia“.


L’obiettivo però è chiaro, è cristallino: dare vita ad un vero e proprio sistema di pagamenti online che trascenda quelli tradizionali, persino quelli bancari (con l’intermediazione delle piattaforme online che ad essi accedono su consenso degli utenti), che funzioni a livello transnazionale, agganciandosi a valute reali, e che addirittura un giorno vada al di là della rete Facebook per la quale i suoi primordi sono stati concepiti. Questo sistema sarebbe completamente privato, verificato dagli adibiti al controllo e dagli autorizzati: infatti, la Libra non sarà distribuita (a differenza del Bitcoin), bensì centralizzata nella sua architettura blockchain (cioè, il contrario dell’intrinseca peculiarità del blockchain stesso).

Ovverosia, in parole povere: un privato creerà la moneta necessaria affinché gli utenti si scambino beni e servizi. Un “modus operandi”, peraltro, proprio già delle Banche Centrali indipendenti (nel particolare, si tratta per esse del “debito eterno“), come quella Europea, ma che in questo caso va al di là di ogni comune modo di intendere la moneta: non apparterrà ad uno Stato, non apparterrà ad una banca, bensì ad un privato imprenditore. Ad un silente imperialista, in certo qual modo.

In quanto – per utilizzare i concetti degli studi di Giacinto Auriti – la moneta non sarà di proprietà del portatore, ma del creatore, che indurrà alla sua volontaria accettazione attraverso presupposti quali la semplicità dello scambio e la sua gratuità. Al prezzo del controllo, mascherato da libertà, e della dipendenza, che ha stretto la presa solo dopo aver serpeggiato per tutto il corpo sociale e civile delle persone, insinuandosi nei rispettivi Stati nazionali.
Non incidentalmente, si sono uniti al consorzio che gestirà la Libra una serie di multinazionali molto potenti, molto diffuse nel mondo, con utili da capogiro: Uber, Spotify, E-Bay, MasterCard, Paypal, VISA, Vodafone e tante altre ancora. La loro diffusione estremamente capillare in tutto il mondo, la variegata molteplicità delle loro funzioni, spingono a fare una previsione quasi scontata: la nuova moneta globale di Facebook non soltanto verrà accettata, ma troverà anche una vastissima quanto rapida dilatazione del suo uso e delle sue competenze, giungendo anche ad oltrepassare il web.

Una moneta privata, gestita da privati

Mentre Facebook sta discutendo della propria valuta mondiale con la Federal Reserve, e mentre la Camera statunitense ha espresso un voto bipartisan contrario all’introduzione della suddetta, occorre cercare di comprendere la natura della Libra, e perché ha (giustamente, anzi in maniera sacrosanta) attirato su di sé tante attenzioni (anche se, ancora, non abbastanza dal mondo della politica).

In precedenza, essa è stata chiamata criptovaluta: in certo qual modo, è un amalgama fra le due parti, senza essere pienamente nessuna delle due. Il sistema blockchain, attraverso il quale funzionano i bitcoin, verrebbe centralizzato, e per ciò stesso snaturato; non sarebbe una moneta nel senso normalmente inteso (creata cioè dalle uniche entità che potrebbero crearla: gli Stati, e le Banche Centrali sotto commissione di questi ultimi), ma assumerebbe i connotati di una vera e propria valuta elettronica (nella cui forma oggi girano la gran parte dei pagamenti e degli spostamenti di capitali, specialmente se ingenti).

Tuttavia, i connotati più clamorosi – come evidenzia Business Insider Italia – vengono in essere non tanto nella sua natura ibrida, una sfida notevole per il mondo della fintech, quanto nel suo modo di creazione: la Libra disporrà di una Banca Centrale, che conserverà i dollari e gli euro ai quali la valuta di Facebook si aggancerà, per stabilizzarne le eventuali fluttuazioni.

Il consorzio di aziende multinazionali che ci sta dietro si ritroverà quindi a battere moneta in qualità di entità capitalistica privata, finalizzata al profitto, distribuendola via web agli utenti e contemporaneamente accumulando miliardi di dollari in riserve valutarie. Le cifre stimate supererebbero di gran lunga quelle proprie di molte Banche Centrali nazionali, ivi compresa quella italiana.


Una riflessione sulla questione nasce spontanea, e non può che partire, con il proprio itinerario, da domande banali, forse finanche riduttive, ma necessarie: è possibile che dei privati possano creare valuta dal nulla (o, più specificamente, sintetizzare quelle esistenti)? È pensabile che uno Stato non abbia facoltà di battere moneta, mentre un’azienda sì?

