L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 13 luglio 2019

Diritto internazionale fottiti - Gli ebrei e i wahabiti vogliono la guerra degli Stati Uniti all'Iran. Ad ogni azione corrisponde una reazione...

Hezbollah, Teheran può colpire Israele con forza

13 LUGLIO 2019 - 12:39

Il leader degli Hezbollah libanesi filo-iraniani Hassan Nasrallah
KEYSTONE/AP/HUSSEIN MALLA(sda-ats)

L'Iran può bombardare Israele con forza e ferocia, secondo quanto ha detto nelle ultime ore il leader degli Hezbollah libanesi filo-iraniani Hassan Nasrallah.

Le dichiarazioni sono state fatte in occasione del 13/mo anniversario della guerra tra Israele e Libano del 2006 e a pochi giorni dalla decisione del Dipartimento del tesoro americano di inserire tre membri di Hezbollah nella lista nera del terrorismo.

In una intervista trasmessa dal canale tv al Manar, organo ufficiale del movimento politico armato libanese, Nasrallah ha detto: "Quando gli americani capiranno che una guerra (regionale) potrà cancellare Israele dalla carta geografica, cambieranno opinione", riferendosi alle crescenti tensioni tra Iran e Stati Uniti e loro rispettivi alleati.

Nasrallah ha assicurato che Hezbollah non ha intenzione di lanciarsi in una nuova guerra. "Abbiamo una responsabilità collettiva nella regione per prevenire una guerra americana contro l'Iran".

Gaza è Auschwitz - ancora un sabato di protesta

Gaza: migliaia di dimostranti sul confine, feriti

Arrivata nella Striscia delegazione dell'intelligence egiziana

© ANSA/EPA

Redazione ANSA
12 luglio 2019 19:19NEWS

Migliaia di palestinesi si sono radunati sul confine di Gaza con Israele in una nuova manifestazione di protesta contro il blocco israeliano alla Striscia. Fonti locali riferiscono che alcuni dimostranti - che secondo l'esercito lanciavano sassi e bottiglie incendiarie - sono stati feriti dal fuoco di militari israeliani e che uno di essi versa in condizioni gravi. Un dirigente di Hamas, Fathi Hammad, ha intanto avvertito che la sua organizzazione è determinata a vendicare la morte di un suo militante ucciso ieri sul confine dal fuoco israeliano. Fonti israeliane riferiscono che Israele ha rafforzato nel sud del Paese le batterie Iron Dome di difesa aerea. Nel frattempo nella Striscia è arrivata una delegazione dell'intelligence egiziana incaricata, fra l'altro, di sostenere la fragile tregua fra Hamas ed Israele.

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2019/07/12/gaza-esercito-israele-in-allerta_4a37df8c-65b8-475f-ba62-cc313a8acf75.html

Grecia - Tsipras ha tradito i suo popolo Mitsotakis ha ridotto il guinzaglio che tiene legato il suo popolo ai desiderata degli Stati Uniti

La Grecia riconosce il golpista Guaidò come presidente del Venezuela. Condanna del KKE


Il nuovo primo ministro della Grecia, Kyriakos Mitsotakis di Nuova Democrazia, ha deciso di riconoscere come presidente ad interim del Venezuela il golpista, burattino di Washington Juan Guaidò. Una mossa sicuramente tardiva e inutile, visto che i vari tentativi di golpe portati avanti da Guaidò e il suo partito Voluntad Popular sono miseramente falliti. 

Il riconoscimento di Mitsotakis ha trovato la condanna del KKE. 

Il comunicato dei comunisti

Il Partito Comunista di Grecia (KKE) denuncia il governo di ND, che ha riconosciuto il fantoccio degli Stati Uniti, leader del golpe, Guaidó, come presidente ad interim del Venezuela, sfruttando l'inaccettabile posizione comune dell'UE, sostenuta dal governo di SYRIZA .

Questa azione supporta l'intervento sporco degli Stati Uniti, l'UE e i suoi alleati in Venezuela ed è diretto contro il presidente del paese legalmente eletto e contro il popolo venezuelano, che è l'unico responsabile per determinare gli sviluppi politici e sociali nel suo paese.

Il KKE esprime la sua solidarietà internazionalista con il popolo venezuelano, il Partito Comunista (PCV) e la Gioventù Comunista (JCV), che combattono per gli interessi del popolo.

Fonte: inter.kke.gr
Notizia del: 12/07/2019

Sempre più evidente l'Euro è un Progetto Criminale

L'eurozona è un edificio in fiamme senza uscite


La zona euro alla stregua di un edificio in fiamme con le uscite sbarrate. Perché la valuta comune è stata volutamente progettata da Bruxelles per renderne impossibile l’abbandono unilaterale. 

Questo è quanto sostiene l’ex leader conservatore britannico William Hague, che all’epoca contro Tony Blair si spese per «salvare la sterlina». 

Hague sostiene che creare la moneta unica è stata una «follia». Spiegando: «È stata una follia creare questo sistema».

«Rimarrà scritto per secoli come una sorta di monumento storico alla follia collettiva».

«Ma è lì e dobbiamo affrontarlo». 

Per poi aggiungere: «Ho descritto l'euro come un edificio in fiamme senza uscite e così ha dimostrato di essere per alcuni paesi».

«L’euro non è stato costruito con le uscite quindi è molto difficile lasciarlo».

Nel 2011, anche Jacques Delors, ex presidente della Commissione europea e uno dei principali artefici della moneta unica, ha ammesso che l'euro era condannato sin dall'inizio.

Intanto una nuova minacciosa crisi si avvicina all’Europa: il clima economico nell'eurozona è sceso al punto più basso in quasi tre anni a giugno, con le perdite maggiori registrate soprattutto in Germania e in Italia.

I nuovi dati della Commissione europea hanno mostrato che il suo principale indicatore di fiducia economica è sceso a 103,3 punti il mese scorso. Questo è in calo da 105,2 un mese prima, raggiungendo il livello più basso da agosto 2016.

La Germania ha sopportato il peso delle perdite, dove l'indicatore è sceso di 2,9 punti, mentre l'Italia ha visto diminuire la fiducia di 1,5 punti.

Anche la Francia, i Paesi Bassi e la Spagna hanno registrato enormi perdite nel sentimento economico.

Il clima economico nel settore industriale è crollato di 2,7 punti, il più grande calo in circa otto anni.

Le preoccupazioni che un'altra crisi finanziaria potrebbe essere all'orizzonte stanno crescendo, mentre la zona euro si batte contro il rallentamento della crescita globale e l'impatto della guerra commerciale ostile tra gli Stati Uniti e la Cina.

L’edificio è in fiamme. Per quanto tempo i suoi abitanti resteranno al suo interno intrappolati? Attenderanno che sopraggiunga la morte, oppure proveranno ad abbandonare l’edificio che irrimediabilmente brucia?

Giorgio Nebbia - Cura del territorio, riprendersi la cultura del deflusso delle acque

Grandi opere e devastazione ambientale

di Giorgio Nebbia
11 luglio 2019


È morto due giorni fa, all’età di 93 anni, Giorgio Nebbia, uno dei padri dell’ambientalismo non solo italiano, coerente e inascoltato sostenitore della necessità scientifica di porre dei limiti alla crescita: non per ragioni ideali ma per la decisiva ragione che il mondo e la materia non sono infiniti. Portò la sua battaglia anche in Parlamento, come indipendente eletto nelle fila del Pci negli anni dal 1983 al 1992. Senza successo, come ebbe a scrivere 25 anni dopo: «Nel 1992 è finita una maniera di vivere la politica. Ricordo una delle ultime iniziative del mio mandato parlamentare, in Puglia. Fui invitato a parlare in una discoteca, unica volta in cui vi ho messo piede: naturalmente nessuno ascoltava. Mi resi conto che un partito che, per adeguarsi, teneva i comizi in discoteca rappresentava un mondo finito […]. Era finita anche per me. Nascevano altre associazioni, altre persone si affacciavano nel movimento e ormai ero un “vecchio”, talvolta benignamente definito ancora come “padre” dell’ambientalismo, ma ingombrante residuo di un altro mondo. Nasceva l’ambientalismo scientifico: non bisogna sempre dire no, bisogna pure fare qualcosa e io come vecchio contestatore, un po’ anarchico, non servivo più. L’ambientalismo sembrava, ai miei occhi, occasione per ottenere assessorati e cariche pubbliche, ricerca di sovvenzioni e sponsorizzazioni. Si era passati dalla critica e dalla contestazione all’omologazione».

In suo ricordo – e a nostra memoria – riportiamo qui, per gentile concessione dell’editore, uno stralcio di uno dei suoi ultimi scritti, il libro intervista con Valter Giuliano Non superare la soglia. Conversazioni su centocinquant’anni di ecologia (Edizioni Gruppo Abele, 2016).

* * * *

Da qualche tempo ci sono due argomenti che animano il dibattito: la costruzione della galleria di base attraverso le Alpi per la linea ad alta velocità Tav Torino-Lione e la costruzione del Ponte di Messina, che periodicamente ritorna nelle agende dei vari governi.

Alle due opere vengono rivolte varie obiezioni di carattere sociale, ambientale, tecnico eccetera. La galleria del Tav in Valle di Susa potrebbe incontrare molteplici difficoltà tecniche, arrecherebbe alterazioni ambientali nella valle e via seguitando; il ponte sullo Stretto di Messina potrebbe essere difficile da realizzare, passerebbe in territori esposti a sismicità, richiederebbe vie di accesso dalla parte calabrese e siciliana con profonde alterazioni del territorio.