Nel mondo odierno, anno domini 2019, esistono ben due aree valutarie dove gli Stati, attraverso una nefasta scelta politica (vuoi per collusione, vuoi per ignoranza, vuoi per tacita costrizione), hanno optato per cedere (tutta od in parte) la propria sovranità in materia monetaria, fiscale e di cambio: l’eurozona e la comunità dei 14 Paesi africani che adottano il Franco CFA.

Attraverso un meccanismo di funzionamento simile – pur con i dovuti distinguo -, entrambe le monete incatenano gli Stati che le adottano, impediscono loro di legare la propria politica economica a sovrane scelte democratiche (giuste o sbagliate che siano, sono frutto del mandato del popolo). Attraverso il rigore dei conti e gli obiettivi della stabilità dei prezzi e della bassa inflazione, esse permettono (anzi, stimolano) una progressiva macelleria sociale, che va a discapito della maggioranza e che contribuisce invece ad arricchire i già benestanti, gli industriali, il mondo finanziario e così via.

In entrambi i casi, gli Stati (non-più-)sovrani sono costretti a chiedere in prestito, a variabili tassi di interesse, due valute create dal nulla, prive di valore intrinseco e sganciate da qualsiasi valore reale, da qualsiasi materiale prezioso (il regime di Bretton Woods è caduto nell’agosto del 1971, con una scelta unidirezionale del presidente americano Richard Nixon).



Dunque, come è possibile che un’azienda come Facebook – per di più, marcatamente favorita nella tassazione dai paradisi fiscali, (in buona compagnia di Amazon ed altre, peraltro rivali) – possa battere la propria moneta, mentre uno Stato no?

Il contesto di progressivo svuotamento delle sovranità nazionali, di competitivismo sfrenato e sregolato con la giustificazione della libertà individuale, di schiacciamento dei più deboli e dei non allineati, di imperialismo finanziario, di menzogna mediatica, rende la domanda di cui sopra non inutile, ma quanto meno retorica. Infatti, consentire legislativamente ad una multinazionale di dare vita ad una propria valuta, quando degli Stati espressione della sovrana democrazia popolare sono costretti a giocare con le mani legate dietro la schiena, è parte integrante di questo processo.

È una fattezza naturalmente sorta ed emersa in questo mondo progressivamente spinto sempre più in là: una distopia che gli alfieri del liberismo (leggasi, il Sole24Ore) non possono che difendere a spada tratta, postulando il mai domo teorema dei vizi privati la cui somma crea virtù pubbliche, dell’avidità individuale che arricchisce la società. Una distopia, i cui contorni e le cui sfumature hanno trovato una evidente epifania in un recente fatto di cronaca d’Italia e d’Unione Europea: la questione dei minibot.

La natura dei minibot

Nel mese di giugno, a seguito della mozione parlamentare approvata sullo sblocco dei pagamenti della Pubblica Amministrazione italiana nei confronti delle imprese presenti sul territorio nazionale, è nato un ampio dibattito sui minibot, un intelligente strumento elaborato da Claudio Borghi, economista e deputato della Lega, ancora nel lontano 2011: titoli di Stato di piccolo taglio, anche utilizzabili per il pagamento delle imposte.

Questi ultimi non si comprano, ma si accettano, ed unicamente in maniera volontaria. Infatti, non sono né una valuta parallela né emissione di nuovo debito – come molti osservatori hanno paventato -, bensì una cartolarizzazione del debito già esistente della Pubblica Amministrazione verso le imprese italiane in credito verso lo Stato. In un regime di (indotta ed obbligata) austerità, dopo quasi trent’anni di avanzo primario, fornire una buona quantità (70 miliardi di euro) di strumenti di scambio di beni e servizi per ossigenare l’economia interna – che Monti ed altri hanno provveduto a deprimere – potrebbe essere una soluzione eccellente.

Questo provvedimento, osteggiato da molti fronti interni (il PD, il Ministro dell’Economia Tria ed altre fronde) e naturalmente da quello esterno europeo, potrebbe essere, inoltre, culturalmente rivoluzionario, già soltanto per il fatto che esista e che politicamente venga discusso, in quanto mostrante una realtà fattuale semplice, ma incompresa: la moneta è un simbolo, una convenzione, e non ha valore a meno che non venga riconosciuta (dallo Stato e dai cittadini).

I minibot sono titoli cartolarizzati senza scadenza, il cui obiettivo principe è quello di assumere forma di moneta (pur senza esserlo) per assolvere la funzione della valuta e permettere così di ravvivare la domanda interna, circolando nel mercato privato. In assenza di liquidità dalla BCE per assurdi vincoli di bilancio, essi rappresenterebbero una boccata d’ossigeno notevole, per quanto provvisoria (ma la provvisorietà dello strumento è intrinseca al modo in cui è stato concepito), para-monetizzando il debito nel circuito interno.

La loro natura, oltre che rispettare i trattati europei, non è né truffaldina né da filibustieri, ma anzi è un provvedimento che, nel contesto internazionale all’interno del quale l’Italia si trova, risulta molto brillante e di raziocinio, in quanto conscio della natura della moneta moderna.

L’Italia, infatti, ha ceduto la sua sovranità in materia di politica monetaria (che viene condotta dalla BCE), parzialmente in materia di politica fiscale (i vincoli al deficit indirizzano necessariamente la spesa pubblica e la tassazione verso un certo “modus operandi”), in materia di politica del cambio (la moneta unica, l’euro, è un accordo di cambi fissi).


In questa condizione, salvo un recesso politico da queste regole assurde ed ingabbianti – previa preparazione di un piano industriale nazionale, di accordi internazionali bilaterali e di una programmazione ferrea -, ogni provvedimento non può che essere parziale, provvisorio, poco risolutivo. I minibot sono, vogliono essere, uno strumento teso ad ossigenare un Paese strozzato, la cui natura richiama i “tax-backed bonds” elaborati da Warren Mosler ancora sette anni fa: crediti d’imposta usati come valuta e mezzo di pagamento circolante, tradotti in Italia da Marco Cattaneo ed il suo gruppo di studiosi come Certificati di Credito Fiscale (che il M5S vorrebbe portare in discussione in Parlamento attraverso il deputato Pino Cabras). Misure che, peraltro, mai sarebbero state necessarie neppure da pensare, se non fosse venuta in essere con Maastricht una struttura sovranazionale che ha profondamente danneggiato l’Italia.

In conclusione, volendo ritornare all’argomento Libra, viene da chiedersi: come è possibile che regolari titoli i Stato cartolarizzati sollevino un vespaio di proporzioni bibliche, mentre invece una valuta creata dal nulla da un’azienda multinazionale – tesa ad universalizzarsi – abbia generato soltanto qualche (per ora) timida protesta?
Anche in questo caso, la risposta appare semplice: essa fungerebbe da ulteriore strumento per depotenziare gli Stati, un obiettivo perseguito con costanza anatomica negli ultimi quarant’anni. Soprattutto attraverso una costante ascesa di leve economiche che hanno espropriato la politica della propria forza, insinuandosi nella democrazia ed inficiando l’essenza stessa di quest’ultima.

Lido di Libra: una spiaggia sconosciuta


Una giusta riflessione viene posta in essere dal quotidiano Linkiesta: «Ma questo ci dovrebbe sollecitare a elaborare nuove forme politiche, non necessariamente di “controllo” ma di salvaguardia dall’opacità tecnologica a cui progetti come quello di Facebook sembrano votare quel bene altamente simbolico che è la moneta. Ci dovrebbero indurre a chiederci che forma assumono oggi i monopoli naturali, e che forma avrebbe una gestione pubblica, nel senso di trasparente, delle piattaforme che la tecnologia ci mette a disposizione».

Parte del titolo dell’articolo – che, nella conclusione, stimola a ripensare alla soluzione keynesiana a Bretton Woods di una moneta internazionale, non unica, per il libero commercio ed al contempo il disarmo finanziario – “qualcuno svegli gli Stati”, è doppiamente esplicativo. In primo luogo, della necessità che gli Stati tornino a fare gli Stati; in secondo luogo, del processo che da lungo tempo li sta depotenziando.

Di questo processo, il paradigma della Banca Centrale indipendente è (ed è stata) parte integrante, ed oggi tiene in scacco l’Europa: interpretando le regole per i figli (la Germania, oltre ad avere una moneta più debole della sua economia, ancora usa i marchi; la Francia gestisce il sistema del Franco CFA), applicandole per i figliastri (la Grecia è stata ricattata con il taglio della liquidità; l’Italia sta subendo un’assurda procedura di infrazione, condita dai timori che i minibot funzionino, come affermato da Wolfgang Munchau).