E, poi, ci sono obiezioni sull’attendibilità dei costi reali e dei benefici monetari: si sa che le previsioni sono difficili e nella recente storia industriale italiana abbiamo visto troppi conti sbagliati, troppe previsioni avventate. Il dibattito investe e lacera i partiti, anche nella sinistra, mette ancora una volta in conflitto i diritti e le speranze delle popolazioni locali e i diritti e le speranze dei lavoratori. E tralascio tutto il dibattito sotterraneo fra imprese, fra scienziati e consulenti tecnici, e poi le speranze dei paesi europei che ci mettono una parte dei soldi e che si aspettano una frazione dei profitti nonché le speranze delle organizzazioni criminali di nuovi profitti.

L’investimento di pari cifre, in dieci anni, per opere pubbliche di difesa del suolo, di sistemazione del corso dei fiumi, di rimboschimento, di piani antisismici permetterebbe allo Stato di evitare costi ben superiori alle ipotetiche entrate conseguenti all’investimento richiesto per la ferrovia Torino-Lione e per il ponte sullo stretto di Messina. In altre parole, 
se si avviasse un programma decennale di spese di 2 miliardi di euro all’anno per difesa del suolo, arginatura dei fiumi, rifacimento dei sistemi fognari, sistemazione delle strade esposte a erosione, ricostruzione del manto vegetale e via elencando, dopo 10-15 anni si ridurrebbe a zero (o diminuirebbe grandemente) il costo che stiamo pagando ogni anno, da decenni, per il risarcimento dei danni provocati dalla mancanza di difesa del suolo. 
La stima di un costo per la collettività di vari miliardi di euro all’anno nell’ultimo mezzo secolo, dall’alluvione di Firenze del 1966 (dovuto alla mancata difesa del suolo e al mancato riassetto del territorio), è stata fatta attraverso una indagine relativa a tutte le frane e alluvioni che si sono verificate, calcolando in ciascun caso quanto lo Stato ha dovuto spendere per risarcimento dei danni (dalla distruzione di edifici pubblici e privati, di strade e ponti alla perdita del valore di raccolti agricoli, alla perdita di lavoro e produzione per i danni alle fabbriche e alle attività economiche etc.). A questi costi pubblici vanno aggiunti costi privati per ritardi negli spostamenti, per tempo perduto eccetera. Senza contare che il dolore e i morti non hanno posto o non figurano come costi nelle contabilità monetarie.

Nel 1951, l’anno della grande alluvione del Polesine e del grande dolore nazionale, ci si rese conto che la ricostruzione dell’Italia avrebbe dovuto dare priorità alle opere di difesa del suolo. Indagini e inchieste misero in evidenza la fragilità di molti corsi d’acqua, oltre al Po, in cui i detriti dell’erosione si erano depositati nell’alveo e avevano fatto diminuire la capacità ricettiva dei corpi idrici. Inoltre era già stata avviata una graduale occupazione e privatizzazione delle fertili zone golenali, originariamente appartenenti al demanio fluviale perché ne fosse conservata, libera da ostacoli di edifici e strade, la fondamentale proprietà di accoglimento delle acque fluviali in espansione nei periodi di intense piogge. Il “miracolo economico” degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento è stato reso possibile dalla moltiplicazione di quartieri di abitazione, di fabbriche, strade e attività di agricoltura intensiva che richiedevano una crescente occupazione del territorio, nelle pianure e nelle valli. Nello stesso tempo l’intensa migrazione interna dalle zone più povere e dissestate del Mezzogiorno verso un Nord che prometteva lavoro in fabbrica e paesi e città più vivibili e con migliori servizi, ha lasciato vaste zone del Mezzogiorno, delle isole e delle montagne e colline esposte all’abbandono umano, a un crescente degrado del territorio e a una serie crescente di frane e alluvioni. Per una nuova politica del territorio, per avviare serie iniziative di difesa del suolo non servì neppure la frana di un pezzo del monte Toc nel bacino del Vajont, con i relativi duemila morti, del 1963. E neanche la grande alluvione di Firenze e Venezia del 1966, un altro momento del grande dolore nazionale; anche allora fu riconosciuta nel dissesto territoriale la causa prima della tragedia. Fu istituita la Commissione De Marchi che riferì al Parlamento che occorrevano investimenti di diecimila miliardi di lire di allora in dieci anni per opere di difesa del suolo.

Da allora non solo è stato fatto poco ma la situazione è peggiorata. Nei decenni passati la costruzione di edifici e strade e l’abusivismo con i relativi provvidenziali condoni, hanno continuato ad alterare profondamente, in maniera accelerata, la superficie del suolo creando ostacoli al deflusso delle acque; si è innescata una reazione a catena che ha fatto aumentare l’erosione del suolo, i detriti dell’erosione hanno invaso gli alvei di fiumi, torrenti e fossi e, di conseguenza, è diminuita la loro capacità di ricevere l’acqua, soprattutto a seguito di piogge più intense. Nello stesso tempo si sta assistendo a modificazioni climatiche planetarie che alterano i cicli delle stagioni e delle piogge. Di conseguenza sempre più spesso il territorio e la collettività sono e saranno esposti a frane e alluvioni che distruggono edifici, strade, raccolti; sempre più spesso le comunità danneggiate richiedono la dichiarazione di stato di calamità, e lo Stato deve risarcire i danni provocati da “calamità” considerate “naturali” ma che tali non sono (sono piuttosto dovute a errori e imprevidenza umani: per evitarli la politica della “protezione civile” dovrebbe essere sostituita con una cultura della “prevenzione”). Molti dei danni potrebbero essere evitati spendendo soldi pubblici, mediante investimenti che generano ricchezza pubblica anche sotto forma di soldi non spesi per il risarcimento del valore monetario dei danni evitati. Proprio come aveva suggerito la Commissione De Marchi. Occorrerebbe lanciare un new deal, un nuovo corso, un nuovo patto fra il Governo e il popolo, un programma di opere pubbliche serio per prendersi davvero cura della nostra fragile penisola ed evitare costi futuri, quindi per far aumentare la ricchezza futura. Quel programma dovrebbe comprendere molte azioni, tutte in genere difficili e sgradevoli.

Si dovrebbe partire da un’indagine dello stato del territorio, oggi facilmente eseguibile con mezzi tecnico-scientifici come rilevamenti satellitari e aerei. In gran parte si tratta di mettere insieme dati e informazioni già disponibili, ma spesso sparsi per diversi ministeri e agenzie, nonché tra le Regioni. In parte è stato fatto, o avrebbe dovuto essere fatto, nell’ambito delle autorità di bacino idrografico secondo quanto richiesto dalla legge 183 per la difesa del suolo del 1989; in parte fu, avrebbe dovuto essere, predisposto dal decreto del 1999 dopo l’alluvione di Sarno. Le speranze riposte in quella legge si sono disciolte davanti agli appetiti delle Regioni che ragionavano secondo i confini amministrativi e non secondo i confini dei bacini idrografici disegnati dalla natura come avrebbe voluto la normativa. Si tratta di ricomporre, integrando eventuali mancanze, indagini che rilevino le vie di scorrimento delle acque dalle valli verso il mare e gli ostacoli attualmente esistenti a tale flusso, rivo per rivo, fosso per fosso, torrente per torrente, fiume per fiume.

Il secondo passo dovrebbe consistere nell’indicazione, in base all’indagine sullo stato del territorio, dei luoghi in cui non devono essere fatte nuove opere, come costruzioni di edifici e infrastrutture, e di quelli in cui sarebbe opportuno localizzarle in modo da non interferire con il deflusso senza ostacoli delle acque. Le decisioni conseguenti alla pianificazione dell’uso del territorio comportano tuttavia due sgradevolissime conseguenze: la modificazione del valore di molte proprietà private e la necessità di una moralizzazione della pubblica amministrazione (alla quale dovrebbe essere iniettato il coraggio di “dire no” 
alle pressioni dei molti soggetti interessati alla rendita fondiaria).

Come terzo passo, l’indagine sullo stato del territorio dovrebbe indicare la necessità di rimuovere gli ostacoli al flusso delle acque: edifici o opere costruiti, abusivamente o anche “legalmente”, a fianco dei torrenti e fossi, talvolta nelle golene e negli alvei; arginature fatte per aumentare lo spazio occupabile a fini economici e che fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque; ponti, strade e opere in zone esposte a erosione, alluvioni e frane. In tali casi sarà una scelta politica trovare forme di indennizzo per i costi di spostamento e di demolizione di proprietà private o di opere pubbliche; in qualche caso basta eliminare la cementificazione dei fianchi di colline; in altri si tratta di recuperare e riattivare antiche note pratiche di drenaggio delle acque, abbandonate in seguito allo spopolamento delle colline e montagne; in altri ancora si tratta di praticare una pura e semplice “pulizia” di canali e torrenti. Opere di “manutenzione idraulica” esattamente equivalenti alla manutenzione che viene praticata sulle strade, negli edifici, ai macchinari, ma mirate al riequilibrio idrogeologico.

Come quarto passo occorrerebbe trarre dall’indagine l’indicazione delle variazioni, nei decenni, della capacità ricettiva di torrenti e fiumi. Tale variazione è dovuta sia al deposito nell’alveo di prodotti dell’erosione, sia all’escavazione di sabbie e ghiaie. Nel primo caso le acque piovane tendono a uscire dagli argini e ad allagare le zone circostanti, e non servono le opere di innalzamento o cementificazione degli argini, ché anzi aggravano la situazione, trasferendo a valle materiali che ostacolano altrove il deflusso delle acque. Nel secondo caso i vuoti lasciati dall’escavazione fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque in movimento. Va anche tenuto presente che quanto avviene nel corso di fiumi e torrenti influenza i profili delle coste provocando avanzata o erosione delle spiagge, con conseguente interramento dei porti o perdita di zone di valore economico turistico (e quindi, ancora una volta, costi per la collettività e per privati). Normalmente si ragiona in termini di rimboschimento delle terre esposte a erosione. Il rimboschimento tradizionale richiede pazienza, cultura e conoscenza delle caratteristiche del suolo, oltre che delle specie vegetali, e tempo e manutenzione perché il trasferimento delle piante dai vivai al terreno è opera lunga e delicata. Ma l’attenuazione del moto delle acque è svolto anche dalla vegetazione “minore”, dalla macchia e dalla vegetazione spontanea. Purtroppo, peraltro, esiste un’anticultura che suggerisce o impone la “pulizia”, intesa come distruzione, del verde, dalle campagne alle valli, ai giardini privati e pubblici urbani. La macchia è spesso estirpata per lasciare spazio a strade, parcheggi o edifici: non ci si rende conto che ogni foglia, anche la più piccola e insignificante, anche quella che cresce negli interstizi delle strade, ha un ruolo positivo non solo come “strumento” per sequestrare dall’atmosfera un po’ dell’anidride carbonica (responsabile dell’effetto serra e dei mutamenti climatici) ma anche per contribuire allo scambio di acqua fra il suolo e l’atmosfera essendo l’acqua la fonte vera della vita anche economica. Alla distruzione del poco verde contribuiscono la gestione del territorio agroforestale, l’abbandono dell’agricoltura di collina e montagna, la diffusione di seconde case e attrezzature sportive proprio nelle valli (che sono una parte molto desiderabile del territorio), la mancanza di “amore” per la vegetazione (che è la forma prima di “vita” dalla quale dipendono tutte le altre forme di vita umana ed economica). La poca cura e protezione del verde spontaneo è la fonte degli incendi (alcuni, molti provocati proprio per sgombrare il terreno dal verde che ostacola costruzioni e speculazioni) che, a loro volta, lasciano il terreno esposto a crescente erosione.

Secondo le regole della società dei consumi e del libero mercato quanto sin qui esposto, come auspicabile alternativa alle opere pubbliche ufficiali, è assolutamente irricevibile. 
Nessuno lo farà perché ciò supporrebbe una svolta verso un modo di amministrare la cosa pubblica ‒ le acque, i fiumi, il suolo ‒ nell’interesse collettivo, a difesa dei beni comuni. Una cosa da evitare con ogni mezzo, secondo il pensiero ufficiale corrente: meglio Tav e Ponte!

Il governo italiano emette alcuni vagiti e tenta con codardia di liberarsi dall'egida statunitense

L’Italia entra nella catena del valore cinese. Firmato maxi-accordo

di Pasquale Cicalese
12 luglio 2019

Ne abbiamo accennato un mese fa, oggi arriva la firma. Oggi pomeriggio, a Milano, alla presenza del ministro Tria e dell’omologo cinese Liu Kun, verranno siglati diversi accordi.

Vediamo i due più importanti. Il primo è quello tra Ivass, il regolatore italiano delle assicurazioni e del risparmio, con l’equivalente ente di Pechino, per aprire il mercato del risparmio cinese alle banche, alle assicurazioni e ai fondi italiani.

Il secondo, e qui la sostanza non è da poco, è l’accordo tra la società pubblica di riassicurazione dei crediti alle esportazioni – Sace – con l’omologa cinese Exim Import Bank, per assicurare le società italiane interessate da accordi di fornitura nel mercato cinese e in paesi terzi lungo la Via della Seta.

Milano Finanza riporta stamane che i colossi industriali cinesi sono interessati da accordi di fornitura con imprese italiane già oggi nel settore petrolchimico, nella infrastrutture e nell’aerospaziale.

Circa le infrastrutture, Cassa depositi e Prestiti sta facendo da regista con Impregilo, che si dovrebbe fondere con Astaldi e altre imprese di costruzione in crisi. E’ il progetto Italia, propedeutico all’infrastrutturazione della via della Seta, come da memorandum italo cinese del marzo scorso.

A quanto si sa, nei prossimi anni l’accordo potrebbe allargarsi alla farmaceutica, all’agroalimentare e alla meccanica.

Come avevamo scritto nel marzo scorso, il nostro paese ha ora l’occasione di spostare la sua rete di subfornitura dall’Europa a trazione germanica, deflazionista e che porta ad un notevole ribasso del prezzo delle merci e dei profitti, al mercato asiatico e cinese in particolare, che invece dal 2009, grazie alla legge sul lavoro, è reflazionista.

Avendo un tasso di investimento pari al 42%, contro il 18% tedesco, se gli accordi fossero realizzati la Cina potrebbe spingere ad un salto tecnologico le aziende di fornitura italiane, che presentano un tasso di investimento, data la deflazione produttiva tedesca, di appena il 17%.

Si confronterebbero così due paesi che hanno rispettivamente il 2.3% e il 30% della produzione industriale mondiale e che, per tale motivo, lascerebbe spazio ad una reindsutrializzazione dell’Italia.

Si dovrebbero creare consorzi ma, data la mentalità ristretta dell’imprenditoria italiana, sarebbe l’occasione per far sì che tali consorzi fossero a guida pubblica.

Se avessimo un’altra classe politica ed un’altra classe dirigente, si dovrebbe parlare di un necessario ritorno dell’intervento pubblico.

Gli altri paesi europei si stanno già indirizzando verso i nuovi assetti, vedi il Progetto Altmaier, il ministro dell’economia tedesca, ma da noi è tabù. Difficile da estirpare, la mentalità da “padroncini” dell’imprenditoria italiana.

Questo il limite più grande di tale accordo.

Il Progetto Criminale dell'Euro nato sotto l'egida Nato, tant'è che le sanzioni contro la Russia le ha decise gli Stati Uniti. L'Italia aveva un interscambio nel 2013 di 54 miliardi nel 2018 ridotto a 27 miliardi. I nostri governi non fanno gli Interessi Nazionali, siamo una provincia statunitense

La sceneggiata delle relazioni con la Russia

di Manlio Dinucci
12 luglio 2019

La Russia, dove operano 500 aziende italiane, è il quinto mercato extra-europeo per il nostro export e fornisce il 35% del fabbisogno italiano di gas naturale. L’interscambio è stato di 27 miliardi di dollari nel 2018, ma nel 2013 ammontava a 54 miliardi. Si è quindi dimezzato a causa di quello che il premier Conte definisce il «deterioramento delle relazioni tra Russia e Unione europea che ha portato alle sanzioni europee» (in realtà decise a Washington)

Lo stato delle relazioni tra Italia e Russia è «eccellente»: lo afferma il premier Conte ricevendo a Roma il presidente Putin. Il messaggio è tranquillizzante, anzi soporifero nei confronti dell’opinione pubblica. Ci si limita, fondamentalmente, allo stato delle relazioni economiche. La Russia, dove operano 500 aziende italiane, è il quinto mercato extra-europeo per il nostro export e fornisce il 35% del fabbisogno italiano di gas naturale. L’interscambio – precisa Putin – è stato di 27 miliardi di dollari nel 2018, ma nel 2013 ammontava a 54 miliardi. Si è quindi dimezzato a causa di quello che Conte definisce il «deterioramento delle relazioni tra Russia e Unione europea che ha portato alle sanzioni europee» (in realtà decise a Washington).

Nonostante ciò vi è tra i due paesi una «intensa relazione a tutti i livelli». Toni rassicuranti che ricalcano quelli della visita di Conte a Mosca nel 2018 e del premier Renzi a San Pietroburgo nel 2016, quando aveva garantito che «la parola guerra fredda è fuori dalla storia e dalla realtà».

Prosegue così la sceneggiata. Nelle relazioni con la Russia, Conte (come Renzi nel 2016) si presenta unicamente nelle vesti di capo di governo di un paese dell’Unione europea, nascondendo dietro le quinte l’appartenenza dell’Italia alla Nato sotto comando degli Stati uniti, considerati «alleato privilegiato».

Al tavolo Italia-Russia continua quindi a sedere, quale convitato di pietra, l’«alleato privilegiato» sulla cui scia si colloca l’Italia. Il governo Conte dichiara «eccellente» lo stato delle relazioni con la Russia quando, appena una settimana prima in sede Nato, ha accusato di nuovo la Russia di aver violato il Trattato Inf (in base alle «prove» fornite da Washington), accodandosi alla decisione Usa di affossare il Trattato per schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia. Il 3 luglio, il giorno prima della visita di Putin in Italia, è stata pubblicata a Mosca la legge da lui firmata che sospende la partecipazione russa al Trattato: una mossa preventiva prima che Washington ne esca definitivamete il 2 agosto.

Lo stesso Putin ha avvertito che, se gli Usa schiereranno nuove armi nucleari in Europa a ridosso della Russia, questa punterà i suoi missili sulle zone in cui sono dislocate.

È così avvertita anche l’Italia, che si prepara a ospitare dal 2020 le nuove bombe nucleari B61-12 a disposizioe anche dell’aeronautica italiana sotto comando degli Stati uniti.

Una settimana prima della conferma dell’«eccellente» stato delle relazioni con la Russia, il governo Conte ha confermato la partecipazione italiana alla forza Nato sotto comando Usa di 30 navi da guerra, 30 battaglioni e 30 squadre aeree dispiegabili entro 30 giorni in Europa contro la Russia a partire dal 2020.

Sempre in funzione anti-Russia navi italiane partecipano a esercitazioni Nato di guerra sottomarina; forze meccanizzate italiane fanno parte del Gruppo di battaglia Nato in Lettonia e la Brigata corazzata Ariete si è esercitata due settimane fa in Polonia, mentre caccia italiani Eurofighter Typhoon vengono schierati in Romania e Lettonia. Tutto ciò conferma che la politica estera e militare dell’Italia viene decisa non a Roma ma a Washington, in barba al «sovranismo» attribuito all’attuale governo.