Vale dunque la pena lanciare un’ultima considerazione sull’importanza della gestione della moneta. Quest’ultima è uno strumento di scambio di beni e servizi, un simbolo che assume valore unicamente in via condizionale, perché accettata (il giornalista napoletano Francesco Amodeo ha lanciato un’iniziativa coraggiosa e significativa sui “minibot” da usare per pagare il suo libro), e per ciò stesso sarebbe estremamente importante che sia pubblico.

Il fatto che gli Stati abbiano progressivamente ceduto terreno su questo monopolio, li ha condotti a complicarsi in maniera netta la propria situazione finanziaria, i cui dettami si sono sganciati dalla politica e l’hanno soverchiata: l’umana creazione è giunta a gestire e schiavizzare l’uomo.

Per quanto il mondo delle criptovalute esista da tempo, la nuova “moneta di Facebook”, la Libra, ha destato allarmi e preoccupazioni non soltanto per la sua natura ibrida, ma anche per la potenza economica che essa fa trasparire (e verso cui altri giganti si stanno cautelando). Mentre un privato cittadino, se creasse ed usasse (ad esempio) delle sue banconote, verrebbe chiamato falsario, una multinazionale si può invece permettere di bypassare gli ostacoli legali del caso, dando vita addirittura ad una propria valuta, che non farebbe che portare al massimo grado il proprio potere, cristallizzando dei rapporti di forza, da tempo venuti in essere con una serie di provvedimenti legati alla deregolamentazione (di cui si sono enucleati gli aspetti all’inizio), nei quali gli utenti si troverebbero immersi senza neppure essersene accorti.


Non incidentalmente ha notato Business Insider Italia: «L’obiettivo, per nulla mascherato, è infatti quello di rendere Libra una valuta internazionale, alternativa non tanto al Bitcoin – la sfida naturale, considerato che si tratta in teoria di due criptovalute – quanto piuttosto al dollaro. E cioè di trasformarla nella moneta di scambio su scala globale, adottata potenzialmente da due miliardi e mezzo di persone, quanti sono coloro che usano attivamente il social network, ma anche – come ha specificato il capo – da 1,7 miliardi di persone nel mondo che non hanno un conto in banca, o che sono stufe di versare le commissioni a carte di credito o ai servizi di invio digitale del denaro. Potenzialmente, sul lungo periodo, spazzando via qualsiasi competitor».

Ovverosia, creare un monopolio privato di gestione della moneta, la cui forza e diffusione siano tali da sostituirsi a qualunque altra, dando alla luce di fatto una “world currency”. Le conseguenze di quest’operazione sono ignote, ovviamente, ma le premesse sono parlanti.

Per di più, il fatto che il The Economist, settimanale d’informazione britannico, usasse esattamente i termini “world currency” in una sua prima pagina, datata 9 gennaio 1988, riferita a trent’anni dopo (il 2018), non può che evocare sinistri presagi: Orwell scrisse “1984” nel 1949; Huxley (de)scrisse nel 1932 quello che sarebbe stato “Il Mondo Nuovo”.


Questa, che potrebbe venire presto in essere, sarà quindi una distopia (invero, già parzialmente realizzata)? Una Matrix (invero, già fattualmente in atto)? Solo il tempo ce lo dirà, ma una cosa è certa: noi ne saremo parte integrante, ed avremo bisogno di tutta la nostra resilienza.


La guerra si avvicina velocemente - Il mondo non potrà mai perdonare l'aggressione statunitense al popolo persiano


Esercito Iran a Usa, non fate errori 
'O scateneremo l'inferno' 

© ANSA/EPA

Redazione ANSATEHERAN
22 giugno 201913:29NEWS

(ANSA) - TEHERAN, 22 GIU - "Ogni errore commesso dai nemici dell'Iran, in particolare gli Usa e i loro alleati regionali, sarebbe come sparare una polveriera che brucerà gli Stati Uniti, i suoi interessi e i suoi alleati sul campo": è il monito lanciato dal portavoce delle Forze Armate iraniane, Abolfazl Shekarchi". La Repubblica islamica "risponderà a ogni minaccia o aggressione americana", ha detto invece il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Abbas Mousavi.

La guerra si avvicina velocemente - le scommesse sul futuro del petrolio (derivati) faranno saltare il banco, basta poco, dichiarare la chiusura dello stretto di Hormuz

L’Iran opta per la “massima contropressione”

Markus 21 Giugno 2019 , 14:48 

PEPE ESCOBAR

Prima o poi, la “massima pressione” degli Stati Uniti sull’Iran verrà inevitabilmente contrastata da una “massima contropressione”. Le scintille sono infaustamente destinate a volare.