Le relazioni economiche con la Russia, e anche quelle con la Cina, poggiano sulle sabbie mobili della dipendenza italiana dalle decisioni strategiche di Washington. Basta ricordare come nel 2014, per ordine di Washington, venne affossato il gasdotto South Stream Russia-Italia, con perdite di miliardi di euro per le aziende italiane. Con l’assoluto silenzio e consenso del governo italiano.

L'Euro è un Progetto Criminale e più passa il tempo è più si evidenzia, con sempre più insistenza anche gli euroimbecilliti più incalliti sono costretti a passare su posizioni critiche che comunque non risolvono. Solo la distruzione dell'Euro può far rinascere una Europa rispettosa dei popoli

Europa “Zero tituli”

di Guido Salerno Aletta*
12 luglio 2019

I grandi progetti storici vanno valutati dai risultati, non dalle dichiarazioni date in interviste e cerimonie. E i risultati vanno letti guardando al “film”, non al singolo fotogramma.

Da questo punto di vista il progetto di società che sta creando l’Unione Europea è letteralmente un disastro. I cosiddetti “populismi” originano da questo disastro ogni giorno più evidente per le popolazioni di tutti i paesi del Vecchio Continente, che da 30 anni vanno perdendo livelli salariali, diritti, tutele, welfare, speranze, identità, fiducia nel futuro. Se, notizia di ieri, un terzo dei maturandi italiani non comprende un testo in italiano, siamo già oltre i confini del declino nella riproduzione sociale…

Ma una società disastrata non è il massimo, quando si apre una lunga fase di “competizione” tra macroaree economiche continentali. E che la UE non sia al momento foriera di grandi aspettative lo si vede da molti segnali.

Al vertice G20 di Osaka, per dirne una, i futuri rapporti di forza sono apparsi già abbastanza delineati. La debolezza dell’Unione Europea è del resto, senza sorprese, costruita proprio attraverso le politiche di cui è più fiera: l’austerità. Che sta producendo fenomeni devastanti sotto gli occhi di tutti; a cominciare dall’enorme ritardo tecnologico e dal sempre meno lento calo (e invecchiamento) demografico.

Non è soltanto una nostra maligna osservazione. Su alcuni media specializzati, non a caso in informazione economica, cominciano ad apparire editoriali tranchant nei confronti dei certici della Ue. Come questo, del puntuto Guido Salerno Aletta, pubblicato su TeleBorsa, pesantemente ironico fin dal titolo “mourinhano” [Claudio Conti].

......

Il mercantilismo, coniugato con l’ordoliberismo che fa divieto agli Stati di interferire nei processi economici, ha contagiato l’intero Continente. Ormai boccheggia: se tutto tende a zero, c’è una ragione.

SALARI BLOCCATI

In Europa, solo i profitti si salvano a stento, ma anche questi ormai barcollano, legati come sono all’andamento dei mercati internazionali: in Germania, il rallentamento dell’export ed in particolare quello del mercato automobilistico, possono provocare un tracollo.

Le economie si sono orientate tutte verso l’export, sulla scia della Germania, ma questa componente non basta da sola a fare crescere il prodotto in modo significativo.

Il surplus della bilancia commerciale internazionale si fonda sulla capacità di battere la concorrenza sul piano della migliore qualità delle merci e dei servizi resi, e della loro convenienza di prezzo: per essere competitivi, bisogna controllare attentamente i salari e l’occupazione: una piena occupazione, infatti, porterebbe a richiesta salariali incompatibili con la stabilità dei prezzi e con gli obiettivi di competitività sull’estero.

CRESCITA ZERO

La crescita economica non è più un obiettivo, soprattutto se ne deriva l’azzeramento della disoccupazione. La disoccupazione, infatti, deve essere tenuta a livelli elevati, tali da non creare dinamiche salariali indesiderate: questo principio è stabilito anche nel Fiscal Compact, con il calcolo del NAWRU, acronimo che sta per “non accelerating wage rate of unemployment”.

INFLAZIONE ZERO

Se i salari sono bloccati per via della concorrenza, interna ed internazionale, per non perdere mercato e vedersi ridurre i profitti, così come l’altro obiettivo è di non far aumentare i prezzi: variazione nulla per i salari ed altrettanto per i prezzi.

La BCE, da anni, si propone senza successo di portare l’inflazione ad un livello vicino ma non superiore al 2% annuo: butta soldi senza nessun risultato: anzi, un risultato lo ha conseguito, quello di abbattere i tassi di interesse, che su molte emissioni sono inferiori allo zero.

TASSI ZERO

Con la istituzione dell’euro, l’obiettivo di abbattere i tassi di inflazione è stato raggiunto, ma da anni la BCE ha portato i tassi di interesse a zero, o addirittura negativi sui depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria. Questa politica ultra accomodante è stata decisa per aiutare i debitori, Stati e privati, e per non fare implodere la moneta unica. Ma la conseguenza è che si è bloccato il sistema bancario: gli istituti hanno visto assottigliarsi i margini di interesse, e guadagnano prevalentemente sulle operazioni di pagamento e sui servizi correlati alla tenuta dei conti per la clientela depositante.

MARGINI SUGLI INTERESSI ZERO

La politica dei tassi di interesse a zero sta distruggendo anche il sistema bancario europeo. Non solo tendono a zero i proventi derivanti dalla attività tipica bancaria, prendere il denaro in deposito ed erogare credito, ma ora la sola idea che entrino sul mercato dei pagamenti i colossi come Facebook, che ha annunciato il lancio di una sua moneta, la Libra, sta terrorizzando tutti, compresi i banchieri centrali: se gli Stati hanno perso il controllo delle moneta a favore delle banche centrali, stavolta sarebbero queste a perdere il privilegio assoluto di controllare le monete.

DEFICIT ZERO

Arriviamo ora al quarto zero, quello del deficit pubblico. Gli industriali, ossessionati dal contenimento dei costi, sono restii a concedere aumenti salariali, che ridurrebbero il margine di profitto. E’ risaputo: le imprese quotate in Borsa volano sui listini quando annunciano tagli dell’occupazione, ristrutturazioni e delocalizzazioni per essere più efficienti.

Soprattutto in Italia, le associazioni imprenditoriali chiedono allo Stato di tagliare il cosiddetto cuneo fiscale: occorre tagliare le tasse sul lavoro, per mettere più soldi in busta paga ai lavoratori. E’ sempre Pantalone che ci deve pensare: basta ricordare gli 80 euro erogati dal governo Renzi ai lavoratori dipendenti; ma non erano altro che una riduzione delle imposte, mascherata da erogazione a carico dell’Erario.

Tagliare il cuneo fiscale, significa ridurre il gettito delle imposte pagate dalle aziende: se contemporaneamente non si tagliano altre spese, il deficit aumenta.

Secondo i dettami del Fiscal Compact, ciò è inammissibile: occorre invece procedere con aggiustamenti strutturali che azzerino il deficit. Tagliare la spesa pubblica, spesso quella per i servizi sociali provoca esborsi diretti da parte delle famiglie per spese sanitarie o scolastiche o per altri servizi. Tagliare gli investimenti pubblici rallenta ancora di più la crescita, e contrae il fatturato delle imprese che sono impegnate nella realizzazione delle opere pubbliche. Alcune hanno dovuto chiudere perché non ci sono più commesse: un vero disastro, dunque.

E’ tutto bloccato: salari, consumi, prezzi, deficit pubblico, tassi di interesse, credito bancario, investimenti…

Europa, Zero Tituli.
* Editorialista dell’Agenzia Teleborsa

12 luglio 2019 - Putin tende la mano a Kiev e Trump è pronto a infilarsi

venerdì 12 luglio 2019

Orgogliosi di essere italiani e grazie alle piccole medie aziende


12 LUGLIO 2019

La Fondazione Edison, in occasione del suo ventennale (1999-2019), ha elaborato un dossier molto interessante, dedicato ai “10 falsi miti sull’economia italiana”: prontuario statistico in grado di offrire, anche ai non addetti ai lavori, una serie di dati e di elementi oggettivi per sfatare alcuni luoghi comuni generalmente attribuiti al sistema socioeconomico italiano.

Quante volte sentiamo dire che l’Italia è una delle economie più deboli d’Europa, che non è un Paese competitivo o che le imprese italiane sono troppo piccole per competere con successo nell’era della globalizzazione; o che, ancora, il nostro Paese ha un debito pubblico insostenibile ed è una delle nazioni più indebitate del mondo? Falsi miti molto in voga che vengono analizzati dal dossier elaborato dalla Fondazione Edison su dati Eurostat. Miti e pregiudizi che spesso circolano fra classi dirigenti e intellettuali cosmopolite ed esterofile, sempre pronte a sottovalutare l’Italia e la sua economia che, pur fra mille difficoltà e una disoccupazione allarmante, continua ad avere enormi potenzialità e si difende benissimo anche nei confronti del resto d’Europa.

Un cocktail, sottolinea Italia Oggi, che porta all’ insicurezza e a piangerci addosso. Se al contrario fossimo consapevoli, sostengono Fortis & Co, della forza, qualità, eccellenze del nostro Paese potremmo guadagnare in fiducia e quindi in sviluppo e in benessere. Secondo Marco Fortis, vice-presidente della Fondazione, “affermare che la nostra crescita è limitata perché l’industria non cresce è un errore. L’ industria sopravvissuta alla crisi del 2008 ne è uscita rafforzata. Tra quell’anno e il 2013 abbiamo perso pezzi, ma si trattava di imprese marginali. Certo, parallelamente c’è stata la crisi dell’edilizia che ha coinvolto anche settori contigui. Ma le aziende industriali rimanenti ne sono uscite a tassi galoppanti: nel triennio 2015-2017 la crescita è stata del 10%. Poi sono cresciuti anche il turismo e il commercio”.