Negli ultimi giorni, i circoli dell’intelligence in tutta l’Eurasia avevano sollecitato Teheran a considerare uno scenario abbastanza lineare. Non ci sarebbe bisogno di chiudere lo Stretto di Hormuz se il comandante della Forza Quds, il generale Qasem Soleimani, la bestia nera per eccellenza del Pentagono, spiegasse in dettaglio sui media globali, che Washington, semplicemente, non ha le capacità militari per tenere aperto lo Stretto.

Come ho già riferito in precedenza, la chiusura dello Stretto di Hormuz distruggerebbe l’economia americana, facendo detonare un mercato dei derivati da 1,2 quadrilioni [negli Stati Uniti il quadrillion è un numero rappresentato dall’unità seguita da quindici zeri (1.000.000.000.000.000 ) N.d.T.] di dollari; e questo farebbe collassare il sistema bancario mondiale, stritolando gli 80 trilioni di dollari del PIL mondiale e provocando una depressione mai vista prima.

Soleimani dovrebbe anche dichiarare apertamente che l’Iran potrebbe, di fatto, chiudere lo Stretto di Hormuz, se alla nazione venisse impedito di esportare, sopratutto in Asia, i due milioni di barili di petrolio al giorno che sono essenziali per la sua economia. Le esportazioni che, prima delle illegali sanzioni statunitensi e dell’embargo vero e proprio, raggiungevano normalmente i 2,5 milioni di barili al giorno, ora potrebbero essere scese a soli 400.000.

L’intervento di Soleimani sarebbe in linea con i forti segnali che già provengono dall’IRGC [il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica]. Il Golfo Persico viene descritto come un prossimo “tiro al bersaglio”. Il generale di brigata Hossein Salami ha sottolineato che i missili balistici iraniani sono in grado di colpire con precisione assoluta le “portaerei in mare”. L’intera costa settentrionale del Golfo Persico, in territorio iraniano, è un unico spiegamento di missili anti-nave, come mi è stato confermato da fonti vicine all’IRGC.

Vi faremo sapere quando lo chiuderemo.

Alla fine, è successo.

Il supervisore dei capi di stato maggiore delle forze armate iraniane, il generale Mohammad Baqeri, è andato dritto al punto: “Se la Repubblica Islamica dell’Iran fosse determinata ad impedire l’esportazione di petrolio dal Golfo Persico, un simile proposito verrebbe attuato nella sua interezza e annunciato in pubblico, in considerazione dell’autorità della nazione e delle sue Forze Armate”.

I fatti sono crudi. 
Teheran, semplicemente, non accetterà una guerra economica a tutto campo restando passiva, 
senza la possibilità di esportare quel petrolio che garantisce la sua sopravvivenza economica. La questione dello Stretto di Hormuz è stata ufficialmente sviscerata. Ora è il momento dei derivati.

Presentare ai media globali analisi dettagliate sui derivati, oltre a quelle militari, costringerebbe tutti quanti i suddetti media, per lo più occidentali, a recarsi da Warren Buffett per chiedergli se la notizia è vera. Ed è vera. Soleimani, secondo questo scenario, dovrebbe parlare [dei derivati] e fare in modo che i media vadano, a loro volta, a parlare con Warren Buffett.

La portata di una possibile crisi dei derivati è un tema super-tabù per le istituzioni del Washington Consensus. Secondo una delle mie fonti bancarie americane, la cifra più accurata (1,2 quadrilioni), proverrebbe da un banchiere svizzero, che ha preferito rimanere anonimo. Lui dovrebbe saperlo, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), la banca centrale delle banche centrali, si trova a Basilea.

Il punto chiave è che non importa come venga bloccato lo Stretto di Hormuz.

Potrebbe essere una false flag. O potrebbe essere perché il governo iraniano pensa di essere attaccato e quindi affonderà una nave mercantile o due. Quello che conta è il risultato finale; qualsiasi blocco del flusso di energia porterà il prezzo del petrolio a raggiungere i 200 dollari al barile, i 500 o anche, secondo alcune proiezioni di Goldman Sachs, i 1.000 dollari.