L’Italia è una delle economie più deboli d’Europa? Falso

Come illustra il dossier, l’Italia non è affatto una delle economie “più deboli” dell’Ue e, anzi, vanta la seconda industria manifatturiera dell’Unione europea, il primo settore agricolo in termini di valore aggiunto e detiene il secondo posto per numero di pernottamenti di turisti stranieri. Secondo i dati Eurostat, infatti, il valore aggiunto dell’industria manifatturiera (anno 2017) vede la Germania al primo posto tra i Paesi Ue con 690,2 miliardi di euro e seconda l’Italia con 257,4 miliardi di euro, prima della Francia ferma a 232,3 miliardi di euro e sopra Regno Unito e Spagna.

Per quanto concerne il valore aggiunto dell’agricoltura (anno 2017), l’Italia è prima con 31,9 miliardi di euro, sopra Francia (29,2) e Spagna (28,8). Nell’ambito del turismo, il nostro Paese è secondo in Europa per numero di pernottamenti di turisti stranieri con 210,7 milioni di notti trascorse in tutte le strutture ricettive nel solo 2017.

Secondo un altro (falso mito), l’Italia sarebbe nella lista dei Paesi dalla crescita più bassa. “Anche se era vero in passato – si legge nel dossier – negli ultimi anni il Pil pro capite italiano è cresciuto ad un tasso maggiore di quello dei paesi del G7. Il consumo pro capite delle famiglie è aumentato più rapidamente in Italia rispetto a molti altri Paesi dell’Ue, tra cui Germania, Francia, Paesi Bassi, Svezia, Austria, Belgio e Finlandia”. Tra il 2015 e il 2017, infatti, il tasso di crescita reale del prodotto interno lordo pro capite è stato dell’1,4%, come quello della Germania e superiore alla Francia (1,1%).

Il falso mito dell’Italia non competitiva

Secondo un’altra fake news molto diffusa, il nostro Paese non è competitivo. Assolutamente falso, come spiega la Fondazione Edison: “L’Italia ha il quinto maggior surplus commerciale al mondo per i prodotti manifatturieri. Ed è il leader o co-leader a livello globale per centinaia di manufatti” sottolinea. I prodotti nei quali l’Italia occupa le prime 5 posizioni a livello mondiale per saldo commerciale con l’estero sono: Automazione meccanica-mezzi di trasporto; Abbigliamento e moda; Alimentari e vini; Arredamento e casa; altri settori, che riguardano perlopiù l’industria farmaceutica e chimica.

Altro pregiudizio largamente diffuso sui media riguarda la ricerca e lo sviluppo. Secondo molti, infatti, L’Italia non investe abbastanza in ricerca e sviluppo. Non è così: nei suoi settori di specializzazione, l’Italia è un Paese leader per le spese in ricerca e sviluppo. In ambito Ue è il primo Paese per entità di spesa delle imprese in ricerca e sviluppo nel settore tessile, abbigliamento, calzature e mobili; e vanta la seconda maggiore spesa in ricerca e sviluppo nel settore delle macchine e apparecchi. Inoltre, l’Italia è seconda per maggior numero di disegni comunitari depositati presso l’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Euipo) nella Ue”. Nel 2016, infatti, le imprese italiane hanno speso ben 1.635 milioni di euro in ricerca e sviluppo, facendo meglio di Francia, Regno Unito e Spagna e peggio solo della Germania (le cui imprese hanno investito, quell’anno, ben 5.653 milioni di euro).

L’Italia nella globalizzazione

Davvero l’Italia non può competere con il mercato globalizzato? Le imprese italiane sono troppo piccole? Pare proprio di no. “Le piccole e medie imprese manifatturiere italiane – osserva la Fondazione Edison – esportano più di quelle di tutti gli altri paesi dell’Ocse, con esportazioni per oltre 170 miliardi di dollari“. Secondo un altro luogo comune, inoltre, le specializzazioni dell’Italia nel commercio mondiale sono troppo simili a quelle dei paesi emergenti, con bassi costi del lavoro. “Forse questo era vero in passato – sottolinea la Fondazione Edison – Ma il Made in Italy è ora completamente diverso: è al top del lusso e della qualità dei prodotti tradizionali come quelli dei settori moda, arredamento, cibo e vino. Ed è al vertice dell’innovazione e della tecnologia nella meccanica, nei mezzi di trasporto e nei prodotti farmaceutici”.

Debito pubblico e disoccupazione

Probabilmente il totem ideologico più radicato riguarda il debito pubblico. Secondo molti giornalisti, blogger, economisti, l’Italia è troppo indebitata, ma anche questo è falso, come chiarisce il dossier: “Considerando in aggregato il debito privato e il debito pubblico, l’Italia è meno indebitata di molti altri paesi avanzati. Il debito delle famiglie è uno dei più bassi a livello globale. Il debito pubblico è molto alto in termini di percentuale del Pil, ma risulta molto più sostenibile se raffrontato con l’elevato avanzo primario pubblico storico precedentemente menzionato nonché con la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane, che è il doppio del Pil. Inoltre, solo 1/3 del debito pubblico italiano è finanziato da investitori esteri; il settore privato domestico è finanziariamente forte e la posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia è solo leggermente negativa (-6% del PIL nel 2017) e migliore di quella di molti altri importanti paesi dell’Ocse”.

L’ammontare del debito del settore privato consolidato, nel 2017, era del 110,5% sul Pil: quello della Germania si aggira intorno al 100% mentre quello della Francia è del 148%, molto superiore al nostro. “Il debito del settore privato – spiega la Fondazione Edison – è lo stock di passività (alla fine dell’anno) detenute dai settori Società non finanziarie e Famiglie e istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie. Gli strumenti presi in considerazione dall’Eurostat per calcolare il debito del settore privato sono titoli di debito e prestiti”. Inoltre, il debito pubblico detenuto da non residenti (anno 2017) si aggira sui 730,5 miliardi di euro; quello della Francia è 1.106,3 miliardi di euro, superiore a quello della Germania che è pari a 1.036,2 miliardi di euro.

Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anzi. L’Italia è terza per il tasso di disoccupazione nella Ue stando a Eurostat. Tra gli stati membri il tasso più alto è riferito alla Grecia (18,0% registrato a dicembre 2018, seguita da Spagna (13,9%) e Italia (10,7%). L’Italia registra inoltre a febbraio il secondo tasso più alto di disoccupazione giovanile fra gli Stati membri con un 32,8%, secondo solo a Grecia (39,5% a dicembre 2018). Bene l’export, dunque, come sottolineato anche dal dossier della Fondazione Edison, ma il nostro Paese ha estremo bisogno di rilanciare la domanda interna e l’occupazione, da troppi anni stabile su livelli allarmanti e disastrosi.

12 luglio 2019 - DIEGO FUSARO: Interventi a "Coffeebreak" (La7)

Deutsche Bank è figlia dell'abbattimento della barriera tra banca commerciale e quella d'investimento, è figlia della globalizzazione finanziaria è il prodromo della fine del Progetto Criminale dell'Euro nato sul comando della finanziazione

Un’incognita-Europa a portata di mano

11.07.2019 - Gianluigi Da Rold

Deutsche Bank, rallentamento economico, Merkel: debolezze e incertezze della Germania rischiano di condizionare pesantemente il futuro della Ue

Lapresse

A metà giornata di ieri, le azioni della (ex) potente Deutsche Bank valevano, dopo una frenata alla continua discesa dei giorni scorsi, poco più di sei euro. Un balzo all’indietro pesante rispetto al valore dello scorso anno, che si aggirava intorno agli undici euro. Alla fine, l’arretramento valutato sulla banca tedesca è del 32% in dodici mesi.

In un “silenzio “quasi assordante, e relegato sempre nelle pagine interne dei quotidiani italiani e negli angoli “bui” delle trasmissioni televisive, la banca che era il simbolo dell’affidabilità teutonica sta vivendo il momento forse più drammatico della sua storia. E paga amaramente il “conto” della nuova filosofia bancaria, che è stata scelta a suo tempo con l’entusiasmo dei figli del vecchio ordoliberismo e del neoliberismo.

E’ un racconto problematico e complesso quello di Deutsche Bank, costellato di diverse scelte sbagliate, fatto anche di scandali, di multe tremende e di tentativi disperati di salvataggio .Vale solo la pena ricordare che ancora nel 2015 la grande banca tedesca capitalizzava più di 40 miliardi di dollari e già nel settembre del 2016, dopo lo scandalo del Libor, con la manipolazione del tasso di riferimento dei titoli immobiliari, la capitalizzazione era scesa a 15,7 miliardi.

Aiuti e tentativi di risalire la china sono poi falliti. Così come è naufragato il tentativo di fusione con Commerzbank, sponsorizzato da un governo tedesco che ha però i suoi affanni e le sue problematicità.

Ma c’è anche quello che alcuni media stranieri, meno deferenti verso il modello tedesco, chiamano “l’elefante della stanza” in Deutsche Bank: una massa di derivati, i cosiddetti titoli definiti da alcuni analisti “tagliandi di lotteria”, del valore di 43mila miliardi di dollari, che equivale a sedici volte il Pil della Germania. C’è chi aggiunge, maliziosamente, che il calcolo della massa dei derivati è in difetto rispetto alla quantità complessiva.