Un’altra fonte bancaria statunitense spiega: “Il punto chiave nell’analisi è quello che viene chiamato nozionale. E’ talmente scollegato dal denaro che [qualcuno] arriva a di dire che [il nozionale] non significa nulla. Ma, in una crisi, il nozionale può diventare reale. Ad esempio, se acquisto un’opzione di chiamata per un milione di barili di petrolio a 300 dollari al barile, il costo a mio carico non sarà molto elevato, in quanto si ritiene inconcepibile che il prezzo possa salire così in alto. Questo è il nozionale. Ma, se lo Stretto è chiuso, [il nozionale] può arrivare a cifre stratosferiche”.

La BIS ufficialmente afferma che l’ammontare del nozionale complessivo in circolazione per i contratti in strumenti derivati è stimato in 542,4 trilioni di dollari. Ma questa è solo una stima.

La fonte bancaria aggiunge: “Anche qui è il nozionale che conta. Cifre enormi sono collegate ai derivati sui tassi d’interesse. La maggior parte sono teorici, ma se il petrolio dovesse arrivare a mille dollari al barile, questo influenzerà i tassi di interesse, dal momento che il 45% del PIL mondiale è dato dal petrolio. Questo è ciò che in affari è chiamato una passività potenziale”.

Goldman Sachs prevede la possibilità che il petrolio possa arrivare a 1.000 dollari al barile poche settimane dopo la chiusura dello Stretto di Hormuz. Questa cifra, visto che [dal Golfo Persico] escono circa 100 milioni di barili al giorno, ci porta al 45% del PIL mondiale di 80 trilioni di dollari. È ovvio che basterebbe questo a far crollare l’economia mondiale.

I cani da guerra abbaiano come matti

Circa il 30% della fornitura mondiale di petrolio transita nel Golfo Persico e nello Stretto di Hormuz. Gli scaltri mercanti del Golfo Persico, che ne sanno una più del diavolo, sono praticamente unanimi: se Tehran fosse realmente responsabile degli attacchi alle navi cisterna nel Golfo di Oman, i prezzi del petrolio sarebbero già schizzati alle stelle. E non sono schizzati alle stelle.

Le acque territoriali dell’Iran nello stretto di Hormuz si estendono per 12 miglia nautiche (22 km). Dal 1959, l’Iran riconosce solo il transito navale non militare.

Dal 1972, le acque territoriali dell’Oman nello Stretto di Hormuz si estendono anch’esse per 12 miglia nautiche. Nel suo punto più stretto, il passaggio è di 21 miglia nautiche (39 km). Ciò significa, ed è la cosa più importante, che metà dello stretto di Hormuz si trova nelle acque territoriali iraniane e l’altra metà quelle dell’Oman. Non esistono “acque internazionali”.

E questo si aggiunge al fatto che Teheran va ora dicendo apertamente che l’Iran potrebbe decidere di chiudere lo Stretto di Hormuz, pubblicamente, non di nascosto.

La risposta bellica iraniana, indiretta e asimmetrica, nei riguardi di qualsiasi avventura statunitense sarà molto dolorosa. Il professor Mohammad Marandi dell’Università di Teheran ha ribadito ancora una volta che “anche un attacco limitato avrà come riscontro una risposta importante e disuguale”. E questo significa colpire duro, veramente duro; qualunque cosa, dall’affondare veramente le petroliere a, secondo le parole di Marandi, “far saltare gli impianti petroliferi dei Sauditi e degli Emirati Arabi Uniti”.

Hezbollah lancererebbe decine di migliaia di missili contro Israele. Come il segretario generale di Hezbollah, Hasan Nasrallah, ha ribadito nei suoi discorsi: “la guerra contro l’Iran non rimarrà confinata all’interno dei confini di quel paese, sarà piuttosto l’intera regione [del Medio Oriente] ad essere incendiata. Tutte le forze e gli interessi americani nella regione saranno spazzati via insieme ai loro i cospiratori, primi fra tutti Israele e la famiglia reale saudita”.

È abbastanza illuminante ascoltare con attenzione ciò che dice questa ex-spia israeliana. I cani da guerra, però, stanno abbaiando come dei matti.

All’inizio di questa settimana, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo è arrivato al CENTCOM di Tampa per discutere con alcuni (scettici) generali delle “preoccupazioni per la sicurezza regionale e delle operazioni in corso”, un eufemismo per una “massima pressione” che, alla fine, porti alla guerra contro l’Iran.

La diplomazia iraniana, con discrezione, ha già informato l’UE (e la Svizzera) della sua capacità di far crollare l’intera economia mondiale. Ma questo non è stato ancora sufficiente a rimuovere le sanzioni statunitensi.