In definitiva, oggi quel grande simbolo di affidabilità “ammirato” da tutti i “beoti” della “nuova banca” risorta dopo la fine del “Glass Steagall Act”, capitalizza 13 miliardi di dollari e deve pensare a come licenziare 18mila dipendenti. Intanto annaspa, anche perché, saltata la fusione con Commerzbank, è piuttosto problematico rifare regolamenti e leggi, statali ed europei, coprendo tutto con l’intervento dello Stato, tanto osteggiato nel modello nato dall’accordo tra renani e vecchi junkers e oggi aggiornato in chiave liberista. Solo gli americani e gli inglesi, di fronte al crack del dopo 2008 ,sono entrati a gamba tesa statalizzando.

Partiamo da queste considerazioni su Deutsche Bank per indicare quello che sembra un nuovo “male oscuro” che grava all’interno dell’Unione europea. Come si è detto, i sovranisti non hanno vinto, ma neppure i partiti tradizionali sono usciti come i vincitori delle lezioni del 26 maggio e alla fine, la vecchia coalizione tra popolari e socialdemocratici è stata costretta ad allargarsi ai verdi e ai liberali, passando attraverso le “forche caudine” del siluramento dell’olandese Frans Timmermans e poi del naufragio dell’esponente dell’ala bavarese dei popolari tedeschi Manfred Weber. Alla fine, Angela Merkel, in evidente difficoltà, ha mandato a Bruxelles il suo “clone” Ursula von der Leyen, che neppure era candidata.

Come interpretare tutto questo? Sembra un segnale di difficoltà da sottolineare: per la prima volta a capo della Commissione ci va un tedesco, si prende direttamente la responsabilità della politica europea, rompendo la tradizione di teleguidare quella del presidente della Commissione attraverso un “amico fidato”.

Nel frattempo, il cosiddetto neo-gollista Emmanuel Macron si becca, attraverso la fascinosa Christine Lagarde, la Banca centrale europea. Lasciando un’altra volta al palo Jans Weidmann, un vecchio “falco” dell’austerity, che, si dice, si sia in parte convertito. Ma neanche Macron può fare i salti di gioia con la situazione interna che si trova

Più che un’intesa franco-tedesca, il ritrovato e sempre lodato asse franco-tedesco, sembra un accordo accompagnato da un “braccio di ferro” tra la Francia e la Germania, le due potenze europee in difficoltà.

Tutto questo può significare che l’Europa, l’Unione europea stessa, è ritornata a essere un’incognita preoccupante e che gli ostacoli da superare in questa nuova legislatura saranno gravi e problematici.

E’ vero che alcuni paesi europei sono ritornati a crescere, ma in Grecia non c’è stato proprio alcun ringraziamento elettorale per Alexis Tsipras, che alla fine si adeguò alle scelte imposte dalla Troika, quelle che persino un personaggio come Jean Claude Junker ha poi criticato. Alla fine Tsipras è stato battuto.

Ma più preoccupante è che all’interno dell’Unione europea ci siano i due grandi paesi manifatturieri, l’Italia e la Germania, che sono in coda, ultima e penultima, nella classifica della crescita. Se si dice con ripetute considerazioni che l’Italia è un’ammalata dell’Unione, che cosa è in questo momento la Germania? A conti fatti, guardando i numeri, il suo sistema bancario, lo sviluppo di una politica economica basata soprattutto sulle esportazioni, la famosa “locomotiva d’Europa” occupa il penultimo vagone del convoglio continentale.

Detto fuori dai denti, in questo momento, la Germania sia dal punto di vista economico e finanziario, sia dal punto di vista politico, è la nuova ammalata d’Europa.

I prossimi mesi serviranno a comprendere esattamente quello che può accadere o sta già accadendo. Se gli Usa imponessero, nel prossimo autunno, nuovi pesanti dazi alla vendita di automobili straniere sul loro territorio, la già difficile situazione di una grande industria come la Bmw subirebbe altri contraccolpi.

Passiamo, quindi, alla situazione politica di Berlino. Angela Merkel è in difficoltà da un anno, i socialdemocratici sono stati pesantemente ridimensionamenti e, inoltre, si lamentano. I Verdi, vera rivelazione, scalpitano, i liberali cercano di inserirsi con i loro nuovi consensi. Come può non avere un peso a Bruxelles questa incerta situazione politica tedesca, intrecciata al rallentamento vistoso dell’economia e ai problemi di carattere finanziario?

Se non si trova un rimedio a tutto quello che sta avvenendo e alle questioni complicate dei vari Stati europei, all’immagine di una sorta di Stati che, di fronte ai grandi problemi che si devono affrontare, scelgono tutti una loro strada ed evitano accordi e riforme istituzionali necessarie, il rischio di un’incognita-Europa è quasi a portata di mano.

Se si vuole veramente uscire dalla crisi economica dobbiamo prendere in considerazione le idee di Antonino Galloni e di Fabio Conditi

Crisi economica, al Senato il convegno organizzato dalla senatrice Ricciardi (M5s) 

Di redazione -12 Lug, 2019 


“Uscire dalla crisi economica: riflessioni e prospettive” è il titolo del convegno organizzato dalla senatrice del Movimento 5 Stella Sabrina Ricciardi presso il Senato della Repubblica martedì 16 luglio. L’appuntamento è presso la prestigiosa Sala Koch, a partire dalle ore 15.00. “Con dei relatori d’eccezione – spiega la senatrice Ricciardi – analizzeremo insieme le cause della crisi e le sue conseguenze nell’economia, dallo spread al debito pubblico, dalla mancanza di denaro per investimenti e occupazione all’impossibilità di garantire i livelli minimi essenziali. In realtà lo Stato ha ancora molti strumenti a disposizione per risolvere la crisi economica, avendo come obiettivo primario quello di favorire la crescita del Benessere Equo e Sostenibile di tutti i cittadini e delle imprese”. Durante l’incontro verranno illustrate alcune soluzioni potenzialmente attuabili per uscire dalla crisi economica, ovviamente nel rispetto dei Trattati Europei e della nostra legislazione. 

Interverranno i portavoce del Movimento 5 Stelle alle Camera e al Senato Mario Turco, Emiliano Fenu, Stanislao di Piazza, Elio Lannutti, Laura Bottici e Pino Cabras. La parte tecnica è invece affidata a Nino Galloni e a Fabio Conditi.

Nino Galloni, economista ed esperto di politica monetaria, ha un curriculum di grande spessore. E’ stato Professore presso la Luiss di Roma, l’Università degli Studi di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, l’Università di Modena, e l’Università di Napoli. Ha ricoperto, inoltre, numerosi ruoli apicali, essendo stato nominato Sindaco all’OCSE, Presidente del centro studi monetari, Sindaco all’INPDAP, all’INPS, all’INAIL, nonché Direttore generale al Ministero del Lavoro alla Cooperazione, dell’Osservatorio sul Mercato del Lavoro, Politiche per l’Occupazione Giovanile e Cassa Integrazione Straordinaria nelle grandi imprese. Fabio Conditi, presidente di Moneta Positiva, da anni studia il sistema economico e monetario attuale, analizzando le cause della crisi economica e le soluzioni concrete e realizzabili per uscirne. Ha contribuito a fondare diversi gruppi territoriali che si occupano di economia. Con 3 libri all’attivo, è stato invitato ad oltre 100 incontri tecnici, a numerose trasmissioni televisive, ove ha avuto modo di ragionare sugli stessi temi che verranno affrontati al Senato.

S-400 creano problemi veri all'interno della Nato e sulle sue basi dentro la Turchia


12 LUGLIO 2019

Se n’é discusso per diversi mesi, ma dopo il lungo braccio di ferro tra Washington e Ankara, la Turchia ha acquisito ufficialmente il primo sistema missilistico antiaereo di fabbricazione russa S-400 – sistema che a Mosca era stato pubblicizzato fin dal primo momento come “F-35 killer”. Il primo lotto sarebbe stato scaricato oggi nel porto di Istanbul.

A renderlo noto al mondo è stato lo stesso ministero della Difesa turco, che in una nota ufficiale ha dichiarato: “La consegna della prima spedizione di parti del sistema di difesa missilistico a lungo raggio S-400 è iniziata il 12 luglio alla base aerea di Murted Hava ad Ankara”. Si attende dunque la reazione degli alleati della Nato, e l’ira della Casa Bianca, che temeva la compromissione di informazioni sensibili riguardanti i caccia di ultima generazione F-35 che dovranno formare la punta di diamante delle forze aeree del blocco occidentale, compresa quella turca, e che se impiegati in esercitazioni con il sistema d’arma russo potrebbero rivelare al Cremlino dati tecnici e prestazionali coperti da segreto militare. La possibilità che il Pentagono imponga di estromettere la Turchia dal programma Joint Strike Fighter e congeli tutte le commesse ora rischia di diventare una certezza, gelando i rapporti con l’alleato orientale.

Il processo di consegna del sistema missilistico russo di difesa che iniziato stamani, riportano i media locali, proseguirà nei prossimi giorni per essere completato nelle prossime settimane. Secondo una nota divulgata dall’autorità responsabile dell’industria della Difesa di Ankara – la stessa che ha firmato il contratto per gli S-400 con l’azienda statale che si occupa di esportazione di armi fabbricate dalla Federazione, la Rosoboronexport – saranno “le autorità competenti” a decidere “come verrà utilizzato” il sistema e dove verrà dislocato. In base alle stime fatte, lo schieramento e la piena operatività dei missili verrà raggiunta nel mese di ottobre.