Zona di guerra a tutti gli effetti

Ecco come vanno le cose in Trumplandia: l’ex CIA Mike “Abbiamo mentito, abbiamo imbrogliato, abbiamo rubato” Pompeo (il “diplomatico n°1” dell’America) è praticamente al comando del Pentagono. Il vicesegretario, Shanahan, si è auto-immolato. Pompeo continua a vendere attivamente la versione secondo cui “la comunità dell’intelligence è convinta” che l’Iran sia il responsabile dell’incidente delle petroliere nel Golfo di Oman. Washington è infiammata dalle voci di un sinistro doppio incarico in un prossimo futuro: Pompeo a capo del Pentagono e Psycho John Bolton come Segretario di Stato. Questo vorrebbe dire guerra.

Tuttavia, ancor prima che volino le scintille, l’Iran potrebbe asserire che il Golfo Persico si trova in stato di guerra; dichiarare che lo Stretto di Hormuz è zona di guerra; quindi vietare il traffico militare e civile “ostile” nella propria metà dello Stretto. Senza che venga sparato un colpo, nessuna compagnia di spedizioni al mondo permetterebbe alle proprie petroliere il transito nel Golfo Persico.

Pepe Escobar

20.06.2019
Scelto e tradotto da Markus per comedonchisciotte.org

Oggi gli statunitensi consumano solo a credito, il loro reddito da Regan in poi si è sempre più ridotto, è un mercato sempre più in affanno

La Cina potrebbe sfidare il dominio del dollaro globalizzando lo yuan


"L'unico modo in cui si potrà mai cambiare" la supremazia del dollaro americano come valuta di riserva globale è la presenza di una vera alternativa "a lungo termine", ha dichiarato l'ex presidente di Goldman Sachs, Jim O'Neill.

L'ex presidente di Goldman Sachs, Jim O'Neill in un'intervista alla CNBC ha dichiarato che la Cina potrebbe prendere in considerazione l'ampliamento del ruolo della sua valuta.
"Alcune persone direbbero, naturalmente, che l'arma definitiva sarebbe che la Cina inizi a vendere un numero molto elevato di obbligazioni statunitensi ... ma probabilmente danneggerebbe, l valore degli investimenti cinesi", ha spiegato O'Neill.

Secondo lui, uno yuan debole ridurrà anche la fiducia degli investitori. "Non penso che la svalutazione abbia molto senso", ha detto.
La Cina potrebbe anche concentrarsi sul crescente potere dei suoi consumatori per rafforzare la propria posizione globale, ha aggiunto O'Neill. Ha notato che attualmente, il consumo interno rappresenta solo il 40% del PIL cinese, rispetto al 70% negli Stati Uniti.

"Nel prossimo decennio a 20 anni, il consumatore americano non può in alcun modo continuare ad essere la quota dominante ...
dell'economia statunitense ... 
Mentre per la Cina raggiungere il sogno del tipo BRIC ... con i consumatori cinesi che continuano a crescere", ha precisato.

O'Neill ha coniato il termine BRIC [attualmente BRICS - Ed.]. Ha predetto che i quattro paesi emergenti (Brasile, Russia, India e Cina) stavano per rimodellare l'economia mondiale.

Fonte: CNBC
Notizia del: 21/06/2019

E' guerra vera è guerra totale, niente illusioni - a Osaka ci potrà, forse, dichiarare una tregua solo momentanea e apparente. Gli statunitensi si muovono come Polifemo alla cieca dopo aver perso l'unico occhio disponibile, nessuna strategia solo un rancoroso rinserrare le file per non morire indegnamente quando sono già morti

Quello che si sa (ma non si dice) della guerra commerciale tra Usa e Cina



Un'analisi di quattro economisti canadesi evidenzia come nei prossimi anni la crescita del Dragone non andrà oltre il 7%. Se gli Usa credono che la cosa non abbia impatti sull'economia mondiale si sbagliano

La guerra, o meglio, guerriglia commerciale degli Stati Uniti con varie parti del resto del mondo continua, anche se non se ne parla nei quotidiani italiani. Si è addolcita le posizione americana nei confronti dell’Europa, del Messico e dell’Australia, ma si è indurita quella nei confronti della Cina. La stessa Banca Mondiale, di solito molto cauta, avverte, in briefings alla stampa, che le tensioni commerciali tra Usa e Cina sono ‘ad una svolta’ poiché se peggiorano ulteriormente potrebbero causare un rallentamento dell’economia internazionale.