Il Sistema S-400

Il sistema Surface-to-Air S-400, classificato dalla Nato come il nome in codice “Growler”, è un sistema di difesa antiaerea che comprende per ogni unità otto lanciatori con una dotazione di 112 missili. La piattaforma, capace di tracciare oltre 30 obiettivi contemporaneamente ha un raggio d’azione di oltre 400 km e suoi missili possono raggiunge una velocità di Mach 2.3/9. Secondo fonti russe l’S-400 sarebbe efficace anche contro i caccia stealth di quinta generazione F-35 Joint Strike Fighter. Il prezzo unitario di questo sistema missilistico di difesa aerea è 400 milioni di dollari. Il sistema come sopracitato è stato a lungo motivo di forte tensione tra gli Stati Uniti e la Turchia, portando il Pentagono a riconsiderare le richieste di Ankara riguardo la fornitura di un sistema d’arma avanzato per difendere il proprio spazio aereo – in precedenza negato – e convincendo Washington ad offrire il sistema missilistico Patriot all’alleato turco. A suo tempo Ankara a dichiarò che “la proposta” sarebbe stata “valutata” seriamente, dato il “generale allentamento” che gli Usa avevano concesso sull’argomento. In quel guanto di velluto, tuttavia, già si celava la ferrea minaccia di bloccare la commessa di F-35 accordata con la Turchia. Minaccia che adesso sembra essersi definitivamente concretizzata data la scelta di Ankara, che non è tornata sui propri passi.

Roma - guerra della monnezza - i mandanti degli incendi dolosi dei TMB della città sono il Messaggero di Caltagirone, il Tg2 del fanfulla della Lega e il burocrate Zingaretti per non parlare della manutenzione in contemporanea dei TMB privati ma gestiti, malamente, dal commissario indicato dalla magistratura

Rifiuti Roma, Castaldo (M5S): «L’informazione italiana? Pensa solamente a produrre una valanga di fake news contro Virginia Raggi»

Silenzi e FalsitàPOSTED ON LUGLIO 11, 2019


«In questi giorni sto leggendo una marea di inesattezze e bugie su Virginia Raggi e sulla gestione dei rifiuti a Roma. Sono stanco di leggere balle su balle, e penso sia giusto spiegare la verità dei fatti».

Così l’eurodeputato del M5S e vicepresidente dell’Europarlamento, Fabio Massimo Castaldo, in un post sulla sua pagina Facebook.

L’esponente 5Stelle ricorda che il ciclo di gestione dei rifiuti si articola in 3 fasi:

1. Raccolta (in capo ad AMA e al Comune)
2. Trattamento con eventuale fase di Trasbordo provvisorio: questa fase è in capo a società autorizzate dalla Regione su indicazione del Comune di Aree bianche in cui realizzare gli impianti. Per il ciclo del Comune di Roma ci sono 4 impianti TMB (trattamento meccanico biologico)
3. Smaltimento (in capo ad impianti indicati dalla Regione quali discariche e inceneritori)

«Il problema della spazzatura a Roma» spiega «non risiede nella fase raccolta, che è in capo ad AMA e al Comune, ma nella fase di smaltimento dei rifiuti. Qual è l’ente che dovrebbe occuparsi di questa fase della filiera di gestione del rifiuto? Non è il Comune ma la Regione, in questo caso la Regione Lazio».

«Nel caso di Roma, purtroppo, la Regione Lazio non si è dotata di un serio e attuale piano di smaltimento rifiuti: l’ultimo risale al 2012, realizzato dalla giunta Polverini. Ovviamente, negli ultimi 7 anni, la situazione rifiuti si è radicalmente trasformata nella Capitale.
Anzitutto, nel 2013, Marino e Zingaretti decisero di chiudere (giustamente) la discarica di Malagrotta, che contava una superficie di 240 ettari! Decisione sacrosanta, ma nessuno di loro pensò a una seria alternativa. 
Dal 2013 a oggi le due giunte Zingaretti non hanno prodotto nessuna scelta su un nuovo sito che potesse sostituire Malagrotta» 
prosegue «A questo immobilismo vanno sommati altri aspetti rilevanti. In primis, nel 2017, è stato anche chiuso l’inceneritore di Colleferro. La Regione attiva quindi, nel 2018, due centri TMB per il trasbordo provvisorio dei rifiuti: Rocca Cencia e Salario. A marzo 2018 però un incendio doloso devasta il TMB di Rocca Cencia, seguito da un secondo incendio a dicembre che distrugge il TMB di Salario».

«La nostra Capitale rimane quindi sia senza un piano di smaltimento di rifiuti (fase 3), sia senza adeguati impianti di trasbordo provvisorio (fase 2). Ecco quindi che l’AMA e il Comune di Roma si ritrovano senza indicazioni su dove portare il pattume» spiega ancora Castaldo «Ovviamente, la nostra Virginia non è rimasta a guardare: la Sindaca ha bandito appalti regolari per il trattamento dei rifiuti, ma le gare sono andate regolarmente deserte. Come mai? Vi basti sapere che l’Antitrust sta indagando su 
possibili cartelli fra operatori, che potrebbero essere interessati ad aggravare l’emergenza per ritornare alle gare dirette su cui possono lucrare di più».

«Virginia» continua l’europarlamentare «si appella quindi a Zingaretti perchè vari finalmente il Piano rifiuti, per cui a gennaio 2019 la Città Metropolitana ha consegnato alla Regione la lista delle “aree bianche” dei nuovi impianti. Ma, ovviamente, nulla si è mosso. Intanto, dei tre Tmb rimasti, i due di Colari annunciano in contemporanea un programma di manutenzione da giugno a settembre, col taglio della capienza giornaliera da 1250 tonnellate a 500. Come potete facilmente evincere da questa spiegazione, non può essere ritenuto responsabile il Comune di Roma per questa emergenza dei rifiuti. Pensate che addirittura il TAR, con due diverse sentenze nel 2016 e nel 2018, ha ordinato alla Regione Lazio di “individuare la rete integrata ed adeguata di impianti di smaltimento rifiuti in ambito regionale” perchè 
“crearla spetta alla Regione e non allo Stato”, 
e minacciano in caso di inerzia l’arrivo di “un Commissario ad acta” nominato dal prefetto. Inutile ribadire che nulla si è mosso.»

«Giornali e TV dovrebbero spiegare adeguatamente la verità dei fatti, ricostruendo la storia dettaglio per dettaglio! E invece, cosa fa l’informazione italiana? Pensa solamente a produrre una valanga di Fake news contro Virginia Raggi! Io dico basta a questa serie infinita di BALLE! Aiutiamo Virginia e i cittadini romani, fate leggere a tutti questo post,» conclude.


L'Imbecillaggine percorre l'occidente e questo si chiama decadentismo

Gallo canta troppo: per il tribunale "deve tacere"

La vicenda è avvenuta in un comune vicino a Zurigo. Il Tribunale ha imposto al proprietario di far tacere il gallo di notte tenendolo al buio e insonorizzando il pollaio


di Redazione - Dopo Maurice, che ha fatto parlare di sé l'intera Francia, per essere stato portato in tribunale dagli abitanti infastiditi dai suoi canti troppo mattutini (e giudicato dal tribunale di Rochefort il 4 luglio), un altro gallo si è ritrovato in questi giorni nei guai con la giustizia.
Dopo Maurice, il gallo svizzero

L'"imputato", stavolta svizzero, fa parte di un pollaio situato in una zona residenziale di un comune vicino a Zurigo. L'accusa: non potrà più cantare la notte e la mattina presto, soprattutto di domenica. Il tribunale svizzero, infatti, adito da un vicino che non tollerava più i rumori continui, ha ordinato al proprietario di tenere l'animale al chiuso e al buio nelle ore notturne, come si legge nella sentenza.

Il pollaio, stando ai fatti riportati da Adnkronos, si troverebbe in una zona residenziale, "caratterizzata da villette con ampi spazi esterni", dove l'allevamento per hobby di animali è consentito.

Il ricorrente, grazie a un'app scaricata sul telefonino, è riuscito a provare che il numero dei "chicchirichì" del gallo incriminato si aggirava tra i 14 e i 44 all'ora, sia di giorno che di notte, con un rumore che raggiungeva gli 84 decibel.

Il giudice svizzero ha quindi disposto che il proprietario tenga a bada il pennuto tra le 22 e le 8 e la domenica fino alle nove, tenendolo al chiuso e al buio. Inoltre, pur salvando il pollaio dallo smantellamento, ha ordinato che lo stesso venga dotato di un isolamento acustico.
I "precedenti galli"

A quanto pare, la vicenda del gallo francese e di quello svizzero, non sono certo le uniche che hanno visto la giustizia occuparsi dei pennuti. Tra i casi più eclatanti, anche in Italia, a Forlì, un gallo è finito in tribunale perchè cantava troppo e non solo all'alba disturbando i vicini. Il proprietario è stato condannato a una multa di 300 euro oltre al risarcimento del danno alla parte civile. Analoga la vicenda in provincia di Merano, finita con una multa per disturbo della quiete pubblica. Altro caso, anni fa a Bari, mentre a Gela e a Treviso, due galli molesti furono sfrattati dai propri rispettivi pollai.

Anche in tal caso, i canti erano ripetuti in qualsiasi ora del giorno e della notte, disturbando i vicini, perchè non si limitavano solo all'alba per annunciare il momento di svegliarsi. (Ndr): A quanto pare, non ci sono più i galli di una volta ... e la realtà a volte supera la fantasia.

Diritto internazionale fottiti - anche questo governo sull'Iran e la Libia hanno la schiena curva da servi

IRAN E LIBIA, L’IRRESISTIBILE LEGGEREZZA DEI MEDIA

Pubblicato 11/07/2019
DI ALBERTO NEGRI


Alla fine la gente ci crede pure che sia l’Iran ad avere violato l’accordo sul nucleare del 2015. Come ripetono ogni giorno tv e giornali in un bombardamento mediatico pari a quello che investe la tragedia libica dei migranti con affermazioni tendenziose.