CRESCITA A RILENTO

Quello che si sa ma non si dice è che Pechino è consapevole di un proprio penoso e doloroso scivolamento verso più bassi tassi di crescita. Si è passati dal 9% l’anno degli anni Novanta al 7% di questo ultimo decennio. Ma quale è l’effettivo tasso di crescita potenziale di quello che fu il Celeste Impero? A questa domanda risponde uno studio econometrico pubblicato sull’ultimo numero della Pacific Economic Review a firma di quattro noti economisti canadesi, Jeanne Bailliu, Mark Kruger, Agyn Toktamissov e Wheaton Welbourn.

IL DRAGONE PERDE COLPI?

L’analisi econometrica, basata su stime dello stock di capitale fisico ed umano e della produttività totale dei fattori, giunge alla conclusione che da ora al 2030 il saggio potenziale di crescita dell’economia cinese passerà dal 7% al 5% in linea con una graduale trasformazione del Paese caratterizzata da un declino del saggio di investimento. In un altro saggio sulla Pacific Economic Review, i quattro economisti sottolineano una determinante che abbiamo trattato su questa testata: la one child policy (un figlio unico per famiglia, segnatamente nelle zone agricole) ha un serio effetto sul mercato dei capitali e sul sistema bancario cinese che non solo causa tensioni interne ma spinge il Paese ad accentuare una strategia economica basata sulle esportazioni.

LE ILLUSIONI AMERICANE

Jacon Funk Kirkegaard del Peterson Institute of International Economics di Washington sottolinea che “la Cina è comunque la maggiore potenza commerciale al mondo”, Quindi, “l’idea (della Casa Bianca, ndr) che si può rallentare il motore della crescita del Paese senza avere conseguenze sul resto dell’economia internazionale è sostanzialmente errata”. Ora, la partita cruciale sembra svolgersi la settimana prossima al G20 di Osaka del 28-29 giugno. A margine della riunione, ci dovrebbe essere un incontro “riservato ma risolutivo” tra Donald Trump e Xi Jinping che dovrebbe portare ad una “pacificazione” ed al ritorno di dazi americani su 200 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina.

Ossezia - La Russia non può dimenticare

SABATO 22 GIUGNO 2019
La Russia fa sul serio con la Georgia

Putin ha vietato a tutte le compagnie aeree russe di volare da e verso il paese del Caucaso: c'entrano alcune proteste contro un deputato russo, ma non solo

 
Vladimir Putin (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Venerdì il presidente russo Vladimir Putin ha approvato un decreto per vietare a tutte le compagnie aeree russe di volare da e verso la Georgia, paese del Caucaso con cui la Russia combatté una guerra nel 2008. Nel decreto, adottato formalmente per proteggere «la sicurezza nazionale della Federazione Russa», è anche previsto il ritorno dei cittadini russi attualmente in Georgia e la raccomandazione ai tour operator russi di non mandare i propri clienti nel paese.

La mossa di Putin, definita dal giornalista Andrew Roth del Guardian «una seria escalation di tensione tra i due paesi, è arrivata il giorno dopo le proteste antirusse tenute al Parlamento di Tblisi, la capitale della Georgia, contro il deputato russo Sergei Gavrilov.

Le proteste erano iniziate su invito dei parlamentari dell’opposizione georgiana, filoeuropeisti, che avevano ritenuto inappropriato lo spazio concesso a Gavrilov nel Parlamento: il problema è che Russia e Georgia sono ancora in conflitto in merito allo status dell’Abkhazia e dell’Ossezia, due regioni la cui indipendenza è riconosciuta da alcuni stati membri dell’ONU – soprattutto dalla Russia, che nel 2008 le occupò militarmente – ma che la Georgia rivendica come parte integrante del proprio stato. Durante il discorso di Gavrilov, fuori dal Parlamento c’erano stati scontri tra polizia e manifestanti: la polizia aveva usato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cannoni ad acqua per disperdere la folla, e circa 200 persone erano state ferite.

Venerdì sera c’è stata una nuova manifestazione a Tblisi, per chiedere elezioni anticipate e le dimissioni immediate del ministro dell’Interno, ritenuto responsabile dell’invito a Gavrilov. Il governo russo ha reagito con rabbia alle proteste, definendo quello che era successo «una provocazione antirussa». L’obiettivo del decreto approvato da Putin venerdì è di colpire pesantemente l’industria del turismo della Georgia, che nel 2018 ha inciso per il 7,6 per cento sul PIL nazionale.