Teheran ha violato ora l’intesa in maniera quasi simbolica – dopo anni in cui 15 rapporti dell’Aiea ne hanno confermato la piena adesione – per lanciare un avvertimento all’Europa che lascia colpevolmente nelle mani di Trump le chiavi della pace e della guerra.

L’insostenibile leggerezza dei media è inaccettabile. L’Iran minaccia di uscire dell’accordo sul nucleare: questo è il ritornello. È stato Donald Trump non solo a rendere carta straccia l’accordo ma anche ad applicare sanzioni all’Europa e a tutti coloro che commerciano con Teheran.

All’Iran hanno fatto la guerra nel 1980 (un milione di morti) e quando nel 2014 è comparso l’Isis a combattere i jihadisti in Siria e Iraq c’erano gli iraniani (e i curdi) non gli americani e gli europei che con le monarchie del Golfo usavano gli estremisti contro Assad. Chi ha fatto gli attentati in Europa? Non gli iraniani ma i jihadisti ispirati dall’ideologia retrograda degli alleati dell’Occidente.

E ora per coprire questi fallimenti e tenere in piedi le monarchie del Golfo e Israele bisogna fare la guerra all’Iran. Ecco chi ci minaccia davvero: le bufale dell’informazione manipolata. Se ne sono accorti anche i maggiori giornali americani, non i nostri.

«Vista la politica americana degli ultimi decenni i leader iraniani sono stati matti a non sviluppare un armamento nucleare come deterrenza», scrive sul New York Times John Mearsheimer, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, conosciuto per un saggio sulla lobby israeliana negli Stati uniti e per un altro dedicato alla grande illusione del liberismo.

In realtà oggi Trump e il suo cerchio magico, il segretario di Stato Pompeo e quello alla sicurezza Bolton, stanno minacciando l’esistenza stessa dell’Iran come stato sovrano, scrive Mearsheimer. Mentre lo strangolano economicamente e impongono a tutto il mondo le sanzioni contro Teheran, i bravi ragazzi della Casa Bianca si vantano di negoziare con la Corea del Nord e Trump, attraversando il confine del 38° parallelo, non ha fatto altro che legittimare l’arsenale atomico di Kim Jong-un.

Una mossa che serve a un’altra legittimazione: quella per l’Arabia saudita del principe assassino Mohammed bin Salman di possedere la sua atomica, un arsenale limitato ma di “prestigio” da far convivere accanto alle testate di Israele. È lo schema di “pace” cui vogliono arrivare gli Stati uniti: un terrore generalizzato sui cui regnare sovrani.

In fondo alla scala, ultime ruote del carro, vengono i sovranisti italiani, cittadini di un protettorato americano che promette di durare all’infinito. Sono i più beceri di tutti perché si stanno allineando sulle posizioni Usa contro l’Iran dopo che Teheran aveva promesso nel 2015 30 miliardi di euro di commesse all’Italia.

L’idea è che gli Stati uniti di Trump li sosterranno in Europa se schiereremo le navi militari a «difesa» dei porti. Anche se tutti ritengono assai improbabile che affonderemo gommoni di migranti e navi delle Ong. I nostri militari non sono così stupidi.

Paghiamo però pesantemente il prezzo dei nostri errori. Ma i nostri media fanno finta di ignorarli. All’errore di non dissociarsi dal bombardamento contro Gheddafi nel 2011 ne abbiamo aggiunto un altro ancora più esiziale. Abbiamo concesso le nostre basi a francesi, inglesi e americani e poi ci siamo uniti ai raid. Bombardavamo il nostro maggiore alleato, sperando forse che gli altri, come accadde già nei Balcani nel ’99, non se ne accorgessero: stavamo andando incontro alla peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale con un altro storico tradimento. La decisione fu presa dal presidente Napolitano mentre il premier Berlusconi, allora indebolito e incerto, si affidò al Quirinale.

La guerra a Gheddafi ha avuto due conseguenze. La prima è che nessuno stato europeo e del Mediterraneo ha più creduto a una sola parola dell’Italia in politica estera: abbiamo perso ogni credibilità. E infatti ci hanno trattato a pesci in faccia, dalla Francia all’Egitto, agli Usa. La seconda conseguenza è stata che in sede internazionale non abbiamo potuto reclamare ad alta voce contro i responsabili della disgregazione della Libia.

Mentre la Germania, dopo avere accolto un milione di profughi siriani, spingeva l’Europa a pagare Erdogan per tenersi 3 milioni di rifugiati, la Libia veniva lasciata nel caos. Quindi abbiamo subito un altro contraccolpo. I nostri alleati hanno sostenuto il generale Haftar che si oppone al governo di Tripoli: un’altra fregatura perché di fatto l’Italia appoggia i Fratelli Musulmani che tutti osteggiano, tranne Turchia e Qatar.

Altro che navi da guerra, è venuta l’ora di autoaffondarci nel Mediterraneo in un dignitoso silenzio dei politici e dei media.


L'Italia non può fare politica estera in quanto abbiamo nel nostro territorio decine e decine di basi Nato e statunitensi, il resto è noia

PERCHÉ L’ITALIA NON CI BECCA MAI IN POLITICA ESTERA?

Pubblicato 11/07/2019
DI ALBERTO NEGRI

Il motivo è semplice: vengono accreditati come esperti persone mai viste da nessuna parte in 30 e passa anni di guerre. Ma come fanno a conoscere i posti, cosa pensa la gente, l’indole degli abitanti? Mistero. E i politici, di solito sprovveduti mai stati oltre i confini nazionali, gli danno pure retta, senza nemmeno leggere i rapporti degli ambasciatori, relegando la Farnesina a una scatola vuota guidata da un ectoplasma. I modesti risultati, Libia compresa, li vedono tutti.

Diritto internazionale fottiti - così dice la Gran Bretagna

Alberto Negri - I veri pirati sono gli inglesi



Anche i maggiori esperti di questioni politico-militari concordano. Le acque nel Golfo sono agitate, i pirati veri però non sono gli iraniani ma gli inglesi, come da secolare tradizione. E’ noto infatti il ruolo della pirateria nell’arricchimento “nazionale” britannico e francese. E allora andiamo a guardare i fatti e la sequenza degli eventi. Quelli veri, non la propaganda americana e inglese.

L'episodio

L’ultimo episodio racconta che navi armate iraniane avrebbero tentato di sequestrare nello Stretto di Hormuz una petroliera britannica ma sono state bloccate da una fregata della Royal Navy che la scortava. Le Guardie rivoluzionarie, i Pasdaran iraniani, hanno smentito di aver cercato di fermare la petroliera: “Se avessimo ricevuto l’ordine di sequestrarla, l’avremmo fatto”, hanno detto all’agenzia semi-ufficiale Fars. 

Telecamere militari Usa

Se anche questo episodio fosse confermato dalle riprese delle telecamere militari americane si tratterebbe soltanto di un atto di ritorsione rispetto a un’azione precedente e accertata degli inglesi che gli esperti definiscono un atto di pirateria. Però qui in Europa nessuno ha avuto il coraggio di condannare l’illegalità degli abbordaggi inglesi, in violazione delle leggi internazionali, dimostrando che siamo complici degli americani e dei britannici.

42° commando dei Royal Marines

Nella notte tra il 4 e il 5 luglio, una trentina di militari britannici del 42° commando dei Royal Marines, su richiesta degli Stati Uniti, hanno assaltato la petroliera iraniana “Grace 1” nelle acque internazionali a largo di Gibilterra. Secondo il capo della colonia britannica in territorio spagnolo, stava trasportando greggio alla raffineria di Banyas in Siria, “violando le sanzioni dell’Unione europea”.

Ma secondo Gianandrea Gaiani, esperto militare di lungo corso e direttore di Analisi Difesa, “c’è da chiedersi se il blitz di Gibilterra volesse impedire le forniture petrolifere a Damasco o invece l’export petrolifero iraniano, colpito però dalle sanzioni degli Usa, non della Ue”.

"Un atto di pirateria inglese"

Secondo le ricostruzioni alcune unità della fanteria di marina del Naval Service hanno prima affiancato la nave a bordo di motoscafi, supportati da una motovedetta della marina britannica. Altri militari si sono poi calati sul ponte della nave da un elicottero. I marines britannici hanno così preso possesso della nave in pochi minuti bloccando i 27 dell’equipaggio a bordo. L’incursione dei Royal Marines, secondo Gaiani, sembra un “un atto di pirateria, una provocazione tesa a conseguire risultati politici e strategici, non militari. Un atto pericoloso poiché un conto era fermare la Grace 1 in sosta in un porto europeo e un conto abbordarla in navigazione”. Ma soprattutto la nave era in acque internazionali. Fermarla per aver violato le sanzioni europee, e senza che trasportasse armamenti ma solo petrolio è piuttosto singolare. Non si possono imporre in acque internazionali le proprie sanzioni.

Escalation scatenata dagli Stati Uniti

Il grave atto di pirateria internazionale da parte della Gran Bretagna deriva dall’escalation scatenata dagli Stati Uniti che con Trump hanno stracciato l’intesa raggiunta sul programma nucleare di Teheran del 2015 senza però riuscire a dimostrarne una sola violazione da parte dell’Iran. Nel momento in cui l’Unione Europea tentava di salvare l’accordo raggiunto sul nucleare per evitare che Teheran riprendesse l’arricchimento dell’uranio, il blitz dei Royal Marines aveva l’obiettivo di scatenare una crisi anche nei rapporti Ue-Iran e innescare la reazione di Teheran. Ed è esattamente quello che è avvenuto. Chi sono qui i veri pirati?

Notizia del: 11/07/2019